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Italia: vizi e virtù. I governi centristi (1953-1960).


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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2.9 I governi centristi (1953 - 1960)
Il 29 marzo del 1953, il settimo governo De Gasperi riesce a far passare quella legge elettorale sensata e profetica, che aveva progettato dopo le amministrative del 1952, e che fu definita da Pajetta "legge truffa". Essa introduce un premio di maggioranza per il raggruppamento che raccoglie più del 50% dei suffragi. Afferma ancora Taviani «C'era un obiettivo preciso: catalizzare la lotta fra il centro e la sinistra e sbarrare la strada alla destra che conteneva preoccupanti tracce di fascismo».
Le cose non vanno come i democristiani sperano; alle elezioni del 7 giugno 1953 la Dc e i suoi alleati (socialdemocratici, repubblicani e liberali), ottengono il 49,85% dei voti; la sconfitta viene principalmente da quella destra che la legge elettorale avrebbe voluto sterilizzare. Il partito nazionale monarchico passa, infatti, dal 2,8 al 6,9% e l'Msi dal 2 al 5,8%, confermando la capacità della destra reazionaria di raccogliere i voti della protesta generica e qualunquista.
de gasperi
Alcide De Gasperi

Con queste elezioni fallisce il tentativo di introdurre in Italia un sistema bipolare; in questa sconfitta del maggioritario, e con esso della possibilità di esprimere esecutivi autorevoli e non in balia della rissosità e dei mercanteggiamenti delle camere, va ricercata la radice dei processi degenerativi della repubblica, che hanno condotto alla partitocrazia e al consociativismo, prima, a tangentopoli, poi.
Giova notare che oggi, 2017, non è accettata dai partiti una legge che prevederebbe:
-premio di maggioranza di 340 seggi (55% dei seggi, esclusi gli eletti nella circoscrizione Estero) alla lista (non alla coalizione) in grado di raggiungere il 40% dei voti al primo turno;
- soglia di sbarramento unica al 3% su base nazionale per tutti i partiti, non essendo più previste le coalizioni.
Come si vede dopo più di sessanta anni non si vuole ancora accettare la possibilità che dalle elezioni esca una soluzione di governabilità.
Le elezioni del 1953 confermano la supremazia del Pci rispetto allo Psi, che inizia a rendersi conto che l'alleato lo sta inesorabilmente assottigliando. Pietro Nenni avvia una consultazione separata con De Gasperi e afferma alla Camera che, a determinate condizioni, lo Psi potrebbe appoggiare un governo di "apertura a sinistra"; questa volta non se ne fa nulla, ma si sono creati i presupposti per lo sganciamento dal Pci.
nenni
Pietro Nenni

Dopo il tentativo fallito dall'ottavo De Gasperi (16 luglio 1953- 22 agosto 1953), viene costituito il monocolore "d'affari", guidato da Giuseppe Pella, che raccoglie il voto favorevole di Pri, Pli e monarchici, e l'astensione di Psdi e Msi (22/8/53-10/2/54). È il primo "governo del presidente" della storia della repubblica, poiché è voluto da Einaudi, senza consultare i partiti, sotto l'incalzare della crisi con la Yugoslavia per la "questione di Trieste".
A seguito del gelo tra Mosca e Belgrado, gli alleati mostrano di tergiversare davanti alle pretese della Yugoslavia su Trieste e Pella compie due gesti che gli guadagnano l'appoggio della destra e la neutralità della sinistra: manda le truppe italiane alla frontiera con Trieste e minaccia di uscire dalla Nato (Zavoli, 1999). Pella però non si è mai preoccupato troppo delle beghe di partito e questo lo ricambia trattandolo con ostilità, cosicché, il 5 gennaio 1954, insofferente per le pressioni provenienti dall'interno del suo partito, Pella dà le dimissioni.
Dopo il tentativo del 1° Fanfani (12/1/54-10/2/54), che cerca di ingraziarsi destra e sinistra, con un monocolore Dc, e che non ottiene il voto né dagli uni né dagli altri, viene costituto il governo Scelba (Dc, Psdi, Pli e appoggio esterno del Pri; 10/2/54-6/7/55) o del "centrismo di ferro. Il governo di Mario Scelba poteva sembrare un desiderio di continuità con il passato degasperiano. Ma esso è solo l’epilogo di una stagione politica; i “professorini” e una nuova generazione di democristiani insidia la “vecchia” classe dirigente.
