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Tiberio valido e degno successore di Ottaviano


Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del popolo di Roma, nel 26 decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno nell'Urbe. Egli aveva già sessantasette anni e sembra che il piano di allontanarsi da Roma lo accarezzasse già da diverso tempo. Si racconta che dopo aver visto il figlio morire agonizzante, avesse parlato di abdicare. Non poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava Druso, senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui insopportabile. Una malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine, aumentato la sucettibilità e l'ombrosità del carattere. Ma il suo ritiro fu un errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui affrontava i problemi dell'Impero dalla villa di Capri.
Il prefetto del pretorio, intanto, godendo della totale fiducia dell'imperatore, prese il controllo di tutte le attività politiche, divenendo rappresentante incontrastato del potere imperiale. Egli era riuscito, inoltre, a convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti pretorie, in precedenza distribuite tra Roma e altre città italiche, nell'Urbe, (all'interno dei Castra Praetoria) a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva lasciato Roma.
Tiberio, invece, si impegnò a mantenersi informato sulla vita politica di Roma, e riceveva regolarmente missive che lo informavano delle discussioni intraprese in senato; egli stesso, grazie all'istituzione di un vero e proprio servizio postale, poteva esprimere il proprio parere, ed era anche in grado di impartire ordini ai suoi emissari nell'Urbe. L'allontanamento di Tiberio da Roma portò, comunque, a una progressiva esautorazione del senato, a tutto vantaggio di Seiano.
Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i propri oppositori accusandoli di lesa maestà ed eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che fungevano da accusatori, e permettevano la condanna dell'imputato. Una tale situazione portò alla creazione di un clima di generale sospetto, che, a sua volta, fomentò ulteriormente le voci sul coinvolgimenti dell'imperatore nei numerosi processi politici intentati da Seiano e dai suoi collaboratori. Nel 29, quando Livia Drusilla, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il governo, morì all'età di ottantasei anni, il figlio si rifiutò di far ritorno a Roma per le esequie e proibì la sua divinizzazione. Seiano, allora, poté procedere indisturbato in una serie di azioni contro Agrippina maggiore e il suo figlio primogenito Nerone: contro il giovane furono riversate numerose accuse infamanti, ed egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30. Agrippina, invece, accusata di adulterio, fu deportata nell'isola Pandataria dove morì nel 33.
Nei progetti di Seiano rientrava appunto il proposito di assicurarsi la successione nel ruolo di imperatore. Eliminati i discendenti diretti di Tiberio, il prefetto era ormai l'unico candidato alla successione: dopo aver già tentato inutilmente di imparentarsi con la famiglia imperiale sposando la vedova di Druso minore, Claudia Livilla, iniziò ad aspirare al conferimento della tribunicia potestas, che avrebbe formalmente sancito la sua successiva nomina ad imperatore, rendendo la sua persona sacra e inviolabile, e ottenne, intanto, nel 31 il consolato assieme allo stesso Tiberio. Contemporaneamente, però, la vedova di Druso maggiore, Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della classe senatoriale, comunicò in una lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni dello stesso imperatore, era responsabile; Tiberio, allertato decise allora di destituire il potente prefetto, e organizzò un'abile manovra con l'aiuto del prefetto dell'Urbe Macrone.
Per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di conferirgli al più presto la tribunicia potestas; contemporaneamente, però, lasciò anticipatamente la carica di console, costringendo così anche il collega a rinunciarvi. Il 17 ottobre del 31, infine, Tiberio, nominato segretamente prefetto del pretorio il prefetto dell'Urbe e capo delle coorti urbane Macrone, lo inviò a Roma con l'ordine di accordarsi con Grecinio Lacone, prefetto dei Vigiles, e col nuovo console designato Publio Memmio Regolo, affinché convocasse per il giorno successivo il senato nel tempio di Apollo, sul Palatino. In tal modo Tiberio, garantendosi il sostegno delle coorti urbane e dei vigili, si era premunito contro un'eventuale reazione dei pretoriani in favore di Seiano.
Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una lettera di Tiberio annunciante il conferimento della potestà tribunizia. Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto tra i senatori, Macrone, rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostituire dai vigili di Lacone. Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la leggesse al Senato, raggiunse i castra praetoria per annunciare la propria nomina a prefetto del pretorio. Nella lettera, volutamente molto lunga e vaga, Tiberio trattava di vari argomenti, di tanto in tanto intessendo le lodi di Seiano, a volte muovendogli qualche critica; solo alla fine, l'imperatore accusava all'improvviso il prefetto di tradimento, ordinandone la destituzione e l'arresto. Seiano, sbigottito per l'inatteso voltafaccia venne immediatamente condotto via in catene dai vigiles e poco dopo sommariamente processato dal Senato riunito nel tempio della Concordia: fu condannato a morte e alla damnatio memoriae.
