3. INTELLIGENZA ARTIFICIALE: NUOVO FATTORE DI CRESCITA?
3.1 La lunga marcia dell’IA nelle aziende
L’implementazione dell’IA, e sinora principalmente delle tecniche di machine learning nei settori industriali, si sta diffondendo rapidamente, grazie ai benefici conseguenti alla disponibilità di funzioni, come ad esempio:
• Identificazione in tempo reale di transazioni fraudolente;
• Identificazione e navigazione di strade, micro-segmentazione per assicurazioni basata su dati telematici relativi al comportamento alla guida;
• Digital advertising personalizzato;
• Ottimizzazione di prezzo/prenotazioni in tempo reale, prodotti finanziari personalizzati;
• Manutenzione predittiva nel settore manifatturiero;
• Predizione medica/diagnostica personalizzata.
La diffusione dell’IA – ancorché inesorabile – sta avvenendo progressivamente e con tassi di penetrazione differenti a seconda del settore industriale. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’adozione nei settori ICT, dei media e dei servizi finanziari è decisamente superiore rispetto alle utility e al settore manifatturiero, e ancor più rispetto al settore dell’ospitalità, delle costruzioni e all’agricoltura.
I benefici sui costi operativi sono variabili a seconda dell’applicazione, ma sostanziali: il McKinsey Global Institute calcola, ad esempio, una riduzione di costi operativi del 10-15% grazie all’automazione di un sistema di emergenza ospedaliero, del 25% nella manutenzione degli aerei, fino al 90% nella creazione automatizzata di mutui. In aggregato, l’incremento in produttività delle imprese si riflette in un fattore di crescita del +0.8-1.4% annuo.
Ciò detto, l’adozione delle nuove tecnologie è ancora in fase iniziale. Sempre McKinsey stima che gli Stati Uniti d’America siano al 18% del proprio pieno “potenziale di digitalizzazione”, la Francia al 12%, l’Italia al 10%. Come si è visto, una delle maggiori resistenze alla sua adozione, sembra essere legato agli impatti occupazionali. L’impatto atteso sull’occupazione, in verità, è indubbio, ma fortemente variabile a seconda del settore industriale. Se, in ottica teorica, si stima che il 51% delle attività salariate negli Stati Uniti sia potenzialmente automatizzabile, in alcuni casi – ad esempio nel settore dell’ospitalità – l’effettiva realizzazione pratica non è ancora tecnicamente realizzabile, e la stima di automazione basata sulle tecnologie attualmente in commercio scende al 5%.
Per evitare ansietà ed esagerazioni che potrebbero creare un rifiuto emotivo verso l’IA, è importante anche ricordare che l’aumento di produttività non si traduce necessariamente ed automaticamente in licenziamenti. Alcuni esempi:
1. Negli anni ’70 e ‘80 la diffusione del codice a barre negli Stati Uniti non portò (diversamente da quanto ipotizzato) ad un calo del numero totale di impiegati alle casse (che anzi aumentarono di qualche punto percentuale nello stesso periodo);
2. In molti casi l’efficienza recuperata consente semplicemente di reindirizzare le attività
verso aree a maggior valore aggiunto. Un buon esempio è costituito dal calcolo di efficienza nelle attività di un CEO qualora utilizzasse tecniche di IA. Sempre McKinsey stima che il 25% delle attività di un CEO possano essere automatizzate, ma è difficile immaginare che producano come effetto il licenziamento del CEO stesso, ovvero una generale riduzione del numero dei CEO (si considerino anche le efficienze portate nell’ultimo decennio da terminali multifunzione come Blackberry e Smartphone, senza che si siano riscontrati effetti apprezzabili sull’occupazione dei CEO);
3. Senza contare il caso dell’ATM (Automatic Teller Machine), il nostro bancomat, di cui proprio quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario di entrata in servizio18. Si era predetto che quest’antesignano della meccanizzazione di attività sino ad allora svolte dall’essere umano avrebbe ridotto il numero degli impiegati allo sportello bancario. La realtà è che non sembra esserci stata alcuna riduzione.
Indubbiamente alcune professioni sono destinate a scomparire, o quantomeno a veder grandemente ridotta la propria importanza, ma non si deve dimenticare che l’IA consente la sofisticazione di piattaforme digitali fruibili su larga scala, che rendono possibili nuove forme di occupazione. Si pensi alla – peraltro controversa – economia indotta da piattaforme come Uber, AirBnB, o addirittura Facebook e Instagram in Asia, dove fungono da motori di commercio informale “peer-to-peer” con crescita esponenziale. Ancora McKinsey stima che il 20-30% della popolazione in età lavorativa in USA e UE si dedichi a lavori informali ed “extra”, perlopiù abilitati da piattaforme digitali, per integrare il proprio bilancio domestico, la cosiddetta gig economy a cui si accennerà nel quarto capitolo. Proprio alla luce delle perplessità che sembrano emergere in relazione a queste nuove forme di lavoro, è opportuno favorire e regolamentare l’accesso a questa flessibilità, piuttosto che adottare un approccio di retroguardia e di “luddismo anti-digitale”.
