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Giuliano uno dei più grandi imperatori romani



La campagna contro i persiani
Come grande imperatore destinato a costruire un ordine sul pianeta non poteva fuggire dal tentativo di sconfiggere i parti; il 5 marzo 363 Giuliano dava inizio alla campagna contro i sasanidi partendo con un esercito di 65.000 uomini da Antiochia, abbandonata nelle mani di Adrastea: questa volta fu accompagnato fino al borgo di Litarba da una folla numerosa e dal Senato antiocheno che da lui cercò invano di ottenere condiscendenza. Nominò governatore della Siria Alessandro di Eliopoli, uomo duro e brutale, perché quella «gente avida e insolente» non meritava di meglio. Respinse con disprezzo una lettera del re persiano Sapore, che offriva un trattato di pace e, salutato Libanio, si diresse a Ierapoli, attraversò l'Eufrate e raggiunse Carre, di triste memoria, dove offrì sacrifici al dio Sin, venerato in quei luoghi. Si dice che qui abbia segretamente nominato suo successore il cugino, «il bello, grande e triste Procopio, dalla figura sempre curva, dallo sguardo sempre a terra, che nessuno ha mai visto ridere». Quella notte, come a rafforzare i tristi presentimenti sull'esito della guerra, a Roma bruciava il tempio di Apollo Palatino, forse bruciarono anche i Libri della Sibilla Cumana.
A Carre divise l'esercito: 30.000 uomini, al comando di Procopio e di Sebastiano, furono mandati a nord, in Armenia, per unirsi al re Arsace, ridiscendere per la Corduene, devastare la Media e, costeggiando il Tigri, ricongiungersi poi in Assiria con Giuliano che intanto, con i suoi 35.000 uomini, sarebbe disceso a sud lungo l'Eufrate, dove una grande flotta al comando di Lucilliano navigava a vista portando vettovaglie, armi, macchine d'assedio, barconi. Il 27 marzo, giorno della festa della Madre degli dèi, Giuliano era a Callinicum, sull'Eufrate: celebrò il rito e ricevette l'omaggio dei saraceni, che gli offrirono l'appoggio della loro celebrata cavalleria. Attraversato il deserto siriano, Giuliano giunse a Circesium, ultimo avamposto romano prima del regno sasanide, alla confluenza dell'Eufrate con il fiume Chabora. Una lettera di Salustio lo pregava invano di sospendere l'impresa: tutti gli auspici erano contrari. Un portico, crollato al passaggio delle truppe, aveva ucciso decine di soldati, un fulmine aveva incenerito un cavaliere, di dieci tori, condotti al sacrificio, nove erano morti prima di raggiungere l'altare di Marte.
Superato il fiume Chabora, iniziava l'invasione del regno sasanide: 1.500 guide precedevano l'avanguardia e si disponevano ai fianchi dell'esercito. Alla destra, Nevitta costeggiava la riva sinistra dell'Eufrate, al centro era la fanteria dei veterani di Gallia comandata da Giuliano, alla sinistra la cavalleria comandata da Arinteo e da Ormisda, il fratellastro maggiore di Sapore passato ai romani, cui era promesso il regno; Vittore, il germanico Dagalaifo e Secondino di Osroene tenevano la retroguardia.
Raggiunta Zaitha il 4 aprile, Giuliano rese omaggio al mausoleo dell'imperatore Gordiano, penetrò a Dura Europos, città abbandonata da anni, e ottenne facilmente la resa del fortino di Anatha, che fu distrutto; nella cittadina trovarono un vecchio soldato romano con la sua famiglia, lì rimasto dal tempo della spedizione di Massimiano. Bruciata Diacira, evacuata dagli abitanti, entrò a Ozagardana e la distrusse. Dopo un giorno di riposo, i Romani avvistarono in lontananza l'esercito persiano che fu assalito e costretto alla fuga. Oltrepassata Macepracta, giunsero di fronte a Pirisabora, circondata da canali di irrigazione, e diedero inizio all'assedio che si concluse con la resa, il saccheggio e l'incendio della città. A ogni soldato furono distribuite 100 silique: di fronte alla scontentezza dell'esercito per una moneta che manteneva solo i due terzi del suo valore nominale, Giuliano promise le ricchezze del regno persiano.
