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Giustiniano e l'ultimo tentativo di salvare l'impero


GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.

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Giustiniano

Nato nel 482 a Tauresio, uno sperduto villaggio dei balcani, figlio di un contadino, avrebbe avuto ben altra sorte se la madre, Vigilantia, non avesse avuto la fortuna di essere la sorella di Giustino, l’oscuro soldato che scalando tutti i gradi dell’esercito era riuscito a diventare l’imperatore di Bisanzio nel 518 dC. Ancor prima che questo succedesse, lo zio aveva chiamato a corte Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano.

Giustiniano praticò un lungo apprendistato che lo vide prima assistente, poi sostituto, ancora co-reggente e infine sempre più effettivo imperatore a fianco dello zio.
Fu in quegli anni, durante i quali svolse anche il servizio militare, contrassegnato da rapidi avanzamenti di carriera, che Giustiniano ebbe modo di stringere amicizia con Belisario, colui che letteralmente sarà il “braccio” attraverso il quale il futuro imperatore eserciterà la potenza militare su cui dispiegherà la riscossa bizantina. E sempre in quel periodo, intorno al 525, Giustiniano ebbe l’incontro fatale con colei assieme alla quale era destinato a formare una delle coppie più chiacchierate del Medioevo, ovvero Teodora.
I trascorsi di Teodora, almeno a leggere l’“edificante” ritratto tracciato dall’inarrivabile Procopio di Cesarea nei suoi Anekdota, erano stati a dir poco burrascosi. L’autore le attribuisce infimi natali, insinuando che fosse la figlia di Acacio, il guardiano d’animali dell’ippodromo di Costantinopoli. A ogni modo, dopo aver generato la fanciulla nel 502, costui morì lasciando sola la moglie che, oltre a Teodora, doveva provvedere anche al sostentamento di altre due figlie, Còmito e Anastasia. Le tre fanciulle erano dotate di una bellezza che non passava inosservata. Così la madre non ebbe difficoltà a individuare nelle figlie la leva su cui contare. La maggiore, Còmito, era già una cortigiana affermata quando la piccola Teodora iniziò a seguirla, vestita con una tunica corta che non lasciava nulla all’immaginazione, seppur limitata a un corpo che doveva essere ancora quello di una bambina. Ciò non impedì alla precoce Teodora di iniziare a intrattenere gli schiavi al seguito degli spettatori che affollavano le performance della sorella. Teodora giunta all’età della pubertà era una vera e propria «meretrice, di quelle», scrive Procopio, «che una volta si chiamavano da marciapiede; ciò perché non aveva nessun’arte, non era flautista, né artista e neppure conosceva la danza, ma dava il suo bel frutto a chi capitava, utilizzando unicamente il suo corpo» che doveva essere indubbiamente bello.
Questo le permise di entrare a far parte di una compagnia di mimi, in cui faceva da spalla alle loro trivialità, dedicandosi alla pantomima e alle battute salaci, non vergognandosi di sconfinare nella spudoratezza. Al punto da alternare gli spettacoli in scena con altrettante e prestazioni consumate a latere del palco, durante le quali sapeva intrattenere chiunque le capitasse con modalità talmente coinvolgenti da irretire morbosamente chiunque aveva la ventura di legarsi a lei. Spesso si accoppiava con tutti non lesinando di distribuire la sua carità universale anche ai servi, riuscendo addirittura a soddisfarne svariati contemporaneamente e anzi lamentandosi che la natura non avesse concesso orifizi anche ai suoi seni, altrimenti sarebbe stata in grado di aumentare il numero di avventori ai quali avrebbe provveduto in un colpo solo. È ovvio che il racconto di Procopio pecchi di quell’iperbole ispirata dall’idiosincrasia che l’autore, sufficientemente snob per via del suo status di alto papavero imperiale, nutriva nei confronti delle umili origini della futura sovrana. Senza contare che l’intento sulfureo dello scrittore era quello di colpire lei assieme a Giustiniano, identificandoli come causa delle sciagure che si abbatteranno su Costantinopoli e divenendo in questo interprete fedele dei sentimenti del popolo bizantino.