Automazione, insomma, non significa solo riduzione dei costi del personale, ma anche e soprattutto maggiore affidabilità/robustezza, maggiore qualità e sicurezza (ad esempio nelle transazioni finanziarie). Per certo, significa l’ ottenimento di maggiore competitività, ad esempio attraverso la manutenzione predittiva per un’azienda industriale, o attraverso una consegna più veloce ed affidabile di beni di consumo da parte di un’azienda di servizi. Importante dunque evitare di cadere nella trappola di identificare l’IA come “capro espiatorio” di una crisi economica innescata da altri fattori. L’IA, al contrario può e deve fornire all’industria e ai servizi un’importante spinta di produttività. Questo è di particolare importanza in Paesi come l’Italia caratterizzati da crescita rallentata e invecchiamento della popolazione.
3.2. I primi traguardi dei leader industriali nell’IA
Come già sottolineato, la nuova ondata di IA è qui, ora. L’effettiva applicazione industriale delle nuove possibilità, tuttavia, è ancora agli inizi. Non a caso, i campioni nell’adozione operativa delle nuove tecnologie sono gli stessi player che hanno introdotto la rivoluzione digitale (Apple, Amazon, Google: i “soliti noti”). In altre parole: gli artefici dell’innovazione in IA ne diventano
anche i principali utilizzatori. Oltre a godere di una maggiore maturità tecnologica, essi fanno leva sulla propria infrastruttura consolidata di cloud e big data, e sulla propria capacità di raccolta, immagazzinamento ed analisi di vasti insiemi di dati (come visto in precedenza, entrambi fattori fondamentali per lo sviluppo e la sofisticazione dei sistemi IA).
Alcuni esempi:
• Grazie all’acquisizione (per 775 milioni di dollari) di Kiva, una società di robotica specializzata nell’automazione del “picking e packing”, Amazon ha abbattuto il tempo che intercorre tra click e spedizione (60-75 minuti se gestito da risorse umane) a 15 minuti, mentre la capacità del magazzino è aumentata del 50%. Il ritorno complessivo sull’investimento è stato complessivamente del 40%;
• Netflix utilizza estensivamente, come noto, il proprio algoritmo di raccomandazione personalizzata per i propri 100 milioni di clienti. La stima di Netflix è che la soddisfazione dei propri clienti (grazie ad una rapida identificazione dei contenuti desiderati – 90 secondi è il limite di “sopportazione” misurato) si traduca in 1 miliardo di dollari in ricavi da prevenzione di churn (ovverosia, perdita di ricavi ascrivibili a clienti che altrimenti avrebbero cancellato il proprio contratto con Netflix);
Altri player, non digital native ma dotati di ampia scala e capacità di investimento, si sono attivati con focus sull’IA. BMW e Toyota, ad esempio, hanno investito recentemente in modo massiccio in IA. Toyota da sola ha dichiarato di aver allocato 1 miliardo di dollari nella ricerca e sviluppo in robotica e machine learning a supporto di automobili senza pilota. Altri giganti industriali quali ABB, Bosch, General Electric e Siemens stanno dichiarando investimenti significativi in IA.
Da un punto di vista di settore, quelli più in anticipo nell’adozione dell’IA sono le telecomunicazioni, il settore high-tech, l’automotive e il manifatturiero avanzato. A seguire, un gruppo di industrie a digitalizzazione meno pervasiva, quali utility, servizi finanziari e professionali, costruzioni. Dal punto di vista delle applicazioni pratiche di IA, guardando attraverso la catena del valore, queste sono riscontrabili principalmente nelle funzioni di customer service (ad esempio per telecomunicazioni e servizi finanziari), nel marketing e nelle vendite, così come nelle operations (in particolare nell’automotive e nell’assemblaggio industriale, nel settore dei beni di consumo, così come nelle utility) e nello sviluppo di prodotti.
Gli esempi che seguono vogliono dimostrare alcuni casi concreti di creazione di valore:
• Il forecasting è una delle aree di maggior impatto (sia per gli approvvigionamenti, sia per la previsione della domanda). Il forecasting basato su IA è in grado di ridurre gli errori del 30-50% rispetto ad approcci tradizionali. I costi relativi alla logistica si riducono del 5-10%, mentre è possibile una riduzione del magazzino tra il 20 e il 50%. Lato previsione domanda, un retailer online tedesco afferma di aver sviluppato un algoritmo AI che prevede, con un margine di accuratezza dal 90%, gli acquisti dei propri clienti nei 30 giorni successivi.
