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1997. Il governo Prodi e svolta a sinistra in Europa


Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi.
Seneca, Lettere morali a Lucilio


Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Copertina

Il 1997 si apre all’insegna delle iniziative del segretario del Pds: il 5 febbraio D’Alema ottiene la nomina a presidente della Bicamerale per le riforme istituzionali, grazie all’accordo con il Polo. Sempre nel mese di febbraio, a Roma ottiene l’investitura definitiva dal congresso nazionale del partito, con una maggioranza dell’88%. I due episodi rappresentano due tappe significative della politica del Paese. Il primo dovrebbe porre le basi per la riforma dello Stato, il secondo segna un passo avanti nella direzione della trasformazione del Pds in un partito socialdemocratico.
L’Italia, con la Grecia, è dichiarata inadempiente al parametro di Maastricht riguardante il rapporto tra deficit e Pil per il 1997, e quindi viene esclusa dall’ammissione alla moneta unica. I giochi di prestidigitazione del Governo Prodi non hanno ingannato i funzionari dell’UE, che non accettano soluzioni tampone, pannicelli e una tantum, ma vogliono che il deficit di bilancio sia curato con interventi strutturali di lungo respiro. Il Presidente Scalfaro, che si è sobbarcato l’onere della difesa della patria contro i nemici interni ed esterni, si scaglia contro i «ragionieri di Bruxelles» che, a suo dire, non avrebbero compreso il valore dello sforzo italiano.
Svolta storica in Gran Bretagna nel 1997: dopo 18 anni di dominio conservatore, che ha consentito di ricostruire la Gran Bretagna con le regole del mercato, dell’efficienza e del contenimento del potere delle trade unions, i laburisti tornano al potere, conquistando ben 419 seggi su 659. Tony Blair, il leader del New Labour, ottiene una vittoria strepitosa su John Major, che è costretto a dimettersi dalla presidenza del partito e dal partito stesso. I Tories registrano la più grave sconfitta ai Comuni dal 1906, portandovi solo 165 deputati e risultando praticamente cancellati in Scozia e Galles. Gli analisti politici italiani e stranieri commentano questo risultato sottolineando come esso contenga un implicito tributo a Margaret Thatcher. La politica della lady di ferro ha infatti reso sterili i vecchi programmi della sinistra inglese, e ha costretto Blair a prenderne atto e a fare proprie le idee del liberismo. Anche il ridimensionamento del potere sindacale ha favorito la svolta liberista del partito. Quando nel 1979 la Thatcher era diventata primo ministro, la Gran Bretagna era un Paese in decadenza, caratterizzato da disoccupazione, ristagno economico, rigidità del mercato del lavoro, deficit pubblico, anomalo potere delle trade unions.
Io, che per ragioni di lavoro sono stato spesso in Gran Bretagna negli anni Ottanta e Novanta, ho potuto constatare di persona la trasformazione di un Paese vecchio e attaccato ai ricordi della passata grandezza in un Paese moderno e capace di sfidare il mondo. Dopo 18 anni di Governo conservatore, la Gran Bretagna ha ridotto drasticamente la disoccupazione, rafforzato la moneta e abbattuto il debito pubblico, diventando la nazione più dinamica della Vecchia Europa. I laburisti non avrebbero potuto non tenere conto di questa realtà.
Il confronto con la sinistra oggi al potere in Italia è disastroso ma, osserva Angelo Panebianco sul Corriere : «[…] un Blair può esistere solo dopo una Thatcher, pertanto è velleitario chiedere alla nostra sinistra di essere un po’ blairiana».
Domenica 11 maggio 1997 si sono avuti i ballottaggi per i sindaci di alcune città: a Milano il candidato del Polo, Gabriele Albertini, vince su Aldo Fumagalli dell’Ulivo; a Torino si impone invece il candidato dell’Ulivo, Valentino Castellani, su Raffaele Costa del Polo. La Lega vince a Lecco e Pordenone. Considerando tutti i capoluoghi di Provincia sembra che la sfida tra Polo e Ulivo sia terminata in parità.
Il 21 maggio 1997 il Senato approva (il Polo si astiene e solo la Lega vota contro) la nuova legge sulla televisione. Essa rappresenta il punto di convergenza degli interessi dei monopoli, ai quali è assicurato lo status quo, e dei politici, cui è assicurata la confortante presenza nei salotti televisivi e la fugace apparizione nei telegiornali. Con questa legge non cambierà nulla: è stata disattesa la sentenza della Corte costituzionale, che aveva stabilito che il possesso di tre reti ciascuno da parte di Rai e Mediaset era in contrasto con la pluralità dell’informazione e la regola della concorrenza, ma fondamentalmente è andata persa l’opportunità di avere una televisione un po’ meno desolante. L’unica novità è la costituzione dell’Authority per le garanzie nelle telecomunicazioni. La sua istituzione piace tanto al sistema politico italiano, sia perché l’espressione inglese suona bene e ti fa sentire internazionalizzato, sia perché essa rappresenta un’altra ghiotta occasione di occupazione di posti di potere.