Alcune fonti sostengono che Teodora, in preda a una crisi spirituale si sarebbe gettata ai piedi del futuro sposo. Ovviamente più crudo Procopio, che attribuì l’appuntamento alle manovre di Macedonia, una ballerina ben introdotta a corte che permise così a Teodora, sua amica, di adescare Giustiniano e di irretirlo con le grazie delle più dissolute arti amatorie. Non dovette impiegare molto, se è vero che l’allora console, fresco di una nomina che lo poneva al comando delle truppe orientali, si era mantenuto sino a quel momento vergine, in ottemperanza alle sue letture tra le quali spiccavano gli insegnamenti di sant’Agostino. La visione di una fanciulla di ventidue anni, conturbante, con quel bagaglio di esperienza, deve avergli scatenato il fuoco. Fu dunque amore a prima vista, attraverso il quale Teodora, inconsapevolmente, vedeva realizzato il sogno avuto precedentemente e prontamente confidato all’amica Macedonia, nel quale le veniva predetto che «sarebbe andata a letto con il capo dei demoni e sarebbe diventata la sua legittima moglie, e da quel momento sarebbe diventata padrona d’ogni ricchezza. Quel signore diabolico si presentava proprio nella persona di Giustiniano.
In effetti è proprio così che lo dipinse il solito Procopio nella sua velenosissima Storia segreta, l’alternativo nome con il quale gli Anekdota sono stati emendati alla memoria. Dopo aver indugiato sui tratti fisici, lo scrittore quando si tratta di contemplare le caratteristiche morali di Giustiniano, le riduce a una summa di tutte le nequizie umane. Così scrivendo, da un lato Procopio rivendicava la sua validità di storico che riportava solo fatti ai quali fosse stato testimone attendibile, dall’altro devastava la memoria del basileus che appariva così un personaggio avido, un tiranno, malvagio e ingenuo, falso, imbroglione, tenebroso nell’ira, campione di doppiezza, perfetto nel dissimulare un’opinione, bugiardo, capace di piangere, non di piacere o di dolore ma per la sua grande abilità d’adeguarsi alle esigenze immediate, sanguinario e predatore di ricchezze altrui.
Procopio sconfinò nel grottesco attribuendo al povero Giustiniano addirittura una natura diabolica, come precedentemente anticipato. Intercettando voci e sussurri che serpeggiavano a corte, lo scrittore ricordava come i suoi collaboratori, abituati ai ritmi insonni del futuro basileus, avrebbero più di una volta scorto un demone assiso sul trono al suo posto; o addirittura giuravano di aver visto scomparire la testa del sovrano mentre il suo corpo continuava bellamente a passeggiare; o assicuravano di aver assistito alla liquefazione del volto di Giustiniano che per alcuni istanti avrebbe devastato i suoi lineamenti, prima di un ritorno alla normalità dopo un tempo che allo spettatore deve essere sembrato interminabile. Tutto ciò si attagliava alla diceria secondo la quale lo stesso concepimento di Giustiniano sarebbe da attribuire a una copula avvenuta tra la madre e un demone non meglio identificato.
Qui Procopio sfruttava mirabilmente un mito di antichissima tradizione orientale, affermato tra egiziani e babilonesi, secondo cui le origini divine del sovrano si sarebbero manifestate attraverso un concepimento soprannaturale: basti pensare al serpente che avrebbe generato Alessandro Magno. Ma lo fece piegandolo ai temi della tradizione e della letteratura monastica, sovvertendone completamente il significato per cui il figlio del dio diventava figlio del diavolo.
Affermare che l’imperatore era figlio del diavolo equivaleva ad attribuirgli una blasfemia insopportabile. Ora, verrebbe da chiedere come e perché uno scrittore stimato come Procopio, il cronista ufficiale che magnificò Giustiniano tributandogli la stesura della Storia delle guerre, persiana, vandalica e gotica, in cui offriva ben altra descrizione del basileus, si fosse arrischiato a produrre un pamphlet così corrosivo e così, diciamolo pure, fuori dalle righe. La risposta è abbastanza semplice e va scovata nell’acrimonia vissuta nel periodo in cui, assecondando la sorte di Belisario di cui era fidato segretario, fu allontanato dalla corte di cui non godeva più i favori. Ciononostante, sarebbe ingiusto bollare questa particolarissima opera come il frutto di una maldicenza livorosa, se è vero che ben altri due autori, Evagrio Scolastico e Giovanni Zonara, rispettivamente nella Storia Ecclesiastica e nell’Epitome delle storie, non lesinarono bordate contro l’operato dell’imperatore, tanto da lasciare intendere che le accuse mosse contro Giustiniano riflettevano lo stato d’animo di una parte dei sudditi e facevano risaltare le lunghe ombre di un personaggio la cui politica non fu solo fulgore sublime.