La sentenza venne eseguita nella stessa notte nel Carcere Mamertino per strangolamento, e il corpo esanime del prefetto fu poi lasciato al popolo, che ne fece scempio trascinandolo per le strade dell'Urbe. A seguito dei provvedimenti che Seiano aveva preso contro Agrippina e la famiglia di Germanico, infatti, la plebe aveva sviluppato una forte avversione nei confronti del prefetto. Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa pubblica, ordinando l'innalzamento di una statua alla Libertas con la seguente dedica:
« Alla salute perpetua di Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l'eternità della gloria di Roma, [essendo stato] eliminato il pericolosissimo nemico. » (Dedica del Senato a Tiberio.)
Pochi giorni più tardi furono brutalmente strangolati nel Carcere Mamertino i tre giovani figli del prefetto; la sua ex-moglie, Apicata, si suicidò, dopo aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di Seiano e Claudia Livilla in occasione della morte di Druso minore. Livilla fu dunque processata, e, per evitare una sicura condanna, si lasciò morire di fame. Alla morte di Seiano e dei suoi familiari seguirono poi una serie di processi contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a morte o costretti al suicidio.
Tiberio, intanto, trascorse l'ultima parte del suo regno sull'isola di Capri, circondato da uomini di studio, giuristi, letterati e anche astrologi: lì fece costruire dodici ville, per poi risiedere in quella che preferiva, la villa Jovis.
Dopo la caduta di Seiano si riaprì la questione della successione, e nel 33 anche Druso Cesare, il maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, morì di inedia dopo essere stato condannato al confino nel 30 con l'accusa di aver cospirato contro Tiberio. Quando Tiberio, nel 35, depositò il suo testamento, potendo scegliere fra tre possibili eredi, incluse nel testamento il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote collaterale Gaio, figlio di Germanico. Restò dunque escluso dal testamento il fratello dello stesso Germanico, Claudio, che era considerato del tutto inadatto al ruolo di princeps, in quanto debole di corpo e di dubbia sanità mentale. Il favorito nella successione apparve subito il giovane Gaio di venticinque anni, meglio noto come Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in realtà figlio di Seiano (per le relazioni adulterine con la moglie di Druso minore, Claudia Livilla), aveva dieci anni di meno: due ragioni sufficienti per non lasciargli il Principato. Il prefetto del pretorio Macrone, infatti, dimostrò subito la sua simpatia per Gaio, guadagnandosene con ogni mezzo la fiducia.
Nel 37, Tiberio lasciò Capri, come aveva già fatto in precedenza, forse con l'idea di rientrare finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni; intimorito però dalle reazioni che il popolo avrebbe avuto, si fermò a sole sette miglia dall'Urbe, e decise di tornare indietro verso la Campania. Qui fu colto da malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno; dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in uno stato di delirio e fu creduto morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola, Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo imperatore; il prefetto Macrone, tuttavia, mantenendo la lucidità, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le coperte. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spirò all'età di settantasette anni.
La plebe romana reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio, festeggiandone la scomparsa. Molti monumenti che celebravano le imprese dell'imperatore furono distrutti, così come numerose statue che lo raffiguravano. In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno, ma fu comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e sepolto nel Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai pretoriani. Mentre l'imperatore defunto riceveva queste modeste onoranze funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.

Tiberio non si distinse mai per nessuna tendenza al rinnovamento. Durante il suo regno dimostrò, anzi, un rigido rispetto per la tradizione augustea, cercando di osservare tutte le istruzioni di Augusto. Suo scopo era quello di salvaguardare l'Impero, assicurandone la tranquillità interna ed esterna, oltre a consolidare il nuovo ordinamento evitando, tuttavia, che esso assumesse le caratteristiche di un dominato. Per mettere in atto questo suo piano utilizzò quali collaboratori e consiglieri personali molti di quegli ufficiali che lo avevano seguito nel corso delle lunghe e numerose campagne militari, durate quasi quarant'anni. Vi è da aggiungere che l'amministrazione dello Stato durante i primi anni di principato fu riconosciuta da tutti ottima per buon senso e moderazione. Lo stesso Tacito apprezzò le capacità del nuovo princeps almeno fino alla morte del figlio Druso avvenuta nel 23.
