GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.
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Teodorico
Teodorico (Pannonia, 12 maggio 454 – Ravenna, 30 agosto 526), è stato re degli ostrogoti dal 474 e patrizio d'Italia dal 493 al 526, secondo dei re barbari di Roma. Figlio del re ostrogoto Teodemiro e di una sua concubina, Erelieva, all'età di otto anni fu inviato come ostaggio, a garanzia della pace tra Bizantini ed ostrogoti, presso la corte dell'imperatore Leone I, dove visse per dieci anni. A Costantinopoli venne educato e apprese il latino e il greco. Riscattato dal padre, si fece subito valere come comandante degli ostrogoti in diverse battaglie, conquistandone ben presto la fiducia. Teodorico succede al trono degli ostrogoti dopo la morte del padre (474) e prosegue la politica di alleanza con il vicino Impero, dal quale otteneva compensi per i servigi di protezione dei confini. L'imperatore bizantino, alleandosi con Teodorico, sperava che questi riuscisse a porre sotto il controllo ostrogoto le nuove popolazioni barbariche che spingevano ai confini dell'Impero, assicurando così a Bisanzio una zona di influenza che fungesse da cuscinetto tra l'Impero e le popolazioni barbariche.
I successi di Teodorico portarono l'imperatore Zenone a riconoscere al re ostrogoto lo stato di federato romano e a eleggerlo a console nell'anno 484, ufficializzando in questo modo il predominio ostrogoto sull'area balcanica.
La presenza di Teodorico stava diventando però sempre più ingombrante per Zenone e nel contempo Odoacre in Italia stava allargando la sua zona di influenza minacciando gli interessi di Bisanzio. Zenone pensò di risolvere i suoi problemi mettendo l'uno contro l'altro i due re barbari, per cui, con l'aiuto di Bisanzio, nel 488 Teoderico preparò la spedizione verso l'Italia, intrapresa nell'autunno dello stesso anno.
Teodorico varcò le Alpi orientali nel 489 con un esercito di circa 100.000 ostrogoti e condusse le sue genti in una serie di cruenti scontri contro gli eruli, scontri che terminarono dopo cinque anni (493), quando Teodorico fece uccidere a tradimento Odoacre e tutta la sua corte durante un banchetto che avrebbe dovuto sancire la pace tra i due re. Altre fonti riferiscono che Odoacre venne passato per le armi dopo un rapido processo nel palazzo reale, in quanto cercava ancora di insidiare la vita di Teodorico corrompendo i suoi luogotenenti. L'uccisione di Odoacre segnò l'inizio del dominio degli ostrogoti in Italia, dominio che rappresentò un lungo periodo di stabilità.
Teodorico seguì le linee guida già tracciate da Odoacre, lasciando ai Romani, che gli si dimostrarono fedeli, gli impieghi amministrativi e politici che già possedevano, riservando nel contempo esclusivamente ai goti i compiti di sicurezza e difesa. Inoltre, per pacificare l'Italia, riscattò i cittadini romani fatti prigionieri da altri popoli barbari e procedette alla distribuzione delle terre. Tale liberalità e avvedutezza nella ripartizione dei terreni è da attribuire all'esiguo numero di ostrogoti rimasti dopo aver varcato le Alpi. Tuttavia, più di uno storiografo nutre dubbi sull'effettivo buongoverno da parte di Teodorico. Se le intenzioni del re ostrogoto erano buone, non si poteva dire lo stesso per quelle dei suoi conti e luogotenenti, che puntavano a consolidare il loro potere mettendo a tacere le rivendicazioni dei latini.
I governanti Romani, in più di un caso, si rivelarono incapaci di venire incontro alle esigenze della popolazione favorendo per contro i loro interessi personali, fatto già largamente diffuso nel Tardo Impero. In questo periodo fu autorizzata una legge, mutuata dai costumi germanici, che permetteva ai contadini vittime di atti di schiavismo di uccidere i loro padroni come atto di legittima difesa. Più di un proprietario terriero latino venne cruentemente ucciso in ottemperanza a questa norma, e le loro proprietà passarono nelle mani dei goti oppure di latini collaborazionisti e rinnegati, alimentando un clima di sospetto. L'eliminazione di questi proprietari terrieri, ripresa con ulteriore violenza sotto Vitige e Totila, provocò enormi danni anche alla produzione agraria, in quanto i nuovi padroni pensavano principalmente al sostentamento personale e dei propri uomini. La loro generale inesperienza in agricoltura, inoltre, provocò una sostanziale riduzione dei terreni coltivati, destinata ad aggravarsi con la guerra gotica.
