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Commenti sull'esito del referendum costituzionale

Lezioni dalle urne: perché l’Italia è meno divisa di quel che sembra
di Luca Ricolfi
Tanto vale che lo dica subito, per chiarezza: io non sono andato a votare. Di questa sciagurata tenzone, infatti, non mi è piaciuto proprio nulla. Ma di tutte le cose che mi sono dispiaciute ce ne sono soprattutto due che mi hanno allontanato dal voto. La prima è che il referendum ha tolto ogni spazio di espressione ai riformisti radicali come me, ovvero a quanti pensano che la Costituzione richieda un robusto restyling, ma non così, non con questo brutto anatroccolo. Può darsi che mi sbagli, ma avendo ascoltato in questi lunghi mesi l’opinione di decine di amici, conoscenti, colleghi professori e giovani studenti, mi sono persuaso che questa sia la vera maggioranza del Paese, e che essa si nasconda sia nel “sì”, sia nel “no”, sia nella scelta di chi, come me, si è astenuto.
Chiediamocelo: quante persone hanno votato “no” pur pensando che la Costituzione del 1948 andrebbe aggiornata? E quante persone, anche di primissimo piano, hanno votato “sì” nonostante un certo orrore per la riforma bosco-renziana? Un orrore cui, mi spiace farlo notare, non poco ha contribuito l’inoppugnabile circostanza che la Riforma non risulta scritta nella nostra bella e amata lingua italiana, bensì in un orripilante gergo giuridico-politico (che per di più viola la sacrosanta raccomandazione europea di evitare i rimandi a articoli, commi e singole parole di altri testi di legge).
Chissà, mi sono detto, quanto hanno sofferto politici eminenti a ingoiare un simile affronto alla logica e alla lingua. Ma anche, chissà come hanno patito tanti votanti del “no” a mescolarsi con quanti hanno fatto della Costituzione del ’48 una sorta di totem, sacro e inviolabile. Perché si può anche essere d’accordo, con il saggio genitore di Romano Prodi, che «nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone», ma non sempre è chiaro qual è l’osso e qual è il bastone.
Forse sono condizionato dal fatto che, pur non essendo psicologo, insegno in una facoltà di Psicologia, ma mi sono convinto che, fra quanti vorrebbero aggiornare la Costituzione ma ambirebbero farlo con un testo limpido come quello dei Costituenti, le differenze fra chi ha scelto il “sì”, chi ha scelto il “no” e chi ha preferito il non-voto siano essenzialmente psicologiche: in ultima analisi non è la logica, ma è la personalità di ciascuno di noi che, di fronte a tre alternative nessuna delle quali convincente, ci ha indotto a sceglierne una scartando le altre due.
E questa è la seconda cosa che non mi è piaciuta. Imponendo con spavalderia un testo mal scritto e frutto di alchimie parlamentari, del tutto sprovvisto di certezze collaterali per quel che riguarda l’essenziale capitolo della legge elettorale (anzi delle due leggi: Camera e Senato), i nostri giovani governanti hanno creato una spaccatura artificiale fra i cittadini italiani, una spaccatura che non sarà facile ricomporre e che renderà più arduo ogni tentativo futuro di aggiornare la Carta fondamentale.
Perché l’hanno fatto? Perché questo inutile harakiri?
Si potrebbero indicare tante ragioni. Ma a me pare che la più importante sia una diagnosi sbagliata, drammaticamente sbagliata, sui mali dell’Italia. Dietro l’enorme importanza che è stata attribuita alla Riforma costituzionale non c’è solo il bisogno di lavare il peccato originale del renzismo, ovvero di aver conquistato il potere con una manovra di palazzo anziché con il voto popolare. No, dietro quell’accanimento sulla Riforma c’è anche l’errata credenza che i guai dell’Italia dipendano in misura non trascurabile dalla Costituzione del 1948, e che la rimozione di quell’ostacolo avrebbe liberato le energie migliori del Paese. Una credenza che, sia detto per inciso, da decenni seduce i politici italiani per l’elementare motivo che essa li aiuta ad autoassolversi dalle loro responsabilità nel disastro del Paese.
Ebbene, permettetemi di dire che si tratta di una notevole sciocchezza. Mafia, corruzione, evasione fiscale, sprechi, incapacità di ridurre le tasse e la spesa pubblica improduttiva, deterioramento dei conti pubblici, farraginosità delle leggi, onnipotenza della burocrazia, ristagno del Pil, produttività ferma da vent’anni, dipendono al 99% da noi e dalla maggiore o minore serietà dei governi che ci scegliamo, e forse all’1% dal fatto che la Costituzione ha alcuni difetti e limiti. Il maggiore dei quali, ironia della sorte, è stato prodotto precisamente da una delle più infelici manomissioni della Costituzione del 1948: la famigerata Riforma del Titolo V del 2001, voluta dall’Ulivo per fare concorrenza alla Lega, e anche allora colpevolmente imposta a colpi di maggioranza.