Superati i campi allagati dai persiani in ritirata, incendiata Birtha, gli arieti ebbero ragione delle fortificazioni di Maiozamalcha: penetrati attraverso le brecce delle mura e per una galleria sotterranea, i soldati fecero strage degli abitanti. Il comandante fu tenuto in ostaggio e del bottino, Giuliano prese per sé un ragazzo muto e «dall'espressione graziosa ed elegante». Erano i primi giorni di giugno: Giuliano visitò le rovine di Seleucia. Il Tigri era a pochi chilometri; mentre la flotta, attraverso un canale di congiunzione con l'Eufrate, si immetteva nel Tigri, l'esercito superò di slancio il grande fiume sulla cui riva sinistra lo attendevano le truppe di Surena, decisi a sfruttare la superiore posizione strategica: ma furono sconfitte, volte in fuga, e costrette a rifugiarsi tra le mura della capitale Ctesifonte. Di fronte agli imponenti bastioni della città, si tenne il consiglio di guerra e si decise di rinunciare all'assedio: l'esercito di Sapore avrebbe potuto sorprendere i Romani impegnati nell'assedio, che avrebbero rischiato di essere presi tra due fuochi. Si avverava così un altro antico oracolo: «nessun principe Romano può oltrepassare Ctesifonte».
Sarebbe stato necessario che le forze di Procopio fossero arrivate a congiungersi con quelle di Giuliano, ma di Procopio non vi erano notizie. Giuliano, deciso a raggiungerlo e, se possibile, a sorprendere e affrontare Sapore in una decisiva battaglia campale, si volge a nord, dopo aver fatto incendiare gran parte della flotta con le armi e i viveri, perché le navi hanno difficoltà a risalire il fiume, e aver incorporati i suoi 20.000 soldati per utilizzarli nei combattimenti a terra. La marcia era resa tormentosa dal caldo, dalla guerriglia, dalla sete e dalla fame, perché i persiani bruciavano i raccolti nelle terre attraversate dai romani. Il 16 giugno apparve finalmente all'orizzonte l'esercito di Sapore, che però si limitò a seguire da lontano le truppe di Giuliano, rifiutando il combattimento aperto e ingaggiando solo brevi incursioni di cavallerie. Il 21 giugno l'esercito romano si fermò a Maranga per una sosta di tre giorni. Giuliano impiegava come al solito il tempo libero dalle occupazioni militari leggendo e scrivendo. La notte del 25 giugno gli sembra di scorgere nel buio della sua tenda una figura: è il Genius Publicus, quello che gli era apparso nell'esaltante notte di Lutetia e lo aveva invitato a non lasciarsi sfuggire l'occasione di prendere il potere. Ora ha però il capo velato a lutto, lo guarda senza parlare, poi si volta e lentamente svanisce. La mattina dopo, malgrado l'opinione contraria degli aruspici, fece levare le tende per riprendere la ritirata verso Samarra. Durante la marcia, presso il villaggio di Toummara, si accese un combattimento nella retroguardia: Giuliano accorse senza indossare l'armatura, si lanciò nella mischia e un giavellotto lo colpì al fianco. Cercò subito di estrarlo ma cadde da cavallo e svenne. Portato nella sua tenda, si rianimò, credette di star meglio, volle le sue armi ma le forze non risposero alla volontà. Chiese il nome della località: «è Frigia», gli risposero. Giuliano comprese che tutto era perduto: un tempo aveva sognato un uomo biondo che gli aveva predetto la morte in un luogo con quel nome. Il prefetto Salustio accorse al suo capezzale: lo informò della morte di Anatolio, uno dei suoi amici più cari. Giuliano pianse per la prima volta e la commozione prese tutti gli astanti. Si riprese, Giuliano: «È un'umiliazione per noi tutti piangere un principe la cui anima sarà presto in cielo a confondersi con il fuoco delle stelle». Quella notte fece il bilancio della sua vita: «Non devo pentirmi né provare rimorso di alcuna azione, sia quando ero un uomo oscuro, che quando ebbi la cura dell'Impero. Gli dèi me lo concessero paternamente ed io lo conservai immacolato [...] per la felicità e la salvezza dei sudditi, equanime nella condotta, contrario alla licenza che corrompe le cose e i costumi». Poi, com'è degno di un filosofo, conversò con Prisco e con Massimo della natura dell'anima. Le sue guide spirituali gli ricordarono il suo destino, fissato dall'oracolo di Helios:
« Quando avrai sottomesso al tuo scettro la razza persiana,
inseguendoli fino a Seleucia a colpi di spada,
allora salirai all'Olimpo su un carro di fuoco
attraverso le vertiginose orbite del cosmo.