Tra il 423 e il 426 molti latini della Dalmazia, a seguito della crescente prepotenza degli ostrogoti che avevano occupato la maggioranza dei possedimenti agricoli, preferirono riparare nei territori dell'Impero Bizantino. A ciò si aggiunga il clima di tensione che si creò tra i rimanenti militi italici, costretti a cedere le armi ai nuovi venuti, e quelli ostrogoti. A più riprese si verificarono incidenti che non sfociarono in aperto conflitto solo per mezzo di complesse trattative diplomatiche: molti dei soldati latini vennero indennizzati, altri poterono continuare a prestare servizio sia pure con capacità ridotte. A compromettere il progetto di Teodorico fu anche il comportamento di alcuni funzionari reali, che si resero protagonisti di innumerevoli ruberie ai danni degli italici e dei pochi barbari di Odoacre superstiti. I pagamenti in natura tramite beni agrari e capi di bestiame furono in talune circostanze talmente esosi da ridurre la popolazione alla fame, smentendo le cronache del tempo che parlavano di grande abbondanza di cibo per l'intera popolazione.
Nel Bruzio, negli ultimi anni del regno di Teodorico, le angherie degli ostrogoti furono tali da spingere la popolazione di Locri alla rivolta aperta. Un latino collaborazionista, un certo Protadio, tentò disarmato di bloccare i tafferugli ma fu linciato. La rappresaglia gotica fu rapida e molto violenta, e i reparti al comando del futuro re Vitige schiacciarono la sommossa nel sangue. Volendo evitare un estendersi della rivolta, e grazie anche alla mediazione di Cassiodoro, Teodorico proibì a Vitige azioni ai danni della rimanente popolazione.
Teodorico si distinse anche per l'esecuzione e il ripristino di opere pubbliche, come la ristrutturazione dell'acquedotto costruito da Traiano che dall'Appennino, attraverso la località di Galeata (dove sono stati recentemente ritrovati i quartieri termali di un palazzo da caccia appartenuto a Teodorico), scende verso Forlì e Ravenna. L'importanza di tale opera pubblica è testimoniata anche dalla attuale presenza di toponimi come quello della Pieve di Santa Maria in Acquedotto, presso il casello autostradale di Forlì. Queste e altre misure permisero all'economia italica di riprendersi dal lungo ristagno a cui era stata soggetta.
Si ha notizia di almeno altri due Palazzi di Teodorico: il più noto e del quale rimane forse qualche resto è a Ravenna; un secondo Palazzo di Teodorico fu fatto erigere dal re ostrogoto a Monza.
Teodorico fece costruire, inoltre, il Mausoleo destinato a custodire le sue spoglie. Il Mausoleo è formato da due ambienti sovrapposti, con una pesantissima copertura monolitica a calotta in pietra d'Istria che non ha eguali nell'architettura tardoantica e bizantina. Questo enigmatico edificio, infatti, si inserisce nella tradizione dei monumenti imperiali. Molti edifici e acquedotti di Roma furono pure soggetti ad accurata riparazione dei danni subiti a causa dei terremoti e dei saccheggi del secolo precedente.
Anche in ambito religioso Teodorico, benché seguace del Cristianesimo ariano, non perseguitò la fede cattolica, seguendo anche in questo l'esempio di Odoacre.
Il nuovo imperatore Giustino I, che ambiva a un nuovo ruolo dell'Impero anche in relazione alle questioni religiose che agitavano il cristianesimo, dette inizio alla sua personale crociata contro l'arianesimo, visto come fede inconciliabile e soprattutto pericolosa per il crescente potere della Chiesa cattolica. Fedele a questa sua linea di ostilità nei confronti dell'eresia ariana, nel 524 decretò che i luoghi di culto ariani venissero consegnati alla Chiesa cattolica.
Teodorico, convinto che ci fosse un'intesa segreta tra l'impero di Costantinopoli e gli abitanti romani d'Italia, reagì con violenza: fece uccidere alcuni dei suoi più preziosi collaboratori, tra cui Severino Boezio. In seguito Teodorico costrinse Papa Giovanni I a recarsi a Costantinopoli per chiedere la revoca del decreto a Giustino I e chiedere per giunta che gli ariani convertiti forzatamente al cattolicesimo potessero riabbracciare la fede ariana. Papa Giovanni ottenne la revoca dell'ordine, ma si rifiutò anche solo di chiedere all'imperatore il permesso per gli ariani convertiti al cattolicesimo di tornare all'arianesimo. Così, quando tornò a Roma, Giovanni I fu imprigionato e lasciato morire in carcere nel 526 da Teodorico.
Teodorico, sconvolto dagli avvenimenti degli ultimi mesi e ormai vecchio, morì nello stesso 526 lasciando l'Italia, apparentemente pacificata, al nipote Atalarico sotto la reggenza della figlia Amalasunta.