Se c’è del vero in questa ricostruzione, non solo il governo sconfitto ma anche il variegato vittorioso fronte del “no” dovrebbe assumere un atteggiamento più composto, per non dire più umile. Perché, se la realtà è che sia nel fronte del “sì” sia in quello del “no” molti hanno semplicemente scelto quello che avvertivano come il male minore, la conseguenza logica da trarne è che i “sì” convinti a Renzi sono meno dei “sì” alla Riforma, e i no a qualsiasi cambiamento della Costituzione sono meno, molti di meno, dei “no” a questa Riforma. Detto altrimenti, noi cittadini siamo assai meno divisi, e assai più disponibili a cambiare la Costituzione, di quanto la schiacciante vittoria dei “no” lasci intendere. Sta a noi non farci prendere né dall’euforia della vittoria né dal rancore per la sconfitta. Sta a noi non lasciarci trascinare nel vortice delle polemiche che, con puntuale determinazione, il teatro della politica si appresta a scatenare sulle nostre teste. Sta a noi pretendere da tutti, politici del sì e politici del no, il ritorno a un minimo di rispetto reciproco, e di ascolto delle ragioni dell’altro.
Ascolto: la cosa che, più di tutte, mi è mancata in questa folle attesa del giorno del giudizio.

Città spaccate dal voto: centri per il Sì, periferie per il No
di Roberto D'Alimonte e Vincenzo Emanuele
Ci si chiedeva prima del voto quale delle due parti sarebbe stata favorita da una partecipazione elevata. Ora lo sappiamo. In Italia, senza tener conto della circoscrizione estero, ha votato il 68,5% degli elettori. Una percentuale di soli 7 punti inferiore a quella delle ultime elezioni politiche e di dieci punti superiore a quella delle europee del 2014. E tutto ciò senza che sulla scheda comparissero partiti e candidati. La regione in cui si è votato di più è stata il Veneto (76,7%), mentre quella in cui si è votato di meno è stata la Calabria (54,4%). Da notare che in Veneto addirittura più che in Emilia (75,9%) e in Toscana (74,5%).
Colpisce in particolare il dato del Sud dove si è recato alle urne il 61,6% degli elettori. In questa zona, che va dal Lazio alla Sicilia, si è registrata tra l’altro la più alta percentuale di No, e cioè il 67,4% contro il 57,3% del Nord e il 48,8% della “zona rossa”. Ed è proprio nelle regioni più periferiche del paese che la percentuale dei No è stata la più alta in assoluto. Per esempio 72,2% in Sardegna e 71,6% in Sicilia. L’importanza del fattore marginalità emerge anche da altri dati. Nelle grandi città, quelle sopra i 100mila abitanti, e nei capoluoghi il Sì va decisamente meglio rispetto ai piccoli centri e ai comuni non capoluogo. Questo è vero soprattutto al Nord. Il caso di Milano, dove il Sì ha prevalso sul No, ci fa capire ancora meglio cosa è successo. Infatti il Sì ha vinto largamente nei quartieri centrali e più agiati ma ha perso in quelli periferici. Lo stesso fenomeno si riscontra anche a Roma e a Torino, dove complessivamente il No ha prevalso, tranne che nei quartieri del centro. In breve, questo referendum può essere assimilato alla Brexit e alla elezione di Trump. Due casi in cui si è visto bene l’impatto che hanno avuto il fattore centro-periferia e l’influenza degli elettori marginalizzati.
La politicizzazione del voto ha segnato il destino della riforma costituzionale. Una volta associata la riforma a Renzi e al suo governo è scattato in tanti elettori un riflesso partigiano. Era difficile evitare questa associazione, ma il premier è stato incauto nel rendere la cosa più facile ai suoi avversari. La sostanziale omogeneità del risultato denota che questo voto è stato percepito dalla maggioranza degli elettori come se si trattasse di una elezione politica vera e propria, anche se partiti e candidati non erano in lizza. Una prova ulteriore viene dal buon risultato del Sì nelle regioni della “zona rossa”. In altre parole in questo voto si vede bene una componente partigiana. Dove il Pd è più forte, il Sì è andato meglio. L’organizzazione territoriale conta ancora. Ma il problema è che il Pd rimane forte solo in una zona limitata. Il bilancio complessivo è che il Sì ha prevalso in 12 province su 106, e 11 di queste sono situate in Emilia-Romagna e Toscana.