Liberato dalla dolorosa sofferenza delle tue membra mortali,
raggiungerai la dimora senza tempo della luce eterea,
che abbandonasti per entrare nel corpo di un mortal
e. »
Sentendosi soffocare, Giuliano chiese dell'acqua: appena ebbe finito di bere, perse conoscenza. Aveva 32 anni e aveva regnato meno di venti mesi: con lui, moriva l'ultimo eroe greco.

Salustio rifiutò la successione e allora la porpora fu concessa a Gioviano. Questi stipulò con Sapore la pace, con la quale i Romani cedevano ai Persiani cinque province e le piazzeforti di Singara e di Nisibi. Fu ripresa la ritirata durante la quale incontrarono finalmente l'armata di Procopio: questi fu incaricato di portare fino alle porte di Tarso la salma che, secondo le volontà di Giuliano, fu sepolta in un mausoleo a fianco di un piccolo tempio sulle rive del fiume Cidno. Di fronte, sorgeva la tomba di un altro imperatore, Massimino Daia. L'anno dopo, Gioviano passò per Tarso e fece incidere un'iscrizione sulla pietra sepolcrale:
« Dalle rive dell'impetuoso Tigri, Giuliano è giunto a riposare qui,
al tempo stesso buon re e guerriero coraggioso
»
La notizia della morte di Giuliano provocò gioia tra i cristiani. Gregorio l'annunciò trionfante: «Udite, popoli! [...] fu estinto il tiranno [...] il dragone, l'apostata, l'assiro, il comune nemico e abominio dell'universo, la furia che molto gavazzò e minacciò sulla terra, molto contro il Cielo operò con la lingua e con la mano». Pari fu la costernazione tra i suoi seguaci, che in gran parte si dispersero e cercarono di farsi dimenticare. Libanio, che abitava ad Antiochia, in un primo tempo temette per la propria vita ma la considerazione di cui godeva la sua virtù di letterato gli risparmiò pericoli e offese. Prisco si ritirò ad Atene, Massimo d'Efeso, diffidato dal proseguire le sue attività, fu prima multato e, qualche anno dopo, decapitato. Il medico Oribasio se ne andò tra i goti ma poi la fama della sua perizia medica lo fece richiamare in patria, dove visse onorato e rispettato, Seleuco, Aristofane e Alipio perdettero i loro incarichi. Tra gli altri, Claudio Mamertino, pur autore di un panegirico dedicato a Giuliano, e Salustio, entrambi valenti amministratori, conservarono i loro incarichi.
I cristiani, oltre a rovesciare altari e distruggere templi, avviarono la demolizione della figura di Giuliano: le orazioni di Gregorio, ammirevoli per vigore polemico, ma deprecabili per la parzialità dei loro assunti, registrano, tra l'altro, l'accusa di segreti e falsi sacrifici umani. Nella sua Historia Ecclesiastica Teodoreto di Cirro s'inventa che Giuliano abbia raccolto con le mani il sangue uscito dalla sua ferita e l'abbia alzato al cielo gridando: «Hai vinto, Galileo!». Filostorgio scrive invece che Giuliano dopo aver raccolto il suo sangue con le mani lo lanciò verso il Sole gridando «Saziati!» e maledicendo gli altri Dei «cattivi e distruttori».
