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Italia: vizi e virtù. Gli imprenditori artefici dello sviluppo industriale del paese


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"


Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

copertina 3

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3. Gli imprenditori arrtefici dello sviluppo industriale del Paese

In un articolo precedente ho parlato di miracolo economico; in realtà il sostantivo pur ripreso da giornalisti ed economisti non è del tutto vero. L'industrializzazione e il successo delle nostre imprese è da attribuirsi a coraggiosi inventori e capitani d'industria che hanno reso possibile il suddetto miracolo. In questo capitolo tratterò, quindi, di alcuni di questi uomini che hanno contribuito a trasformare un paese sostanzialmente agricolo in una potenza industriale che primeggiò nell'industria tessile, metalmeccanica, navale, automobilistica, siderurgica, aeronautica, elettrica, informatica. Giova notare che la maggior parte dei grandi industriali si affermarono grazie alle commesse militari e agli appalti pubblici e che gli artefici della rivoluzione industriale italiana sono personaggi nati nell'ottocento o ai primi del novecento (Ad esempio: De Ferrari - Industria finanziaria; Bombrini - Banchiere; Bastogi - Industria finanziaria; Erba - Industria farmaceutica; Ansaldo - Industria Metalmeccanica; Cantoni - Industria tessile; Crespi -Tessile; Perrone - Navalmeccanica; Pirelli - Pneumatici: Breda - Metalmeccanica; Tosi - Termoelettromeccanica; Abegg - Tessile; Agnelli - Automobilistica; Falck - Suderurgica; Caproni - Aeronautica; Marelli - Elettromeccanica; Romeo - Automobilistica; Donegani - Chimica; Volpi - Elettrica; Borletti - Tessile; Gualino - Finanziaria; Feltrinelli - Finanziaria; Innocenti - Metalmeccanica; Marinotti - Chimica; Cicogna - Fibre sintetiche; Olivetti - Informatica; Piaggio - Motoristica; Agusta - Aeronautica); Pesenti - Cementizia

3.1 Raffaele De Ferrari (Genova, 1803 - Genova, 1876). Figlio di Andrea e Livia Ignazia Pallavicino, porta il nome del nonno paterno, il quale nel biennio 1787-1789 era stato doge: l’unico a ricoprire la massima carica della Repubblica in una famiglia antica, che aveva costruito le proprie fortune sull’esercizio delle professioni giuridiche e del notariato, entrando a far parte nel XVI secolo del ceto di governo. Il già solido patrimonio dei De Ferrari trova nel padre Andrea un amministratore spregiudicato, capace durante gli anni dell’Impero napoleonico e della Restaurazione di farlo lievitare in modo straordinario, mediante speculazioni commerciali e finanziarie in Italia, in Inghilterra, in Austria, in America e soprattutto in Francia, dove a partire dal 1817 si concentrano i suoi affari: compravendita di titoli pubblici, speculazioni edilizie, finanziamento di una dinamica banca fondata nel 1822 dal ginevrino Barthélémy Paccard.
Con numerosi banchieri d’alto bordo che operano tra Parigi, Londra, Ginevra e Genova – i Busoni, i De la Rüe, gli Hagerman, gli Heath, i Laffitte – Andrea De Ferrari stringe in quegli anni importanti relazioni, che rappresenteranno per il figlio una preziosa eredità. Giova ricordare che Genova, all'epoca, era il più importante centro finnaziario italiano e uno dei maggiori in Europa.
Nel gennaio 1813 De Ferrari è ammesso al Prytanée militaire di La Flèche, prestigioso istituto destinato da Napoleone ad accogliere i rampolli della nobiltà imperiale. Caduto l’Impero, prosegue gli studi nel Collegio Ghiglieri di Finale Ligure e nel Collegio dei Nobili di Parma, ricevendo un’educazione di alto livello, anche grazie all’impiego di precettori privati. Nel biennio 1820-1822 accompagna il padre in un lungo tour che tocca Napoli, Roma, Londra, Milano e Parigi; tra il 1823 e il 1825 si reca di nuovo con lui a Parigi, in Svizzera e a Londra. Sono viaggi di istruzione, durante i quali il giovane De Ferrari viene iniziato alla pratica finanziaria, all’uso delle lingue straniere e alla vita lussuosa; il tour europeo era d'obbligo per i figli dell'aristocrazia economica dell'epoca. Nel 1828 sposa Maria Brignole Sale e, a distanza di poco tempo, muore il padre. Si trova così padrone di una cospicua ricchezza nel momento in cui il matrimonio lo imparenta a una delle famiglie più in vista di Genova e gli assicura stretti legami con l’aristocrazia e l’alta finanza francesi grazie al suocero, il marchese Antonio, già funzionario napoleonico e poi diplomatico sabaudo. Nel novembre del 1828, nel palazzo genovese di piazza S. Domenico, De Ferrari uccide con un colpo di pistola un servitore, e questo fatto solleva contro di lui un’ondata di ostilità tra la popolazione genovese. Ne segue un processo concluso con una mitissima condanna a tre mesi di arresti domiciliari; ma l’episodio accelera la sua decisione di trasferirsi in Francia, a Parigi, nell’autunno del 1829: da allora il centro della sua vita e dei suoi interessi è nella capitale francese, dove fin dagli inizi occupa un posto di rilievo nella buona società e nella tradizionale haute banque, intrecciando altresì, dopo il 1830, rapporti strettissimi con Luigi Filippo e la sua corte.
Nei primi anni del regime orleanista De Ferrari mette utilmente a frutto i propri capitali in attività che non paiono discostarsi molto da quelle paterne. Gli investimenti e le "negoziazioni" si indirizzano sui fondi pubblici, con frequenti acquisti allo scoperto e rapide vendite, e poi sulle azioni dei canali francesi e sui prestiti a breve. Per sostenere l’alto volume di compravendite e un intenso traffico di cambiali, egli si avvale di una trentina fra case bancarie e agenti di cambio sparsi in quindici città europee. Negli anni Trenta De Ferrari è socio accomandante della banca Girard e de Waru, punto d’incontro di vari capitalisti di buon livello e partecipe d’un sindacato bancario interessato all’affare delle ferrovie, che nel 1838 fonda la Compagnie de Paris a Orléans, destinata a essere il perno di tutte le combinazioni industriali e finanziarie del gruppo.
