Lucilio, tutti gli uomini dissimulano le loro azioni disoneste, cercano di nasconderle pur godendone i vantaggi
Seneca. Lettere morali a Lucilio
Questo articolo cerca di spiegare perché le guerre del Medio Oriente di oggi sono molteplici e così difficile da disinnescare: guerre civili, guerre a cavallo di confini sempre più labili, guerre per procura, e nuova competizione geopolitica tra potenze regionali cui ha lasciato spazio il disimpegno relativo degli USA, bilanciato da un ritorno in gioco della Russia. Questi conflitti vanno letti e capiti sulla base di una ricostruzione storica approfondita e non soltanto con lo sguardo rivolto all’attualità.
In estrema sintesi, i modelli politici ed economici – un’eredità anzitutto europea, risalente al periodo coloniale – sono sostanzialmente falliti come strumenti di modernizzazione e di miglioramento della qualità della vita nella regione. La crisi attuale è anzitutto la crisi dello Stato arabo. L’accelerazione impressa dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e poi dalle rivolte arabe del 2011 hanno fatto convergere i tanti fattori di instabilità fino a quel momento latenti o dormienti.
Hanno così trovato il loro combustibile vari focolai di conflitto. Assistiamo, anzitutto, alla nuova incarnazione dell’antica frattura tra sunniti e sciiti – dopo decenni in cui l’Occidente si è schierato quasi sistematicamente con i primi, perfino chiudendo un occhio (o entrambi) su alcune collusioni con vari movimenti jihadisti. Lo scontro sunniti-sciiti, utilizzato strumentalmente dalle potenze regionali, ricorda per certi versi la guerra dei Trent’anni: cioè,
un prolungato conflitto sulla natura dello Stato e sulle religioni come fonte della legittimità.
È evidente, d’altra parte, che ciò avviene all’interno di una classica competizione geopolitica per l’influenza tra due Stati (e vari loro alleati e clienti): Iran e Arabia Saudita, che hanno ritrovato spazio nel vuoto relativo lasciato dal declino dell’influenza occidentale (USA più europei). Su questo sfondo, la veloce parabola dello “Stato islamico” a cavallo dei labili confini fra Siria e Iraq (il califfato di ISIS), riflette il tentativo di fornire un senso d’identità in una fase di grande confusione e collasso sociale, più che una rinascita autenticamente religiosa. È bene dunque adottare estrema cautela nel proporre analogie storiche.
Anche una seconda possibile chiave di lettura, quella di una guerra fredda – sia fra Iran e Arabia Saudita sia fra Stati Uniti e Russia – va maneggiata con cura: si può dire che è in atto una guerra fredda sui generis, certo, combattuta in forma limitata, sapendo che a nessuno di questi attori conviene arrivare allo scontro frontale. A una fase inziale, con un forte tasso ideologico, e con forti rischi (ad esempio, il rischio di collisione fra Russia e Turchia a partire dalla Siria), potrebbe seguire una fase più pragmatica, con parziali compromessi fra alleanze regionali almeno in parte garantite dall’esterno.
Proprio come nella grande guerra fredda del XX secolo, in Medio Oriente si stanno combattendo guerre per procura, e si appoggiano movimenti semiautonomi che possano sovvertire gli equilibri interni ad altri Stati. È quindi utile guardare ai differenziali di potere, agli interessi e ai vantaggi pratici per le varie parti. Quantomeno per non farsi del tutto catturare dalle dinamiche non negoziabili e a volte quasi apocalittiche nella retorica di Riyad, Teheran e Ankara; e ricordando che, in fondo, i compromessi sono sempre possibili anche tra nemici giurati.
Ci sono poi le guerre dell’ISIS, che sono in effetti molteplici e si stanno combattendo su vari fronti simultaneamente, inclusa parte della costa libica: uno di questi fronti è, come purtroppo sappiamo bene, l’Europa. Il sedicente Stato islamico manca chiaramente di molti degli attributi di uno Stato in senso “weberiano”, e sembra piuttosto un movimento che cambia opportunisticamente luogo e forma, inserendosi negli spazi di anarchia. Non va comunque sottovalutato, perché ha inferto e può ancora fare danni gravi alle persone (civili e militari), e può perpetuare un clima di totale insicurezza che rende ancora più arduo il compito di costruire strutture di governo dignitose là dove non ve ne sono.