• Nel marketing, il ruolo principale degli algoritmi IA è quello di personalizzare e rendere dinamica l’offerta (ad esempio attraverso i modelli di Next Best Offer “alla Amazon”). Il pricing diventa anch’esso dinamico, grazie ad algoritmi predittivi e di ottimizzazione che si adattano in tempo reale alle dinamiche di domanda e offerta. Le applicazioni si estendono sia al mondo consumer (online retailing, mutui personalizzati,
prezzi di biglietti aerei e hotel), sia a quello B2B (ad esempio nell’aerospaziale, dove le previsioni dei costi di manutenzione sono utilizzate per il pricing).
• Nel settore manifatturiero, riveste particolare interesse lo sviluppo di robot dotati di computer vision. Nuove telecamere basate sull’IA possono essere allenate a riconoscere spazi vuoti o identificare un oggetto e la sua posizione, con utilizzo conseguente nella logistica di produzione. Alcune società (ad esempio Rethink Robotics) sviluppano robot “collaborativi” che possono essere istruiti da operatori umani nel replicare movimenti e azioni, con incremento di produttività in ambiti non completamente automatizzabili. Oppure, nel caso della produzione di semiconduttori, i motori di IA analizzano una vasta mole di dati di produzione per identificare processi produttivi errati e proporre correzioni, con una riduzione significativa del numero di difetti di produzione.
• Nel retail, le applicazioni sono ancora sperimentali, ma ad alto potenziale di innovazione. Si vedano ad esempio i casi di Amazon, che ha costruito un supermercato fisico a Seattle (Amazon Go) che consente ai clienti di “uscire senza pagare” i beni acquistati, ricevendo una fattura a casa (il sistema è basato su un sistema di IA che riconosce i beni acquistati attraverso computer vision). Oppure i numerosi test di consegna mediante droni, che richiedono funzioni di deep learning per aumentare la propria accuratezza e affidabilità.
• Nelle utility, la programmazione della manutenzione può essere affidata all’IA: mediante dati raccolti da sensori, applicazioni di machine learning aiutano gli operatori a prevedere quando e dove la manutenzione programmata e non (ispezioni, ecc.) sarà necessaria. Il risparmio conseguente stimato per un’utility europea è, ad esempio, del 30% sui costi di manutenzione dei trasformatori di potenza.
L’impatto complessivo dell’adozione di IA sul conto economico delle imprese è ancora difficile da quantificare con certezza, tuttavia le imprese che dichiarano di aver investito in IA riportano margini dai 3 a 15 punti percentuali più alti della loro media di settore (nonostante la pressoché totalità di esse ritenga di aver estratto solo una parte dei benefici di produttività permessi da questa tecnologia, ovvero consideri la maggior parte dei benefici a venire negli anni successivi).
3.3 I “giganti dell’IA”: minaccia, ma anche opportunità
Come illustrato, l’adozione dell’IA da parte del mondo industriale ha un potenziale importante, e le imprese che accelerassero in questa direzione sarebbero in grado di sviluppare un vantaggio competitivo significativo. Il timore è che, come già accaduto per la rivoluzione digitale, l’asimmetria nella rapidità di adozione dell’IA, riscontrabile tra i leader digitali innanzitutto, finisca per generare un’ulteriore separazione tra settori “avanzati” e laggard, con le aziende di Paesi quali l’Italia a maggior rischio di posizionarsi tra questi ultimi per via di un ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie. Di più, la correlazione osservata tra dimensione dell’impresa e rapidità/facilità di adozione del digitale/IA, rende ancora più vulnerabile la posizione di Paesi che – come l’Italia – sono caratterizzati da uno sbilanciamento verso la piccola e media impresa.
Non a caso, la concentrazione dell’innovazione tecnologica nell’IA nelle mani di pochi “giganti” nordamericani quali Google, Amazon, Apple, Microsoft, o cinesi quali Alibaba e Tencent, è fonte di preoccupazione nelle altre geografie, pur non essendo un fenomeno specifico dell’IA (si pensi
alla decennale posizione dominante di Microsoft nei sistemi operativi).