L’unione tra Giustiniano e Teodora diventerà una sorta di archetipo, espressione di quella complicità raramente eguagliata nel corso della Storia. Interpretando un sapiente gioco delle parti, i due instaureranno una sorta di “diarchia del talamo”, attraverso la quale fingendo contrasti e contrapposizioni, utili per destabilizzare gli estremismi che alitavano in città e a corte, conducevano in realtà un gioco politico nel quale procedevano al contrario compatti e saldi, in un’univocità di vedute.
Nel 527 Giustiniano formalizzava un potere che di fatto deteneva quando, morto lo zio, assumeva la piena dignità della basileia. Che sul trono di Costantinopoli non sedesse uno qualunque lo si intuì dai primi vagiti del suo regno. Giustiniano infatti fece proprie le istanze della renovatio imperii che furono di Costantino e che sopravvissero attraverso il dominio della dinastia dei secondi Flavii e di Teodosio, rinvigorito attraverso il recupero di un respiro universalistico che rappresentò la caratteristica più saliente della tradizione romana. Esattamente come Costantino, Giustiniano individuò nel cristianesimo l’elemento attraverso il quale legittimare la propria concezione del potere, finendo ben presto per sopravanzarla.
Sfruttando l’impianto teologico della religione che ormai si era profondamente radicata in tutti i territori dell’impero, Giustiniano spinse alle estreme conseguenze tali convinzioni, presentandosi come un essere celeste mandato nel mondo per il suo benessere, che si esplicava attraverso un dominio universale. Come rilevava Temistio, eloquente filosofo della sua corte, egli era la creatura più eminente del mondo, a imitazione di Dio nelle sue virtù. La persona imperiale diveniva dunque santa: alla sua presenza si parlava con rispetto, i suoi dignitari si riunivano in concistori le cui sedute erano significativamente dette silentia, il suo palazzo era sacro come le sue legioni, e i suoi abiti diventavano paludamenti e calzature d’oro e pietre preziose, diademi imperlati; di lui si parlava come «nostra clementia, nostra pietas, nostrum numen» e chi lo offendeva era sacrilego.
Grazie a una compiuta adesione al cristianesimo, una religione asiatica le cui radici semitiche affondavano in quell’Oriente in cui era nata la concezione monarchico-sacrale universale, l’imperatore poteva così riallacciarsi al dispotismo tipico dell’area, scrollandosi di dosso i retaggi della res publica che invece avevano “impastoiato” Roma e l’Occidente. Le tensioni attraverso le quali scivolerà in posizioni sempre più assolutistiche, tali da divenire eretiche, furono condite dalla passione conflittuale che lo legava all’avvenente moglie Teodora, capace di dare un sapore carnale anche alle più rarefatte dispute teologiche che lo opponevano al consorte. Il quale al momento, proteso verso la ricerca di una vantaggiosa unità della Chiesa, squassata da divisioni più o meno serie, concretizzò i suoi sforzi attraverso un atto che farà storcere il naso a tutti gli analisti successivi. Nel 529 infatti, una delle prime disposizioni che il neoimperatore adottò fu la chiusura dell’Accademia di Atene e la confisca del suo patrimonio, coronando un percorso di intolleranza antipagana che aveva già goduto dei “meravigliosi” frutti di Teodosio. Fu così che i filosofi neoplatonici, gli ultimi custodi della sapienza antica, presero la via dell’Oriente, attratti dalla luce di Gondishapur, centro di medicina e di filosofia che grazie alle gesta di Alessandro Magno aveva ricevuto e conservato un impianto aristotelico ricettore della tradizione che verrà ancora riconosciuto in epoca islamica.
Peccato che i poveri saggi, convinti di recarsi alla corte dell’“illuminato” Kavad, ignorando che questi era ormai un fantoccio nelle mani del figlio, il principe Cosroe, dovettero fare i conti con la politica assolutista instaurata da quest’ultimo, non a caso passato alla storia come il custode dell’ortodossia religiosa e il difensore dell’identità nazionale sasanide. Costretti a ritornare sui loro passi, si fermarono per un certo periodo nel centro neoplatonico di Harrân finché, rientrati nell’impero bizantino, in mancanza di una propria scuola, si limiteranno a offrire attraverso gli insegnamenti privati quella libertà dello spirito che la teocrazia voleva soffocare. A tale forma infatti era approdata la concezione politica di Giustiniano che non a caso, proprio a partire dallo stesso anno, il 529, pubblicava la prima edizione del Codex iuris civilis (tale il nome assunto dal complesso a partire dal XVI secolo), la raccolta di leggi che diventerà uno dei monumenti su cui costruirà la sua fama imperitura. La riforma giuridica.