Un altro tipo di guerre che può aiutare a capire il Medio Oriente di oggi è quello che abbiamo toccato con mano nei Balcani degli anni Novanta: battaglie all’ultimo sangue per stabilire se la natura degli Stati dovesse essere etnico-identitaria oppure civico-costituzionale. Si tratta di guerre risolte con esiti diversi in luoghi come Serbia e Kosovo, Croazia, Slovenia, rispetto alla Bosnia. E alla luce di quell’esperienza non è chiaro se sia possibile tenere insieme gruppi che non vogliono convivere nel medesimo Stato. L’alternativa è lasciare che emergano Stati più corrispondenti ai raggruppamenti politico-sociali o confessionali, ma a quel punto si deve accettare la ridefinizione dei confini e il pericolo concreto – peraltro già in atto, come dimostra la sorte delle minoranze cristiane – di spostamenti forzati di popolazioni.
Di queste sfide multiple, e delle possibilità per l’Europa di conservare o recuperare margini di influenza, abbiamo parlato con l’ambasciatore del Marocco a Roma, Hassan Abouyoub.
Se il quadro è quello sinteticamente descritto, da dove conviene partire per capire l’evoluzione traumatica del Medio Oriente negli ultimi anni?
Si deve partire dalla storia, in particolare dalla Dichiarazione Balfour e dagli Accordi Sykes-Picot del 1916. Le grandi potenze occidentali definirono nuove frontiere, ma non crearono veri Stati-nazione di tipo “westfaliano” nella regione. Gli assetti geopolitici dunque furono fondati su equilibri che andavano sostenuti dall’esterno: le priorità erano la stabilità (affidata a regimi prevalentemente autoritari) e la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. La guerra fredda fu comunque caratterizzata dal ruolo preponderante degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente, mentre l’Europa si concentrava da subito sul proprio processo di integrazione continentale. Si verificò poi la grave frattura euro-americana dei primi anni Settanta, con le decisioni del presidente Nixon sul dollaro e le crisi petrolifere, e da allora il ruolo europeo si è ulteriormente ridotto, per non riprendersi più.
Ci sono stati errori specifici commessi dagli europei o comunque responsabilità di cui oggi paghiamo i costi, magari indiretti?
Ci sono stati errori ma anche qualche tentativo importante. Il principale errore concettuale è stato vedere la regione come un insieme monolitico. Invece, a livello della governance istituzionale ciascun paese era ed è diverso dagli altri. Si è passati per numerosi colpi di Stato militari, da cui sono emerse dittature. Queste hanno optato per il monopartitismo, in due declinazioni: il modello Ba’ath, allineato sostanzialmente con il blocco sovietico; e le monarchie moderne o i sistemi autoritari “illuminati”, allineati con Washington. Questa spaccatura bipolare del mondo arabo si è sommata a una spaccatura bipolare dei paesi europei attorno al rapporto con Israele. Gli europei sono stati in competizione tra loro sulle forniture energetiche. Così si spiega l’incapacità europea di creare un polo per riequilibrare quello americano rispetto alla regione: di fatto, l’Unione Europea ha scelto la difesa dello status quo. Il fatto è che quasi tutti erano soddisfatti: le dittature in fondo garantivano un certo tipo di stabilità, e congelavano in realtà la situazione rispetto a Israele; venivano assicurate le forniture energetiche; e con l’aumento dei prezzi del petrolio dopo le crisi degli anni Settanta le monarchie del Golfo facevano grossi investimenti utili all’aggiustamento strutturale dell’Europa stessa. Questo assetto è rimasto stabile finché l’Europa non ha avviato una nuova politica dei diritti umani, introducendo, sotto la pressione del Parlamento europeo, la condizionalità dei diritti umani nei rapporti commerciali. Ne ha risentito ovviamente tutta la politica degli aiuti allo sviluppo, richiedendo ai governi della regione di accettare un minimo criterio di rispetto dei diritti fondamentali. Il problema, o la stranezza, è che da parte europea questo strumento è stato applicato in modo incoerente – premiando ad esempio la Tunisia, che certo sotto Ben Alì non era un modello democratico. Alcuni paesi colpiti dai provvedimenti europei, come la Siria, adottarono allora ritorsioni sui negoziati israelo-palestinesi (erano gli anni del processo di Oslo, di Madrid, e così via). Si è così innescata una dinamica rischiosa, che l’Europa ha cercato di invertire con il Processo di Barcellona nel 1995: un’idea geniale e ambiziosa, fondata sui tre tavoli del dialogo politico (promozione della democrazia ma anche della sicurezza comune), dell’integrazione economica (verso un’area di libero scambio), e del dialogo culturale-religioso. Ma gli attentati di Parigi nell’ottobre dello stesso anno (di matrice algerina) bloccarono quel processo – convincendo gli europei che in sostanza la povertà era la madre di tutte le insicurezze e che comunque i dittatori sarebbero stati l’unico possibile freno all’avanzata del terrorismo internazionale. L’assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, nel novembre 1995, bloccò subito dopo anche il processo di pace. Da quel momento la priorità si è spostata nuovamente sulla difesa dello status quo, lasciando in secondo piano le riforme economiche, sociali e politiche.