D’altro canto, è riscontrabile un netto trend verso un approccio open da parte dei principali attori nel mondo dell’IA che “aprono” le proprie capacità verso sviluppatori e terze parti. Nella recente edizione dell’evento annuale “Google I/O”, il CEO Sundar Pichai non solo ha confermato ulteriormente i progressi e la centralità dell’IA in tutte le aree di sviluppo del colosso americano, ma ha altresì esplicitato l’apertura a terze parti dei propri chip ultra-veloci per l’esecuzione di codice machine learning, mediante un progetto open source. Amazon e Microsoft stanno attuando politiche similari, ovviamente centrate e a beneficio delle relative piattaforme (Alexa, Cortana). Questa competizione tra soluzioni cloud/IA dovrebbe avere un effetto benefico sulla rapidità di innovazione nell’IA nei prossimi anni, e rappresenta senza dubbio un’opportunità di partecipazione all’ecosistema dell’IA per chi ne fosse stato fino ad ora escluso.
Dinamiche analoghe, nel passato recente, hanno condotto a episodi di breakthrough tecnologico: si veda ad esempio l’apertura di Apple a sviluppatori esterni del proprio App Store, che ha consentito la creazione di potenti applicazioni quali Uber o Instagram. Oppure, in Cina, la disponibilità offerta a terze parti della piattaforma WeChat di Tencent, per lo sviluppo di funzionalità come ad esempio news, taxi, food delivery, pagamenti. Il modello open sta rappresentando un volano formidabile per lo sviluppo di un ecosistema digitale alternativo a quello basato su Apple iOS, Google Android e ai circuiti di pagamento tradizionali.
4. ALCUNE QUESTIONI APERTE
4.1 Governance e rapporto uomo-macchina
Come si è anticipato, due temi che nei prossimi anni acquisteranno sempre maggiore rilevanza sono IA e robotica. Non si tratta infatti solo di IA in quanto tale, ma delle sue applicazioni in vari ambiti; a partire dalla robotica. I sistemi più all’avanguardia prevedranno infatti l’uso di architetture tecnologiche in grado di dedurre informazioni dai dati, imparando dagli stessi e applicando quanto già acquisito nelle elaborazioni successive (“macchine che imparano”). Il tutto grazie alla combinazione di: computer sempre più potenti (High Performance Computer), diffusione dell’infrastruttura digitale, e algoritmi dell’IA e robotica, che portano a un’ottimizzazione dei processi su larga scala e a un aumento della produttività a costo minore. Esempi sono i veicoli a conduzione autonoma, i robot che gestiscono i magazzini di stoccaggio delle industrie e la comprensione automatizzata di immagini mediche, ad esempio per l’individuazione del cancro (come ad esempio sistemi di aiuto nella diagnosi del melanoma).
Pur essendo ancora lontani dall’automazione di processi che richiedono ragionamento e pianificazione24, si pone tuttavia la questione aperta della governance e del rapporto uomo-macchina. Il World Economic Forum cita la robotica e l’intelligenza artificiale tra le 20 tecnologie emergenti della Quarta Rivoluzione Industriale destinate a trasformare il mondo nei prossimi anni, evidenziando come esse possano dare origine a grandi opportunità e, al contempo, a grandi rischi: il bilanciamento dipende dall’efficacia del sistema con cui vengono governate, ovvero dell’insieme di regole, standard, incentivi, istituzioni e altri meccanismi volti a regolarne lo sviluppo e l’utilizzo.
La questione della governance è particolarmente rilevante nel caso dell’IA perché solleva veri e propri dilemmi in termini di etica e responsabilità, ad esempio per quanto riguarda le auto a guida autonoma. Inoltre, pone interrogativi sul piano della sicurezza e della privacy, oltre che dei possibili impatti sociali in termini di occupazione, di potenziale aumento della disparità tra le diverse fasce della popolazione e del delicato rapporto uomo-macchina. Queste nuove tecnologie non possono prescindere dall’interazione con l’uomo: sono al suo servizio e lavorano in maniera integrata con l’intelligenza umana. Gli esseri umani sono veloci nell’elaborazione parallela, cioè nella pattern recognition: sanno riconoscere il volto di una persona conosciuta, anche se con la pettinatura cambiata o gli occhiali da sole indossati; sanno capire quello che una persona sta dicendo anche se varia il tono della voce; leggono una lettera scritta a mano. Invece sono meno veloci nell’elaborazione sequenziale. I computer nel primo campo si sono evoluti in misura ridotta, mentre nel secondo sono ormai diventati super veloci. Solamente l’integrazione fra i due tipi di intelligenza può massimizzare le opportunità e mitigare i rischi. Tramite il machine learning, ad esempio, l’uomo ha la possibilità di addestrare adeguatamente i robot e le loro intelligenze, oppure ha la possibilità di scrivere codici di programma tali da poter eseguire operazioni complesse che si
implementano e correggono grazie all’autoapprendimento. In questo modo l’IA riuscirà ad essere realmente di supporto all’uomo, potenziando o integrando le sue capacità.
