Per tutta la campagna elettorale, pur senza mai essere in vantaggio nei sondaggi, il team di Donald Trump raccolto attorno a Kellyanne Conway ha seguito una teoria su come avrebbe prevalso nel voto che si è appena concluso. Conway riteneva che i più ferventi sostenitori di Trump – maschi bianchi con un’istruzione di livello liceale – venissero sistematicamente sottostimati in termini numerici in tutti le rilevazioni statistiche. C’erano tre risposte di fondo sul perchè ciò stesse avvenendo.
In primo luogo, quel gruppo di elettori ha perso fiducia nel “sistema” di fronte agli effetti della globalizzazione, e alla deliberata acquiescenza dell’establishment repubblicano proprio verso le forze economiche che hanno causato il loro disagio; erano troppo demoralizzati per votare prima che arrivasse sulla scena Trump come loro campione indiscusso. Lo stesso slogan della sua campagna, ‘Make America Great Again’, era perfettamente rivolto alle genuine insicurezze di questi elettori che sono stati in larga parte dimenticati.
Una seconda ragione per la probabile sottovalutazione è stata la sfiducia di questo gruppo demografico verso i “mainstream media” e le agenzie che realizzano sondaggi. Un ulteriore richiamo di Trump ai suoi sostenitori bianchi meno istruiti è stato infatti che il disprezzo dei grandi media nei suoi confronti fosse solo l’ultimo esempio dei tentativi da parte della stampa di sinistra “politically correct” di dominare culturalmente il Paese. Chi crede in un messaggio del genere non è quasi certamente propenso a dire a un’agenzia di sondaggi come intende votare.
Una terza ragione della sottovalutazione numerica è stata che non tutti questi elettori volevano far sapere del loro voto per un candidato presidenziale colpito da accuse di razzismo e intolleranza. Ma Conway e la sua squadra hanno creduto fermamente che quegli “elettori timidi” sarebbero comunque emersi in numeri sufficienti da spostare l’esito del voto.
La strategia così impostata ha funzionato perfettamente, scioccando il resto del mondo, e consentendo a Trump di sorprendere la strafavorita Hillary Clinton e conquistare la presidenza. E’ vero insomma che quei voti non calcolati esistevano eccome, in quantità sufficiente nell’upper Midwest (Pennsylvania, Ohio, Michigan, and Wisconsin) da spezzare decenni di dominio dei Democratici nella regione e portare il candidato repubblicano alla Casa Bianca.
L’ultimo “sondaggio di sondaggi” di Real Clear Politics valutava che Clinton avrebbe ottenuto il 46,8% dei voti nazionali, mentre Trump soltanto il 43,6%. In realtà, le cifre della Clinton erano state stimate quasi alla perfezione – e anzi la candidata democratica ha concluso con un ancora più alto 48,2%, cioè 4,5 punti percentuali in più di quanto previsto. Questi margini di errore, a posteriori, giustificano in pieno la strategia degli elettori mancanti seguita dal team di Trump, e hanno confermato che l’ipotesi della Conway era del tutto corretta.
Dunque, se è così che Trump ha ottenuto la sua davvero sorprendente vittoria, cosa sappiamo ora di come governerà questo populista che infiamma i sostenitori? Paradossalmente, dal punto di vista europeo la buona notizia è che il nuovo Presidente non pretenderà da un’Europa in difficoltà quanto avrebbe chiesto la Clinton. Ciò darà al Vecchio Continente il tempo per superare le sue crisi esistenziali legate alla questione dell’euro e alla sfida dei rifugiati, come anche per ridurre la pressione delle gravi difficoltà che attanagliano il rapporto transatlantico.
Perciò, la versione in stile Trump di quello che Walter Russell Mead chiama “nazionalismo Jacksoniano”– unilateralismo misto a impulsi isolazionisti – potrà certo rendere nervosi gli europei, abituati come sono a trattare con gli internazionalisti che hanno dominato entrambi i Partiti americani; ma chiede ben poco a un’Europa comunque incline a non fare molto sul piano mondiale.