Era una situazione sostenibile, o soltanto un’illusione?
Era una tragica illusione, come sappiamo ora. Non ci sono più stati sforzi adeguati per affrontare globalmente i nodi irrisolti delle riforme mancate e dello sviluppo nel mondo arabo. Nel primo decennio di questo secolo i Rapporti Undp sulle condizioni economico-sociali della regione hanno messo chiaramente in evidenza i fallimenti dei regimi al potere nel campo dello sviluppo e dei diritti civili. Intanto, le popolazioni hanno cominciato a respingere la tesi diffusa secondo cui i regimi autoritari (e di fatto lo stallo dei processi di sviluppo e modernizzazione) sarebbero stati necessari fino a quando il processo di pace israelo-palestinese fosse rimasto bloccato. Insomma, diventava sempre meno accettabile il pretesto per cui la dignità e le prospettive della crescita economica dovessero essere sacrificate per il ruolo di sicurezza svolto – teoricamente – dalle dittature. L’assassinio di Rabin ha accelerato questo passaggio storico e generazionale: una nuova generazione di giovani ha abbandonato i riflessi e i clichés (soprattutto baathisti) grazie alla sua maggiore apertura verso il resto del mondo. Così, quando sono scoppiate le prime rivolte arabe, queste si sono rapidamente trasformate in rivoluzioni, perché il terreno era molto fertile.
Dunque, processi storici di lunga durata e l’assenza dell’Europa come attore chiave nella regione hanno finito per convergere nell’esplosione del 2011, quando sono tornati in evidenza i difetti originari della mappa geopolitica del Medio Oriente. E il difetto più grave era la mancata soluzione al problema dei diritti collettivi delle minoranze. Gli europei hanno polarizzato il dibattito sui diritti individuali, dimenticando i diritti delle collettività minoritarie con le loro identità religiose e politiche. È il problema del Kurdistan, delle varie minoranze cristiane in Siria, Libano, etc. È in tale contesto che hanno conquistato spazio le teocrazie, soprattutto – o comunque le visioni religiose estremiste – e in certa misura quello che chiamerei l’imperialismo nostalgico della Turchia. La strategia neo-ottomana della Turchia di questi ultimi anni è anche un tentativo di equilibrare l’Iran nella competizione per i nuovi spazi regionali.
Che tipo di guerre si stanno combattendo in Medio Oriente? Una sorta di replica della guerra dei Trent’anni – sulla natura dello Stato in rapporto all’affiliazione religiosa? Oppure una specie di guerra fredda – tra potenze che si scontrano per procura?
Per parlare di guerra servono degli ingredienti istituzionali e sistemici, a cominciare dallo Stato-nazione westfaliano che incarna il monopolio legittimo della violenza. Il popolo deve dunque avere un rapporto di legittimità con lo Stato; ma il Medio Oriente di oggi è invece caratterizzato proprio da una gravissima crisi di legittimità. Gli eserciti che rispondono agli Stati nazione, quelli che vestono un’uniforme e seguono una precisa catena di comando, hanno un’etica della guerra, codificata peraltro a livello internazionale da un grande numero di convenzioni. Il fenomeno che sta colpendo oggi la regione non ha i requisiti classici della guerra: si tratta invece di conflitti di potere in spazi che non sono gestiti secondo i criteri di uno Stato moderno. Tali conflitti hanno in alcuni casi una dimensione etnica e secessionista – come nel caso del Kurdistan – oppure una dimensione egemonica – come nel caso dei Fratelli musulmani – oppure ancora una dimensione strategica, come è il caso delle vie energetiche fra Iran, Mar Nero e Russia, ad esempio. Comunque sia, spesso i protagonisti di questi conflitti non sono nazioni, ma neppure si tratta di gruppi religiosi in quanto tali come spesso si pensa. L’idea di un grande scontro sunnita-sciita è totalmente fuorviante e sottovaluta la complessità della situazione. Lo dimostra lo scenario siriano, nel quale oggi il regime di Assad gode nuovamente del sostegno di una maggioranza della popolazione, nonostante tutto, proprio perché i maggiori gruppi di opposizione ad Assad si sono ispirati a un’ideologia religiosa – quella dei Fratelli musulmani. Siamo di fronte a un conflitto per imporre una visione della legittimità politica e della società, con progetti assai diversi: quello dei Fratelli musulmani, quello salafita, quello laico. Tutto ciò si verifica in uno spazio geografico che non ha mai risolto il rapporto tra territorio e identità culturale e che vive una sorta di balcanizzazione persistente. Situazioni simili, pur con le molte specificità locali, si stanno verificando in molti aree del Medio Oriente.