Il risultato dei buoni affari realizzati da De Ferrari si manifesta nel novembre del 1837, quando immobilizza una forte somma nell’acquisto d’un palazzo gentilizio a Bologna, e della tenuta di Galliera nella provincia bolognese, un vasto possedimento di circa 1.800 ettari costituito in ducato da Napoleone e da lui assegnato a Giuseppina, figlia di Eugenio Beauharnais e moglie di Oscar Bernadotte, futuro re di Svezia. Mediante tale acquisto, De Ferrari può richiedere il titolo di duca di Galliera, che gli viene conferito da papa Gregorio XVI nel settembre del 1838, e riconosciuto da Carlo Alberto nel luglio del 1843.
In Italia come in Francia, però, più che dagli investimenti immobiliari, De Ferrari è attratto dalle speculazioni bancarie e ferroviarie. Genova rappresenta una piazza interessante, perché fin dal 1826 è in progetto un collegamento ferroviario tra il suo porto e la pianura padana. De Ferrari sostiene il gruppo genovese che promuove la realizzazione del collegamento ferroviario Genova-Torino, ma l’impresa non ha seguito, perché nel 1845 il Governo si pronuncia per la statalizzazione; la vicenda è anche occasione di contrasto tra De Ferrari e Cavour: il futuro ministro, che a Parigi aveva frequentato il salotto Galliera e nei primi anni della “monarchia di luglio” s’era servito di De Ferrari per stabilire contatti con la finanza orleanista. Ma, come vedremo Cavour troverà in Bombrini il banchiere diposto ad assecondarlo nella sua politica di investimenti.
Contemporanea all’iniziativa ferroviaria, e complementare a essa, è la creazione della Banca di Genova, primo istituto di emissione degli Stati sardi e strumento finanziario nuovo, in un panorama ancora dominato dalle banche private. Approvata nel marzo del 1844, la banca chiama De Ferrari a presiedere il consiglio di reggenza. L’istituto, rivelatosi presto un eccellente affare, rappresenta un’ulteriore occasione di contrasto tra De Ferrari e Cavour: sia perché prospera dopo il fallimento di un analogo progetto caldeggiato dal Conte, sia perché dal gruppo dei fondatori e maggiori beneficiari rimangono esclusi i De la Rüe e i Ricci, le due case bancarie genovesi con cui Cavour intrattiene più stretti rapporti. D’altra parte il successo genovese sollecita nel 1847, auspice ancora Cavour, la nascita della Banca di Torino, assai osteggiata dal gruppo ligure. Gli anni delle due imprese genovesi coincidono con un periodo favorevole per le speculazioni di De Ferrari in Francia e in Belgio. Tra il 1841 e il 1847 è tra i maggiori azionisti – con Périer, Laffitte, Fould e altri – della belga Société des mines et fonderies de zinc de la Vieille-Montagne, un colosso europeo dello zinco destinato a molti decenni di eccezionale prosperità e di altissimi dividendi. Intanto in Francia rinasce la febbre delle ferrovie e dal 1845 per i finanzieri del settore cominciano i buoni affari: proprio nel luglio di quell’anno il gruppo formato da De Ferrari e dai banchieri Hottinguer e Baring firma un accordo con la casa Rothschild per concorrere unitamente all’aggiudicazione delle ferrovie del Nord della Francia. Nella Compagnie du Nord, De Ferrari è Consigliere di amministrazione con Émile Péreire, Hottinguer e James de Rothschild (Presidente).
La rivoluzione del 1848 e la caduta della monarchia, che interrompe un’ottima stagione per i grandi affaristi parigini, sono particolarmente sofferte da De Ferrari per l’amicizia personale che lo legava al sovrano: amicizia destinata a durare anche in seguito. L’Orléans, che aveva protetto e appoggiato De Ferrari in passato, avrebbe anche voluto crearlo pari di Francia; ma il finanziere genovese aveva rifiutato l’onore, perché questo avrebbe comportato la scelta della cittadinanza francese, mentre voleva conservare un certo distacco dalla vita politica, al di qua e al di là delle Alpi.
In seguito, le dichiarazioni di patriottismo e liberalismo, unitamente alla grande ricchezza e al prestigio internazionale, gli valgono la nomina a senatore del Regno sardo, decretata da Vittorio Emanuele nel 1849. In realtà i suoi interessi maggiori restano in Francia, dove l’attenzione degli affaristi è concentrata sulle speculazioni ferroviarie. De Ferrari partecipa da protagonista all’ebbrezza finanziaria che segue il colpo di Stato del dicembre 1851. E' associato al gruppo dei finanzieri e banchieri inglesi e francesi (comprendente anche i Rothschild, i Péreire, Bartholony, Hottinguer, de Waru, Mallet e altri), concessionari delle linee dell’asse Parigi-Marsiglia, nonché fra i fondatori, con Isaac Péreire e James de Rothschild, all’epoca ancora alleati, della Compagnie du Midi, concessionaria delle linee della regione sud-occidentale.
Al novembre del 1852 risale inoltre la creazione della Société generale de Crédit mobilier: nella creatura dei Péreire, che segna il loro distacco dai Rothschild, De Ferrari prende parte fin dall’inizio, lucrando i favolosi dividendi pagati inizialmente agli azionisti, assicurandosi la partecipazione ai migliori affari patrocinati dal Crédit. Tra le grandi occasioni sfruttate da De Ferrari sono quelle legate alla ristrutturazione urbanistica di Parigi per opera del Barone Haussmann. Se i Péreire, con la loro Compagnie immobilière, hanno la parte del leone, trovano largo spazio anche singoli speculatori come De Ferrari, il quale finanzia per 20.000.000 di franchi uno dei più audaci beneficiari della haussmannisation, Joseph Thome, prodigiosamente arricchitosi con la sistemazione del quartiere degli Champs-Elysées, dell’avenue Montaigne, dei lungosenna e con gli sventramenti sulla Rive Gauche. Le speculazioni ferroviarie restano tuttavia la sua attività principale: nel 1853 investe nella costruzione della linea Lione-Ginevra che punta fino a Marsiglia, in concorrenza con l’ampliamento della rete sabauda da Torino a Ginevra; sul versante dei territori della monarchia asburgica chiude invece nel 1855 il contratto di concessione alla società costituita con Péreire Österreichische Staats-Eisenbahn-Gesellschaft, incaricata della costruzione e gestione di linee in Boemia, Ungheria, Austria e proprietaria di terreni, fabbriche e miniere in varie località dell’impero. Nelle miniere di carbone tedesche, in quello stesso anno 1855, De Ferrari investe circa mezzo milione di talleri; nel 1856 è a Vienna, su incarico del Crédit mobilier, per trattare l’acquisto delle ferrovie lombardo-venete. La missione si risolve in un rovesciamento delle alleanze finanziarie: De Ferrari, resosi conto che il Crédit aveva poche possibilità di battere nell’affare i rivali Rothschild, preferisce accordarsi con questi ultimi per dar vita a una società che prende in concessione la grande linea Trieste-Milano-Pavia e la Milano-Como, incaricandosi anche di realizzare o completare i collegamenti Verona-Mantova, Milano-Piacenza, Milano-frontiera piemontese.