Corrispondendo a uno statuto ontologico, etico e politico che lo trasfigurava in nòmos èmpsukos, “legge vivente”, Giustiniano “informava” così la realtà attraverso una codifica giuridica che, oltre a svolgere l’apprezzato compito di riunificare e uniformare il diritto romano sino ad allora conosciuto, sottintendeva il disegno giustinianeo di subordinare la vita culturale e giuridica alla monarchia assoluta. La conseguenza più significativa di tale condotta politica fu il predominio della funzione giuridica assolta dallo Stato nella persona dell’imperatore: sorgeva così l’ideologia di Stato, espressa attraverso un pensiero dogmatico che, per dettar legge sia in politica sia in teologia, mandava in esilio il Logos, il principio spirituale dell’uomo celebrato tanto dalla tradizione patristica quanto dalla filosofia neoplatonica.
Fu questo il compito che assunse, in un lasso di tempo notevolmente breve, una commissione di dieci esperti formata da alti funzionari e dal giurista Triboniano. Alla prima pubblicazione, costituita da una scelta ragionata ed emendata delle Costituzioni imperiali ancora in vigore, seguì una seconda nel 534, dove furono incorporate numerose novelle di aggiornamento. Sempre su impulso di Triboniano, il lavoro fu completato in quell’anno da una raccolta di estratti di testi giuridici classici, il Digesto, e da un manuale, le Istituzioni, che incorporava i lavori degli autori romani riassumendo le riforme imperiali più importanti.
Alla fine dell’XI secolo il Codex verrà “riscoperto” in Italia e utilizzato come base per il diritto canonico; studiato a Bologna nel programma della prima università, finirà per costituire le fondamenta della giurisprudenza occidentale che ora si estende in tutto il mondo, come testimonia la profonda persistenza dell’uso continuo di locuzioni latine: se i giuristi avessero un santo protettore, questi sarebbe di certo Giustiniano.
Il sogno universalista cullato dall’imperatore non poteva prescindere da un punto fondamentale: il consolidamento dei territori imperiali, dentro e soprattutto fuori i confini. Ciò significava intraprendere un’ambiziosa azione di riconquista che si inseriva in uno scacchiere internazionale in cui, dopo le traumatiche perdite africane subite per mano dei vandali e quelle molto più dolorose patite in Italia a opera degli ostrogoti, si respirava tutto sommato un’atmosfera tranquilla. D’altro canto, non esistevano più potenze rivali a nord di Costantinopoli, così come a sud o a est del Danubio, dove nonostante l’assenza dei goti, fino a poco tempo prima utili a svolgere una funzione di cuscinetto, si erano registrate tra il 493 e il 502 solo sporadiche incursioni di un popolo di origine turca, i bulgari.
Oltre l’Adriatico, il regno ostrogoto d’Italia aspirava a buone relazioni con l’impero e parte della sua élite sperava in una riunificazione con esso, soprattutto alla luce dell’alleanza stipulata con i franchi e prontamente annotata da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum, in cui si sottolineava come il conferimento a Clodoveo, nel 508, del titolo di console onorario, rientrasse in una strategia mirata a contenere Teodorico a ovest e a nord. I vandali e gli alani che avevano conquistato l’Africa nel secolo precedente erano ancora presenti, ma non minacciavano più spedizioni navali contro l’Egitto. A sud, un gioco di alleanze realizzato attraverso il sostegno apportato al regno etiopico e cristiano di Axum, con la relativa conquista di Himyar in Arabia nel 524-25, e l’intesa con gli arabi cristiani ghassanidi, il cui re Harith-Arethas veniva creato patrizio, mirava a controbilanciare la potenza persiana che, al momento, appariva come l’unica capace di impensierire l’impero.