4.2 Etica e minacce, il capitalismo dei dati: alcune questioni aperte
Come ogni altra tecnologia, l’IA e la robotica non sono né buone né cattive in sé, ma sono strumenti neutri. È l’intenzione con cui queste tecnologie sono usate che determina la loro etica. Infiltrarsi in un database usando l’IA per danneggiare un altro essere umano non è etico, ma infiltrarsi nello stesso database per bloccare il lancio di un missile nucleare può essere visto come etico. A oggi, sono gli esseri umani che determinano come la tecnologia è usata. IA e robotica non sono così avanzate da avere un’“anima” che ragiona, un piano e un intento; per non parlare di aspetti emotivi e di empatia. Siamo lontani decenni da questo tipo di sviluppi, se mai saranno possibili. Prima di preoccuparci del fatto che l’intelligenza artificiale stia diventando “la più grande minaccia esistenziale” (Elon Musk), dobbiamo da subito sviluppare le regole etiche riguardo all’utilizzo della tecnologia, allo stato di avanzamento attuale.
Le regole etiche devono considerare vari aspetti, i più immediati dei quali riguardano la sicurezza, la privacy e la fiducia/trasparenza. Tra quelli meno ovvi ci sono le considerazioni relative a come prevenire un’ulteriore distribuzione non equa della ricchezza, dovuta a un utilizzo di queste tecniche avanzate solo da parte di una élite, mentre la parte della società non formata su queste tecniche viene lasciata indietro e senza lavoro. In primo luogo, ci sono lavori che oggi non sono automatizzabili e che la società dovrebbe riconoscere maggiormente: come l’insegnamento, l’artigianato e il design, e la cura degli anziani. Inoltre, IA e robotica avranno ancora bisogno di un accompagnamento umano per molto tempo. Ciò sarà fonte di nuovi profili professionali specializzati, per i quali ci sarà ancora richiesta sul mercato. In terzo luogo, le società che useranno in maniera intelligente IA e robotica (e aumenteranno la produttività utilizzando meno persone) dovranno contribuire di più ai sistemi di welfare. I governi sono lenti nell’anticipazione di questi cambiamenti, e ancora di più nell’attuazione dei relativi provvedimenti. L’Italia potrebbe provare a fornire l’esempio in questo settore.
Certo è che – secondo alcuni – si sta assistendo alla nascita di una nuova era, quella del cosiddetto “capitalismo dei dati” (solo pochi anni fa definito “Surveillance Capitalism”). Oggi il campo dell’interazione sociale e il dominio del profitto si sovrappongono. Il capitalismo mette al centro un’immensa massa di dati: dipende dai dati perché attraverso essi genera ricchezza. Combatte per la sua stessa sopravvivenza ed entra così nella nostra vita sociale. Nelle parole del sociologo Evgeny Morozov, “le tecnologie digitali sono sia la nostra migliore speranza che il nostro peggiore nemico”. Occorre ribaltare il paradigma e rinegoziare la nostra libertà, perché da Google a Facebook è il “click capital” – così definito proprio da Morozov – che conta e che de facto soggettivizza gli attori sociali della rete. Pochi colossi si appropriano dei nostri comportamenti, e dei nostri vizi e piaceri in rete fanno virtù (a beneficio loro). Se l’accumulazione del capitale si
concentra su due aspetti – prima la raccolta e poi l’analisi dei dati –, allora cambiano le relazioni tra individui, il rapporto tra istituzioni e persone, e nascono nuove forme di lavoro. La sharing economy è una faccia di quello che Arun Sundararajan ha ribattezzato “crowd-based capitalism”, “capitalismo della folla”.
Tutto, però, ha un prezzo. Il “prezzo della connessione è – appunto – il “capitalismo della sorveglianza””, secondo Nick Couldry. Shoshana Zuboff parla di un vero e proprio processo di estrazione, mercificazione e controllo dei dati all’interno di un’architettura globale che si basa su una logica di accumulazione chiamata proprio “capitalismo della sorveglianza”, sostenendo che “alla domanda “chi partecipa?” la risposta è: quelli con il materiale, la conoscenza e le risorse finanziarie necessarie. Alla domanda “chi decide?”, la risposta è: l’accesso è deciso dai mercati basati sul controllo del comportamento. Questi sono costituiti da coloro che vendono l’opportunità di influenzare il comportamento a scopo di lucro e da coloro che acquistano tali opportunità”.