In Italia, intanto, si aprono per De Ferrari nuove prospettive grazie alla sua fresca alleanza con i Rothschild, i quali a partire dal 1855, riprendono in misura massiccia gli investimenti ferroviari. Dopo il Lombardo-Veneto i loro interessi si volgono alla ferrovia dell’Italia centrale da Pistoia a Bologna, Modena e Parma. In concorrenza con il livornese Pietro Bastogi, la Compagnia lombardo-veneta rappresentata da De Ferrari si aggiudica la linea e nel 1858, ottenuta la Pistoia-Firenze, tenta di estendere la propria egemonia sul resto della penisola con un progetto di riunione in una sola rete di tutte le ferrovie italiane. Sul finire del 1858 gli appetiti dei Rothschild e di De Ferrari si volgono alle ferrovie statali del Piemonte, le più sviluppate della penisola: le trattative per l’acquisto trovano un clima politico poco favorevole alla cordata “francese”, già proprietaria di tutte le linee dell’Italia asburgica. Il gruppo cerca di approfittare dell’unificazione italiana per conseguire il semimonopolio ferroviario e nell’agosto 1860 la cordata ottiene dall’agonizzante Governo borbonico la concessione delle strade ferrate meridionali. Due anni dopo Bastogi riesce a sottrarre «patriotticamente» al capitale francese le Meridionali e le Romane, ma la Società lombarda acquista le ferrovie piemontesi e si trasforma in Società delle strade ferrate dell’Alta Italia, assorbendo nel 1866 anche le linee venete. Nell’Alta Italia De Ferrari continua a rivestire un ruolo di primaria importanza, effettuandovi massicci investimenti all’inizio degli anni Settanta. Nel gran germogliare di affari provocato dal nuovo regno, De Ferrari si trova in una eccellente posizione di equilibrio tra casa Rothschild e Crédit mobilier – i due gruppi stranieri che si contendono la supremazia negli investimenti italiani – e ben legato a quel capitalismo genovese che funge da tramite con il capitale europeo.
Proprio da un intreccio fra questi poli di interessi, con la determinante partecipazione di De Ferrari, viene fondata nel 1863 la Società generale di credito mobiliare italiano, prima moderna banca di affari del nostro Paese. Del Credito mobiliare italiano De Ferrari diventa presidente e gestisce i primi anni di alterne fortune. Il progressivo distacco dei Péreire e, nel 1867, il crollo del Crédit mobilier emancipano in certa misura il Credito mobiliare dal capitale francese, offrendo a De Ferrari l’occasione per intavolare trattative con gli interessi che fanno capo alla Destra toscana, contraria alle ingerenze finanziarie straniere. Così nel 1868, quando va in porto l’operazione relativa alla concessione della privativa tabacchi, che promette utili favolosi, tocca al Credito mobiliare e ai suoi uomini italiani la partecipazione più ampia nella società per la regìa cointeressata: De Ferrari, ormai aureolato di italianità, partecipa all’operazione con 20.000.000 ben ripagati dagli eccellenti dividendi che la regia seguiterà per vari anni a distribuire.
A partire dal 1871 De Ferrari, pur seguitando in varie direzioni le proprie attività finanziarie, inizia quella metamorfosi da grande speculatore a grande benefattore che l’avrebbe reso famoso e acclamato nella sua antica patria. Alla trasformazione non sono estranee le vicende familiari: il fervore filantropico della moglie e il comportamento del figlio Filippo il quale, coltivando idee democratiche, matura il distacco dal padre (fino alla rinuncia ai titoli, al nome e all’eredità paterni). Il gran patrimonio di De Ferrari resta così senza eredi: viene quindi destinato, prima e dopo la morte del Duca, a una serie imponente di donazioni e lasciti che ancor oggi segnano la geografia urbana di Genova e testimoniano la volontà di promuovere i più diversi aspetti del progresso civile della città: dallo sviluppo economico all’assistenza sociale, dalla sanità alla cultura. Nel 1874 De Ferrari dona al Comune di Genova lo splendido Palazzo Rosso con i suoi tesori d’arte. Nel 1875 fonda un’Opera pia per la costruzione di case operaie, con un’ampia dotazione di capitale e alla fine di quell’anno destina l’ingentissimo contributo di 20.000.000 per l’ampliamento e il miglioramento del porto di Genova. La donazione De Ferrari – tradotta in una convenzione firmata nel 1876 con il Ministero Depretis e nella legge 9 luglio 1876 per l’avvio dei lavori – è decisiva per sbloccare la situazione di stallo cui erano giunti tutti i tentativi di adeguare il porto alle nuove esigenze della navigazione.
De Ferrari è insignito da Vittorio Emanuele II nel 1875 del titolo di Principe di Lucedio (località del Vercellese dove in precedenza ha acquistato una grande tenuta) e di quello di Cavaliere dell’Annunziata come «benefattore della nazione»; a Genova il Consiglio comunale decide, tra altri atti di omaggio, di chiamare piazza De Ferrari la piazza S. Domenico sulla quale si affaccia la casa del Duca. Nel 1876, dopo l’avvento della Sinistra al potere, De Ferrari appare in perfetta sintonia con il nuovo Governo: a maggio, su istanza di Depretis, tenta di convincere Rothschild a contenere le tariffe sulle linee dell’Alta Italia; successivamente offre al Presidente del Consiglio il proprio appoggio finanziario per l’esercizio privato delle ferrovie riscattate dallo Stato con il trattato di Basilea del 1875. Nell’autunno del 1876 De Ferrari è a Genova, dove Depretis lo incontra pochi giorni prima del discorso di Stradella; muore di polmonite in novembre.