L’impero sasanide rimaneva una permanente minaccia, non mitigata né dal reciproco rispetto, né dai frequenti negoziati o trattati formali di cui la pace eterna rappresentava l’ultima incarnazione: rimarranno necessarie una persistente vigilanza e la capacità di schierare con rapidità i rinforzi, anche se spesso questi risulteranno insufficienti a contenere la potenza persiana nel Caucaso, così come in tutta la contestata Armenia, giù fino alla Siria meridionale.
Vi furono anni di lotte intestine tra due fazioni, i verdi e gli azzurri, che produssero migliaia di morti e che solo la spada di Belisario riuscì a domare. È possibile che il disordine interno abbia spinto Giustiniano a procurarsi un diversivo lanciando la spedizione africana e le altre operazioni di “riconquista” in Occidente, ma niente impedisce che esse corrispondessero a un piano premeditato.
Il basileus infatti era conscio di come, in virtù dell’apporto procurato dagli unni che, al disgregamento del loro impero, avevano scelto di reinventarsi come mercenari al servizio di Bisanzio, l’esercito imperiale avesse subito una vera e propria rivoluzione tattica: pur mantenendo l’abilità nel battersi corpo a corpo con la spada e la lancia da punta, i suoi componenti ormai padroneggiavano la difficile tecnica del tiro con l’arco dall’arcione attraverso i potenti archi ricurvi. In tal modo la cavalleria era ormai diventata l’arma principale delle armate imperiali, avendo adottato una tattica agile grazie alla quale, ciò che poteva mancare ai singoli cavalieri veniva compensato dalla maggiore elasticità dei loro disciplinati e compatti reparti.
Detto in altri termini, l’esercito imperiale otteneva una superiorità operativa sui vandali e gli alani d’Africa, oltre che sugli ostrogoti d’Italia. Gli alani erano infatti abili soprattutto a cavallo, vandali e goti erano combattenti formidabili nel corpo a corpo, perfettamente in grado di organizzare importanti spedizioni, e non privi di capacità d’assedio: tutti però erano privi dell’abilità di lanciare armi e di mobilità sul campo. Inoltre Giustiniano, che tra i suoi grandi meriti ebbe quello di riuscire a individuare al meglio i propri collaboratori, sapeva di poter contare sulla perizia militare di Belisario, il quale non a caso diverrà famoso per la sua capacità di ricorrere a infinite risorse, inventando sempre nuovi stratagemmi e soluzioni. Procopio ce lo descrive come un generale abilissimo nell’evitare la guerra di logoramento e maestro nello sfruttare al massimo quella di manovra.
Fu soprattutto in virtù del talento di un simile condottiero che Giustiniano, nell’estate del 533, poteva contemplare quasi a cuor leggero (o per lo meno gonfio di concrete speranze) il contingente che lasciava il Corno d’Oro alla volta dell’Africa: 10.000 fanti e 8000 cavalieri, a bordo di 500 navi da trasporto con 30.000 uomini d’equipaggio, scortati da 92 galere da guerra. Si trattava senza dubbio di una spedizione impressionante, ma 18.000 soldati non sarebbero stati comunque sufficienti ad attaccare i vandali e gli alani, per non parlare degli ostrogoti – le cui formazioni militari erano appoggiate dalle truppe dell’intera Italia – se non in virtù dei vantaggi tattici e operativi della manovra con forze di arcieri a cavallo, gli unici in grado di garantire alcune possibilità di successo.
Le armate fecero scalo in Sicilia, dove appresero da alcuni mercanti che la flotta vandalica aveva lasciato Cartagine alla volta della Sardegna, nella quale l’impero aveva fomentato una ribellione. I bizantini sbarcarono così senza difficoltà in Bizacena (Caput Vada, nell’attuale Sahel tunisino), impadronendosi quasi senza colpo ferire di Cartagine il 14 settembre 533 e recuperando i tesori che Genserico aveva portato via da Roma nel 455, ivi comprese, si dice, le ricchezze che Tito aveva precedentemente trafugato dal Tempio di Gerusalemme.
Il re Gelimero fu costretto alla fuga e, incapace di resistere a lungo, fu imprigionato ed esibito nel trionfo celebrato a Costantinopoli nel 534, prima di essere esiliato in Asia Minore, mentre una parte delle sue truppe veniva arruolata nell’esercito bizantino e inviata sul fronte persiano. L’editto del 534 poteva così organizzare la prefettura d’Africa, che seppur ridotta rispetto all’epoca romana rimaneva una vasta provincia che inglobava i territori vandalici dalla Tripolitania fino alle Baleari, la Corsica e la Sardegna, la Numidia, una parte della Mauretania Sitifense, alcuni scali come Septem (Ceuta) e Tingi (Tangeri).