4.3 La “distruzione creatrice” di oggi fra lavoro, gig economy e algocrazia
Altre questioni aperte riguardano il cosiddetto paradosso del nostro tempo, la percezione cioè della “distruzione creatrice” schumpeteriana in atto. Un processo in cui forti innovazioni tecnologiche innescano un drastico processo selettivo, nel quale molte imprese spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano; e con esse il lavoro, che viene “distrutto”, più meno velocemente di quanto ne venga creato. Paradosso proprio perché è una tesi che, per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, appare contraria all’opinione comune secondo cui il saldo occupazionale totale risultante è negativo.
Bot (Il bot in terminologia informatica in generale è un programma che accede alla rete attraverso lo stesso tipo di canali utilizzati dagli utenti umani, per esempio che accede alle pagine Web, invia messaggi in una chat, si muove nei videogiochi, e così via. Programmi di questo tipo sono diffusi in relazione a molti diversi servizi in rete, con scopi vari ma in genere legati all'automazione di compiti che sarebbero troppo gravosi o complessi per gli utenti umani) e robot, oltre al variegato mondo di applicazioni che si fa ricadere oggi sotto la generica definizione di “intelligenza artificiale”, sono la “distruzione creatrice” del presente. Essa è percepita come un rischio rispetto ai modelli occupazionali attuali, perché nella storia l’innovazione tecnologica ha sempre prodotto forti tensioni, eliminando lavori tradizionali ma facendone emergere di nuovi.
La gig economy - un modello economico in crescita dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, e
l’algocrazia, ovvero il “potere degli algoritmi” che determina, organizza e vincola le interazioni umane con quei sistemi – sono plastica manifestazione della “distruzione creatrice” in atto oggi. Nella gig economy domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e applicazioni dedicate: ad esempio l’affitto temporaneo di camere (ad es. Airbnb), attività da freelance come la progettazione di siti web (ad es. Upwork o Fivver), la vendita di prodotti artigianali (ad es. Etsy), i trasporti privati alternativi ai taxi (ad es. Uber), le consegne a domicilio (ad es. nella ristorazione, come Deliveroo e Foodora). I lavoratori della gig economy sono tutti in proprio e svolgono attività temporanee/interinali/part time/saltuarie/provvisorie. A differenza di quanto accade in un modello burocratico, in cui il potere amministrativo è basato su leggi e regolamenti, ed è esercitato da una gerarchia, nella gig economy l’algocrazia si avvale invece del codice – l’algoritmo – e della sua programmabilità per creare modalità di lavoro dove si può agire solo come previsto dagli algoritmi, riducendo così la necessità di supervisione e controllo.
Il “salario di sussistenza”, la cui sperimentazione è ora avviata in alcuni Paesi come la Finlandia, sembra il modello con cui le nostre società pensano di poter contenere i troppi disoccupati che l’odierna distruzione creatrice genererà. Come se garantendo questo salario fosse possibile scindere la simbiosi che, da secoli, vede abbinati il lavoro e la sussistenza, lasciando l’individuo senza una fisonomia professionale definita. Una società, insomma, in cui “la mattina si possa andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ci vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”. L’elephant in the room è il depotenziamento delle fisionomie professionali, quasi il saper fare bene qualcosa diventasse secondario e non invece determinante, oltre che per la sussistenza anche per l’identità di ognuno.
Opporsi alla distruzione creatrice dell’innovazione tecnologica, tuttavia, oltre che antistorico in genere non paga. Esemplare il caso delle “vecchie élite” nell’Inghilterra del XVIII secolo, “la cui maggior fonte di reddito era rappresentata dalla proprietà terriera o da privilegi commerciali, di cui godevano grazie ai monopoli e alle tutele dalla concorrenza garantiti loro dai sovrani” che controllavano i governi dei paesi e che all’indomani della rivoluzione industriale furono chiaramente gli sconfitti”. La lezione, allora come oggi, è che “la crescita economica non nasce semplicemente dall’introduzione di macchinari migliori e più numerosi, o dall’aumento del livello di istruzione dei lavoratori; si tratta di un processo destabilizzante, che porta cambiamenti radicali e si associa a fenomeni di distruzione creatrice.” Che vanno governati, in modo proattivo. Avendo ben presenti gli aspetti di contesto, etici e sociali.
Nella sharing economy si punta ad abbattere i costi condividendo azioni che si farebbero comunque. L’esempio di Blablacar calza a pennello: l’automobilista pianifica un tragitto e per contenere le spese, mette a reddito i posti liberi. Ma l’autista di Uber non decide di partire dalla Stazione centrale di Milano per andare in albergo e, già che c’è, dà un passaggio al turista di turno. L’autista di Uber si sposta su chiamata. Come un taxista. Tanto da aver fatto saltare la mosca al naso alla categoria. È il caso dei rider di Foodora, pagati a consegne. Rider che nient’altro è che un esotismo per indicare il più prosaico fattorino. Questi corrieri sono inquadrati in una collaborazione organizzata dal committente, per esempio nella gestione dei turni, devono indossare un’uniforme di rappresentanza, ma devono sobbarcarsi i costi degli strumenti di lavoro, come smartphone e bicicletta”.