Un altro problema del Pd è svelato dai flussi calcolati sui dati di sezione. Da questi dati emerge che, rispetto alle elezioni politiche del 2013, il Pd riesce a mobilitare in favore del Sì solo circa due terzi dei suoi (ex) elettori nel centro-nord, e appena la metà a Napoli. Il Sì fa invece il pieno nell’ex elettorato montiano, che risulta il più compatto in assoluto tra tutte le città esaminate. Fra i partiti a sostegno del No, quello con le minori defezioni è il M5S che cede piccole quote verso l’astensione, ma porta a votare No la stragrande maggioranza dei suoi elettori (fra il 76 e il 100%), con la parziale eccezione di Parma. Infatti nella città di Pizzarotti un terzo dei pentastellati non ha votato secondo le indicazioni del Movimento. Anche la Lega mostra grande compattezza, ma solo nelle sue roccaforti di Brescia e Treviso, in cui il No leghista oscilla fra l’85 e l’89%. Viceversa, a Torino e Parma quasi la metà dei votanti leghisti del 2013 ha votato Sì. L’elettorato berlusconiano del 2013 mostra la maggiore divisione interna, cedendo quote rilevanti di voti a Brescia e ad Ancona verso il Sì, e a Napoli verso l’astensione. Infine, in tutte le città prese in esame, gli ex astenuti del 2013, che domenica sono andati alle urne, hanno scelto in larga maggioranza il No.
In conclusione, con il senno di poi si può dire che questo è stato un referendum che difficilmente il Pd poteva vincere. Troppi fattori hanno giocato contro il premier. Ma resta il fatto che 13 milioni di voti sono tanti. E da qui può ripartire la sfida di Renzi.

La svolta (di crescita) che serve al Paese
di Roberto Napoletano
Questo Paese non ha bisogno di un nuovo governicchio stile esecutivo Fanfani 1987 o di riedizioni di governi tecnici logorate dai tempi che viviamo, segnati da una nuova rivoluzione francese, globale e diffusa, dove è ormai quotidiano lo scontro tra i “sans-culottes” e le élite che cambiano di nazione in nazione, di città in città, di contrada in contrada. Questo Paese ha bisogno di risposte concrete a problemi reali, l’indebolimento del ceto medio, i troppi che restano indietro senza lavoro e senza speranza, un dualismo che si allarga e segna solchi, civili prima ancora che economici, tra le due Italie, povertà e diseguaglianze diffuse. Ha bisogno di uno spirito di coesione come quello dimostrato, nei mesi scorsi, dal sindacato e dalle forze imprenditoriali rimettendo al centro della politica economica produttività, competitività, potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori, scuola, ricerca, innovazione, semplificazione, investimenti. La dignità del discorso d’addio di Renzi che ricorda quello della prima sconfitta con Bersani fa da contrappasso a una linea di azione del suo governo che ha fatto cose buone (mercato del lavoro, parziale abolizione Irap, banche popolari, industria 4.0, passi avanti nella PA) ma non ha mai bandito una corrente alternata di comportamenti, nella forma e nella sostanza, nei rapporti con l’Europa e nella scelta tra interventi strutturali (che ci sono stati) e una filiera infinita di bonus e mance varie dove si è pensato sempre di accarezzare l’elettore (peraltro non abbocca più) e si sono bruciate, con miopia, risorse pubbliche rilevanti impegnando, quasi a vuoto, pezzi di futuro.
Al Paese serve un governo politico con competenze tecniche che si misuri con i problemi veri e, attraverso questa strada, rassicuri i mercati non per il breve ma per il lungo termine. L’ombrello dell’euro e del Quantitative Easing di Draghi, molti fanno finta di non capirlo, si fa carico delle turbolenze politiche nazionali anche se ovviamente il peso che un Paese come il nostro paga, soprattutto alla voce banche, in questo caso Mps ma non solo, è destinato a salire e lo abbiamo già pagato prima del referendum con alcune decine di punti in più di spread e una volatilità persistente legata alle ondate di speculazione dei cosiddetti “bravi ragazzi” degli hedge fund. Non ha più molto senso, per noi, continuare a invocare in modo sterile l’emergenza mercati (il che non vuol dire che il tema non esiste anche se in modo molto differente dal 2011) quanto piuttosto ha senso esigere che si prendano quelle decisioni necessarie per accelerare l’inversione di rotta e consolidare l’attrazione di capitali esteri. La Spagna, che si è fatta meno problemi di noi a chiedere aiuto all’Europa, cresce ora del 3%, non ha risolto i suoi problemi, ma comincia a dare ai cittadini spagnoli il senso concreto di una possibile via di uscita dalla più lunga crisi globale mai conosciuta. Abbiamo da mettere subito in sicurezza la legge di stabilità (questo va fatto in ogni caso). Abbiamo scadenze europee importanti da onorare e la presidenza del G7. Il Capo dello Stato userà la sua saggezza e la sua moral suasion per verificare se in Parlamento ci sono le disponibilità non solo per votare la indispensabile nuova legge elettorale, ma anche (anzi, soprattutto) per dare risposte concrete ai problemi reali.
