Supera il quorum il referendum sull’autonomia regionale del Veneto, che raggiunge il 57,2%, con un Sì plebiscitario che tocca il 98,4%. La Lombardia ha raggiunto un 38,5% di votanti con il 95,64% di sì, il 3,61% di no e lo 0,75% di schede bianche. I risultati di entrambe le regioni sono superiori alle aspettative dei promotori.
Maroni mostra soddisfazione. «Per me conta il dato complessivo, non sono in gara con il Veneto. Sono andati al voto 3 milioni di lombardi. Ora faremo una battaglia insieme, con i 2,5 milioni raggiunti dal Veneto». E aggiunge: «Faremo questa battaglia anche con l'Emilia Romagna, che ha iniziato l'iter ma senza la forza del referendum. Noi puntiamo almeno ad avere lo stesso trattamento che lo Stato riserva all'Emilia Romagna, che rispetto a noi riceve 23 miliardi in più pur avendo un Pil nettamente più basso».
Il governatore aveva parlato nei giorni scorsi, in modo prudenziale, di una vittoria politica qualora si fosse arrivati a superare il 34%, percentuale ricavata dal trend delle ultime elezioni amministrative e dagli ultimi referendum. Si tratta tuttavia di una cifra che avrebbe dato ai promotori della Lega soddisfazioni parziali, perché l'obiettivo ufficioso a cui puntavano era appunto il 40% circa.
Bergamo è la città capoluogo dove si è votato di più, Milano quella dove si è votato di meno. Il segretario cittadino del Pd Pietro Bussolati parla già di una «mortificazione di una battaglia condivisa, come dimostra la bassa affluenza milanese».
In Lombardia il referendum prevedeva che non fosse necessario arrivare ad un quorum, perché l'iniziativa era stata approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio regionale. In Veneto bisognava arrivare invece al quorum del 50%, ma la percentuale è stata abbondantemente superata. Vicenza dovrebbe essere la città campione di voti.
Le due Regioni puntano con questo referendum consultivo (privo quindi di immediato esito politico) a recuperare la gestione esclusiva di quante più materie possibili tra quelle elencate nell'articolo 117 della Costituzione italiana, definite attualmente “concorrenti” perché soggette sia alle decisione dello Stato che delle istituzioni regionali. Si tratta di 20 competenze, a cui si aggiungono 3 materie (pace e giustizia; istruzione; tutela ambientale) indicate nell'articolo 116 della Costituzione, di cui lo Stato ha diritto esclusivo insieme alle Regioni a Statuto speciale.
Si tratta, pertanto, di venti materie gestite dalle Regioni "in condominio" con lo Stato (la cosiddetta "legislazione concorrente"). E altre tre finora trattate in esclusiva dallo Stato stesso (legislazione di esclusiva potestà statale). Le prime venti riguardano nell'ordine: rapporti internazionali e con l'Ue delle Regioni; commercio estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; professioni; ricerca scientifica e tecnologica; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; casse di risparmio, casse rurali e aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario regionali. Le altre tre sono organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente.
Un pacchetto di 23 materie totali dunque, non indicate in modo esplicito nei quesiti referendari, che hanno chiesto genericamente se si vuole ottenere maggiore autonomia ai sensi di quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale. Lo stesso articolo 116 infatti prevede la possibilità di un iter per permettere alle Regioni di “recuperare” altre competenze aggiuntive.
A questo si lega la conseguente richiesta di trattenere sul territorio maggiori risorse finanziarie, derivanti dalle imposte locali: il Veneto chiede almeno 8 miliardi in più, da recuperare da quei 15,5 annuali di residuo fiscale, ovvero dalla differenza negativa tra ciò che la Regione versa e ciò che riceve da Roma; la Lombardia, con lo stesso ragionamento, ne chiede almeno 24 su 56.
Su questo argomento giova notare che molti notabili del Sud e molti media asseriscono che il residuo fiscale non esiste e che se mai, una mole ingente di ricchezza è passata, viceversa, dal Sud al Nord. Partendo da questi premesse non credo che si potrà andare lontano.
In Lombardia per la prima volta è stato usato il voto elettronico, scelta che ha comportato una spesa di 14 milioni solo per l'acquisto di macchinari da usare in cabina elettorale (si arriva a 50 milioni con i costi organizzativi e di comunicazione). L'invito fatto ai Comuni è di continuare a utilizzare le voting machine anche alle prossime consultazioni elettorali.
I governatori dichiarano di avere più forza politica con il referendum per andare a trattare con il governo, ottenendo una legge da votare a maggioranza assoluta, in doppia lettura, nelle due camere del Parlamento, già nel giro di pochi mesi, auspicabilmente prima della prossima primavera e delle elezioni regionali e politiche. Il lombardo Roberto Maroni e il veneto Luca Zaia si dicono pronti ad avviare la trattativa con la presidenza del Consiglio già dalle prossime settimane.