Quale risposta si può dare a un problema di questa portata storica, in alcuni casi dopo anni di violenza che hanno inasprito i rapporti tra le varie componenti delle società arabe?
L’unica risposta possibile è l’emergere di leader politici percepiti come legittimi, che, o con la forza o con il negoziato, siano in grado di ricostruire una mappa regionale di Stati westfaliani che promuovano però le autonomie attraverso il rispetto dei diritti collettivi: religiosi, etnici, linguistici, culturali. Sono necessarie soluzioni federali per la gestione delle risorse naturali che sono quasi ovunque nella regione l’unica grande ricchezza; le risorse energetiche – ma anche l’acqua – non sono infatti equamente distribuite. La ripartizione di queste ricchezze, a sua volta, è ovviamente decisiva per generare crescita economica e sviluppo, e dunque è cruciale per il futuro degli Stati della regione.
Su questo sfondo, che cosa è realmente ISIS/Daesh?
Daesh è la metamorfosi del processo che ha prodotto al Qaeda. È il prolungamento di quel fenomeno, il suo adattamento a una nuova situazione che si è creata sul terreno. Al Qaeda, come movimento estremista organizzato, era sorto in aree geograficamente lontane, e voleva colpire anzitutto l’Occidente; Daesh è una versione endogena del fenomeno, radicata nello spazio arabo-islamico, che ha approfittato dell’implosione di due Stati della regione: Iraq e Siria. L’Iraq si è frammentato anche perché non va dimenticato che era una creazione artificiale del colonialismo. L’infiltrazione in quel territorio è stata facile per Daesh, e ha consentito per la prima volta a un movimento terroristico l’accesso a cospicue risorse naturali, ma anche a grandi quantitativi di armi e una massa umana senza precedenti. La base di reclutamento principale di Daesh è diventata così una popolazione di 14-15 milioni di abitanti che lo vede come uno pseudo-Stato o un quasi-Stato con funzioni quasi-sovrane, dall’amministrazione della giustizia alla sanità, fino alla distribuzione dei profitti energetici. Ecco il cosiddetto califfato. La vera sfida allora è far emergere delle forme di governo diverse, almeno in parte democratiche e non corrotte, aperte al rispetto dei diritti umani sia individuali che collettivi, che possano offrire un livello minimo di governance migliore di quello che offre oggi isis.
Quali sono i loro veri obiettivi territoriali? Un’espansione verso la Libia e magari altri paesi del Nord Africa?
La strategia territoriale di Daesh è opportunistica. Vanno là dove si creano spazi privi di controllo statuale o comunque già gravemente destabilizzati. Non attaccano ad esempio l’Arabia Saudita perché non ne hanno la capacità. L’assenza del diritto e delle istituzioni attira invece immediatamente i membri di questo movimento estremista. Di conseguenza, la risposta dovrà essere endogena: non c’è nessun intervento occidentale o internazionale che possa offrire di per sé la soluzione. Serve, questo sì, un rafforzamento degli apparati di sicurezza regionali, ma in combinazione con un’opera di capacity building locale. Il grande problema è come identificare lo spazio territoriale adeguato a questa operazione complessa di ricostruzione, soprattutto in Libia, dove non c’è una vera entità statuale, ma in parte anche in Siria e in Iraq. Il primo passaggio per la Libia deve comunque essere di tipo umanitario, per restituire alle popolazioni locali un senso di empowerment e di controllo sul proprio destino politico e sociale. Si devono assistere queste popolazioni nel recupero della legalità e dei diritti fondamentali che hanno perso. L’unico modo per dare una vera legittimità a un governo nazionale sarà una specie di “Loya Jirga libica”, un’assemblea delle tribù che però converga su personalità scelte con criteri di competenza. A quel punto sarà possibile richiedere forme di assistenza internazionale, assolutamente necessarie per consolidare le istituzioni.