La stessa cosa dicasi nelle relazioni tra Tiberio e la nobilitas senatoriale, che furono, tuttavia, diverse da quelle instauratesi con Augusto. Il nuovo imperatore, infatti, appariva, per meriti e ascendenze, diverso dal patrigno, che aveva posto fine alle guerre civili, riportato la pace all'impero, e ottenuto di conseguenza una grandissima autorevolezza. Tiberio dovette quindi basare il rapporto tra princeps e nobiltà senatoriale su una moderatio che accresceva il potere di entrambi, sovrapponendolo a quello del tradizionale ordine gerarchico; stabilì, inoltre, una netta distinzione tra gli onori che andavano tributati agli imperatori viventi e il culto di quelli defunti divinizzati.
Nonostante questi provvedimenti, che contribuivano a mantenere in vita la "finzione repubblicana", non mancarono, accanto agli adulatori, esponenti della classe senatoriale che osteggiarono fortemente l'opera di Tiberio. Tuttavia nei primi anni Tiberio, seguendo il modello augusteo, cercò sinceramente una cooperazione con il senato, partecipando sovente alle sue sedute e rispettandone la libertà di discussione, consultandolo anche su questioni che era in grado di risolvere da solo e ampliandone le stesse funzioni amministrative. Egli sosteneva infatti che il buon princeps deve servire il senato (bonum et salutarem principem senatui servire debere).
Il principe si consultava spesso con il senato tramite i senatus consulta, talvolta su questioni fuori della sua competenza, ad esempio sulle questioni di carattere religioso, ambito nel quale Tiberio mostrò una particolare avversione per i culti orientali: nel 19 furono infatti resi illegali i culti caldei e giudaici, e coloro che li professavano furono costretti all'arruolamento o espulsi dall'Italia. Ordinò di bruciare ogni paramento e oggetto sacro adoperato per i culti in questione, e, mediante l'arruolamento, poté inviare i giovani di religione ebraica nelle regioni più lontane e malsane, in modo da infliggere un duro colpo alla diffusione del culto.
Tiberio riformò almeno in parte l'ordinamento augusteo contro il celibato, incentrato sulla lex Papia Poppea: egli, pur senza abolire le disposizioni del patrigno, nominò una commissione che si occupò di riformare l'ordinamento e di rendere meno severe le pene da comminare ai celibi, o a coloro che, pur sposati, non avevano figli; furono, tuttavia, ugualmente presi dei provvedimenti che tenessero a freno il lusso e garantissero la moralità dei costumi.
Tra i provvedimenti più importanti rientra, poi, l'approvazione della lex de maiestate, che prevedeva che fossero perseguibili e passibili di condanna tutti coloro che avessero recato offesa alla maestà del popolo romano. Sulla base di una legge tanto vaga poteva ritenersi colpevole sia chi si fosse reso responsabile di una sconfitta militare o di una sedizione, sia chi avesse male amministrato lo Stato. La legge, che tornava in vigore dopo essere stata abrogata, divenne presto uno strumento nelle mani dell'imperatore, del senato, e soprattutto del prefetto Seiano, per incriminare gli oppositori politici. Tiberio, tuttavia, si mostrò più volte contrario alle sentenze politiche, evitando che i processi fossero determinati da raccomandazioni e incitando più volte i magistrati ad agire in totale onestà.
Tiberio risultò eccellente nella gestione finanziaria, tanto da lasciare alla sua morte un avanzo memorabile nelle casse dello Stato: per fare solo pochi esempi, i beni del re Archelao di Cappadocia divennero proprietà imperiale, come pure alcune miniere della Gallia della moglie Giulia, una miniera d'argento tra i ruteni, una d'oro di un certo Sesto Mario in Spagna confiscata nel 33, e altre ancora. Affidò l'amministrazione del patrimonio dello Stato a funzionari particolarmente oculati, il cui incarico durava spesso fino alla vecchiaia; fu sempre pronto e generoso nell'intervento in ogni circostanza interna difficile, come durante le carestie che la plebe urbana patì o come quando nel 36 costituì un sussidio, in seguito a un incendio sull'Aventino, di cento milioni di sesterzi. Nel 33, dopo aver preso alcuni provvedimenti contro l'usura, riuscì ad attenuare una grave crisi agraria e finanziaria provocata da una riduzione della circolazione monetaria, istituendo con il proprio patrimonio personale un fondo di prestito di altri cento milioni di sesterzi, dal quale i debitori potevano attingere per tre anni senza interessi, purché possedessero, a garanzia, terreni di valore doppio rispetto alla somma chiesta in prestito. Egli, appena possibile, cercò di razionalizzare la spesa pubblica per gli spettacoli riducendo le paghe degli attori e diminuendo il numero delle coppie di gladiatori che partecipavano ai giochi; ridusse di conseguenza dall'1% allo 0,5% l'impopolare tassa sulle vendite, e lasciò, alla sua morte, 2.700 milioni di sesterzi nelle casse del Tesoro. Ai governatori provinciali che lo invitavano a imporre nuove imposte, egli si oppose fermamente, rispondendo che è compito del buon pastore tosare le pecore, non scorticarle.