Il 1° giugno 1997 il popolo francese decreta la vittoria delle sinistre: socialisti e comunisti hanno la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e i socialisti, da soli, sfiorano la maggioranza. Il leader socialista, Lionel Jospin, ha vinto con un programma vagamente dirigista, con la promessa di creare 700mila posti di lavoro e di ridurre l’orario di lavoro da 39 a 35 ore e con l’indicazione che l’Europa di Maastricht dovrà essere anche un’Europa politica. La vittoria dei Governi di sinistra, in Francia, come in Gran Bretagna e Italia, è il sintomo di un diffuso malessere che permea il Continente europeo in un momento di forte impegno per il raggiungimento di obiettivi economico-finanziari, ma la gente non lo comprende. L’affermazione di Jospin, secondo cui «il percorso verso l’Europa unita deve essere un processo anche politico», è, allo stesso tempo, il sintomo di questo malessere e un modo per esorcizzare le preoccupazioni sul futuro.
Mentre in Europa si diffonde il timore di perdere il proprio benessere, di vedere intaccato il proprio Stato sociale e cresce fortemente la disoccupazione, gli Usa paiono irraggiungibili. Con la presidenza di Bill Clinton, stanno godendo dei benefici della politica reaganiana e la loro economia attraversa un periodo di grande slancio. La disoccupazione è scesa sotto al 5% e i salari più bassi sono aumentati più degli stipendi elevati, essendo forte la domanda di lavoratori da adibire a mansioni meno remunerative. Il reengineering dell’industria americana, la deregulation, la limitazione del potere dei sindacati, costati sacrifici e dolori alla classe lavoratrice americana, hanno portato alla perdita, dall’inizio degli anni Ottanta, di 43 milioni di posti di lavoro; nello stesso periodo però ne sono stati creati più di 70 milioni di nuovi. Negli ultimi nove anni il Pil degli Usa è cresciuto del 17% in più di quanto sia cresciuto in Europa.
Il 22 luglio 1997 Di Pietro accetta l’invito di D’Alema a candidarsi con l’Ulivo nel superbloccato collegio senatoriale del Mugello, resosi vacante; la mossa di D’Alema sembra finalizzata all’obiettivo di togliere dalla scena politica la mina vagante dell’ex pm. La risposta dell’opposizione è la candidatura di Sandro Curzi da parte di Rifondazione e Verdi, e di Giuliano Ferrara da parte del Polo. In conclusione il centro-sinistra candida un ex magistrato che politicamente appare più un populista di destra che un sostenitore dei principi della sinistra, la sinistra candida un personaggio che pochi anni prima dirigeva Telekabul, il Polo una sorta di dandy della provocazione, prima protagonista tra le file della sinistra estrema, poi craxiano di ferro e poi berlusconiano. Questa situazione riflette lo stato delle cose del Paese: i partiti continuano a considerare gli elettori come strumenti dei propri interessi e delle proprie strategie o come oggetto delle proprie ironie. Come era “inevitabile” il 9 novembre Di Pietro viene eletto con una valanga di voti. Intanto l’Italia procede verso il raggiungimento dei parametri di Maastricht; nel giugno 1997 l’inflazione scende a un minimo storico, l’1,5% e il deficit di bilancio è vicino al 3% del Pil. D’Alema e Berlusconi sembra abbiano trovato un punto di incontro per la riforma dello Stato sociale e ciò dovrebbe consentire di stabilizzare il livello di deficit. Quello che alcuni chiamano il partito trasversale di Maastricht, legato ai centri decisionali europei e statunitensi, sembra stia pilotando il Paese verso l’Europa dell’euro. Il grande handicap resta il debito pubblico, che è attorno al 125% del Pil e che frena lo sviluppo dell’economia. Nel 1997 il Pil vedrà infatti un incremento dell’1% soltanto e il livello di disoccupazione resterà fermo al 12,1%. La pressione fiscale pari al 48,4% e il tasso ufficiale di sconto ancora al 6,25% non danno respiro alle aziende. Il 13 settembre 1997, con il 74,3% dei voti favorevoli, la Scozia ottiene per referendum di avere un proprio Parlamento. I laburisti hanno appoggiato la richiesta degli scozzesi, mentre i conservatori, che l’avevano osteggiata, escono ancora sconfitti. Il Parlamento scozzese opererà secondo il criterio della sussidiarietà: tutto quanto non riguarda politica estera, difesa e moneta, rientrerà nelle sue prerogative; molto di più di quanto la Bicamerale prevede per il federalismo all’italiana. Successivamente anche il Galles approva, per referendum, la costituzione di un proprio Parlamento, anche se con minori poteri rispetto a quelli della Scozia. In Nord Italia la gente si chiede: “Quello che è possibile per Scozia e Galles perché non lo è per Lombardia e Veneto?”

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5 aprile 2016

Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.


Tratto da

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www.impresaoggi.com