Intanto l'azione condotta dalla Dc per rompere il blocco di destra ha successo; l'Msi viene emarginato e Achille Lauro, in cambio di agevolazioni per la sua flotta e mano libera per il "reame" di Napoli, provoca la scissione del Pnm e fonda il partito monarchico popolare.
Scelba diventa il motore della politica anti-comunista, il cacciatore di streghe italiano, l'organizzatore delle forze di polizia. Di converso, attua una linea di leggera apertura a sinistra, includendo nel governo Vanoni e affidando tre ministeri economici allo Psdi. Dopo la sconfitta del gennaio '54, Fanfani matura la convinzione che i tempi siano maturi per assumere il controllo della Dc; le condizioni sono favorevoli.
Nel settembre '53, è stato nominato segretario De Gasperi, ma l'uomo è sfiduciato, stanco, malato e convinto che il tempo degli ex-popolari sia finito e che sia necessario un ricambio generazionale. De Gasperi, politicamente al declino, lo è anche fisicamente, il 19 agosto 1954 muore nella sua casa di Selva Valsugana. Gli italiani sentirono di di aver perso un uomo dotato di qualità speciali, un uomo sempre libero dagli schemi del partito e della Chiesa, che aveva preso l’Italia per mano e l’aveva portata dalla rovina della guerra verso il miracolo della rinascita. Con il quinto congresso, quello di Napoli, del 16 luglio '54, Iniziativa democratica (creatura di Mariano Rumor) riesce a far nominare segretario Amintore Fanfani, che presenta la propria candidatura con un programma imperniato su modernità, efficienza, sviluppo e riorganizzazione del partito.
2.9.1 Si chiude l’era degli ex-popolari
Questa transizione rappresenta uno snodo importante nella storia del partito. Si chiude, infatti, per la Dc, l'era degli ex-popolari e si apre quella dei democristiani della "seconda generazione", che rafforzano l'apparato interno e iniziano a cercare "più significative" linee di finanziamento. Queste vengono individuate nel settore pubblico, in quel cospicuo patrimonio di banche, industrie, servizi, che lo stato fascista ha lasciato in eredità alla repubblica.
Il cerchio si chiude quando il ministro delle partecipazioni statali, Giulio Pastore, fa uscire le aziende pubbliche dalla Confindustria e le riunisce in Intersind, creando un canale privilegiato tra aziende dello stato, Dc (in particolare sinistra Dc) e sindacato. Fanfani riesce a farsi finanziare abbondantemente anche dall'Eni di Mattei e dagli Usa, sfruttando l'anticomunismo viscerale della signora Claire Boothe Luce. Ricorda Cossiga «Fu Fanfani a cambiare il sistema di finanziamento economico della Dc e questa fu considerata una grande conquista democratica. … In pratica si transitò dai finanziamenti elargiti dalla Fiat o dalla Confindustria, e in genere dalle industrie private, al finanziamento degli enti di stato» (Cossiga, 2000).
Si chiude il periodo della Dc, partito "leggero", guidato da segretari, come Attilio Piccioni, Paolo Emilio Taviani, Guido Gonella, sempre in posizione subordinata al presidente del consiglio e alla delegazione ministeriale, e si apre l'era del partito "pesante", che si appresta a colonizzare ogni settore della vita del Paese. A un partito ben strutturato come il Pci, la Dc risponde rafforzandosi dal punto di vista organizzativo ed economico; la Dc non ritiene più sufficiente lo spontaneismo di azione cattolica, Acli e Clero.
Nell'aprile del '53, Clara Boothe Luce era stata nominata, dal presidente Dwight Eisenhower, ambasciatrice a Roma; cattolicissima, amica di Gedda, irruente e arrogante, ma sprovveduta e maldestra, cerca di interferire in ogni modo nella politica italiana per ottenere la partecipazione della destra monarchica ai governi. Di converso in quegli anni due personaggi si battono contro la politica americana; Enrico Mattei, presidente del neonato Ente nazionale idrocarburi (Eni) e Giovanni Gronchi, nominato il 29 aprile 1955 Presidente della repubblica con il voto di Pci e Msi, e grazie all'indisciplina della Dc (che non vota per il candidato ufficiale, Cesare Merzagora, perché troppo laico e troppo poco democristiano).