Gli algoritmi decidono i risultati dei motori di ricerca, le pubblicità che appaiono quando visitiamo un sito, le notizie a cui viene data rilevanza su Facebook, il programma più adatto per la lavatrice, ma anche le priorità nelle liste d’attesa per un trapianto, chi viene sottoposto a verifiche e controlli, ad es. fiscali o negli aeroporti, e molto altro. Gli algoritmi fanno parte di quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana dove c’è tecnologia. Sono anche alla base di decisioni politiche e amministrative che ci riguardano direttamente come cittadini ma che non sempre sono documentate e trasparenti.
5. CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI
5.1 Conclusioni
L´IA è fra noi. Già da tempo. A parte le sue rappresentazioni di fantasia più conosciute, moltissime sue applicazioni, poco note ma non meno importanti, sono ormai parte integrante della nostra vita. Adottare l’IA, dunque, è ormai una necessità, non più un’opzione. Farlo prima dei concorrenti significa cogliere opportunità di vantaggio competitivo permettendo addirittura aumenti del PIL che, nel caso dell’Italia, potrebbero essere sino al 10%38.
5.2 Raccomandazioni: in Italia, che fare?
Come abbiamo visto, le tecnologie dell’IA aiutano le imprese ad elevare la qualità del lavoro umano, contribuendo ad aumentare i fatturati e profitti e ad acquisire nuovi clienti, oltre che a limitare i rischi di un’attività e migliorarne l’efficienza. Per aver successo nello scegliere le tecnologie più indicate è importante tener presente che:
• Adottare tecnologie IA in fase di maturazione e seguire i progressi di quelle che hanno un potenziale di sviluppo concreto;
• Costruire sistemi complessi di IA può sembrare impossibile, quando in realtà molte funzionalità dell’IA già sono integrate oggi in applicazioni e processi aziendali esistenti;
• Ricordarsi, per evitare ansietà ed esagerazioni che potrebbero creare un rifiuto emotivo verso l’IA, che l’aumento di produttività non si traduce necessariamente ed automaticamente in licenziamenti.
Nello specifico italiano, per creare un ecosistema favorevole all’IA ed evitare la dipendenza dai first mover, soprattutto se ingombranti come Stati Uniti e Cina è necessario gestire:
• La necessità per le imprese di adottare rapidamente e in maniera convinta le applicazioni rese possibili dall’IA, per aumentare la produttività interna e restare competitive nello scenario globale. Gli imprenditori leader italiani devono rapidamente investire nell’IA (piattaforme/tecnologia e competenze); come qualcuno ha sottolineato, gli asset e le competenze digitali rappresentano “il nuovo stato patrimoniale”. È importante che un’analoga mentalità ricettiva verso l’adozione di queste tecnologie si sviluppi nel mondo politico e tra gli opinion leader, per evitare controproducenti “battaglie di retroguardia”: i policy maker devono stimolare l’adozione dell’IA per creare il surplus di produttività e di benessere economico necessari a “finanziare” la gestione delle implicazioni sociali.
• L’asimmetria tra poche imprese (internazionali) che raccolgono i benefici dell’IA, spesso grazie a business model disruption, e molte (nazionali) che faticano a sfruttarne il potenziale. In particolare, le dinamiche “winner takes all” tipiche dell’economia digitale (ad esempio: il 12% del commercio globale di beni è condotto via e-commerce da pochissimi operatori come Alibaba, Amazon e eBay, quindi senza player rilevanti locali). Di conseguenza, è fondamentale per l’Italia adottare un chiaro ruolo nell’ecosistema digitale globale. Anche se la competizione diretta con i giganti internet appare fuori portata, la diffusione crescente di piattaforme “open” consente ai Paesi più
lungimiranti di partecipare e avere un ruolo negli ecosistemi più rilevanti.
• La diffusa mancanza delle competenze necessarie per gestire l’IA, che vanno invece promosse a partire dal sistema scolastico, bilanciandole con il mantenimento della creatività progettuale, vero punto di forza italiano. Il problema delle competenze – McKinsey stima che, negli Stati Uniti solamente, il gap tra domanda e offerta di data scientist nei prossimi anni sarà di 250.000 unità. In Italia sarà importante supportare le discipline STEM (basic science, technology, engineering and math) attraverso il sistema scolastico, ma adottandole al nuovo contesto mediante l’alfabetizzazione digitale delle nuove generazioni. Le recenti evoluzioni internazionali consentono anche di intravedere opportunità di attrazione di talenti esteri (es. dal Far East).