Teodorico fu protagonista di numerose leggende. Una leggenda romantica sulla morte vuole che a Teoderico sia giunta un giorno la notizia che era stata avvistata nei boschi una cerva dalle corna d'oro. Armatosi di arco e frecce, il sovrano s'incamminò alla sua ricerca, ma improvvisamente il cavallo che lo trasportava, imbizzarritosi, cominciò a correre senza fermarsi, fino ad arrivare (scavalcando lo Stretto di Messina con un salto spettacolare) al cratere dell'Etna, dentro al quale si gettò con il re in groppa. La leggenda è stata ripresa con qualche variante dal Carducci, che ne scrisse un poemetto in versi a quartina doppia: La leggenda di Teoderico, nella raccolta pubblicata con il titolo Rime nuove.
Una variante di questa leggenda è quella che narra che Teoderico avesse paura dei fulmini e un giorno, durante un temporale, avesse deciso di fare un bagno nella vasca del suo mausoleo per essere al sicuro. Cadde tuttavia un grosso fulmine sul mausoleo, che ne spaccò la volta creando una crepa a forma di croce e uccidendo Teoderico. Poi dal cielo scese un cavallo nero che lo caricò in groppa e andò a gettarlo nel cratere dell'Etna.
A Brescia, invece, una delle leggende sorte attorno al Mostasù dèle Cosére, rilievo in pietra dalle dubbie origini, vi vedrebbe un ritratto abbozzato di Teodorico, scolpito sul posto, mentre a Bolzano si trova un imponente ciclo pittorico dedicato alla leggenda di Re Laurino, eseguito nel 1911 dall'artista Bruno Goldschmitt di Monaco di Baviera. La scultura in marmo bianco raffigura il re degli ostrogoti Teodorico il Grande (Dietrich von Bern nella Þiðrekssaga), che sottomette il re del popolo delle Dolomiti, re Laurino.
A Ravenna nel 1854, non lontano dal Mausoleo di Teodorico, venne rinvenuto un insieme orafo - composto da ornamenti in oro e almandini - denominato "corazza di Teoderico", considerato il massimo esempio di arte orafa romano-barbarica mai scoperto. Il cimelio, esposto inizialmente nel Museo Municipale Classense di Ravenna, fu traslato nel 1896 nel Museo nazionale di Ravenna, dove venne trafugato, assieme ad altri monili, nella notte tra il 19 e il 20 novembre del 1924. Nonostante gli sforzi investigativi, la "corazza di Teoderico" e gli oggetti trafugati non vennero mai rinvenuti e il furto ha ispirato il romanzo La corazza di Teoderico di I. L. Federson, pubblicato nel 2014. Studi recenti ritengono che l'insieme orafo in questione non sarebbe stato la corazza di Teodorico il Grande ma, più verosimilmente, un ornamento per bardatura di cavallo dell'inizio del VI secolo.
« Teodorico era un uomo di grande distinzione e di buona volontà verso tutti e governò per trentatré anni. Per trent'anni l'Italia godette di tale buona fortuna che i suoi successori ereditarono la pace, poiché qualunque cosa facesse era buona. Egli governò così due stirpi, i romani e i goti, e - sebbene fosse un ariano - non attaccò mai la religione cattolica, organizzò giochi nel circo e nell'anfiteatro, sicché infine dai romani fu chiamato Traiano o Valentiniano, i cui tempi prese a modello; e dai goti, per il suo editto col quale stabiliva la giustizia, egli fu considerato sotto ogni punto di vista il loro re migliore » Di anonimo scrittore latino.
GLI OSTROGOTI (O.)