Il primo sfida le multinazionali americane, cambiando le regole del gioco nelle trattative con i paesi arabi, il secondo sviluppa una politica personale nazional-terzomondista e di equidistanza tra i blocchi. Nell'aprile del 1954, Giovanni Malagodi, che ritiene di ritagliarsi uno spazio politico facendosi portavoce della borghesia preoccupata di una collaborazione tra Dc e Psi, viene nominato segretario del Pli. La sinistra del partito, buona parte della Gioventù liberale e gli intellettuali, che si raccolgono attorno a “Il Mondo” di Mario Pannunzio, escono dal Pli per fondare, poco dopo, il Partito radicale.
Nel frattempo, la fondazione dell'Eni nel '53, la riforma dello statuto dell'Iri nel '54, la concessione della costruzione e gestione dell'autostrada del Sole all'Iri e la creazione del ministero delle partecipazioni statali nel '56, l'accordo dell'Eni con lo scià Reza Palhavi, per lo sfruttamento del petrolio iraniano, la concessione all'Iri del sistema telefonico su tutto il territorio nazionale nel '57, la fondazione di Intersind, l'associazione imprenditoriale delle imprese pubbliche nel '58, sono il segno di una volontà politica molto precisa: affidare allo stato le grandi costruzioni e la grande industria.
Confindustria reagisce a queste iniziative, parla di economia di stampo comunista, minaccia di togliere l'appoggio alla Dc, e favorisce palesemente i liberali di Giovanni Malagodi, che diventa il paladino degli interessi dei grandi gruppi. Le intenzioni dei fautori di un'economia mista, potevano essere anche buone, i vari Ugo La Malfa e Saraceno ritenevano necessario rompere i monopoli privati e affidare allo stato le grandi infrastrutture, ma gli aspetti negativi di questa politica non tarderanno a manifestarsi. Invece di rompere l'assetto monopolistico dei grandi gruppi privati, la politica delle partecipazioni pubbliche crea un assetto monopolistico pubblico; grazie ai fondi di dotazione e alla cooptazione partitica del management, le industrie di stato si trasformano in terreno di battaglia tra le baronie politiche.
Nel biennio '55-'56 si assiste a una sorda lotta di potere, nella Dc, tra la segreteria, retta da Fanfani, la presidenza del consiglio (Scelba, alleato con Pastore) e il gruppo Concentrazione ispirato da Gronchi. Dopo una strenua resistenza, Scelba, il 2 luglio ’55, deve rassegnare le dimissioni; la segreteria e Concentrazione raggiungono un compromesso sulla candidatura Segni, che presiede il quadripartito "d'attesa" dell'accordo con i socialisti (6/7/55-19/5/57). Il governo "non respinge pregiudizialmente" il voto dei socialisti, potenzia l'intervento pubblico nell'economia, rafforza la posizione monopolistica dell'Eni (11 gennaio '57), e crea il ministero delle partecipazioni statali (22 dicembre '56), la cui nascita consente il distacco delle aziende dell'Iri dalla Confindustria (emendamento Pastore). Il nuovo ministero viene affidato, inizialmente, a Giuseppe Togni, legato alla Confindustria, ma la nomina è solo un'operazione cosmetica fatta per gettare fumo negli occhi della borghesia imprenditoriale.
Con il successivo governo Zoli (19/5/57-1/7/58), l'incarico verrà affidato a Giorgio Bo, legato a Mattei e forte sostenitore dell'intervento pubblico. Mentre Segni avvia una politica di concessioni alla sinistra, Fanfani si dedica al potenziamento organizzativo della Dc, che gli consente di arrivare, nell'ottobre '56, al VI congresso, su posizioni di forza e con un programma volto a un maggior intervento del governo nell'economia, allo scopo di correggere «l'ispirazione materialistica del capitalismo».
I vecchi leader non ci sono più: De Gasperi e Vanoni sono morti, Gronchi è al Quirinale, Scelba, Gonella e Pella sono oramai dei "notabili". I nuovi leader sono raggruppati in Iniziativa democratica (primo eletto Fanfani), Forze sociali (primo eletto, Pastore), Base (primo eletto, Sullo), Primavera (primo eletto, Andreotti). Il congresso di Trento, dell’ottobre 1956, segna il punto di massimo potere di Fanfani; ma, da quel momento, inizia la sua discesa, che si concluderà con la nascita del doroteismo.