Nel complesso, sembra comunque che abbiamo di fronte un Medio Oriente molto più dominato da forze e dinamiche locali, rispetto al recente passato.
Senza dubbio, dopo la fine della presunta “onnipotenza americana”, sono emersi due attori con una capacità regionale ad ampio spettro: la Russia e l’Iran. Mosca ha salvato il regime di Assad e ha intanto conquistato quello che era il suo vero obiettivo, cioè un accesso stabile al Mar Mediterraneo. Teheran ha perseguito un obiettivo in parte simile grazie al Libano, dove dispone di una finestra logistica sul Mediterraneo. Questo, tra l’altro, pone in una prospettiva diversa e ancora più pericolosa la questione israelo-palestinese, che potrebbe trasformarsi in un vero conflitto religioso – mentre finora è stato anzitutto una disputa territoriale. Del resto, lo stesso governo Netanyahu ha deliberatamente enfatizzato gli aspetti religiosi del conflitto, come ha fatto simultaneamente Hamas. Si presenta dunque uno scenario, da non sottovalutare, in cui questa nuova fase della questione israelo-palestinese assumerebbe una dimensione regionale ben più ampia, coinvolgendo tutti i tre attori che oggi hanno le maggiori capacità di influenza nell’intera regione – come abbiamo visto, Stati Uniti, Iran, Russia. Mentre Washington sarebbe probabilmente ancora spinta a sostenere Israele, il ruolo iraniano e russo sarebbe più ambiguo, ma certamente significativo.
Come si inseriscono in questo scenario l’Arabia Saudita e la Turchia?
I paesi del Golfo, in termini generali, non hanno davvero la capacità di presenza regionale ampia e diffusa che hanno cercato di mostrare, sfruttando anche il fenomeno al Jazeera per presentare un’immagine più dinamica e moderna di sé. Nonostante quella piattaforma per diffondere messaggi su grande scala, hanno sopravvalutato il loro peso internazionale e i loro attributi di potenza. Un altro limite è pensare, come fa l’Arabia Saudita in particolare, che la religione sia un vettore strategico globale: una sorta di nuovo “imperialismo religioso” è improponibile nella regione, se non altro perché troppi problemi complessi sfuggono al controllo religioso e ai tentativi di gestione “per decreto”. Vediamo già infatti che i sauditi temono moltissimo l’influenza crescente dell’Iran, ma non per la forza del messaggio religioso proveniente dal quel paese bensì per la sua natura di Stato-nazione con una forte tradizione storica, e una popolazione numerosa e in crescita. Così possiamo meglio interpretare l’azione saudita in Siria, che è anzitutto un tentativo di containment della potenza iraniana e assai meno un segno di grande ambizione geopolitica.
Quanto alla Turchia, l’origine delle scelte del Akp di Erdogan sta anche nella vicenda della mancata integrazione con l’Europa. L’Unione Europea ha commesso un grave errore nel respingere la Turchia, perché l’integrazione avrebbe reso Ankara assai meno aggressiva nel perseguimento dei suoi interessi nazionali. Una volta persa la speranza nell’adesione a seguito dell’ultimo allargamento strategico dell’Ue – quello del 2004 – e subìta come una vera umiliazione, il modello politico della Turchia ha cominciato a cambiare. Si è radicalizzato così il progetto neo-ottomano, con la ricerca aggressiva di un hinterland strategico – a sud e a est – per dare sbocchi al sistema economico turco e garantire le forniture energetiche necessarie a una crescita di lungo periodo. Il fatto poi che l’Akp sia un partito islamista al potere ha dato una connotazione politico-ideologica specifica alle ambizioni regionali turche. Va detto però che molte delle scelte fatte da Ankara in questi anni ricordano quelle fatte dall’Europa per decenni: il “patto con il diavolo” per assicurarsi gli approvvigionamenti energetici, ma anche la “securitizzazione” della questione migratoria in chiave puramente difensiva. Come abbiamo constatato tutti, il paradigma demografico è cambiato in modo drammatico, e le conseguenze sono ormai evidenti. Nel frattempo, poi, l’Europa stessa ha perso la capacità di crescita economica del passato e, anche se lo volesse, non sa più offrire un punto di riferimento certo per paesi vicini e di grandi dimensioni come la Turchia. Insomma, dagli anni delle grandi aspettative europee della Turchia, molto è cambiato. E le sfide regionali provenienti da sud e da est sono diventate enormi per tutti.
Editoriale www.aspeninstitute.it 29 marzo 2016
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