Ostrogoti Ramo orientale dei Goti. La sua differenziazione da quello occidentale (visigoti) si verificò alla fine del 3° sec. d.C. nella Russia meridionale. Da lì gli O. seguirono gli unni di Attila in Gallia (451), poi, stretto un accordo con i romani, si stanziarono in Pannonia e probabilmente anche nel Norico ripense inferiore (457), impegnati in continue lotte contro altre tribù germaniche e contro la persistente minaccia unna. Sotto Teodemiro, abbandonarono la Pannonia e penetrarono più profondamente nei Balcani; nel 474 il re, morendo, lasciò il trono al figlio Teodorico, che da ragazzo era cresciuto, come ostaggio, nel palazzo reale di Bisanzio, e che riuscì a fondare un dominio abbastanza stabile nella Mesia inferiore. L’imperatore Zenone lo riconobbe e concesse a Teodorico la dignità di patrizio e di magister militum praesentalis. Un successivo periodo di scontro aperto tra Zenone e Teodorico fu sanato da un nuovo accordo, in base al quale il re ostrogoto avrebbe riconquistato l’Italia per conto dell’impero, eliminando Odoacre che allora la dominava. Teodorico scese in Italia (498) e sconfisse l’esercito di Odoacre. Questi fu ucciso e Teodorico rimase signore d’Italia, assumendo la porpora imperiale, evidentemente per sottolineare il doppio significato del suo potere, sugli O. e sui Romani. Gli O. si stanziarono prevalentemente nel Centro-Nord dell’Italia e presidiarono i forti dell’arco alpino, per prevenire nuove invasioni. Ravenna, Pavia e Verona furono le tre città fondamentali del regno dal punto di vista politico; le prime due furono vere e proprie capitali, la terza ebbe un rilievo militare. Dal punto di vista delle istituzioni, gli O., pur avendo assunto molti tratti tipici del costume e del diritto dei federati romani, erano una tipica cultura germanica orientale: una monarchia di stampo militare, rappresentata dalla famiglia degli Amali, che aveva la sua base di riferimento nel popolo inteso come exercitus; notevole era la forza dei maggiori clan aristocratici e così pure la struttura clientelare (il comitatus). In generale, Teodorico creò un sistema amministrativo e sociale duplice, nel quale gli O. costituivano le forze armate a difesa del regno e i Romani occupavano tutti i posti dell’amministrazione civile. La concordia fra le due componenti, gotica e romana, fu perseguita, con l’ausilio dell’ordine senatorio, anche con una politica edilizia e di feste (giochi nel circo) di continuità, pur nelle ovvie differenze, con il passato romano. Neanche il fatto che gli O. fossero cristiani ariani costituì motivo di attrito né con la popolazione romana né con le gerarchie ecclesiastiche o con lo stesso pontefice romano, giacché Teodorico rispettò la gerarchia e il culto cattolico in tutte le sue forme. Solo nell’ultimo periodo del suo regno l’equilibrio politico e religioso venne meno, in coincidenza con la ripresa di un atteggiamento più aggressivo da parte di Bisanzio. Alla morte di Teodorico (526), sua figlia Amalasunta, reggente per il giovane Atalarico e fautrice di una politica conciliante verso Bisanzio, si trovò in difficoltà di fronte a un’opposizione che spingeva verso la rottura con l’impero. Morto Atalarico, l’assassinio di Amalasunta a opera del cugino Teodato, da lei fatto coreggente e re degli O., aprì la strada all’intervento bizantino. Quando Teodato (che aveva tentato in extremis un accordo con Giustiniano) fu eliminato e al trono fu eletto dall’esercito goto Vitige (536), i bizantini diedero inizio a una ventennale guerra contro gli O., con alterna fortuna. Sconfitto Vitige da Belisario (540), dopo la breve parentesi del regno di Ildibado, il nuovo re Totila (541-52) si dimostrò abile comandante, capace di risollevare le sorti del suo popolo, rovesciando completamente la situazione. Destituito Belisario, il comando fu affidato a Narsete, che, con l’aiuto anche di numerosi contingenti germanici (fra cui alcune migliaia di guerrieri longobardi), riuscì a sconfiggere Totila nella battaglia di Tagina (552); il re, ferito, morì nella fuga. L’ulteriore resistenza degli O. fu vinta nella battaglia del Monte Lattaio, presso il Vesuvio, nell’ottobre del 552: Teia, ultimo re degli O., cadde sul campo. La guerra era finita, anche se solo nel 555 si arrese l’ultimo presidio gotico, quello di Conza. Dopo di allora gli O. rimasero stanziati in Italia, sostanzialmente indisturbati nei diritti di proprietà da loro acquisiti in sessant’anni: influenzarono probabilmente (e forse sostennero) i futuri invasori d’Italia, i longobardi, e infine si fusero con la popolazione italiana.
LA LEGGENDA DI TEODORICO di Giosuè Carducci
Su’l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l’aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d’Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú;
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d’un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d’òr. —
Fuor de l’acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.
— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea:
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d’un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no ’l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale,
E lontan d’ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria,
Ma staccar non se ne può.
Il piú vecchio ed il piú fido
Lo seguía de’ suoi scudieri,
E mettea d’angoscia un grido
Per gl’incogniti sentieri:
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne’ tuoi be’ dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí.
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? —
— Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand’io ritornerò. —
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covria,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fe’;
E terribile scendeva
Dio su ’l capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s’immerge ne la notte,
Ei s’aderge in vèr’ le stelle.
Ecco, il dorso d’Apennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tósco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l’ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un’ ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.
Eugenio Caruso
- 28 gennaio 2018
Tratto da