La politica di Fanfani ha cercato di coniugare il progetto dossettiano con il capitalismo di casa nostra; nella realtà dei fatti il progetto di Dossetti si è trasformato nell'acquisizione di un potere economico, da parte della Dc, che la grande industria privata ha barattato, in cambio di condizioni monopolistiche e di sussistenza. L'assenza di una libera concorrenza, in Italia, se consente, da un lato, di avviare una stagione di soddisfacente tranquillità nelle grandi fabbriche, innesca un processo di perdita di capacità imprenditoriali, che condurrà il Paese, nel nuovo millennio, nell'era delle grandi sfide globali, alla quasi totale assenza della grande industria. Nel 2011 saranno solo due le società italiane tra le top hundred della classifica Brand index dei marchi: Telecom (75°) e Tim (95°).
Il 1956 si apre con la denuncia, da parte di Nikita Chrušcëv, durante il XX Congresso del Pcus, del culto della personalità e dei crimini commessi da Stalin; Togliatti, presente al congresso, cerca di incanalare "morbidamente" le notizie verso il Pci, ma, il New York Times pubblica interamente il rapporto segreto delle denuncie di Chrušcëv. All'interno del Pci si fa viva una certa contestazione, specie quando Togliatti sostiene che la responsabilità delle denuncie di Chrušcëv era del popolo russo che aveva permesso a Stalin di diventare un "Dio" o quando dichiara, mentendo, di essere all'oscuro dei crimini commessi in Unione Sovietica. La contestazione resta, però, limitata a pochi dirigenti e intellettuali.
In giugno, gli operai polacchi, a Poznan, si sollevano contro il Poup (partito operaio unificato polacco) e il Pci archivia l’argomento come una provocazione degli anticomunisti, in ottobre insorgono gli ungheresi, che, il 27 ottobre 1956, a furor di popolo, chiamano al governo Imre Nagy. Togliatti parla di «complotti del capitalismo internazionale» e di «terrore bianco». Il 6 novembre '56, dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria e l'impiccagione di Nagy, Nenni restituisce il premio Stalin, rinnegando clamorosamente il patto d'azione con il Pci per il quale tanto si era battuto. Tra gli intellettuali vi fu una reazione indignata e un “Manifesto dei 101”, ma il Congrsesso del partito, qualche mese dopo approvò entusiasticamente la relazione del “migliore”.

2.9.2 La rivoluzione ungherese
Il 23 ottobre 1956 circa 200 mila studenti e operai scendono per le strade di Budapest, sfilano in solidarietà con i lavoratori polacchi di Poznan e con il politico Wladyslaw Gomulka, da poco riabilitato e portatore di una ventata di riforme nella vicina Polonia. La scintilla della rivolta ungherese, che divampa rapidamente in una rivoluzione anti sovietica capace di scuotere l’establishment stalinista, irrompe in piena guerra fredda in uno scenario internazionale potenzialmente esplosivo, a Est la condanna dei crimini di Stalin, denunciata da Kruscev, alimenta speranze di cambiamento, mentre a Ovest l’Egitto di Nasser, con la nazionalizzazione del Canale di Suez, tiene da mesi sotto scacco l’Europa.
«Dopo Berlino-Est Poznan, dopo Poznan Varsavia, dopo Varsavia Budapest. Dieci anni di regime comunista o “democratico popolare” non sono bastati a spegnere, nelle popolazioni dell’Europa Orientale, la volontà di essere libere. Non appena la morsa di ferro dello stalinismo si è un po’ allentata, il fuoco sopito ma non spento, della rivolta, è divampato» scrive Arrigo Levi sulla prima pagina del Corriere all’indomani dello scoppio dell’insurrezione. A organizzare la manifestazione sono gli studenti e gli intellettuali del Circolo Petofi. Pochi si aspettavano un’affluenza così numerosa e nel pomeriggio il corteo si spinge fino al Parlamento reclamando a gran voce un discorso del popolare ex primo ministro Imre Nagy, che aveva alle spalle un lungo trascorso comunista ma, colpevole di aver sfidato la dirigenza stalinista, era stato cacciato dal governo e anche dal Partito.