3.2 Carlo Bombrini (Genova, 1804 – Roma 1882) Nato da Bartolomeo, capitano dei carabinieri dell'esercito sardo, e da Maria Anna Rastrump, entrò come commesso nella ditta bancaria Bartolomeo Parodi e Figlio di Genova. Guadagnatasi la stima del titolare, fu da questo proposto nel 1843 come direttore per la Banca di Genova, allora in corso di costituzione, e della quale poi il Parodi, nel maggio 1845, fu nominato presidente. La banca, sorta per iniziativa di un gruppo di capitalisti genovesi (tra i fondatori, accanto al Parodi, erano il marchese De Ferrari duca di Galliera, il marchese F. Pallavicino, il barone G. Cataldi), con un capitale di quattro milioni di lire, ripartito in quattromila azioni e sottoscritto prevalentemente da commercianti di Genova, Torino, Nizza e Chambéry, fu autorizzata a iniziare l'attività, sotto la denominazione di Banca di sconto, depositi e conti correnti, dalle regie patenti del 16 marzo 1844. (Voglio ricordare che lo sconto bancario è regolato in Italia dagli articoli 1858 e seguenti del codice civile: esso è il contratto con il quale un istituto di credito anticipa a un proprio cliente l'importo di un credito che egli ha verso terzi e che cede all'istituto. In pratica si realizza una cessione "credito contro corrispettivo". A ragione di questo tipo di operazione è da ricercare nel bisogno di un privato, solitamente un imprenditore, di ottenere in maniera celere e sicura la disponibilità di una somma di denaro da destinarsi alla sua attività. L'imprenditore in questione, invece di chiedere un prestito o un finanziamento, può decidere di cedere alla propria banca un credito che vanta verso un cliente, riscattandone immediatamente il valore nominale. Ovviamente l'istituto di credito del caso non agirà come uno sprovveduto, accollandosi un credito dalle incerte possibilità di recupero. Infatti la cessione che va perfezionandosi in questo caso sarà del tipo "salvo buon fine" o "pro solvendo"; ciò a dire che se alla scadenza il terzo ceduto non dovesse adempiere alla propria obbligazione verso la banca, questa potrà rivalersi sul cedente. Le principali operazioni consentite alla società erano lo sconto, le anticipazioni, l'accettazione di depositi volontari, la raccolta di somme in conto corrente senza interesse e l'emissione di biglietti all'ordine. Essa poteva inoltre emettere biglietti al portatore e a vista; l'ammontare di questi e l'importo dei conti correnti pagabili a vista non potevano superare il triplo del numerario metallico esistente in cassa.) Era la prima istituzione del genere nel Regno sardo; ciò spiega come, da un lato, in ragione delle numerose difficoltà iniziali, limitasse di molto la sfera delle proprie operazioni, e come, dall'altro, finisse per diventare la più ragguardevole istituzione di credito pubblico nel Regno, trovandosi quindi esposta a dover finanziare lo Stato nelle circostanze eccezionali. Su Bombrini, in quanto direttore, ricadeva il compito di amministrare gli affari della banca a nome del consiglio di reggenza. In questo periodo, egli mirò soprattutto a consolidare il nome dell'istituto, operando con estrema prudenza, sì da poterne gradualmente estendere la circolazione tra un pubblico ancora poco propenso ad accettare la carta moneta come mezzo di pagamento, e che tendeva a disfarsene al più presto, presentandola agli sportelli per il cambio in metallo. Fino al '48 l'istituto restò un organismo a carattere locale, e funzionò più da banca di sconto rivolto al credito commerciale sulla piazza di Genova che da istituto di emissione: tuttavia anche in fatto di sconti e anticipazioni operò con estrema prudenza, ricorrendo assai di frequente alla variazione del saggio di sconto. Grazie a questa condotta accorta Bombrini riuscì ad assicurare il pagamento dei dividendi semestrali agli azionisti anche nell'anno critico 1847, che aveva visto una brusca inversione dei prezzi, scesi rapidamente dopo tre anni di rialzo, portando gravissime conseguenze a livello europeo. Scoppiata la prima guerra d'indipendenza, allorché le eccezionali spese belliche obbligarono il governo piemontese a ricorrere a un prestito di venti milioni di lire, la Banca di Genova poté assumersene interamente il carico. Non fu un'operazione semplice, poiché comportava una gravissima innovazione monetaria, e cioè il corso forzoso per i biglietti della banca. L'annuncio del prestito e delle sue modalità creò lo scompiglio tra i soci: l'opposizione fu durissima. Il Cavour, in una lettera al De la Rüe, di pochi giorni successiva all'approvazione del decreto per il mutuo, attribuiva al Bombrini il merito della riuscita dell'operazione, riconoscendogli altresì "des vues très larges et très étendues en finances". Risale a quel periodo l'inizio di una proficua collaborazione tra Bombrini e Cavour, tradottasi come primo atto nella istituzione della Banca nazionale attraverso la fusione della Banca di Genova con quella di Torino, caldeggiata dal Cavour, il quale già nel 1837 si era adoperato perché il governo piemontese approvasse il progetto dei fratelli De la Rüe per la costituzione della Banca di Genova. Egli giustamente attribuiva una grande importanza all'esistenza di un unico e grande istituto di credito capace di sopperire alle ordinarie esigenze del mercato in tempo di pace, ai fini dello sviluppo economico del paese, nonché a quelle straordinarie in tempo di crisi politico-militare. Bombrini fu tra i più energici fautori della idea cavouriana, che ebbe non pochi oppositori, e che era ugualmente osteggiata dai piccoli come dai grandi banchieri, sospettosi del privilegio in cui un unico grande istituto avrebbe finito per trovarsi in confronto agli altri. In particolare l'avversione al progetto di fusione tra le due banche era molto forte nell'ambiente finanziario genovese, il più attivo di quel tempo nell'intera penisola. (Giova ricordare che la più importante banca italiana il Banco di San Giorgio era stato fondato con provvedimento statale nel 1407 dalla riunione di tutte le "compere" già esistenti, che avevano fatto prestiti alla Repubblica genovese, per gestire in modo unitario il debito pubblico della Compagna communis e che con l'annessione della Liguria all'Impero Francese nel 1805 il Banco era stato definitivamente sciolto). Del resto la fusione era quasi imposta dalle circostanze alla Banca di Torino che, dal momento della sua costituzione non aveva praticamente potuto funzionare a causa del corso forzoso di cui si avvantaggiava la Banca di Genova. Bombrini si prodigò nel corso delle lunghe trattative, alle quali egli partecipò come intermediario tra l'ambiente finanziario ligure e quello torinese, per risolvere i contrasti più gravi, in particolare sul prezzo da attribuire alle azioni delle due società all'atto della fusione. La sua posizione e il suo prestigio personale ne uscirono rafforzati: nominato direttore di uno dei due consigli di reggenza che avrebbero dovuto gestire la banca, egli finì praticamente per accentrare sotto il suo controllo le maggiori operazioni della banca. La preminenza di Bombrini rispecchia del resto gli effettivi rapporti di forza all'interno della nuova società: si calcola infatti che il 40% del capitale nominale fosse in mano a capitalisti liguri. Nel 1852 fu concesso dalla banca allo Stato un prestito di 15 milioni di lire al 3%, contro deposito di fondi pubblici e buoni del tesoro. In cambio essa ottenne di poter allargare le proprie operazioni e di poter aumentare il proprio capitale sociale, per far fronte ai nuovi rilevanti impegni: esso fu portato a trentadue