Quando le polemiche si attenuarono, gli ammiratori di Giuliano finirono con il reagire: Libanio raccolse le testimonianze di Seleuco e Magno di Carre, compagni d'arme dell'imperatore, e compose orazioni esaltando la figura di Giuliano e accusando della sua morte uno sconosciuto soldato cristiano; un certo Filagrio mostrò un diario nel quale aveva descritto l'avventura persiana, e altre memorie pubblicarono l'ufficiale Eutichiano e il soldato Callisto. Si raccolsero i suoi scritti e le sue lettere, per dimostrare la bontà della sua personalità, la sua cultura e il suo amore per i sudditi. Ammiano Marcellino gli fece nelle Res gestae un ritratto ammirevole per correttezza ed equilibrio di giudizio, senza però nascondere alcuni suoi difetti, imitato nel breve schizzo che Eutropio gli dedica nel suo Breviarium: «Uomo eminente e che avrebbe amministrato lo Stato in modo notevole se il destino glielo avesse permesso; molto versato nelle discipline liberali, sapiente soprattutto in greco, e al punto che la sua erudizione latina non poteva bilanciare la sua scienza del greco, aveva un'eloquenza brillante e pronta, una memoria molto sicura. Da certi punti di vista era più simile a un filosofo che a un principe; era liberale nei confronti dei suoi amici, ma meno scrupoloso di quello che conveniva a un così grande principe: in tal modo certi invidiosi attentarono alla sua gloria.
Molto giusto nei confronti dei provinciali, diminuì le imposte per quello che si poté fare; affabile con tutti, avendo mediocre preoccupazione per il tesoro, avido di gloria, e, tuttavia, di un ardore spesso immoderato, perseguitò troppo vivamente la religione cristiana, senza tuttavia spargerne il sangue; ricordava molto Marco Antonino, che d'altronde si studiava di prendere a modello».
Il pagano Eunapio raccontò la vita di Giuliano nelle sue Storie, delle quali restano però pochi frammenti, e onorò i filosofi, dei quali in vita Giuliano era stato amico, nelle sue Vite dei filosofi e dei sofisti. Gli scrittori ecclesiastici Socrate Scolastico, Sozomeno e Filostorgio tramandarono una vita di Giuliano riportando gli attacchi degli agiografi cristiani, mentre Cirillo di Alessandria confutò il Contro i Galilei nel suo Contro Giuliano.
Vi furono tuttavia anche cristiani che seppero distinguere il Giuliano anti-cristiano dal Giuliano uomo di governo. Prudenzio scrisse di lui: «Uno solo di tutti i prìncipi, di quel che ricordo da bambino, non venne meno come valorosissimo condottiero, fondatore di città e di leggi, celeberrimo per retorica e valore militare, buon consigliere per la patria ma non per la religione da osservare, perché adorava trecentomila dèi. Tradì Dio, ma non l'Impero e l'Urbe», mentre Giovanni di Antiochia, nel VII secolo, lo definì l'unico imperatore che avesse ben governato.
Nella civiltà bizantina, la figura di Giuliano provocò reazioni contrastanti: anche se venne apprezzato per la sua opera come imperatore e la sua produzione letteraria, tuttavia il profilo nettamente anticristiano di Giuliano non poteva attirargli il favore di una civiltà come quella bizantina, in cui l'elemento cristiano era ideologicamente fondamentale.
Nel 1489 andò in scena a Firenze un dramma scritto da Lorenzo il Magnifico che celebrava il martirio dei fratelli Giovanni e Paolo, attribuito dalla leggenda a Giuliano, per altro visto da Lorenzo come un sovrano ricco di qualità. Nel 1499 fu pubblicato postumo a Venezia il Romanae Historiae Compendium, in cui l'umanista Pomponio Leto celebra l'ultimo imperatore pagano, definendolo "eroe" e menzionandone solo di sfuggita l'apostasia. Con il Rinascimento si cominciano a riscoprire gli scritti di Giuliano, dai quali emerge una figura del tutto differente da quella tramandata dal ritratto cristiano. In Francia, un allievo di Pietro Ramo, l'ugonotto Pierre Martini, scoprì nello studio del maestro un codice del Misopogon che egli pubblicò insieme con una raccolta delle Lettere e con una prefazione biografica, dedicandolo al cardinale Odet de Coligny, in rotta con la Chiesa: il Martini presenta Giuliano come un imperatore virtuoso.