La politica militare di Tiberio
Tiberio si mantenne fedele al consilium coercendi intra terminos imperii di Augusto, ovvero alla decisione di mantenere i confini dell'impero invariati, cercando di salvaguardare i territori interni e di assicurarne la tranquillità e operò soltanto i cambiamenti necessari per la sicurezza. Egli riuscì ad evitare guerre o spedizioni militari inutili, con le conseguenti spese, riponendo una fiducia maggiore nella diplomazia. Allontanò i re clienti e i governatori che si erano rivelati inadatti al loro ruolo, e cercò di garantire un sistema amministrativo più efficiente. Le uniche modifiche territoriali interessarono, infatti, il solo Oriente, quando alla morte dei re clienti, Cappadocia, Cilicia e Commagene furono incorporate nei confini imperiali. Tutte le rivolte che si susseguirono nel suo lungo principato, durato 23 anni, furono soffocate nel sangue dai suoi generali, come quella di Tacfarinas e dei suoi musulami dal 17 al 24, o in Gallia di Giulio Floro e Giulio Sacroviro nel 21, o in Tracia tra i re clienti degli Odrisi attorno al 21.
Durante l'impero di Tiberio, le forze militari erano dislocate con la seguente disposizione: la tutela dell'Italia era affidata a due flotte, quella di Ravenna (classis Ravennatis) e quella di Capo Miseno (classis Misenensis), e Roma, in particolare, era difesa dalle nove coorti pretorie, che Seiano fece riunire in un accampamento alle porte dell'Urbe, e da tre coorti urbane. Il nordovest dell'Italia era invece presidiato da un'ulteriore flotta, all'ancora sulle coste della Gallia, costituita dalle navi rostrate che Augusto aveva catturato ad Azio. Le restanti forze erano stanziate nelle province, con l'obiettivo di salvaguardare i confini e reprimere eventuali rivolte interne: otto legioni erano schierate nella zona del Reno a protezione dalle invasioni germaniche e dalle rivolte galliche, tre legioni si trovavano in Spagna, e due tra le province dell'Egitto e dell'Africa, dove Roma poteva anche contare sull'aiuto del regno di Mauretania. Ad Oriente, quattro legioni erano stanziate tra la Siria e il fiume Eufrate. Nell'Europa orientale, infine, due legioni erano stanziate in Pannonia, due in Mesia, a protezione del confine danubiano, e due in Dalmazia. Dislocati ovunque sul territorio, in modo da poter intervenire dove ce ne fosse bisogno, erano altre piccole flotte di triremi, battaglioni di cavalleria e gruppi di ausiliari reclutati tra gli abitanti delle province.
Riguardo alla politica estera lungo i confini settentrionali, Tiberio seguì il principio di mantenere e consolidare una barriera contro i germani lungo la linea del Reno, ponendo fine, dopo pochi anni dalla salita al trono, alle operazioni militari improduttive e pericolose che Germanico aveva intraprese negli anni 14-16. Tacito che ammirava Germanico, e aveva poca simpatia per Tiberio, imputò la decisione del princeps alla sola invidia per i successi raggiunti dal nipote. Tiberio che gli riconosceva il merito di aver ridato lustro al prestigio romano tra i Germani, ritenne al contrario e a ragione, che un nuovo tentativo di stabilire il confine sull'Elba avrebbe implicato un allontanamento dalla politica di Augusto, considerata da Tiberio come un praeceptum, oltre a comportare un notevole aumento della spesa militare e l'obbligo di condurre poi una successiva campagna in Boemia contro Maroboduo, re dei marcomanni. Tiberio, inoltre, non lo reputava né utile né necessario. I dissensi interi delle tribù germaniche produssero di lì a poco una guerra tra catti e cherusci, una successiva tra Arminio e Maroboduo, fino a quando quest'ultimo fu esiliato nel 19, mentre il primo assassinato (nel 21).
