In Italia nel 2016 si contano circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro, ovvero dove non ci sono occupati o pensionati da lavoro. Lo rileva l’Istat nel Rapporto annuale. Si tratta del 13,9% del totale, con la percentuale più alta che si registra nel Mezzogiorno (22,2%). Nel 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila, il 13,2% del totale. «La ripresa, a causa dell’intensità insufficiente della crescita economica, stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione» ha detto il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, nella presentazione del Rapporto annuale al Parlamento. E ha aggiunto: «L'Italia ha consolidato il processo di ripresa iniziato nel 2015», ma «nella fase di ripresa attuale il processo di crescita stenta tuttavia ad affermarsi pienamente».
Una delle conseguenza della crisi e della mancanza di lavoro è cristallizzata dal fatto che quasi sette giovani under35 su dieci vivono ancora nella famiglia di origine. L'Istituto spiega che nel 2016 i 15-34enni che stanno a casa dei genitori sono precisamente il 68,1% dei coetanei, corrispondenti a 8,6 milioni di individui.
Ma l’Italia è ancora maglia nera nella Ue anche per i Neet, acronimo inglese che sta per giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione (Not in Education, Employment, Training) . Anche se sono scesi a 2,2 milioni nel 2016, con un’incidenza che passa al 24,3% dal 25,7% dell’anno prima. Nonostante il calo si tratta ancora della quota «più elevata tra i paesi dell’Unione» europea, dove la media si ferma al 14,2%.
L’Istat traccia una nuova mappa socio-economica dell’Italia, dividendo il Paese in nove gruppi in base al reddito, al titolo di studio, alla cittadinanza e non guardando così più solo alla professione, come nelle tradizionali classificazioni. I due sottoinsiemi più numerosi sono quelli delle “famiglie di impiegati”, appartenenti alla fascia benestante (4,6 milioni di nuclei per un totale di 12,2 milioni di persone) e delle “famiglie degli operai in pensione”, fascia a reddito medio (5,8 milioni di nuclei per un totale di oltre 10,5 milioni di persone). Per l'Istat il gruppo più svantaggiato economicamente è quello delle “famiglie a basso reddito con stranieri” (1,8 milioni di nuclei pari a 4,7 milioni di persone), seguono le “famiglie a basso reddito di soli italiani” (1,9 milioni di nuclei che comprendono 8,3 milioni di soggetti).
La nuova mappa nasce dall'esigenza di tenere conto anche della popolazione non occupata e soprattutto dalla necessità di ricalibrare le stratificazioni
socio-economiche, viste le frammentazioni in atto. Oggi infatti, fa notare l'Istituto, la «classe operaia ha perso il suo connotato univoco» e «la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali». In sostanza si sono persi i nuclei della classe operaia e della piccola borghesia.
La fotografia scattata dall’Istat segna anche un aumento delle disuguaglianze. La spesa per consumi delle famiglie ricche, della cosiddetta “classe dirigente”, è infatti più che doppia rispetto a quella dei nuclei all'ultimo gradino della piramide disegnata dall'Istat, ovvero “le famiglie a basso reddito con stranieri”. Il Rapporto annuale dell'Istituto per le prime rileva esborsi mensili pari a 3.810 euro, contro i 1.697 delle fascia più svantaggiata economicamente. E una capacità di spesa ridotta significa anche meno opportunità. Ecco che «i giovani con professioni qualificate sono il 7,4% nelle famiglie a basso reddito con stranieri e il 63,1% nella classe dirigente». Le fratture che caratterizzano il Paese vengono confermate: «persiste il dualismo territoriale: nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati». D’altra parte, spiega il Rapporto, «la capacità redistributiva dell'intervento pubblico è in Italia tra le più basse di Europa»
Ma la diseguaglianza sociale, rileva l’Istat, «non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi». Per l'Istituto nazionale di statistica, infatti, «la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all'interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse». E si assiste a una «perdita dell'identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi».
Quanto al mondo delle imprese, la sopravvivenza delle imprese alla crisi è legata alla capacità di esportare e di mettere in atto forme di internazionalizzazione complessa. Nel periodo 2014-2016, secondo il Rapporto Istat 2017, a fronte di un incremento delle esportazioni in valore delle società di capitale pari all'1,1%, si osserva una contrazione del 6,4% per le imprese “a rischio”.
In metà delle imprese osservate i top manager hanno un'età media tra 41 e 50 anni e in 4 imprese su 10 hanno tra 51 e 60 anni. Lo segnala sempre Istat in base a un'indagine su tremila grandi imprese contenuta nel Rapporto 2017. Quelle con top manager più giovani (40 anni o meno) sono solo il 3,7% del totale, mentre nel 6,5% delle imprese i top manager superano i 60 anni. Nell'analisi di genere si osserva che l'incidenza di donne nelle posizioni apicali è ancora molto limitata: nelle imprese prese in esame soltanto il 12,2% del top management è donna.
Eugenio Caruso - 19 maggio 2017
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