Una volta assicuratosi che la difesa del territorio poggiasse su una rete pianificata di fortificazioni che permettevano il controllo delle zone circostanti per mezzo di guarnigioni ridotte (risultata valida sino alle prime incursioni arabe del 646), Giustiniano non dimenticò di perseguire gli ariani presenti in zona, restituendo al cattolicesimo il rango di religione ufficiale. Gli ariani d’altronde erano in buona compagnia. Nel tentativo furioso attraverso il quale Giustiniano cercava di ricomporre l’unità della Chiesa, le altre confessioni furono schiacciate senza alcuna pietà. Abbiamo già appurato come il fondamentalismo giustinianeo avesse comportato la chiusura della scuola filosofica ateniese. Ebbene, la lotta al paganesimo si protrasse attraverso le confische dei beni, le torture e i roghi, sfociando in una conversione forzata di massa. Solo in Asia Minore, Giovanni di Efeso sostenne di aver convertito 70.000 anime, mentre altre popolazioni quali gli eruli, gli unni che dimoravano nei pressi del Don, gli abasgi e gli tzani in Caucasia furono costrette a piegarsi alla cristianità. Ad Augila, nel deserto libico, l’adorazione di Amon venne proibita, pena la morte; i templi e le statue vennero distrutti, i libri bruciati, come i resti del culto di Iside sull’isola di Philae sul Nilo. Il presbitero Giuliano e il vescovo Longino condussero una missione tra i Nabatei e Giustiniano tentò di rafforzare la cristianità nello Yemen inviandovi un ecclesiastico dall’Egitto. Anche gli ebrei se la videro brutta. A questa lista si aggiunsero i samaritani, assolutamente refrattari al cristianesimo e per la verità in rotta pure con gli ebrei. L’imperatore li aveva privati persino del diritto di acquistare proprietà, finché nel 529 era scoppiata una rivolta puntualmente repressa nel sangue. A questa seguì una seconda sollevazione nel 556, stavolta in combutta con gli ebrei, che incendiò la regione di Cesarea. Di nuovo Giustiniano reagì con spietata durezza, affidando alle armi e ai roghi la risoluzione del problema. La soluzione definitiva verrà adottata solo dal successore Giustino ii, che non troverà nulla di più efficace se non ricorrere al genocidio dell’intera popolazione. A chiudere la sfilza dei perseguitati contribuirono loro malgrado i manichei, gli intransigenti dualisti rei di credere unicamente nella contrapposizione tra un sommo bene e un sommo male: costoro subirono prima l’esilio e la confisca dei loro beni, poi, epurati soprattutto a Costantinopoli, furono in parte affogati e in parte arsi vivi, a rinnovare quella dicotomia cui tanto sembravano affezionati.
Frattanto gli eventi maturavano al punto da concedere all’imperatore l’occasione agognata di intervenire in Italia. Qui, la reggente degli ostrogoti Amalasunta – la figlia di Teodorico che, in attesa della maggiore età del proprio pargolo Atalarico, si era posta proprio sotto la protezione bizantina – fu assassinata dal cugino Teodato, che con quell’iniziativa si impossessava del trono. Per la verità Procopio insinuò che quella morte fosse piuttosto il frutto della gelosia di Teodora che, preoccupata dalla bellezza di Amalasunta, per giunta descritta come colta e di carattere virile, soffocava così sul nascere la sua intenzione di trasferirsi a Bisanzio. Comunque siano andate le cose, Giustiniano aveva il suo pretesto che non esitò a sfruttare: Belisario, che ricopriva il consolato dal 1º gennaio 535, fu catapultato in Sicilia mentre l’unno Munda attaccava contemporaneamente l’estensione orientale del regno goto in Dalmazia. Belisario non incontrò grosse difficoltà in Sicilia, riuscendo a conquistarla in breve tempo, mentre il suo collega faceva altrettanto al di là dell’Adriatico. Allarmato dai primi successi bizantini, l’usurpatore Teodato avviò trattative di pace con Giustiniano, promettendo di consegnare il regno ostrogoto all’impero in cambio di una pensione annuale. Tuttavia, un’insperata vittoria gota in Dalmazia ebbe l’effetto di inoculare nel re rinnovate speranze, che