La protesta diventa un ciclone inarrestabile che in poche ore mina l’assetto politico e sociale ungherese. L’arresto di alcuni studenti, che chiedevano di leggere in diretta radiofonica le rivendicazioni della piazza, scatena l’assalto al palazzo della radio nazionale. La risposta violenta della polizia non si fa attendere. In un lampo milioni di ungheresi si uniscono alla sommossa, gli scontri dilagano rapidamente in tutto il Paese, la folla senza freni abbatte i simboli dell’imperialismo sovietico, e la grande statua di Stalin, che domina il parco di Budapest, viene ridotta in pezzi. Nel tentativo di placare l’insurrezione, il Comitato centrale del Partito cambia decisamente rotta, richiama al Governo Imre Nagy e nomina János Kádár nuovo Segretario del Partito, ma invoca anche l’aiuto dell’Armata Rossa. Il Corriere riporta il discorso del neo premier Nagy: «Compagni ungheresi, amici miei, sto parlandovi da una posizione di responsabilità. Come sapete ho assunto la Presidenza del Governo...La base di questo programma è lo sviluppo della democratizzazione della nostra vita pubblica in Ungheria, lo sviluppo del socialismo in conformità con le nostre proprie condizioni...e il miglioramento del livello di vita del popolo lavoratore».
Il Corriere, il 24 ottobre, titola a lettere cubitali «BUDAPEST BOMBARDATA» e affida il fondo ad Augusto Guerriero, che firma con lo pseudonimo Ricciardetto: «Che sta succedendo a Budapest? Niente altro che la rivoluzione. L’insurrezione finirà fatalmente con l’essere soffocata...Ma il fatto imponente è che il popolo ungherese sia insorto contro l’oppressione russa». I carri armati sovietici circondano la capitale e la battaglia esplode feroce nelle vie di Budapest, i morti non si contano e gli animi s’infiammano, gente armata assalta le sedi della polizia segreta, le esecuzioni sommarie di filo-sovietici e agenti della polizia politica dell’Avh sono all’ordine del giorno. Nel vortice degli eventi l’esercito ungherese è profondamente diviso, una parte appoggia l’intervento armato russo, altri si rifiutano apertamente di sparare contro i rivoltosi, viene proclamato lo sciopero generale e nascono in tutto il Paese i Consigli Operai che chiedono il ritiro delle truppe di Kruscev e libere elezioni.
In occasione del 60° anniversario dalla rivolta ungherese, il Craf di Spilimbergo presenta a Maniago e all’Accademia d’Ungheria di Roma il reportage realizzato dal fotografo Mario De Biasi nell’autunno del 1956 a Budapest per il settimanale Epoca, diretto allora da Enzo Biagi. Una mostra fotografica introdotta da un convegno alla presenza di Péter Paczolay, Ambasciatore d’Ungheria presso il Quirinale. 76 immagini in bianco e nero, testimonianza intensa e unica dei fatti che infiammarono la capitale ungherese nell’ottobre-novembre del 1956. Nella foto i ribelli per le strade di Budapest.
De Biasi fu inviato a Budapest pochi giorni dopo l’esplosione della rivolta per le strade della capitale ungherese, unico fotografo insieme a Erich Lessing a documentare l’ingresso dei carri armati sovietici, gli spari sulla folla e la reazione inferocita dei manifestanti, i morti impiccati e il dolore della popolazione.
L’Europa assiste agli eventi col fiato sospeso e in Italia si vive lo scontro frontale tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, mentre un gruppo di intellettuali vicini al partito comunista, in aperto contrasto con il segretario Togliatti schierato coi sovietici, diffonde il «Manifesto dei 101» a sostegno degli insorti ungheresi. «Erano in centouno, giovani e forti, tutti comunisti ma non disposti a vendere l’anima per la maggiore gloria dell’Urss. Si ribellarono, in quei giorni tragici dell’invasione ungherese, e dissero no — addirittura — a Togliatti. Così attaccarono per la prima volta il muro di ortodossia ideologica del Pci, e fu un colpo di martello contro il muro del totalitarismo marxista-leninista» scrive Dario Fertilio sul Corriere.