Ma se questa è la buona notizia, quasi per ironia della storia, la cattiva notizia è che un’America impegnata in una ben diversa politica estera pone il mondo di fronte a un vuoto strategico che sarà riempito da Stati più aggressivi, come una Russia in declino e una Cina in ascesa. Mentre gli USA sono nel pieno di una crisi di nervi populista, non c’è alcun altro Paese in grado di fare da potenza ordinatrice globale. E’ una situazione che ci lascia in una sorta di giungla strategica, in cui solo la forza può produrre risultati concreti nei rapporti internazionali – in cui insomma “might makes right”.
Intanto, gli Stati Uniti non sono più da considerare neppure un bastione dell’ordine del libero commercio che ha tanto arricchito il mondo fin dal 1945. L’Europa a sua volta sta soccombendo in larga parte alle sirene del protezionismo, e la base del Partito Democratico è più anti-trade di quanto sia mai stata a memoria recente; l’ultimo tassello arriva ora con la “scalata ostile” al Partito Repubblicano – a lungo il partito del libero commercio – completata dal candidato presidenziale più dichiaratamente protezionista dell’era moderna.
In estrema sintesi, se gli Stati Uniti ora sotto la guida del “jacksoniano” Trump disdegnano l’idea di una responsabilità diretta per il quadro strategico mondiale, non saranno neppure incline a venire in soccorso al resto del mondo sul piano macroeconomico.
Dunque, da un lato gli europei saranno felici di non vedersi fare troppe richieste dai loro spesso irritanti cugini americani, il continente rimpiangerà probabilmente l’ordine a guida americana che ha ispirato le loro interminabili lamentele. Perchè l’unica cosa peggiore di un eccesso di coinvolgimento degli Stati Uniti nell’Europa del passato è la carenza di coinvolgimento nel traballante futuro del continente.
Il Presidente-eletto Trump ha perfino posto in dubbio la persistente efficacia della NATO, pur osservando correttamente che l’Europa è stata per troppo tempo incapace di rispettare i propri impegni più elementari in termini di spese per la difesa. Tuttavia, un’Europa che non deve troppo preoccuparsi della sua posizione strategica nel mondo, avendo a lungo delegato all’alleato americano tale responsabilità, si trova ora improvvisamente e con fastidio da sola in una pericolosa nuova era – con una Russia opportunistica sul suo fianco Est e la minaccia del terrorismo e del radicalismo islamico a Sud.
L’Europa viene a trovarsi in questo mondo pericoloso nel peggiore momento possibile: una fase di grave debolezza economica, confusione politica sullo stesso “progetto Europa”, e bassissime spese per difesa. Date le sue preoccupazioni strutturali, è improbabile che in simili circostanze il continente possa vincere la nuova sfida strategica che viene posta da un drammatico ritiro americano dal mondo.
Con un’altra ironia della storia, l’Europa ha infine raggiunto ciò che gli utopisti nella tradizione gollista hanno sognato per decenni: una assai maggiore autonomia strategica continentale. Il problema è che, nelle oggettive condizioni attuali, questa ritrovata libertà potrebbe rivelarsi più una maledizione che una benedizione, mentre ci avviamo nella nuova e pericolosa era di Trump. Giova notare che il primo uomo politico incontrato da Trump è stato Nigel Farange.
John Hulsman www.aspeninstitute.it - 10 novembre 2016
IMPRESAOGGI. Come abbiamo già fatto notare in occasione della brexit la politica dei paesi occidentali è governata dagli umarell (1 ) quegli elettori che sono, scusate, incazzati di tutto: di essere stati costretti ad andare in pensione ancora "giovani", di non vedere grandi aspettative per i propri figli, di dover surrogare la mancanza di servizi sociali adeguati, di essere stati disillusi dalla classe politica, di diffidare degli intellettuali e dei giornalisti, che ritengono faziosi e di parte, di banchieri e bancari che si ritirano con bonus milionari dopo aver rovinato i propri istituti e che sono attratti dai populismi di destra e di sinistra.. Hanno un solo strumento nelle proprie mani urlare il proprio NO nel segreto dell'urna. Per questo ritengo che al referendum del 4 dicembre, assieme alla delusione/insofferenza dei giovani, prevarrà la loro rabbia e sancirà la vittoria del NO.
1) D. Masotti Umarells 2.0 Pendragon, 2010
Tratto da