Il governo Ciampi, dopo il rischio bancarotta del ’92 e la manovra lacrime e sangue di Amato, fu in realtà un governo politico e chi lo guidava era un civil servant cresciuto nelle passioni mazziniana e azionista, ma conosceva come pochi le regole dell’economia e dei mercati. Quel governo ci regalò l’accordo sulla politica dei redditi e l’uscita dall’inflazione a due cifre che tanto hanno giovato alla ripartenza dell’Italia. Oggi abbiamo un disperato bisogno di crescere per ridurre le povertà e attenuare le diseguaglianze e bisogna capire se ci sono le condizioni politiche per farsene carico seriamente o è meglio ridare la parola agli elettori. Questo è il dilemma da sciogliere oggi con intelligenza e rapidità. Quello che serve al Paese è chiaro a tutti e bisogna valutare pragmaticamente quale sia la strada migliore da percorrere per raggiungere il risultato e non sue imitazioni.

Quell’agenda economica che non può attendere
di Guido Gentili
L’agenda dell’Italia deve essere riempita di contenuti e atti operativi che siano in grado di far fronte, per l’oggi e per il domani, a ogni emergenza e sia capace di riaffermare l’idea che questo Paese non è impermeabile alle riforme. La messa in sicurezza della Legge di Bilancio, già approvata dalla Camera, è un passaggio essenziale: rimetterla in discussione sarebbe come versare benzina sul fuoco dei mercati, tanto più che è aperto anche un negoziato non facile in Europa, dove viene chiesto al governo italiano di rinforzare la manovra per il 2017. Occorre una nuova legge elettorale e bisogna che il progetto di Industria 4.0 continui a camminare, perché qui ci si gioca una grande fetta di futuro.
È evidente, in termini di stabilità del sistema-Italia, la vittoria del “No” complica, e non semplifica, i conti politici e economici. Il quadro generale è ribaltato. La riforma costituzionale proposta dal Governo Renzi è stata bocciata dagli italiani ed il premier Matteo Renzi (il “riformatore imperfetto” secondo la stampa anglosassone), che su questa sfida aveva puntato tutte le sue carte per affermare definitivamente la sua leadership, ne prende atto, annunciando le dimissioni.
Una strada si è interrotta, e la parola passa al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui equilibrio e determinazione in passaggi ad alta tensione come quello attuale sono garanzia di un approdo comunque sicuro. Questo è un punto fermo e non è per fortuna il solo quando, sui terreni della finanza e della diplomazia, i venti dell’incertezza sul caso-Italia tireranno forti.
Il Paese non era e non è sull’orlo di un crac, resta una potenza industriale di prima grandezza rispettata e apprezzata in tutto il mondo, ha dimostrato sempre di saper reagire nei momenti più difficili della sua storia. E non è solo, nel senso che la rete di sicurezza della Bce guidata da Mario Draghi è anch’essa un punto fermo. Un passaggio referendario, per quanto molto importante e per quanto in questo caso investa direttamente il capo del Governo, non è insomma il Giudizio universale né in un senso né nell’altro. Così come il “Sì” non sarebbe stato un passaporto per il Paradiso, il “No” non è la condanna all’Inferno.
In ogni caso si sarebbe dovuto lavorare duro, e con la serietà che una sfida del genere impone, per ritrovare una crescita vera e per modernizzare un sistema fiaccato da una crisi violenta e dagli innumerevoli problemi che si trascina insoluti da decenni.
La vittoria del “No” (proposto da un fronte composito che spazia da un’euro-critica costruttiva alla peggiore cultura anti-industriale) apre a scenari inediti e cambia le prospettive politiche. Le aspettative internazionali, a partire da quelle europee, puntavano sul “Sì” in nome della stabilità di governo e di una spinta al cambiamento che il giovane leader Renzi aveva fin dall’inizio messo in cima alla sua agenda raccogliendo molti consensi. Da oggi, evaporato il “Sì”, potrebbe riproporsi l’immagine di un Paese in fondo irriformabile che galleggia più o meno allegramente in acque stagnanti a cavallo del terzo debito pubblico del mondo e di un sistema bancario in coma profondo.