Mosca diffonde comunicati stampa che accusano «agenti occidentali di aver istigato la rivolta ungherese» e invia gli ambasciatori Anastas Mikoyan e Mikhail Suslov, ma la situazione precipita nuovamente il 25 ottobre, quando nella piazza davanti al parlamento, gremita di folla e di soldati russi, vengono sparati alcuni colpi. La risposta dei militari che imbracciano le armi lascerà per le strade decine di corpi. Il bagno di sangue sembra inevitabile. Nei giorni drammatici dell’attacco sovietico, la diplomazia ungherese tratta un negoziato con il Cremlino e il 27 ottobre Radio Budapest annuncia l’armistizio e il cessate il fuoco. «In pieno accordo con la presidenza del partito dei lavoratori, il Governo nazionale ungherese ha deciso di adottare misure decisive per la vita del Paese. Nell’interesse di un ulteriore democratizzazione del nostro Paese, e insieme con l’abolizione del sistema del partito unico, noi collochiamo il Governo sulle stesse basi del 1945. Epoca della coalizione dei partiti democratici» sono le parole del Premier che inaugura un nuovo corso riformista.
Nagy — oltre ad aprire il governo a una coalizione di più partiti — scioglie la terribile polizia segreta ÁVH e proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. I patrioti insorti liberano il cardinale József Mindszenty, tenace oppositore del regime comunista che dal 1948 era agli arresti. Il fermento corre in tutto il Paese e prendono corpo sindacati e giornali che il regime stalinista di Ràkosi aveva abolito. «Scrivo da Budapest dove l’insurrezione contro i russi si è trasformata in una vera rivoluzione contro il comunismo» è il racconto dell’inviato del Corriere Alberto Cavallari. «Ho attraversato la città di notte, ho sperimentato come sia controllata da nugoli di patrioti, come essa sia ormai un formicaio di uomini che vogliono la libertà». E aggiunge: «L’insurrezione non è stato un affare interno del comunismo. Il comunista deviazionista Nagy ogni giorno deve fare un passo indietro sotto la spinta dei rivoltosi».
A fine ottobre viene fissato un cessate il fuoco tra le autorità del neonato governo ungherese di Nagy e quelle di Mosca, ma nel frattempo sta cambiando il quadro internazionale: negli stessi giorni forze occidentali e israeliane attaccano l’Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez, e si fanno insistenti le voci di un possibile intervento americano in Ungheria. Di fronte al rischio di una controrivoluzione e dell’emulazione da parte di altri stati satellite, Kruscev deciderà infine di rompere il cessate il fuoco e spegnere definitivamente la rivoluzione ungherese.
Il 4 novembre l’Armata Rossa è alle porte di Budapest con 200 mila uomini e la rivoluzione ungherese ha ormai le ore contate. Il primo ministro Imre Nagy avrà solo il tempo per lanciare questo appello alla radio in varie lingue: «Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l'evidente intento di rovesciare il governo legittimo e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero».
Già in serata inizieranno gli arresti e Nagy, rifugiatosi nell'ambasciata jugoslava, verrà consegnato a tradimento ai sovietici, per poi esser giustiziato nel 1958. L’Ungheria tornerà a un regime filo-sovietico con il governo di Janos Kádár e, spenti gli ultimi focolai di rivolta, si celebreranno i processi — e le esecuzioni — contro i protagonisti della rivoluzione.
Il Paese tornerà all’indipendenza solo nel 1989 e potrà finalmente celebrare i martiri della rivoluzione del ’56, tra cui lo stesso Imre Nagy. Mentre bisognerà attendere ancora qualche anno e l’avvento di Boris Eltsin perché la Russia chieda perdono della sanguinosa invasione del ’56.
«La rivoluzione ungherese è nata acefala, senza programmi prestabiliti, senza piani preordinati. È un’autentica rivoluzione di popolo corale e spavalda, all’antica, una vera “pazzia”» è l’analisi dell’inviato Indro Montanelli. Se a Budapest gli effetti dello slancio rivoluzionario aprono nuove prospettive, a Mosca il Presidium del Comitato Centrale del Pcus affronta la questione spaccato tra fautori dell’attacco militare, capeggiati da Molotov, e i non interventisti, tra cui Kruscev. Anche se la preoccupazione di un effetto domino iniziava a diventare centrale: a sostegno della rivolta ungherese c’erano state manifestazioni a Varsavia, in Romania, a Bratislava — e persino a Mosca studenti e docenti erano scesi nelle strade contro l’intervento del 24 ottobre.