Nel 14, mentre era in corso la rivolta delle legioni in Pannonia, anche gli uomini stanziati lungo il confine germanico si ribellarono ai loro comandanti, dando inizio a un'efferata serie di violenze e massacri. Germanico, allora, che era a capo dell'esercito stanziato in Germania e godeva di grande prestigio, si incaricò di riportare alla calma la situazione, confrontandosi personalmente con i soldati in rivolta. Essi chiedevano, come i loro compagni pannoni, la riduzione della durata del servizio militare e l'aumento della paga: Germanico decise di concedere loro il congedo dopo venti anni di servizio e di inserire nella riserva tutti i soldati che avevano combattuto per oltre sedici anni, esonerandoli così da ogni obbligo ad eccezione di quello di respingere gli assalti nemici; raddoppiò allo stesso tempo i lasciti a cui, secondo i testamento di Augusto, i militari avevano diritto. Le legioni, che avevano da poco appreso della recente morte di Augusto, arrivarono addirittura a garantire il proprio appoggio al generale se avesse desiderato impadronirsi del potere con la forza, ma egli rifiutò dimostrando allo stesso tempo grande rispetto per il padre adottivo Tiberio e una grande fermezza. La rivolta, che aveva attecchito tra molte delle legioni di stanza in Germania, risultò comunque difficile da reprimere, e si concluse con la strage di molti legionari ribelli. I provvedimenti presi da Germanico per soddisfare le esigenze delle legioni furono poi ufficializzati da Tiberio, che assegnò le stesse indennità anche ai legionari pannoni.
Ripreso il controllo della situazione, Germanico decise di organizzare una spedizione contro le popolazioni germaniche che, venute a conoscenza delle notizie della morte di Augusto e della ribellione delle legioni, avrebbero potuto decidere di lanciare un nuovo attacco contro l'impero. Assegnata, dunque, parte delle legioni al luogotenente Aulo Cecina Severo, attaccò le tribù di bructeri, tubanti e usipeti, sconfiggendole nettamente e compiendo numerose stragi; attaccò, poi, i marsi, ottenendo nuove vittorie e pacificando così la regione ad ovest del Reno: poté in questo modo progettare per il 15 una spedizione ad est del grande fiume, con la quale avrebbe potuto vendicare Varo e frenare ogni volontà espansionistica dei germani.
Nel 15, dunque, Germanico attraversò il Reno assieme al luogotenente Cecina Severo, che sconfisse nuovamente i marsi, mentre il generale ottenne una netta vittoria sui catti. Il principe dei cherusci Arminio, che aveva sconfitto Varo a Teutoburgo, incitò allora tutte le popolazioni germaniche alla rivolta, invitandole a combattere contro gli invasori romani; si formò, tuttavia, anche un piccolo partito filoromano, guidato dal suocero di Arminio, Segeste, che offrì il proprio aiuto a Germanico. Questi si diresse verso Teutoburgo, dove poté ritrovare una delle aquile legionarie perdute nella battaglia di sei anni prima, e rese gli onori funebri ai caduti le cui ossa erano rimaste insepolte. Decise, poi, di inseguire Arminio per affrontarlo in battaglia; il principe germanico, però, attaccò gli squadroni di cavalleria che Germanico aveva mandato in avanscoperta sicuro di poter cogliere il nemico impreparato, e fu dunque necessario che l'intero esercito legionario intervenisse per evitare una disastrosa sconfitta. Germanico, allora, decise di tornare a ovest del Reno assieme ai suoi uomini; mentre si trovava sulla strada del ritorno presso i cosiddetti pontes longi, Cecina fu attaccato e sconfitto da Arminio, che lo costrinse a retrocedere all'interno dell'accampamento. I germani, allora, convinti di poter avere la meglio sulle legioni, assaltarono l'accampamento stesso, ma furono a loro volta duramente sconfitti, e Cecina poté condurre le legioni sane e salve ad ovest del Reno.
Nonostante avesse riportato una sostanziale vittoria, Germanico era cosciente che i germani erano ancora in grado di riorganizzarsi, e decise, nel 16, di condurre una nuova campagna che avesse l'obiettivo di annientare definitivamente le popolazioni tra il Reno e l'Elba. Per giungere indisturbato nelle terre dei nemici, decise di approntare una flotta che conducesse le legioni fino alla foce del fiume Amisia: in tempi rapidi furono approntate oltre mille navi agili e veloci, in grado di trasportare numerosi uomini ma dotate anche di macchine da guerra per la difesa. Non appena i romani sbarcarono in Germania, le tribù del luogo, riunite sotto il comando di Arminio, si prepararono a fronteggiare gli invasori e si riunirono a battaglia presso Idistaviso; gli uomini di Germanico, ben più preparati dei loro nemici, fronteggiarono i germani, e riportarono una schiacciante vittoria. Arminio e i suoi si ritirarono presso il Vallo Angirvariano, ma subirono un'altra durissima sconfitta da parte dei legionari romani: le genti che abitavano tra il Reno e l'Elba erano così state debellate. Germanico ricondusse dunque i suoi in Gallia, ma, sulla strada del ritorno, la flotta romana fu dispersa da una tempesta e costretta a subire notevoli perdite; l'inconveniente occorso ai romani diede nuovamente ai germani la speranza di poter ribaltare le sorti della guerra, ma i luogotenenti di Germanico poterono facilmente avere la meglio sui nemici. Sebbene Roma non fosse dunque riuscita ad espandere la sua area d'influenza, il confine stabilito dal Reno era, così, protetto da altre eventuali rivolte germaniche; a segnare in modo ancora più netto la fine delle ribellioni delle genti del luogo intervenne, nel 19, la morte di Arminio, che, dopo aver sconfitto in guerra il re filoromano dei marcomanni, Maroboduo, fu tradito e ucciso dai suoi compagni quando aspirava ormai al regno.