È bene dirlo chiaro. Quest’idea del Paese irriformabile è tanto falsa quanto pericolosa e va combattuta con decisione per evitare che la scontata volatilità sui mercati e le perplessità che fioccheranno dalle cancellerie europee si trasformino, ad esempio, in un più alto costo di finanziamento del debito e in un giudizio apocalittico sul sistema bancario italiano. Che a partire dalla vicenda Monte Paschi – la cui ricapitalizzazione era legata a doppio filo con l’esito del referendum- potrebbe scaricarsi, con effetti a catena, anche sugli istituti più solidi.
Quale che sia il Governo che dovrà affrontare una stagione tra le più difficili degli ultimi anni, autorevolezza e competenza devono essere la bussola per consentire all’Italia di riprendere il cammino di una crescita sostenuta e fondata su un recupero della produttività che manca da troppo tempo all’appello. Vuol dire che si deve insistere sulle riforme? Non c’è dubbio.

Il «No» non scuote spread e BTp
di Isabella Bufacchi
La vittoria del No con ampio margine, a conferma parziale dell’ascesa dei partiti anti-euro, e la fine del Governo Renzi annunciata dal premier sono due eventi post-referendum con portata destabilizzante che avrebbero potuto far tremare lo spread. Ma non è andata così, sebbene alcuni traders avessero previsto un allargamento del gap tra BTp e Bund fino a 30 punti in apertura, a caldo. Ieri questo termometro che ha il compito di misurare il rischio-Italia ha avuto appena un sussulto: lo spread ha chiuso venerdì pre-voto a 162, ieri in giornata ha toccato quota 173 per poi chiudere a 166, perdendo sul campo 4 centesimi di punto percentuale. Intanto i rendimenti dei BTp sono saliti tutti dalla vigilia del referendum a ieri: il 2 anni da 0,18 %a 0,19%, il decennale da 1,90 a% 2,02%, il trentennale dal 3% al 3,05 per cento.
Lo spread dunque si è mosso ben poco rispetto a i punti già incamerati da questa estate (è passato da 120 fino a un picco di 190 per tornare in area 160). Questo dipende dall’atteggiamento dei mercati, che di fronte a un’Italia senza governo restano alla finestra in attesa di schiarite; dipende dall’alta quota di debito pubblico posseduta da italiani; ma molto fa l’ombrello di protezione della Bce. Dal marzo 2015 al 2 dicembre 2016, il Public Sector Purchase Programme ha consentito alla Banca di acquistare 1.211 miliardi di titoli di Stato denominati in euro, di cui 200 miliardi in titoli italiani, 230 francesi e 290 tedeschi e 143 spagnoli. Queste quote, paese per paese, sono calcolate in base alla oramai famosa “capital key” la chiave capitale che riflette la partecipazione delle banche centrali degli Stati membri dell’euro al capitale della Bce, tenuto conto del loro Pil e della popolazione sul totale dell’Eurozona. La capital key dell’Italia è del 17,48%, quella della Germania è la più alta al 25,5%, seguita dalla Francia al 20,2% mentre la Spagna viene dopo l’Italia al 12,5 per cento. Tuttavia questa chiave capitale è stata ritoccata all’insù per molti Paesi, per ridistribuire quella quota di titoli di Stato che per qualche motivo tecnico non viene acquistata o viene comperata per un importo inferiore a quello previsto dalla capital key: la Grecia per ora è esclusa dal PSPP, mentre Cipro, Portogallo, Lussemburgo, Lituania, Estonia, Malta, Slovenia, Slovacchia e Lettonia hanno registrato acquisti inferiori alla capital key o addirittura azzerati per mancanza di titoli.
La Bce deve acquistare ogni mese un importo fisso di titoli di Stato o pubblici e per arrivare a quell’ammontare, in mancanza di alcuni bond, ne acquista altri: la ripartizione della quota aggiuntiva tra gli Stati con flottante viene effettuata in base agli stessi criteri della suddivisione data dalla capital key.
La chiave capitale dell’Italia, per questi motivi, è salita dalla percentuale iniziale di 17,48% a una media di 18,44%, con un picco lo scorso giugno a 19,64% (la Germania è salita da 25,5% a 27,6%). Questo ritocco della chiave capitale, abbinato all’aumento dell’importo degli acquisti mensili deciso lo scorso marzo (da 60 miliardi a 80 miliardi) ha fatto lievitare di molto l’intervento della Bce sui titoli di Stato italiani con vita residua tra 2 e 30 anni: dallo scorso marzo, gli acquisti dell’Eurosistema su BTp e CcT sono saliti da una media di 7-8 miliardi a circa 12 miliardi al mese con un picco toccato in maggio di 13,4 miliardi.