A ribaltare il quadro internazionale è il conflitto che scoppia nel Mediterraneo, quando Inghilterra e Francia, alleate con Israele, attaccano l’Egitto, fiancheggiato dai russi, e portano il mondo a un passo dalla terza guerra mondiale. «I più pessimisti giungono ad avanzare l’ipotesi che l’iniziativa russa a favore dell’Egitto sia da collegarsi a un mutamento di direzione del Cremlino, dove gli eventi ungheresi avrebbero esautorato Kruscev e ridato controllo al gruppo stalinista di Molotov e Kaganovich, appoggiato dai militari» scrive Ugo Stille, corrispondente del Corriere negli Stati Uniti. Mosca affronta col pugno di ferro i due fronti: il ministro della difesa Bulganin minaccia l’uso di «moderne armi distruttive», se da Francia e Inghilterra mancasse l’ok al cessate il fuco impartito dall’Onu, mentre sul versante ungherese Kruscev ottiene il consenso degli alleati del blocco sovietico e schiera ancora una volta l’Armata Rossa contro i ribelli con l’obiettivo di porre fine al governo del comunista riformatore Imre Nagy.
«Credo di poter raccontare con obiettività l’occupazione dell’Ungheria da parte dei russi avvenuta nelle ultime ventiquattr’ore. L’ho vista. Lungo la frontiera austro-ungherese questa notte è nata una seconda frontiera militare. La vecchia cortina di ferro che dodici giorni fa gli ungheresi avevano abbattuta con un coraggio da non dimenticare, questa notte è stata sostituita da una cortina di carri armati pesanti sovietici» è il drammatico resoconto di Alberto Cavallari datato 3 novembre 1956. «Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero». A poco valgono le parole allarmate del capo del Governo e le richieste di aiuto trasmesse dalla radio nazionale in molte lingue. Il 4 novembre 200.000 soldati sovietici e 4.000 carri armati entrano a Budapest. L’attacco, feroce, non lascia scampo alle disordinate truppe magiare. Solo gli operai e gli studenti guidati dai Consigli riusciranno a resistere all’avanzata dell’Armata Rossa, ma la potenza di fuoco sovietica avrà la meglio e saranno costretti alla resa il 10 novembre.
Il nuovo governo viene affidato al Segretario del Partito dei Lavoratori, János Kádár (carica che conserverà incontrastato fino al 1988). Nei giorni infuocati dell’attacco sovietico è stato catturato e portato a Mosca, messo alle strette sceglie di collaborare con Mosca e sarà determinante nella negoziazione con i Consigli degli operai. «Kadar era stato sin dapprincipio l’uomo di Mosca, oppure lo era diventato a repressione avvenuta per salvare il salvabile? Confesso che all’inizio io credetti alla prima delle due ipotesi, come risulta dalle mie corrispondenze. Poi, seguendo la sua azione politica e di governo, cominciai a dubitarne, e alla fine mi convinsi di aver sbagliato» scrive Indro Montanelli in una delle sue «Stanze» sul Corriere. Al premier Imre Nagy il Cremlino riserva invece una fine crudele, rifugiatosi nell’ambasciata jugoslava viene arrestato e portato al confino in Romania con altri dirigenti politici, ma due anni dopo verrà condannato a morte da un tribunale ungherese e impiccato il 16 giugno 1958 con il Generale Pal Maleter, Ministro della Difesa del Governo insurrezionale del 1956, e il giornalista, vicino al governo, Miklòs Gimes. Sulle strade ridotte a un campo di battaglia, cadranno oltre 2.600 ungheresi e più di 700 soldati sovietici, mentre un numero imprecisato di cittadini, pare oltre 200mila, lascerà il Paese per cercare asilo in Occidente. Si dovranno aspettare i grandi avvenimenti del 1989, perché i nomi di Imre Nagy, Pal Maléter, Miklòs Gimes, Géza Losonczy e Jozsef Szilagyi vengano completamente riabilitati e il loro patriottismo celebrato con un funerale di Stato in piazza degli Eroi.