A Oriente la situazione politica, dopo un periodo di relativa tranquillità successivo agli accordi tra Augusto e i sovrani partici, tornò a farsi conflittuale: a causa delle lotte intestine, Fraate IV e i suoi figli morirono mentre a Roma regnava ancora Augusto, e i parti chiesero dunque che Vonone, figlio di Fraate inviato tempo prima come ostaggio, potesse tornare in Oriente, per salire al trono in qualità di unico membro ancora in vita della dinastia arsacide. Il nuovo sovrano, però, estraneo alle tradizioni locali, risultò inviso ai parti stessi, e fu quindi sconfitto e scacciato da Artabano II, e costretto a rifugiarsi in Armenia. Qui i re imposti sul trono da Roma erano morti, e Vonone fu dunque scelto come nuovo sovrano; tuttavia, ben presto Artabano fece pressione su Roma perché Tiberio destituisse il nuovo re armeno, e l'imperatore, per evitare di dover intraprendere una nuova guerra contro i parti, fece arrestare Vonone dal governatore romano di Siria.
A turbare la situazione orientale intervennero anche le morti del re della Cappadocia Archelao, che era venuto a Roma a rendere omaggio a Tiberio, di Antioco III, re di Commagene, e di Filopatore, re di Cilicia: i tre stati, che erano vassalli di Roma, si trovavano in una situazione di instabilità politica, e si acuivano i contrasti tra il partito filoromano e i fautori dell'autonomia. La difficile situazione orientale rendeva necessario un intervento romano, e Tiberio nel 18 inviò il figlio adottivo, Germanico, che fu nominato console e insignito dell'imperium proconsolaris maius su tutte le province orientali. Contemporaneamente l'imperatore nominò un nuovo governatore per la provincia di Siria, Gneo Calpurnio Pisone, che era stato suo collega durante il consolato del 7 a.C. Giunto in Oriente, Germanico, con il consenso dei parti, incoronò ad Artaxata un nuovo sovrano d'Armenia: il regno, infatti, dopo la deposizione di Vonone era rimasto privo di una guida, e Germanico conferì la carica di re al giovane Zenone, figlio del sovrano del Ponto Polemone I. Stabilì, inoltre, che Commagene ricadesse sotto la giurisdizione di un pretore, pur mantenendo la propria formale autonomia, che la Cappadocia fosse istituita come provincia a sé stante, e che la Cilicia entrasse invece a far parte della provincia di Siria. Germanico aveva così brillantemente risolto tutti i problemi che avrebbero potuto far temere l'accendersi di nuove situazioni di conflitto nella regione orientale. Ricevette, intanto, un'ambasceria da parte del re dei parti Artabano, che era intenzionato a confermare e rinnovare l'amicizia e l'alleanza dei due imperi: in segno di omaggio alla potenza romana Artabano decise di recarsi in visita da Germanico in riva al fiume Eufrate, e chiese che in cambio Vonone fosse scacciato dalla Siria, dov'era rimasto dal momento del suo arresto, poiché fomentava nuove discordie; Germanico accettò di rinnovare l'amicizia con i parti, e acconsentì dunque all'allontanamento dalla Siria di Vonone, che aveva stretto un legame di amicizia con il governatore Pisone. L'ex-re dell'Armenia fu dunque confinato nella città di Pompeiopoli in Cilicia, e morì poco tempo dopo, ucciso da alcuni cavalieri romani mentre tentava la fuga. Nel 19 anche Germanico morì, dopo aver evitato con oculati provvedimenti che una carestia sviluppatasi in Egitto avesse conseguenze catastrofiche per la provincia stessa.