Esiste dunque una certa flessibilità nell’ambito del PSPP ma è molto marginale, ai fini dell target di inflazione, e non ha nulla a che fare con l’allargamento dello spread o il rialzo dei rendimento dovuto al peggioramento del rischio sovrano dei singoli Stati.
Il peso della Bce nel programma di raccolta degli Stati dell’Eurozona resta invece decisamente rilevante: la dimensione di 12 miliardi di acquisti mensili di titoli di Stato italiani è importante quando la si confronta con le aste del Tesoro, che quest’anno per i BTp dai 3 ai 30 anni hanno registrato emissioni lorde di 52 miliardi, 44 miliardi e 35 miliardi rispettivamente nel primo, secondo e terzo trimestre.

Analisti, vero test sarà il nuovo governo. Rischio elevato per Mps
di Andrea Fontana e Giuliana Licini
Niente shock da referendum, poiché le Borse avevano già scontato lo scenario di vittoria del «No», ma il focus si è spostato sulla fase post Renzi e sulle mosse del presidente della Repubblica per arrivare alla formazione di un nuovo governo. La grande incognita è invece la ricapitalizzazione e il salvataggio di Banca Mps che sui listini resta volatile ma si è ripresa dal tonfo iniziale. Queste le valutazioni di gestori e analisti alla reazione dei mercati dopo l'esito del referendum costituzionale e l'annuncio delle dimissioni da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi che saranno formalizzate nel pomeriggio.
Non c'è stata una grande sorpresa con la bocciatura delle riforme costituzionali nell'urna «ma a stupire è l'ampiezza del risultato - spiega Alberto Biolzi, responsabile advisory di Cassa Lombarda - Ora l'apprensione non è tanto per l'instabilità politica di brevissimo termine in Italia, ma per lo scenario di medio-lungo termine con il rischio di una fase di stallo prolungata».
Nel breve, fa notare Fabio Balboni, economista di Hsbc, «un governo tecnico di transizione potrebbe essere una opzione molto meno rischiosa rispetto all’incertezza di elezioni anticipate dato che queste ultime potrebbero portare qualche possibilità di avere un partito populista al potere. Dal punto di vista politico lo scenario temporaneo potrebbe non essere troppo diverso da quanto Renzi sarebbe stato comunque in grado di realizzare».
Gli investitori quindi, fanno capire gli operatori finanziari, dovrebbero assumere posizioni più precise solo una volta capito chi arriverà a Palazzo Chigi e con quale mandato: fino a quel momento ogni azzardo è bandito anche se la maggior parte degli osservatori sembra già dare per molto probabile l'arrivo di un esecutivo di transazione piuttosto che un ritorno alle urne.
Oxford Economics stima al 65% la probabilità della formazione di un nuovo governo. Potrebbe essere un esecutivo di larghe intese (tipo quello di Letta), quindi con il Pd, il Centro-destra ma esclusa la Lega (50% di probabilità), oppure un nuovo Governo con l'attuale maggioranza, ma un altro premier (25%) oppure un 'Renzi 2' (25%). La possibilità di nuove elezioni a inizio del 2017 viene, dunque, vista al 35% e anche in questo caso è ritenuto più probabile l'esito di un governo di ampie intese (60%), seguito da un governo di minoranza (25%), mentre sono viste solo al 5% ciascuna le possibilità di un Governo Pd, oppure 5 Stelle oppure di centro destra.
L'incognita vera per gli operatori finanziari è la questione Mps visto che l'istituto senese è nel pieno di una delicata operazione di ricapitalizzazione per la quale è decisiva la disponibilità a investire di investitori internazionali: «Il rischio vero è il Monte dei Paschi di Siena - afferma Umberto Borghesi gestore del fondo Atlante Target Italy diAlbemarle Am - perché è facile pensare che gli investitori stranieri che stavano pensando a un intervento nell’aumento di capitale si tirino indietro, occorrerà quindi una risposta netta sia essa l’intervento pubblico, il ricorso al bail-in o altro. Anche se ci fosse un governo di transizione nessuna forza politica può assumersi la responsabilità di un fallimento per quanto riguarda il Monte dei Paschi». «La partita più complessa rimane quella sull'aumento di capitale di Mps» si allinea Intermonte aggiungendo che il comparto finanziario guarderà ora al meeting della Bce del prossimo 8 dicembre mentre sull'azionario si tenderà a mettere in stand-by i titoli del comparto puntando invece su titoli di società attive in business difensivi o maggiormente esposti verso mercati globali rispetto a quello domestico.