milioni di lire per un totale di trentaduemila azioni, ridistribuite in ragione di quattro nuove azioni per ciascuna delle vecchie. Queste trasformazioni e questi ingrandimenti della sfera di operazioni della banca, sostenuti principalmente da Cavour, non mancarono di suscitare una viva opposizione, che riuscì nel 1853 a bloccare il progetto di legge per l'affidamento del servizio di tesoreria dello Stato alla banca, presentato da Cavour al parlamento subalpino. Bombrini in questo periodo si adoperò particolarmente nel delicato settore della collocazione dei prestiti di Stato e dei pagamenti dei relativi interessi, specie all'estero; egli aiutò Cavour a liberare le finanze statali dalla dipendenza dei Rothschild, stabilendo rapporti con la Banca Hambro di Londra. In questi medesimi anni Bombrini si impegnava in svariate iniziative promosse dai più dinamici gruppi dell'ambiente economico-finanziario genovese. Tipica in tal senso la sua partecipazione alla società in accomandita formata dal Bona, da R. Rubattino e da G. Penco nel 1853, allo scopo di rilevare lo stabilimento metallurgico Taylor-Prandi di Sampierdarena, che poi prese il nome dall'ing. Ansaldo che ne curò l'organizzazione. All'iniziativa non prese parte Cavour, ma è certo che il progetto di costituire a Sampierdarena un efficiente centro per la produzione di macchine e pezzi per le ferrovie e per la navigazione lo trovò consenziente, com'è desumibile dalle commesse di materiale ferroviario fatte di preferenza all'Ansaldo anziché alle più agguerrite e progredite industrie estere, com'era forzatamente avvenuto sino ad allora. Ostacolata tuttavia dalla fortissima concorrenza estera, la società Ansaldo si trovò presto in gravi difficoltà, per sanare le quali si adoperò particolarmente Bombrini, facendo ricorso a capitali della Banca nazionale, sicché il credito di quest'ultima verso l'Ansaldo arrivò alla considerevole cifra di 16 milioni di lire. Della difficile situazione di Bombrini a causa dell'impegno assunto verso l'Ansaldo, e dell'opportunità di aiutarlo in quel frangente, fa cenno in alcune sue lettere del '58, a Emile De la Rüe, Cavour, al quale premeva che la posizione di Bombrini all'interno della banca non fosse scossa. Bombrini proprio in quegli anni doveva fronteggiare i gravi perturbamenti prodotti sul mercato internazionale dalla crisi del bimetallismo e dalla speculazione sull'argento, avvenimenti che la banca non poté inizialmente affrontare con l'arma più adatta, e cioè con adeguate e rilevanti variazioni del saggio di sconto, perché bloccata dalla legge piemontese sull'usura. Le vicende della seconda guerra di indipendenza non crearono imbarazzi alla banca: il 1859 vide anzi un nuovo ingrandimento dell'istituto, il cui capitale fu portato a quaranta milioni mediante l'emissione di ottomila azioni destinate alla Lombardia. Due fatti salienti caratterizzano tuttavia proprio in quell'anno i rapporti tra la Banca nazionale e lo Stato. Ai primi di gennaio Cavour chiese a Bombrini di mettere a disposizione del governo l'intera riserva metallica, e Bombrini non esitò ad accondiscendere; un prestito di trenta milioni di lire al 2% fu concesso al governo dalla banca, che in cambio ottenne di poter sospendere il baratto dei propri biglietti in moneta metallica. Il corso forzoso cessò tuttavia il 1º nov. 1859 e non provocò reazioni nel pubblico come quello del '49. Nel periodo delle annessioni Bombrini fu inviato dal Cavour ad organizzare nelle regioni via via integrate nel Regno nuove sedi della Banca nazionale, nonché a trattare la fusione con preesistenti istituti, secondo un fermo intendimento mirante a creare un'unica banca di circolazione "de Suse à Marsala". Scomparso il Cavour, si arenò anche il suo programma in materia di circolazione monetaria, e crebbe il peso politico degli oppositori della Banca nazionale, le critiche dei quali si appuntavano particolarmente sul Bombrini, accusato di esercitare in maniera dispotica la sua carica di amministratore. L'opposizione, che ancora una volta era riuscita a bloccare nel '65 l'applicazione della legge che affidava il servizio di tesoreria alla banca, si scatenò principalmente nel '66, dopo l'introduzione del corso forzoso decretata il 1º maggio di quell'anno. È dimostrato oramai che il corso forzoso fu provvedimento ineluttabile, data la gravissima crisi che minacciava di travolgere le stesse finanze statali, oberate da un enorme disavanzo. Ma allora, nel provvedimento che autorizzava il corso forzoso dei biglietti della banca si volle vedere esclusivamente un intervento inteso a salvare o beneficiare la banca stessa. Certo è che questa si era esposta pericolosamente per salvare alcuni tra i maggiori istituti di credito genovesi, in particolare la Cassa generale e il Credito mobiliare, che erano stati oggetto di un violentissimo run nei primi mesi del '66, ed è anche certo che questo salvataggio fu compiuto principalmente per volontà di Bombrini, che era in stretti rapporti con l'ambiente finanziario genovese, in particolare con il Balduino, da lui stesso proposto anni addietro a Cavour come direttore del Credito mobiliare. Malgrado l'opposizione di alcuni gruppi finanziari e politici, toscani in particolare, che portò nel '72 al fallimento del progetto di fusione con la Banca nazionale toscana, la Banca nazionale attraversò un periodo straordinariamente favorevole nella fase del corso forzoso (Con corso forzoso, detto anche sistema a carta moneta inconvertibile, si intende un sistema monetario in cui vige la non convertibilità tra la moneta e l'equivalente in metallo prezioso, oro e argento, di solito, laddove esso è bilanciato sul valore dell'oro - sistema aureo). Nel 1871 le sue azioni ebbero un aumento spettacolare del 55%; il capitale nominale, aumentato già nel '65 sino a cento milioni con l'emissione di sessantamila nuove azioni, fu portato nel '72 a ben duecento milioni di lire, sempre a condizioni particolarmente vantaggiose per i vecchi azionisti, che conservavano così immutata la loro preminenza all'interno della società. I dividendi distribuiti, furono sempre rilevanti, con una punta massima nel '68, e si mantennero tali per tutta la durata della gestione Bombrini, grazie soprattutto agli utili ricavati dalla vendita a più alti prezzi della rendita che la banca aveva ricevuto dal governo. La banca era diventata un'istituzione di vitale importanza per lo Stato italiano: basti pensare che al momento della costituzione del Consorzio bancario il credito della banca nei confronti dello Stato ammontava a quasi novecento milioni di lire. Ed è chiaro che da questa posizione essa poteva condizionare le decisioni del governo, imponendo i propri desiderata: Bombrini chiese ed ottenne che la circolazione propria della banca potesse arrivare sino al triplo del capitale versato, il che la poneva in una condizione di schiacciante superiorità nei confronti degli altri cinque istituti di emissione partecipanti al Consorzio stesso. Bombrini ebbe da ultimo una parte rilevante nell'attuazione della legge del 7 apr. 1881 per l'abolizione del corso forzoso, per la quale fu necessario ricorrere al mercato finanziario internazionale, onde procurare le specie metalliche occorrenti. Anche da parte dei suoi critici più aspri non mancò il riconoscimento dei meriti acquisiti da Bombrini nel corso della sua lunga gestione della Banca nazionale. Bombrini, che era stato nominato senatore alla fine del 1871, morì a Roma il 15 marzo 1882, mentre ancora ricopriva la carica di direttore della Banca nazionale nel Regno d'Italia.