La sistemazione dell'Oriente approntata da Germanico garantì la pace fino al 34: in quell'anno il re Artabano II di Partia, convinto che Tiberio, ormai vecchio, non avrebbe opposto resistenza da Capri, pose il figlio Arsace sul trono di Armenia dopo la morte di Artaxias. Tiberio, allora, decise di inviare Tiridate, discendente della dinastia arsacide tenuto in ostaggio a Roma, a contendere il trono partico ad Artabano, e sostenne l'insediamento di Mitridate, fratello del re di Iberia, sul trono di Armenia. Mitridate, con l'aiuto del fratello Farasmane, riuscì a impossessarsi del trono di Armenia: i servi di Arsace, corrotti, uccisero il loro padrone, gli iberi invasero il regno e sconfissero, alleatisi con i popoli locali, l'esercito dei parti guidato da Orode, figlio di Artabano. Artabano, temendo un nuovo massiccio intervento da parte dei romani, rifiutò di inviare altre truppe contro Mitridate, e abbandonò le proprie pretese sul regno di Armenia. Contemporaneamente, gli odi che Roma fomentava tra i parti contro Artabano costrinsero il re a lasciare il trono e a ritirarsi, mentre il controllo del regno passava all'arsacide Tiridate. Poco tempo più tardi, tuttavia, quando Tiridate era sul trono da circa un anno, Artabano, radunato un grosso esercito, marciò contro di lui; l'arsacide inviato da Roma, impaurito, fu costretto a ritirarsi, e Tiberio dovette accettare che lo stato dei parti continuasse ad essere governato da un sovrano ostile ai Romani.
Nel 17, il numida Tacfarinas, che aveva servito come ausiliario nell'esercito romano, iniziò a raccogliere attorno a sé numerosi briganti, ma divenne poi guida dell'intero popolo dei musulami, nomadi che abitavano le zone vicine al deserto del Sahara. Organizzato un esercito con il quale compiere razzie e tentare di intaccare il dominio romano, Tacfarinas attirò dalla sua parte i mauri guidati da Mazippa; il proconsole d'Africa Marco Furio Camillo, allora, si affrettò a marciare contro Tacfarinas e i suoi alleati, nel timore che i ribelli rifiutassero di ingaggiare battaglia, e li sconfisse nettamente, meritandosi anche le insegne trionfali.
L'anno successivo, Tacfarinas riprese le ostilità, iniziando una serie di attacchi e razzie contro villaggi e accumulando un grosso bottino; cinse infine d'assedio una coorte dell'esercito romano, e riuscì a sconfiggerla. Allora, il nuovo proconsole, che era succeduto a Camillo, inviò il corpo dei veterani contro Tacfarinas, che fu sconfitto. Il numida, allora, intraprese una tattica di guerriglia contro i romani, ma, dopo alcuni successi iniziali, fu nuovamente sconfitto, e ricacciato nel deserto.
Dopo alcuni anni di pace, nel 22 Tacfarinas inviò ambasciatori presso Tiberio a Roma, affinché chiedessero per lui e per i suoi uomini la possibilità di risiedere stabilmente all'interno dei territori romani; se Tiberio non avesse accettato le condizioni, il numida minacciava di scatenare una nuova guerra che avrebbe protratto a oltranza. L'imperatore, tuttavia, considerò la minaccia di Tacfarinas come un oltraggio al potere di Roma, e ordinò di condurre una nuova offensiva contro i ribelli numidi. Il comandante dell'esercito romano, Bleso, decise di adottare una strategia simile a quella che Tacfarinas aveva a sua volta adottato nel 18: egli divise il suo esercito in tre colonne, con le quali poté attaccare ripetutamente i nemici e costringerli alla ritirata. Il successo sembrò essere definitivo, tanto che Tiberio acconsentì alla proclamazione ad imperator di Bleso.
La guerra contro Tacfarinas ebbe fine soltanto nel 24: nonostante le sconfitte sofferte fino ad allora, il ribelle numida continuava a resistere, e decise di condurre ancora un'offensiva contro i romani. Cinse dunque d'assedio una piccola cittadina, ma fu subito attaccato dall'esercito romano e costretto a retrocedere; molti capi ribelli, tuttavia, furono catturati e uccisi. All'inseguimento dei fuggiaschi si lanciarono i battaglioni di cavalleria e le coorti leggere, rinforzate anche dagli uomini inviati dal re Tolomeo di Mauretania, che alleato dei romani, aveva deciso di scendere in guerra contro Tacfarinas, che aveva danneggiato anche il suo regno. Raggiunti, i ribelli numidi diedero nuovamente battaglia, ma furono sconfitti; Tacfarinas, certo dell'inevitabilità di una sconfitta definitiva, si gettò nel mezzo delle schiere nemiche, e cadde trafitto dai colpi. Con la morte dell'uomo che l'aveva saputa organizzare, la rivolta ebbe fine.