lo portarono a desistere dal proseguire la via diplomatica e a perseguire piuttosto la strada delle ostilità. Belisario procedeva intanto come un rullo compressore e nel 536 attraversò lo stretto di Messina, sottomettendo senza trovare quasi alcuna opposizione l’Italia meridionale, compresa Napoli, che conquistò offrendo prova di tutte le qualità suddette. Dopo un assedio di venti giorni, il generale preferì infatti non assalire le sue solide mura ma tentare un audace colpo che rappresentò una vera e propria sfida alla sorte. Era avvenuto che un soldato, spinto dalla curiosità, aveva esplorato l’acquedotto sotterraneo (il cui flusso d’acqua era stato interrotto all’inizio dell’assedio), scoprendo che il condotto, seppur ristretto, permetteva di proseguire oltre le mura fino all’interno della città. Il commando proseguì fino a raggiungere un tratto scoperto, quindi proseguì fino alle mura, dove riuscì a eliminare la guarnigione di ben due torri prima che qualcuno si accorgesse della sua presenza. A quel punto Belisario fu in grado di lanciare un attacco con le scale verso le mura sguarnite, occupando Napoli senza un costoso assalto. Quindi mosse alla volta di Roma, che il 9 dicembre gli aprì le porte come a un liberatore.
Nel frattempo i goti, esasperati dalla passività di Teodato, lo uccisero eleggendo re Vitige, il quale preparò la controffensiva che si concretizzò nell’assedio sferrato contro Roma, protrattosi per oltre un anno. Ancora una volta l’ingegno di Belisario si palesò improvvisando la costruzione di mulini galleggianti, mossi dalla corrente del Tevere, per lenire la fame della popolazione cinta dal nemico. Intanto che questa si macerava, all’interno delle mura andava in scena una battaglia meno cruenta ma assai più gravida di conseguenze. Giustiniano infatti, alla ricerca di quell’unità che non poteva prescindere da quella della Ecclesia, stava giocando una partita sottile con la sede apostolica, che vide in quel frangente intromettersi bruscamente un terzo incomodo, sua moglie Teodora.
È necessario comprendere che mai nella storia della Chiesa antica indivisa ci fu un imperatore che, al pari di Giustiniano, esercitò un ruolo così preponderante nella vita religiosa. Già poco dopo l’ascesa dello zio, nel 518, egli, agendo da vera e propria eminenza grigia, si era impegnato nella ricomposizione dello scisma monofisita sorto tra Roma e Bisanzio sin dal 483. La frattura era nata in merito alla forma di cristologia elaborata da Eutiche, archimandrita di un monastero costantinopolitano del V secolo, secondo la quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e dunque in Lui era presente solo la seconda. Tale interpretazione si poneva in netto contrasto con quella propugnata da Nestorio, il patriarca di Costantinopoli convinto assertore del difisismo, ovvero della compresenza non solo delle due nature umane e divina, ma addirittura di due persone distinte, ognuna delle quali caratterizzate da quelle prerogative.
Il concilio di Efeso del 449 decretò l’ortodossia del monofisismo, salvo essere ribaltato completamente dall’esito del concilio di Calcedonia del 451, che invece dichiarò eretiche le teorie di Eutiche e, seppur accettando quelle nestoriane, le sopravanzò affermando che la doppia natura di Cristo viveva in un’unica persona in virtù dell’unione stabilita tramite l’incarnazione. Giustiniano appoggiò dunque tale risoluzione, fortemente caldeggiata all’epoca dalla potentissima sorella di Teodosio II, Pulcheria, e seppur non si tirò indietro nel perseguire i vescovi monofisiti, lasciando che fossero privati della loro carica ed esiliati, mentre le comunità monastiche eretiche in Oriente venivano disperse e i loro conventi chiusi, nutriva ancora la speranza di condurre a una riconciliazione con le frange più moderate del monofisismo. In tutto ciò, il riconoscimento della sede romana come più alta autorità ecclesiastica rimase la chiave di volta della sua politica occidentale, nonostante suonasse offensiva a molti in Oriente.