3.3 Pietro Bastogi (Livorno, 15 marzo 1808 - Firenze, 21 febbraio 1899) Discendente di una famiglia di commercianti, il giovane Pietro frequenta la scuola dei padri Barnabiti a Livorno e stringe amicizia con Enrico Mayer, con cui condivide l’impegno nella locale associazione mazziniana, poi studia all’Università di Pisa. Nel 1834 raggiunge a Londra l’amico Mayer, che nella capitale inglese porta aiuti agli esuli italiani. Durante questo soggiorno Bastogi acquista una serie di manoscritti di Foscolo, poi donati nel 1836 all’Accademia Labronica, primo nucleo di una importante raccolta di carte e cimeli che continuerà fino agli ultimi anni di vita. Rientrato a Livorno, Bastogi si dedica al commercio con diversi Paesi del Mediterraneo, importando sete, cotone, oppio, cere, lane ed esportando prodotti diversi, fra cui l’oro filato. La diversificazione degli investimenti colloca la Casa Bastogi al centro di un’efficiente rete mercantile estesa su scala europea, alla quale si affianca un imponente commercio cambiario. Nel maggio del 1836 Bastogi partecipa, insieme alle principali case mercantili e finanziarie della città, alla costituzione della Cassa di sconto di Livorno. L’incremento degli scambi con le piazze estere, favorito dalla buona congiuntura internazionale, imprime anche all’attività bancaria dell'impresa Pietro Bastogi e C. una crescita significativa, facendone uno degli interlocutori privilegiati dei principali centri finanziari d’Europa; con Bastogi rinverdisce la tradizione bancaria della Toscana. Nella seconda metà degli anni Quaranta dell’Ottocento, Bastogi si avvicina agli ambienti politici del moderatismo toscano, mentre il coinvolgimento della sua casa bancaria nella collocazione del debito pubblico del Granducato consolida la sua posizione nella comunità degli affari locale, con importanti collegamenti alla finanza pubblica. Nel 1848 Bastogi è membro del Parlamento toscano: in un primo periodo cerca la mediazione fra la posizione moderata e quella democratica del Governo Guerrazzi, ma all’inizio del 1949 sposa con decisione la linea di Ridolfi, contrario al corso forzoso e alla «manomissione della concorrenza bancaria». Nella nuova stagione politica del restaurato Governo granducale, Bastogi, insoddisfatto delle prospettive economiche e politiche presenti, comincia a ipotizzare nuovi progetti, guardando con sempre maggiore interesse alle possibilità di investimento nelle ferrovie, in progetti capaci di superare gli angusti confini regionali. Nello stesso periodo inizia la sua attività la Banca nazionale toscana (dicembre 1857): fra gli azionisti spiccano i due gruppi finanziari più influenti nel Granducato, i Fenzi e i Bastogi. Per sanare il passivo del debito pubblico ereditato dal Governo provvisorio dopo la partenza del Granduca nel 1859, Bastogi si fa portavoce della necessità politica e finanziaria di un «imprestito grosso colla garanzia mista di Francia e Piemonte» e l’appoggio della più importante casa bancaria europea, quella dei Rothschild di Parigi. Nella Camera che per la prima volta accoglie i rappresentanti lombardi e dell’Italia centrale, Bastogi è eletto deputato il 29 marzo 1860: dà il proprio appoggio alla proposta del Ministro delle Finanze per un prestito di 150 milioni, insistendo sulla necessità di adottare un vasto programma di opere pubbliche e di infrastrutture funzionali all’unificazione economica dello Stato. Anche questo prestito è collocato con successo sulle piazze di Parigi e di Francoforte tramite i Rothschild. Rieletto il 3 febbraio 1861 alla VIII legislatura, la prima del Regno d’Italia, Bastogi è chiamato da Cavour a ricoprire il Dicastero delle Finanze ed è riconfermato da Ricasoli, dopo la morte del Primo Ministro piemontese. L’impostazione della politica finanziaria di Bastogi non si discosta dalla linea disegnata da Cavour, perseguendo l’obiettivo del pareggio del bilancio attraverso economie, tassazione e ricorrendo al credito interno e, soprattutto, estero: Bastogi avanza la proposta di un prestito di 500 milioni da contrarsi in tempi brevi; contemporaneamente realizza il Gran libro del Debito pubblico che, attraverso il riconoscimento dei debiti degli Stati preunitari, pone le basi per riscuotere la fiducia degli ambienti finanziari verso il nuovo Stato. In effetti, contando ancora una volta sui buoni uffici dei Rothschild, il prestito incontra ampie sottoscrizioni. Bastogi ritiene indispensabile dotare il nuovo Stato unitario di strumenti regolari e continuativi di finanziamento del debito pubblico per sostenere la spesa statale. Credito e ferrovie gli appaiono le due priorità indissolubilmente vincolate e, al tempo stesso, sostiene la necessità di un’autorità pubblica capace di controllare il corso legale dei biglietti bancari e di assegnare oculate concessioni di appalti e di commesse per dare sostegno all’imprenditoria nazionale. Il banchiere riconosce quindi il peso decisivo della politica e dello Stato per consolidare l’economia dei Paesi giunti tardi sulla scena dello sviluppo industriale. Il tentativo di emancipazione della finanza italiana dalla pesante ipoteca dei Rothschild, già operato da Cavour con esito negativo nel 1852, è riproposto da Bastogi con la grande operazione che ha per protagonista la Società per le strade ferrate meridionali, a capitale «completamente» nazionale, incaricata della costruzione e gestione della rete da completare sulla costa adriatica e da Napoli a Foggia. Intorno a questa concessione si agitano diversi interessi nazionali e internazionali, pronti a cogliere le occasioni di lucrosi affari per l’adeguamento della rete – ferma a 1.500 km, di cui solo 128 al Sud. Quando il Ministro dei Lavori Pubblici Agostino Depretis decide di stipulare il 15 luglio 1862 una convenzione con James Rothschild, Bastogi propone, il 31 luglio 1862, il progetto della