• Il problema etico indotto dall’IA, in particolare la presunta asimmetria distributiva dei benefici derivanti da una sua massiccia adozione, che va discusso sulla base di standard condivisi e best practice reali, capendo cosa sia stato realmente fatto, cosa sia possibile fare e in quali tempi.
Un contributo importante per l’Italia può venire da imprenditori, decisori politici pubblici/privati e opinion maker che si impegnassero a puntare sulle prospettive di crescita e sulle nuove professioni derivanti dall’introduzione dell’IA, con investimenti in grado di controbilanciare l’impatto negativo sull’occupazione e il cui ritorno potrebbe essere significativamente positivo se correttamente gestiti. Alcune proposte concrete potrebbero essere le seguenti:
• Promuovere una partnership pubblico/privato che favorisca gli investimenti in piattaforme digitali. La digitalizzazione è importante, perché consente di raccogliere i dati necessari ad “allenare” i sistemi di IA. Per gestire l’abbondanza di dati è fondamentale creare un ecosistema di dati con standard “open”, per attrarre talenti e accelerare l’innovazione.
• Sostenere nuove forme di imprenditorialità privata rese possibili dalle piattaforme digitali. È necessario favorire le opportunità di profitto individuale basate sul digitale e la creazione di business individuali, semplificando tassazione e regolamentazioni.
• Introdurre benefici fiscali per le aziende, per stimolare gli investimenti in digitalizzazione (e in capitale umano) nelle aree digital job. Gli sgravi fiscali in capitale umano per l’IA e la digitalizzazione potrebbero essere equiparati a Ricerca e Sviluppo.
• Creare centri e laboratori di IA nelle università, in collaborazione col settore privato, cercando di attrarre e convincere i “giganti dell’IA” a stabilire una presenza rilevante in Italia, il che potrebbe contribuire a ridurre il divario attuale.
Una particolare opportunità per l’Italia potrebbe profilarsi con la cosiddetta Industria 4.0, la tendenza dell’automazione industriale ad integrare alcune nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro, aumentando così la produttività e la qualità produttiva degli impianti.
L’Italia, la cui spina dorsale industriale rimane grandemente centrata sul comparto manifatturiero, si sta infatti posizionando all’interno delle tematiche dell’Industria 4.0. Fabbriche di nuova generazione stanno integrando tecnologie avanzate per realizzare sistemi automatizzati altamente integrati, in grado di produrre in maniera efficace merci su richiesta e in modo dinamico. Un
insieme di sensori connessi a Internet (Internet of Things) permette di collezionare i dati di produzione dalle macchine relativamente al processo produttivo in corso. Questi dati (disponibili in rete) forniscono informazioni di rilievo sul processo manifatturiero e sullo stato delle macchine. L’analisi e il monitoraggio di tali dati in tempo reale permettono così di individuare e predire eventuali problemi tecnici, minimizzando il down time e consentendo la gestione ottimale dei flussi di offerta e domanda, aspetto molto importante in generale, e ancora di più in settori quali il commercio elettronico.
L’introduzione di questo tipo di algoritmi basati sull’intelligenza artificiale è ancora agli inizi41; per l’Italia l’opportunità è quella di specializzarsi nell’applicazione di tali sistemi avanzati per aumentare la produttività e farne un elemento di eccellenza industriale. Obiettivo, quest’ultimo, condiviso da molti altri Paesi, a partire dagli Stati Uniti, per i quali il sistema manifatturiero è parimenti centrale e per il rilancio del quale McKinsey Institute ha appena proposto un ripensamento attivo lungo quattro direttrici: “Reinvesting, Retraining, Removing Barriers, and Reimagining Work”. Un modello di riflessione che in Italia andrebbe adottato per poter rispondere a tre domande centrali:
1. Ha ancora senso produrre in Italia, o meglio esiste un sistema manifatturiero moderno e adeguato – e in quale percentuale nel Paese – per competere con il resto del mondo?
2. La forza lavoro italiana è preparata e qualificata per esser parte attiva di un moderno sistema manifatturiero?
3. Quali sono le misure da adottare per rilanciare un settore come il manifatturiero che anche in Italia soffre di occupazione in contrazione, bassi salari e produttività insufficiente?
Nel 2015 in Italia, il mercato relativo a Big Data e Analytics è cresciuto solo del 14% raggiungendo il valore di EUR 800M (Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence, School Management Politecnico di Milano) e non è chiaro quanta IA sia stata introdotta.
6. AUTORI
Ludovico Ciferri (Project Leader)
Monica Beltrametti
Luciano Floridi
Piero Trivellato
www.aspeninstitute.it - 04-11-2017
Tratto da