Comunque Giustiniano, una volta salito al trono, non rinunciò a trovare una formula teologica compromissoria che potesse andare bene sia per i Calcedoniani che per i monofisiti moderati. Nel 529 permise ai vescovi esiliati di ritornare e li invitò a partecipare a un’assemblea che avrebbe dovuto risolvere la questione. Questa, tenutasi nel 531, non portò però a risultati. Giustiniano non desistette dal tentativo di conciliazione e trovò una possibile formula teologica di compromesso nella dottrina teopaschita secondo la quale Gesù, in quanto Dio, non provò realmente la sofferenza e non morì. Anche se all’inizio Giustiniano era dell’opinione che la questione ruotasse attorno a concetti di vuota importanza, col tempo si persuase che la formula in oggetto non solo appariva ortodossa, ma poteva servire come ottima misura conciliatoria nei confronti dei monofisiti; perciò si impegnò a usarla nella conferenza religiosa del 533, sperando di ricomporre vanamente la diatriba sorta con i seguaci di Severo di Antiochia, ovvero l’esponente più eminente del partito monofisita. Ancora, Giustiniano la perfezionò con l’approvazione nell’editto religioso del 15 marzo 533, e si congratulò con se stesso quando l’allora papa Giovanni II ammise l’ortodossia della confessione imperiale. Questo tentativo di compromesso non toccava però la questione principale e non ebbe grande fortuna, soprattutto quando, intrapresa la guerra contro i goti, l’imperatore virò verso una politica mirata ad attrarre il favore degli italici di fede calcedoniana, abbandonando così ogni tentativo di compromesso e avviando una nuova persecuzione contro i monofisiti. Benedetta dal nuovo papa Agapito I, succeduto a Giovanni II nel 536, la nuova azione ebbe come immediata conseguenza la deposizione del patriarca di Costantinopoli Antimo, monofisita voluto fortemente da Teodora, che di quella corrente era convinta sostenitrice.
L’influenza dell’imperatrice a corte era cresciuta a dismisura grazie al prestigio da lei conseguito per il modo virile con cui aveva fronteggiato la rivolta tra verdi e azzurri nel 532. Così, di fronte all’esclusione del suo protetto, resa ancor più indigesta dall’elezione a patriarca del calcedoniano Mena, che già nel maggio del 536 convocava un sinodo di condanna degli scritti dei patriarchi monofisiti Antimo e Severo, ratificato prontamente da un editto imperiale, Teodora si oppose drasticamente alla politica del marito; pose pertanto sotto la sua protezione i membri più eminenti della Chiesa monofisita, ma soprattutto tramò in segreto per porre sul seggio papale un pontefice che appoggiasse il monofisismo.
Così, si mise in contatto con l’apocrisario papale Vigilio, promettendogli che avrebbe fatto in modo che divenisse papa, ma solo a condizione che avrebbe ripudiato il concilio di Calcedonia e ristabilito Antimo come patriarca; quindi, attraverso il legame che la univa ad Antonina, la moglie di Belisario che al pari di lei vantava un passato hardcore di tutto rispetto, si apprestò a mettere in scena il suo personalissimo golpe. Ora, è necessario comprendere il particolare rapporto instauratosi tra la virago Antonina e il generalissimo Belisario. Costui infatti viveva una strana dicotomia che, se da un lato lo mostrava come un brillante condottiero, capace di conquistare i popoli e di porre in ceppi sovrani, dall’altro lo vedeva come un docile gattino soffocato dalle grinfie della perfida moglie, per la quale provava un amore incondizionato che lo rendeva succube per non dire schiavo. Fu così che il nobile Belisario si prestò al gioco indotto dalla moglie, voluto da Teodora alla quale era legata da un connubio che sconfinava nel torbido e nell’illecito. Pertanto, la presenza del generale a Roma nel 537 fu sfruttata dall’imperatrice per deporre l’allora pontefice Silverio, che aveva sostituito sul soglio Agapito morto da pochi mesi. Il poveretto si vide accusato di tradimento e connivenza coi goti e imprigionato senza che Giustiniano riuscisse a fare nulla nei suoi confronti.
Teodora così otteneva che Vigilio divenisse il successore, ignorando quanto quest’ultimo si sarebbe rivelato esiziale per la causa monofisita. Tutt’altro che propenso a mantenere quanto promesso all’imperatrice, il nuovo pontefice si rivelerà al contrario assolutamente aderente all’ortodossia di Calcedonia, innescando una serie di meccanismi che saranno risolti solo successivamente, attraverso il famoso affaire dei “Tre Capitoli”.


Eugenio Caruso - 16 gennaio 2018

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