Per la Lombardia la priorità sarebbe tornare a gestire soprattutto l'internazionalizzazione e la ricerca, già in pochi mesi. Questo perché, ricordano i vertici del Pirellone, la regione produce da sola un terzo dell'export nazionale, pari a 111 miliardi, e se lasciata libera porterebbe l'investimento in ricerca al 4,5% del Pil. Il Veneto parla invece delle priorità lavoro e politica industriale, seguendo il principio che una politica industriale nazionale non è possibile per via della differenza tra Nord e Sud.
Il successo del referendum per l'autonomia, soprattutto alla luce dei risultati ottenuti in Veneto, riapre la questione settentrionale, ovvero la questione di un Nord sempre più in linea con la ripresa economica di altri Paesi europei e sempre più lontano, non solo economicamente, dal resto d'Italia. Vero vincitore è Luca Zaia, mentre Salvini - che può di certo anche lui dirsi soddisfatto - deve però adesso fare i conti con un governatore del Veneto rafforzato da questo referendum e dall'accresciuto peso politico anche sulla scena nazionale. Tra gli sconfitti, accanto a un M5S praticamente assente da questa campagna, c'è senz'altro il Pd, che esce indebolito dall'affermarsi di un Nord nettamente orientato su posizioni di centrodestra.
Facendo il punto: Veneto e la Lombardia legaforzisti, con un Pd mezzo «allineato» e mezzo contrariato, che l’autonomia la perseguono con lo «strappo» (del tutto costituzionale) del referendum. L’Emilia- Romagna che l’autonomia la chiede da centrosinistra e senza referendum attraverso la trattativa diretta con il governo (Costituzione: articolo 116). Il Piemonte governato dal democratico Chiamparino dov’è già nato il Comitato promotore per l’autonomia. La rossa Toscana che ha approvato un documento del Pd per chiedere a Roma maggiori competenze. E per non farci mancare nulla il governatore pugliese Michele Emiliano che annuncia di volere più competenze senza brandire alcun referendum.
Come fa uno Stato a concedere a «tutte» le Regioni un’autonomia che di fatto presuppone un saldo più robusto del portafoglio interno, cioè più soldi? Perché, fuor di ipocrisia, il tema è quello dei soldi. E siccome la torta del bilancio nazionale è sempre la stessa, spartire diversamente presuppone – per il principio dei vasi comunicanti - scelte sanguinose e impopolari. Cioè premiare una o più regioni rispetto ad altre. Cosa che nessun governo né di centrosinistra né di centrodestra ha mai fatto e farebbe, perché dovrebbe rinunciare al consenso dei territori che ricevono una parte inferiore di torta. Alla quale accedono anche (e soprattutto) le Regioni a statuto speciale. Che, per lo stesso motivo – il consenso – nessuno si sognerebbe di toccare, sebbene siano ormai percepite come un anacronismo e indicate come fonte di dumping interno dagli stessi governatori di Veneto e Lombardia.
Allora che si fa? E’ giusto che le regioni virtuose pretendano forme di trattamento compatibili con il loro profilo etico-economico, seppur in un regime di regionalismo solidale? Sì, è giusto. Ma il dubbio che sorge è se il referendum lombardo-veneto possa arrivare ad ottenere non qualcosa di effettivamente raggiungibile ma una «posta» impossibile. Per cui, mettendo in testa l’assunto finale del ragionamento, ci chiediamo se nell’impasse di una politica che non «può» o non «vuole» perdere consenso, l’unica soluzione ipotizzabile non sia un’altra: una vera e seria riforma costituzionale in chiave federale dove alla base di tutto ci siano merito, responsabilità e solidarietà.
Una riforma naturalmente coraggiosa, che parta magari dal totem dei costi standard (un pasto per un paziente all’ospedale, per esemplificare, non può costare sei euro al Nord e un tot di volte in più al Sud) e dalla consapevolezza che al netto della solidarietà una regione non possa scialare senza la prospettiva di poter fallire. Un progetto, questo, accantonato negli ultimi anni dalla centralizzazione delle risorse dettata dalla crisi (governo Monti) oltre che per gli scandali di qualche regione. E del resto mai attuato, a riprova di quel che si diceva, né dal centrodestra né dal centrosinistra né tantomeno da un fronte istituzionale unito che quando c’è da lavorare per le regole base del Paese anziché per le botteghe di partito non ne fa mai una di giusta. Il centrodestra – che a parole ha preso il campo del federalismo - non ha partorito alcunché pur avendo avuto per anni il governo del paese da Bolzano a Caltanissetta; mentre il centrosinistra ha varato il famoso «Titolo quinto» della Costituzione, tentativo di decentramento arrivato quasi subito ai titoli di coda con esiti per alcuni aspetti anche dannosi vista la sovrapposizione delle competenze fra Stato e Regioni e l’aumento della spesa con riverbero sul debito pubblico.
I referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia arrivano in un momento in cui la spinta autonomista è tornata al centro della scena. Al di là dei fermenti anche traumatici delle piccole patrie d’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio) sembra che di fronte alla complessità e alle ricadute della globalizzazione l’unico verbo sia diventato secedere. Intere Regioni e Comuni: l’unica soluzione invocata è la separazione. Centrale, sotto questo aspetto, un redivivo e pronunciato spirito identitario non solo frutto della storia dei singoli territori, ma di quel complesso mix, appunto, di crisi da globalizzazione e di difficoltà a far coesistere l’idea stessa di nazione e quella di un’Europa in grado di affrontare le sfide continentali. Esito ineludibile per quanto messo a repentaglio dagli errori che la stessa Europa ha compiuto e continua a compiere.
Ma sarebbe semplicistico liquidare questa forza centrifuga come vuota rivendicazione e «avido malessere». Se giusta è la preoccupazione degli Stati nazionali di tenere insieme il quadro istituzionale interno ed esterno (l’Europa), sbagliato è non cogliere i segnali di intere comunità. Nello specifico, se per anni abbiamo parlato di «questione meridionale», al di là delle spinte separatiste radicali pericolose e prive di futuro, esiste anche una «questione settentrionale». Legata spesso alla mancanza o alla lentezza di risposte alle sollecitazioni, ad esempio, di un mondo produttivo che al netto delle lacune della sua classe dirigente si porta appresso uno storico di pressione fiscale, burocrazia, giustizia e pubblica amministrazione non più accettabili. Il fatto che tutte le categorie economiche venete – nessuna esclusa – si siano schierate per il sì al referendum odierno, è la dimostrazione che «un problema» esiste e va affrontato. Pur nella consapevolezza che il mondo imprenditoriale, forte soprattutto nelle città-metropoli fatte di innovazione e saperi (compresa quella veneta «diffusa»), la sua sfida la deve giocare in un’ottica di Italia-Europa-Mondo. Guardando all’esterno più che mirando al proprio ombelico. Per non parlare – a proposito di malessere, di un «sentimento di popolo» condiviso almeno da una parte di questa regione. Che pur essendo in debito per quella sorta di piano Marshall che nel dopoguerra ha consentito l’uscita dalla miseria di intere province beneficiate dagli ingenti sussidi delle Partecipazioni Statali, oggi si sente in credito per aver tirato e per continuare a tirare la carretta da almeno qualche decennio anche per conto degli «altri».
A scanso di equivoci, è bene chiarire in cosa consista il trasferimento di competenze chiesto dagli autonomisti. Se per ipotesi il Veneto ottenesse quella legata alla gestione delle strade, come dotazione avrebbe il trasferimento della stessa cifra spesa dallo Stato. Non un euro in più e non uno in meno. Quale il vantaggio? La gestione virtuosa delle strade – sempre riuscisse – porterebbe al risparmio di una cifra investibile su un altro fronte. Un principio federalista ineccepibile. Che però, fanno notare gli anti-referendum, si sarebbe potuta ottenere andando subito a trattativa con Roma senza celebrare una dispendiosa consultazione.
Ma il governatore del Veneto, assieme a quello della Lombardia, ha messo un ulteriore «carico» in questa consultazione, attribuendole la possibilità di contrattare e ottenere una parte del cosiddetto residuo fiscale, che per il Veneto ammonterebbe a 15 miliardi e per la Lombardia a 54 (18 sono quelli dell’Emilia). In pratica, il «modello Bolzano», Provincia speciale che trattiene i 9 decimi delle tasse nel proprio territorio. Si tratta – per stessa ammissione dell’uomo forte della Lega a Milano Giancarlo Giorgetti – di una prospettiva irrealizzabile e non prevista dalla Costituzione. La concessione dell’autonomia, infatti, può essere solo a costo zero per lo Stato, pena il rischio di default del Paese. Se pensiamo infatti che l’ultima manovra fiscale del governo ammonta a 20 miliardi, si fa presto a capire come il trattenimento di ampia parte del residuo fiscale di regioni come Veneto e Lombardia manderebbe l’Italia a catafascio. Nessun governo lo accetterebbe.
Certamente non quello di centrosinistra. Ma siamo pronti a scommettere che se la prossima primavera Zaia dovesse trattare con quello amico del centrodestra troverebbe di fronte un identico muro. Quel «muro di Berlino» che il governatore vuole abbattere con il referendum. La parola passa ai veneti.
Eugenio Caruso 23 ottobre 2017
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