Puntare sui titoli delle società esposte verso gli Usa, su quelli delle utilities difensive e sulle small cap con bilanci solidi e orientate all'estero. E' invece «inevitabile una pressione delle vendite di breve termine sulle banche». Ad indicarlo è anche l'analisi di Mediobanca Securities sulle ripercussioni in Borsa della vittoria del No al referendum costituzionale e delle dimissioni di Renzi. Poiché l'esito del referendum contribuirà al rafforzamento del dollaro verso l'euro, il consiglio è di puntare sulle società esposte agli Usa con una bassa correlazione al ciclo, come i produttori di auto (Ferrari e Cnh), le industrie farmaceutiche (Diasorin), le aziende del lusso o dei beni di consumo come Ferragamo, Campari o Amplifon.
Un'altra opportunità viene dalle utilities difensive, dopo le recenti vendite: si tratta delle reti di distribuzione o trasporto di energia (come Snam e Italgas), oppure delle infrastrutture di trasporto (Atlantia e Enav) o delle torri di trasmissione. Lo studio accende anche i riflettori sulle small caps, con un solido bilancio e una bassa esposizione alle dinamiche del mercato nazionale, quali Danieli, Prysmian, Ima e Buzzi. D'altro canto le dimissioni di Renzi comportano un rischio legato all'avvicinarsi del rinnovo del management (primavera 2017) per società quali Eni, Enel Enav, Poste, Leonardo e Terna. Sul fronte bancario,«l'instabilità politica è chiaramente un significativo catalizzatore negativo», visto che i tentativi delle banche italiane per risolvere il problema dei crediti deteriorati tramite recapitalizzazioni potrebbero essere ostacolati dal vuoto di potere che terrebbe lontani gli investitori internazionali. Non aiuta inoltre la temporanea sospensione della riforma delle popolari in un settore che ha un'urgente necessità di chiarezza.
Una vittoria netta del No nel referendum non era attesa e per questo neppure «prezzata» dalle quotazioni delle banche italiane. Lo afferma un report di Credit Suisse che sottolinea come l'esito delle urne potrebbe portare instabilità e ulteriore incertezze per il settore italiano del credito. «Negli ultimi tre mesi quest'ultimo in Borsa ha fatto peggio del 13% rispetto alla media Ue; inoltre le banche italiane sono a sconto rispetto a quelle continentali - sottolinea la banca d'affari - ma un'ampia vittoria del no non è stata ancora scontata dalla Borsa».
In più, aggiungono, «Unicredit si appresta ad annunciare un aumento da 10-13 miliardi, tra il 76 e il 100% dell'attuale capitalizzazione: un obiettivo già di per sè non facile che l'attuale incertezza politica non aiuta». Secondo Credit Suisse, più in generale, i nostri istituti attualmente hanno a che fare con vari nodi: ricapitalizzazioni, alti stock di Npl, bassa profittabilità, cambio del modello di business, consolidamento e ristrutturazioni. Un eventuale scenario di elezioni anticipate potrebbe generare rischi di potenziali bail in, di un aumento del rischio a livello sistemico e di un incremento dei costi di finanziamento a seguito di possibili declassamenti da parte delle agenzie di rating.
In ogni caso, secondo i broker internazionali, il bivio tra la procedura di bail-in e l'intervento pubblico per salvare le banche italiane in difficoltà si fa più vicino dopo la caduta del governo Renzi. Nel caso in cui l'incertezza politica in Italia dovesse allontanare il piano A per il rafforzamento patrimoniale degli istituti di credito maggiormente a rischio, primo fra tutti il Monte dei Paschi, secondo la stessa Credit Suisse, sono tre le strade percorribili con il ricorso al bail-in ritenuto lo scenario «più probabile in quanto conforme alle regole attuali» ma anche il peggiore poiché «potrebbe aumentare i rischi di una corsa agli sportelli». L'approccio più flessibile, per gli analisti svizzeri, sarebbe invece quello contemplato dall'articolo 32 della Bank Recovery and Resolution Directive che prevede l'intervento pubblico in risposta a «una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro» e per «preservare la stabilità finanziaria»: questa opzione, che potrebbe scattare in caso di stress test o asset quality review con esito negativo per un istituto, è ritenuta però molto improbabile. Un'ultima strada «parzialmente flessibile» per Credit Suisse sarebbe concedere da parte delle autorità regolamentari di posporre le ricapitalizzazioni anche se questa ipotesi non sarebbe del tutto positiva in quanto non eliminerebbe l'incertezza pur riducendo i rischi immediati.