Nel dicembre '56, Togliatti ordina l'espulsione dal Pci di Antonio Giolitti e altri quattro dirigenti «revisionisti» che chiedevano l'autonomia dal Pcus e una maggiore democrazia interna. Con l'apertura degli archivi sovietici emerge il ruolo di Togliatti nell'invasione dell'Ungheria; il leader del Pci, dopo la morte di Stalin, era diventato, infatti, nuovamente uno dei personaggi più influenti del comunismo internazionale: Togliatti in una lettera del 30 ottobre 1956 al Pcus sollecita esplicitamente l'intervento sovietico per impedire la vittoria delle forze reazionarie. Il segretario del Pci scriveva questa lettera mentre l'inviato del Corriere della Sera, Montanelli, fortuitamente a Budapest nei giorni dell'insurrezione, affermava che la rivolta nasceva dall'interno del mondo operaio.
Nel febbraio del 1957, il XXXII congresso dello Psi delibera che «In questa fase della vita del Paese, l'azione socialista è diretta a creare un'alternativa politica e di governo, e non esclude, anzi ricerca e sollecita, l'intesa con le forze laiche e cattoliche che abbiano comuni obiettivi democratici». Sono i primi vagiti della futura alleanza con la Dc, la quale, invece di tentare un incontro con chi le tende una mano, inizia a temporeggiare ed eccepire. Fanfani inventa la distinzione tra apertura «sociale» e «politica», consapevole che l'apertura allo Psi, che lo vede favorevole, non è, ancora, accettata dalla maggioranza del partito.
Il governo monocolore di Adone Zoli appoggiato da Msi, monarchici e liberali è osteggiato vivacemente da Fanfani, che spinge per una cauta, ma graduale apertura a sinistra come soluzione per cercare una maggiore stabilità di governo. Durante il consiglio nazionale di Vallombrosa, del luglio '57, Fanfani sostiene la necessità di coinvolgere i socialisti nel governo, ai fini di poter disporre di una più forte base politica per realizzare le riforme sociali, e isolare i comunisti. La destra Dc guidata da Scelba, Azione cattolica e gerarchie ecclesiastiche iniziano la fronda nei suoi riguardi.
Le beghe italiane sembrano ciacchierte di piccoli uomini al confronto della tragedia che si è consunata in Ungheria.
2.9.3 La Chiesa post conciliare
Il 28 ottobre 1958, è eletto papa Angelo Giuseppe Roncalli , patriarca di Venezia con il nome di Giovanni XXIII; i vaticanisti diagnosticarono che sarebbe stato un papa di transizione, così bonario e anziano, com’era. Inizialmente, il papa sembra proseguire sulla linea pacelliana, infatti, nel 1959, rinnova la scomunica nei riguardi dei comunisti. Successivamente, si rende conto della necessità di ricostruire i collegamenti con gran parte del popolo italiano e inizia una cauta politica verso la gerarchia ecclesiastica per un'apertura ai socialisti. Il pontificato di Angelo Roncalli sarà caratterizzato, definitivamente, sia dalla rottura con la tradizione pacelliana, sostenendo il non intervento nelle faccende della politica italiana, con il riconoscimento, anche per i non credenti, dell'appartenenza a Dio e a Cristo, mostrando tolleranza verso le altre religioni, sia dai contrasti con la Cei, che opera spesso per vanificare le riforme giovannee. Alla crociata di Pio XII contro il comunismo e i comunisti Roncalli sostituisce la distinzione tra l’errore e l’errante, inescusabile il primo, scusabile il secondo. La Chiesa post-conciliare non è più un potere lontano e inavvicinabile, ma è il "popolo di Dio"; essa esercita un grande fascino su credenti e non credenti, ma porta anche a forme di temporalizzazione della fede, a un prevalere dell'impegno politico e sociale sull'identità religiosa, a casi di insubordinazione, a un anti-capitalismo radicale, al classismo esasperato. La restaurazione ortodossa, nei movimenti laici, dovrà attendere il 1969, quando don Luigi Giussani darà vita, a Milano, al gruppo Gioventù studentesca e successivamente a Comunione e liberazione.

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Eugenio Caruso - 22 febbraio 2017

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www.impresaoggi.com