Nel 21 gli abitanti della Gallia, oppressi dalla richiesta di esosi tributi e imposte, si ribellarono spinti da Giulio Floro e Giulio Sacroviro. I due organizzatori della rivolta, uno membro della tribù dei treviri, l'altro di quella degli edui, godevano della cittadinanza romana, che i loro antenati avevano ricevuto per i servigi prestati allo Stato, e conoscevano il sistema politico e militare romano. Per avere maggiori speranze di successo, decisero di estendere la ribellione a tutte le tribù della Gallia, e intrapresero dunque numerosi viaggi, guadagnando alla propria causa anche i belgi. Tiberio tentò di evitare un intervento diretto di Roma, ma quando i galli arruolati nelle milizie ausiliarie iniziarono a defezionare, le legioni marciarono contro Floro e lo sconfissero presso la selva Arduenna. Il capo dei treviri, vedendo che per il suo esercito non v'era alcuna via di fuga, decise di uccidersi; per i suoi, rimasti senza una guida autorevole, ebbe dunque fine la ribellione. Sacroviro assunse allora il comando generale della ribellione, radunando attorno a sé tutte le tribù ancora disposte a combattere contro Roma; presso Augustodunum fu attaccato dall'esercito romano e, dopo aver dato prova di notevole valore, fu sconfitto. Anch'egli, per non finire nelle mani dei nemici, decise di togliersi la vita assieme ai suoi più fedeli collaboratori; morti coloro che l'avevano saputa organizzare, la ribellione delle Gallie finì, senza che si fosse ottenuta nessuna riduzione delle gravose imposte che gli abitanti del territorio dovevano pagare.
Nel 14, non appena le legioni stanziate nella regione dell'Illirico vennero a conoscenza della notizia della morte di Augusto, scoppiò una rivolta fomentata dai legionari Percennio e Vibuleno. Essi speravano infatti di poter scatenare una nuova guerra civile da cui trarre notevoli guadagni e, allo stesso tempo, intendevano migliorare le condizioni in cui si trovavano tutti i militari: chiedevano infatti che si riducessero gli anni di servizio militare, e che il loro salario giornaliero venisse portato ad un denario. Tiberio, da poco salito al potere, rifiutò di intervenire personalmente, e inviò presso le legioni il figlio Druso assieme ad alcuni cittadini romani e due coorti pretorie assieme a Lucio Elio Seiano, figlio del prefetto del pretorio Seio Strabone. Druso pose fine alla rivolta uccidendo i capi Percennio e Vibuleno e attuando ulteriori repressioni contro i ribelli; ai legionari non furono fatte sul momento particolari concessioni, ma essi poterono poi beneficiare delle stesse indennità che Germanico concesse più tardi alle legioni di Germania.
Nell'area dell'ex-Illirico, Tiberio dispose nel 15 che le province senatorie di Acaia e Macedonia fossero unite alla provincia imperiale di Mesia, prorogando l'incarico del governatore Gaio Poppeo Sabino (che rimase in carica 21 anni dal 15 al 36) e dei suoi successori.
Anche in Tracia la situazione di tranquillità dell'epoca augustea si ruppe alla morte del re Remetalce I, alleato di Roma: il regno fu diviso in due parti, che furono assegnate al figlio e al fratello del re defunto, Cotys V e Rescuporide. A Cotys spettò la regione vicina alla costa e alle colonie greche, a Rescuporide quella selvaggia e incolta dell'interno, esposta agli attacchi degli ostili popoli confinanti. Rescuporide, allora, deciso a impossessarsi delle terre spettate al nipote, iniziò a condurre contro il suo regno una serie di azioni violente; nel 19, Tiberio, nel tentativo di evitare lo scoppio di una nuova guerra che avrebbe probabilmente richiesto l'intervento di truppe romane, inviò emissari ai due re traci, favorendo l'avvio delle trattative di pace. Rescuporide, tuttavia, non desistette dal suo proposito, ma fece anzi imprigionare Cotys impossessandosi del suo regno, e chiese poi che Roma riconoscesse la sua sovranità su tutta la Tracia. Tiberio invitò allora lo stesso Rescuporide a raggiungere l'Urbe per giustificare l'arresto di Cotys, ma il re trace si rifiutò e uccise il nipote. Tiberio inviò allora da Rescuporide il governatore della Mesia Pomponio Flacco, che, vecchio amico del re trace, lo convinse a recarsi a Roma; ivi Rescuporide fu processato e condannato al confino per l'uccisione di Cotys, e morì più tardi mentre si trovava ad Alessandria. Il regno di Tracia fu diviso tra Remetalce III, figlio di Rescuporide che aveva apertamente osteggiato i piani del padre, e i giovanissimi figli di Cotys, in nome dei quali fu nominato reggente l'ex-pretore Trebelleno Rufo.

Eugenio Caruso - 03 febbraio 2018

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