Michel de Montaigne definì Giuliano un «grand'uomo» e nel 1614 il gesuita Denis Pétau pubblicò in Francia un'ampia raccolta degli scritti di Giuliano, giustificando l'iniziativa con la considerazione che conoscere le «aberrazioni» critiche di un pagano non può che rafforzare la fede dei cristiani. Nel 1642 François de La Mothe Le Vayer nelle sue Virtù dei pagani fece giustizia delle esagerazioni polemiche fiorite sulla figura di Giuliano, seguito dall'Histoire ecclésiastique di Claude Fleury, del 1691, dalla Storia della Chiesa e dalle Vite degli imperatori del Tillemont nel 1712 e dalla Vita dell'imperatore Giuliano dell'abate de La Bléterie del 1755.
Voltaire – ricordando le calunnie di cui l'imperatore fu ricoperto dagli «scrittori che vengono chiamati Padri della Chiesa» – giudicò Giuliano «sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma, non essendo cristiano, fu considerato per secoli un mostro [...] aveva tutte le qualità di Traiano [...] tutte le virtù di Catone [...] tutte le qualità che ammiriamo in Giulio Cesare, senza i suoi vizi; ed ebbe anche la continenza di Scipione. Infine, egli fu in ogni cosa pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini».
In Germania era stato il teologo ed erudito Ezechiel Spanheim a pubblicare nel 1660 I Cesari di Giuliano e, nel 1696, l'Opera omnia di Giuliano insieme con il Contra Iulianum di Cirillo. Nel Settecento, Goethe e Schiller gli espressero ammirazione come, in Inghilterra, fecero Shaftesbury, Fielding e lo storico Edward Gibbon. Questi nella sua opera dedicata all'Impero romano, ritiene che qualunque genere di vita Giuliano avesse scelto, «per il suo intrepido coraggio, per il suo spirito vivace e l'intensa applicazione, avrebbe ottenuto o almeno meritato i più alti onori». Paragonato ad altri imperatori, «il suo genio era meno potente e sublime di quello di Cesare, non possedeva la consumata prudenza di Augusto, le virtù di Traiano appaiono più salde e naturali e la filosofia di Marco Aurelio è più semplice e coerente. E tuttavia Giuliano sostenne l'avversità con fermezza e la prosperità con moderazione» e si preoccupò costantemente di alleviare le miserie e di innalzare lo spirito dei sudditi. Gli rimprovera di essere stato preda dell'influsso del pregiudizio religioso, che ebbe un effetto pernicioso sul governo dell'Impero, ma Giuliano rimaneva un uomo in grado di «passare dal sogno della superstizione ad armarsi per la battaglia» e poi ancora di «ritirarsi tranquillamente nella sua tenda a dettare leggi giuste e salutari o a soddisfare il suo gusto per le eleganti ricerche di letteratura e di filosofia».
Il cattolico Chateaubriand reagì a questo coro di giudizi benevoli imputandoli all'atteggiamento anti-cristiano in voga in molti ambienti intellettuali del XVIII secolo, ma riconosce la superiorità spirituale di Giuliano rispetto a quella di Costantino. Nella sua Daphné, il romantico de Vigny crede che Giuliano abbia cercato volontariamente la morte durante la sua ultima campagna militare, per aver compreso il fallimento della sua opera di restaurazione dell'ellenismo.
Con il fiorire degli studi filologici, che investirono anche l'opera di Giuliano, l'Ottocento produsse una quantità di studi su Giuliano che spesso mettevano un risalto una particolare caratteristica della sua figura. Nel complesso risultarono ritratti nei quali Giuliano appariva «contemporaneamente mistico e razionalista, filoelleno e imbevuto di superstizioni orientali, visionario e politico consumato, uomo di studio e soldato, emulo di Alessandro e di Traiano ma anche di Marco Aurelio, un uomo che metteva al di sopra di tutto il culto degli dèi, poi si faceva uccidere per la patria; talvolta spirito giusto, talvolta fazioso; ora impulsivo ora calcolatore e circospetto; a volte affabile e cortese, a volte intrattabile e severo; ora pieno di bonomia e di spontaneità, ora solenne come il più pretenzioso dei pontefici».