concessione per la costituenda Società delle ferrovie meridionali, presentandola come collegamento fra le migliori energie economiche del Paese. Nonostante l’ostilità del Presidente del Consiglio Urbano Rattazzi e del Ministro dei Lavori Pubblici Depretis, la Camera saluta positivamente la nuova società come manifestazione dell’“orgoglio nazionale”. L’approvazione del contratto è però giudicata irregolare dalla Commissione d’inchiesta istituita dopo le accuse di corruzione e affarismo a Bastogi, che costringono il banchiere livornese a ritirarsi dalla politica. La Società per le strade ferrate meridionali comincia comunque a operare e la gestione si mostra oculata, tanto che nel 1865 sono completate le linee Ancona-Brindisi e Napoli-Foggia. La sottoscrizione del capitale e il reperimento dell’azionariato sono resi possibili dalla parallela affermazione dell’altra creatura di Bastogi, la Banca di credito per le industrie e il commercio nel Regno d’Italia, il secondo istituto di emissione toscano. In seguito al riassetto delle concessioni ferroviarie del 1885, la Società per le strade ferrate meridionali ottiene in concessione la rete adriatica, mentre restano di sua proprietà le linee già costruite nel Mezzogiorno. Con la creazione della Banca toscana di credito, Bastogi aveva dato vita a un primo strumento di finanziamento industriale: lo stretto nesso fra banca e impresa gli appare chiaramente come la via da percorrere per realizzare interventi efficaci nella complessa realtà economica dello Stato unitario. Crescita della finanza nazionale e del settore industriale rappresentano gli elementi caratterizzanti della vicenda biografica di Bastogi, anche se con notevoli chiaroscuri su entrambi i versanti, politico e finanziario. Il distacco da Rothschild si realizza con l’avvicinamento ai Perèire e al Crédit mobilier, anche grazie al massiccio intervento di questo capitale francese nelle imprese di Bastogi. Rientrato alla Camera nel 1870, Bastogi rimane deputato fino al 1880; nel 1890 è nominato Senatore. In questo periodo svolge un’efficace azione politica contraria agli ultimi Governi della Destra, opponendosi ai progetti di Silvio Spaventa, relativi alla nazionalizzazione della rete ferroviaria, e di Quintino Sella, in materia bancaria. A questo fine Bastogi sostiene finanziariamente la Società Adamo Smith e la rivista «L’economista», fondata con Ubaldino Peruzzi e il gruppo moderato toscano, che esercita un ruolo di protagonista nella caduta della Destra storica. L’ultimo grande impegno del gruppo che fa capo a Bastogi risale al 1879 con la creazione della Fondiaria: compagnia italiana di assicurazioni a premio fisso contro l’incendio, la cui prima polizza è emessa a favore dei conti Bastogi. Anche questa società sarebbe stata condotta a lungo con quello stile di investimenti oculati e sapiente distribuzione di utili che avevano caratterizzato la gestione degli investimenti di Bastogi. Alla morte, il 21 febbraio 1899, il banchiere toscano lascia un patrimonio di 17.247.073 lire – costituito prevalentemente da titoli, dopo che in vita aveva fatto donazione delle proprietà immobiliari ai figli – e 50.000 autografi alla Biblioteca Labronica, memoria del suo impegno culturale erudito.

Nel 1906 in seguito al riscatto e alla successiva nazionalizzazione delle linee ferroviarie da parte dello Stato, la società si trasformò in finanziaria investendo nel settore elettrico, in quello immobiliare e delle costruzioni, e infine in obbligazioni e titoli di Stato nazionali ed esteri. Fu soprattutto la nascente industria elettrica a focalizzare la strategia aziendale: nel 1915 la società era ormai in possesso di pacchetti azionari di sedici imprese del settore, per circa 28 milioni di lire, su un capitale totale delle stesse di 180 milioni (tra queste la Adriatica, la Ligure-Toscana, la Sme, la Conti, l'Adamello, la Maira, la Cellina e la Società Elettrica della Sicilia Orientale - SESO gestita da Enrico Vismara). La Bastogi in quest'epoca era la più importante finanziaria italiana. Nel 1926 ne divenne presidente Alberto Beneduce, che era contemporaneamente presidente anche del Crediop e dell'ICIPU, due istituti pubblic. Assorbita dall'I.R.I. dopo la grande crisi del 1929, venne risanata e riprivatizzata nel 1937. Ora la società aveva sede a Firenze e direzioni a Milano e Roma. Al sindacato di controllo partecipavano la FIAT, la Pirelli, la Edison, la Centrale, la RAS e le Generali, mentre le partecipazioni più significative la Finanziaria le deteneva nell'Italcementi e nella Montedison. Perciò, prima dell'ingresso dei privati in Mediobanca, è stato il principale "salotto buono" dell'economia italiana, dove avvenivano le mediazioni fra i grandi gruppi industriali e finanziari privati. La nazionalizzazione dell'energia elettrica nel 1962 diede liquidità alla finanziaria, che fu reinvestita soprattutto nella chimica, ma in effetti iniziò il declino della Bastogi in termini di potere economico. Nel 1971 la Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali fu oggetto della prima OPA della storia italiana, promossa dal finanziere Michele Sindona. La scalata fallì per l'opposizione dell' establishment finanziario italiano guidato da Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, e da Enrico Cuccia, direttore generale di Mediobanca. Dopo essere diventata nel 1972 Bastogi Finanziaria ed aver spostato la sede a Roma, nel 1978, a seguito dell'incorporazione dell'Istituto Romano dei Beni Stabili, modifica la propria ragione sociale in Bastogi IRBS. Nel 1983 Italmobiliare, con l'acquisizione del 23% della società, diviene il maggiore azionista di Bastogi IRBS, che avvia un processo di alienazione delle partecipazioni industriali, concentrandosi sul settore immobiliare. Nel 1986 la SAPAM assume una quota del 58,4% di Bastogi IRBS e, un anno dopo, viene modificata