Per Goldman Sachs invece la via dell'intervento pubblico per Mps è in ascesa dopo l'esito del referendum costituzionale in Italia poiché cala la possibilità di un successo nella ricapitalizzazione attraverso il mercato anche se bisognerà attendere i dati ufficiali sulla conversione dei bond e l'esito delle trattative con i potenziali investitori istituzionali disponibili a entrare nella banca senese. Per gli analisti di Goldman, l'applicazione del "bail-in" data la sua controversia è meno probabile rispetto all'intervento pubblico che potrebbe invocare le eccezioni previste dall'articolo 32 della Brrd.

da www.ilsole24ore.it

Le prime pagine dei principali quotidiani italiani sul referendum

Il Corriere della Sera. In Italia "la democrazia è viva" scrive Massimo Franco nel suo fondo sul quotidiano milanese, guardando ai dati sull'affluenza. "Il risultato è la bocciatura di un'intera fase politica, che l'annuncio di dimissioni del premier sigilla". Secondo l'editorialista, "il rottamatore è stato colpito da quello che pensava fosse il suo popolo. Ma dire che è una vittoria del populismo contro l'establishment suona riduttivo". Sul voto ha influito una miscela di fattori, dall'ostilità contro Renzi alla voglia di difendere la Costituzione, fino al rifiuto di forzature parlamentari. Secondo Franco dal voto "è arrivato un messaggio di protesta, ma anche di grande responsabilità", responsabilità che ora si richiede a tutte le parti in causa, in primo luogo al Governo, per cui "toccherà, in primo luogo al capo dello Stato, Sergio Mattarella, fare in modo che il governo e Renzi interpretino al meglio il responso popolare, senza tentare improbabili rivincite".
La Repubblica. Il direttore Mario Calabresi segnala "l'affluenza straordinaria" al voto, rammenta l'errore di Renzi con "la malaugurata idea di trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso, in una sorta di incoronazione" e guarda con preoccupazione al futuro. "Ora la realtà è il rischio di un ritorno alla palude e all’instabilità. Uno scenario di cui l’Italia non ha proprio bisogno. Cominceremo subito a fare i conti con l’instabilità, quanto siamo vulnerabili ce lo diranno i soliti indici (spread e Borse) e dobbiamo sperare in un governo provvisorio che in tempi brevissimi abbia la forza di rassicurare e di mettere in sicurezza le banche. Se ciò non accadrà il prezzo non lo pagherà la finanza ma ogni risparmiatore italiano, ogni possessore di case con un mutuo e ognuno di noi. Non si vede all’orizzonte nessuna idea forte per rispondere alla crisi del Paese".
Il Fatto Quotidiano. Il referendum del 2016 ricorda quello sul divorzio del 1974. A scriverlo è Antonio Padellaro, ricordando una frase di Pietro Nenni: hanno voluto contarsi, hanno perso. Secondo Padellaro, Renzi "poteva accontentarsi di governare il Paese fino alla scadenza della legislatura del 2018. Ma una perniciosa bulimia di potere gli ha suggerito l'idea di accaparrarsi l'intero piatto". Ma il premier "è stato sommerso da un plebiscito", "la più pesante delegittimazione" possibile, "ha voluto la conta e ha perso tutto". Per Marco Travaglio "nel nuovo referendum Monarchia-Repubblica, 70 anni dopo quello del 1946, ha rivinto la Repubblica. E con un distacco abissale, plebiscitario". Impegnato in prima linea per il No, il direttore segnala che il Fatto Quotidiano si è ritrovato "solo a difendere la Costituzione, per il tradimento di buona parte del mondo intellettuale, culturale e artistico", ma è riuscito a farcela. "La Costituzione, grazie a una provvidenza laica che si serve anche di alleati insospettabili e persino impresentabili, si è salvata un'altra volta. E ha salvato tutti noi - conclude - Anche chi voleva rottamarla".
La Stampa. Il direttore Maurizio Molinari scrive di un "popolo della rivolta" che manda a casa il premier con una "spallata". A votare No sono le famiglie del ceto medio impoverito, i giovani senza lavoro, gli operai: per questo "servono in fretta risposte chiare alle crisi all'origine della risposta del ceto medio". Secondo Marcello Sorgi si apre "una crisi senza precedenti" molto difficile da gestire per Sergio Mattarella, che si trova davanti a poche ipotesi. Per l'editorialista del quotidiano torinese è Piero Grasso l'uomo con più chance di superare l'impasse politica e traghettare il Paese in questa fase.

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