Nel Novecento, lo stesso filologo belga cattolico Joseph Bidez, che curò un'importante edizione critica delle opere complete di Giuliano, tuttora consultata, e una biografia la cui edizione definitiva, apparsa nel 1930, è ancora un punto di riferimento per gli studiosi, cercò di sfrondare questo complesso di giudizi, presentando un Giuliano come figlio del suo tempo: la sua fede e i suoi dubbi, l'ascetismo e l'amore della letteratura appartengono anche a un Sinesio e al più tardo Girolamo; «malgrado la sua idolatria», Giuliano è pervaso di influenze cristiane, assomigliando «a un Agostino platonizzante tanto quanto ai rappresentanti della filosofia arcaicizzante di cui si credeva discepolo [...] egli venera Giamblico, più che comprenderlo [...] mentre l'anima inquieta e tormentata di Giuliano è, a ben vedere, animata dello spirito dei tempi nuovi».
Il cattolico Bidez ritiene infatti che i sentimenti religiosi di Giuliano fossero abbastanza vicini a quelli cristiani: «come un cristiano Giuliano cercò dapprima di assicurarsi la salute della sua anima; come un cristiano ebbe bisogno di una morale e di un dogma rivelato; volle avere un clero indipendente dal potere civile e una Chiesa fortemente centralizzata; rimase insensibile alla gioia di vivere e agli splendori della città del mondo». La sua pietà religiosa si differenzierebbe da quella dei cristiani – secondo Bidez – per essere accomodante nella conservazione integrale delle tradizioni elleniche orientali. In questo modo, la sua nuova Chiesa finiva con essere un Pantheon di tutte le divinità possibili, «una specie di museo di archeologia teologica» dove «l'anima dei semplici si perde e la curiosità rischia di sostituire la vera pietà». Ciò che distingue Giuliano e lo rende un grande personaggio, secondo Bidez, non sono le sue idee e le sue imprese, ma l'intelligenza e il carattere: fu ardito ed entusiasta della sua fede e, seguendo i comandamenti di Mithra, richiese a sé stesso coraggio e purezza ed ebbe per gli altri senso di giustizia e fraternità. La nobiltà della moralità di Giuliano era degna del massimo rispetto ma il suo tentativo di riforma religiosa fallì, al di là del poco tempo che gli fu concesso per attuarla, perché soltanto il cristianesimo poteva essere «capace di impedire l'annientamento della cultura e di farci sopportare le nostre miserie, attribuendo al lavoro manuale e alla sofferenza la nobiltà di un dovere morale».
Naturalmente, tutti i commentatori sottolineano il fallimento della restaurazione pagana: «Egli disprezzava i cristiani, a cui rimproverava soprattutto l'ignoranza delle grandi opere del pensiero ellenico, senza accorgersi che cristianizzazione e democratizzazione della cultura erano aspetti fatali di uno stesso fenomeno, contro cui l'aristocratico culto della ragione, della saggezza, della humanitas, nulla avrebbe potuto. Convinto così della superiorità della cultura pagana e della religione degli dèi, ritenne che bastasse dare un'organizzazione da contrapporre a quella delle chiese cristiane, per assicurarne la vittoria [...] Il suo era solo un sogno, destinato a infrangersi contro la vitalità del nuovo mondo cristiano».
Ma poiché in vita Giuliano non riuscì a realizzare nessuno dei suoi progetti – non la conquista della Persia, non la riforma religiosa, nemmeno quella dell'Impero, perché la concessione di un'ampia autonomia amministrativa alle città fu revocata dai suoi successori – la storia avrebbe avuto pochi motivi per ricordarlo, e invece lo ha innalzato tra i suoi maggiori protagonisti. Forse questo avvenne perché «la sua sorte seppe toccare il cuore e la mente degli uomini», e la leggenda, «che è il linguaggio del cuore e dell'immaginazione, lo ha sempre dipinto come un uomo che visse ricercando, lottando e soffrendo, presentandolo ora come un demone, ora come un santo».

Eugenio Caruso - 19 febbraio 2018

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