la denominazione sociale in Bastogi. Nel 1990 il Gruppo Cabassi rileva il 47% della società, consolidando la sua presenza nel campo immobiliare e in quello dei servizi. Nel 1994 Bastogi acquisisce il 50,3% di Brioschi Finanziaria. Nel 2004 viene lanciata un'OPA obbligatoria su circa 312 milioni di azioni Bastogi da parte di Sintesi S.p.A., holding del Gruppo Cabassi. A conclusione dell'OPA, Sintesi possiede il 64% del capitale di Bastogi. Nel giugno 2008 avvenne la scissione parziale proporzionale inversa della società a favore di Brioschi Sviluppo Immobiliare. Il 1º gennaio 2015 avvenne la fusione per incorporazione di Raggio di Luna in Bastogi, per effetto della quale Bastogi diviene attiva anche nei settori dell'immobiliare e dell'intrattenimento. Bastogi è la più antica società italiana quotata alla borsa italiana ancora in attività. E' una holding di partecipazioni attiva principalmente nei seguenti settori:

Immobiliare Attraverso il Gruppo Brioschi, la società Sintesi e altre controllate minori, opera nel settore dello sviluppo immobiliare. Intrattenimento Tramite Forumnet Holding, gestisce strutture dedicate all'intrattenimento (Mediolanum Forum e Teatro della Luna ad Assago, Milano, e Palalottomatica a Roma) e produce spettacoli teatrali attraverso la società Compagnia della Rancia. Arte e cultura Attraverso Open Care – Servizi per l'arte fornisce servizi integrati per la gestione, la valorizzazione e la conservazione delle opere e degli oggetti d'arte. Negli spazi polifunzionali dei Frigoriferi Milanesi e del Palazzo del Ghiaccio ospita e organizza un'ampia tipologia di eventi, quali presentazioni, convegni, spettacoli, mostre, incontri culturali, sfilate di moda, shooting fotografici, ricevimenti e serate di gala. Hotel Attraverso il marchio H2C Hotel gestisce un hotel 4 stelle business ad Assago (Milano). Servizi commerciali Tramite il World Trade Center di Milano fornisce servizi commerciali alle piccole e medie imprese.

3.4 Carlo Erba (Vigevano (PV), 17 ottobre 1811 - Milano, 6 aprile 1888) Il padre, speziale, gestisce a Milano una farmacia. Erba studia nel capoluogo lombardo e completa il periodo di praticantato in una farmacia di Vigevano. Nel 1834 si diploma farmacista, presso la facoltà Medico-chirurgico-farmaceutica dell’Università di Pavia. Nel 1837 torna a Milano e assume la Direzione dell’antica farmacia di Brera, in via Fiori Oscuri. Famosa spezieria, esistente fin dal Trecento, era stata gestita prima dall’Ordine degli umiliati, poi dai gesuiti, quindi era passata in mani secolari. Sotto la direzione di Andrea Castoldi aveva conosciuto una fase di sviluppo e di floridezza; quando però Erba ne assume la guida, attraversa un momento di crisi e di decadenza. Lo stesso Erba, in un diario autografo, in cui annotava le tappe fondamentali della sua carriera, indica tra i motivi di debolezza dell’attività farmaceutica in Italia la mancanza di moderni laboratori di ricerca, lo scarso collegamento con i progressi di quegli anni nei settori chimico e delle scienze mediche, particolarmente in Francia e in Germania, la lentezza con cui le nuove teorie si applicavano alla produzione e il conseguente ritardo nella commercializzazione dei nuovi preparati chimico-farmaceutici. Erba si impegna quindi nel lavoro di laboratorio e nell’attività di ricerca, passaggi indispensabili per sviluppare anche in Italia un settore farmaceutico moderno, indirizzato verso la produzione su vasta scala e, soprattutto, in grado di ridurre la dipendenza dall’importazione di prodotti esteri. Tra i primi preparati del piccolo laboratorio annesso alla farmacia, Erba ricorda il calomelano sublimato a vapore, alcuni sali di ferro, alcuni cianuri e l’acido cianidrico. Fin da questa fase la produzione e la commercializzazione di prodotti chimico-farmaceutici per uso industriale o privato sono sostenute da uno spiccato interesse per la ricerca applicata, che gli appare la base più idonea per una solida attività imprenditoriale. Tra il 1837 e il 1839 completa gli studi e gli esperimenti per la preparazione dei sali di bismuto e di chinina, degli ioduri e dell’acido valerianico. Intorno al 1840 comincia a interessarsi a un prodotto in voga tra la buona società milanese e particolarmente tra gli stranieri residenti o di passaggio: si tratta della magnesia calcinata pesante, un lassativo conosciuto col nome di Magnesia Henry. Provvede a importarlo dall’estero per far fronte alla richiesta, e contemporaneamente si impegna a prepararlo nel suo laboratorio: posto in vendita col nome di Magnesia uso Henry, incontra un enorme successo commerciale. Erba si dedica quindi alla preparazione delle capsule gelatinose, un nuovo sistema di somministrazione dei farmaci che si stava diffondendo soprattutto in Francia e di cui intuiva le grandi potenzialità per la versatilità del loro impiego. La ricerca è impegnativa e per lungo tempo priva di risultati incoraggianti. Solo dal 1843 il suo laboratorio è in grado di fornire le capsule gelatinose; costosissime, per ammissione dello stesso Erba, eppure sempre più richieste. Negli anni successivi si sforza di migliorare la preparazione della Magnesia uso Henry e delle capsule gelatinose, ma si dedica anche a studi per sostituire il decotto di tamarindo, diffuso in Lombardia, con una bevanda di più facile preparazione, più stabile dal punto di vista chimico e dal gusto più gradevole. Dopo alcuni anni di tentativi, nel 1848 presenta l’Estratto di tamarindo, che incontra la stessa fortuna commerciale della magnesia. Tra il 1849 e il 1851 la farmacia conosce un forte incremento delle vendite, e contemporaneamente aumentano le richieste di preparati da parte di altre farmacie italiane. La crescente domanda impone a Erba di dotarsi di un laboratorio più ampio e moderno, provvisto delle attrezzature più aggiornate. Apre così un piccolo laboratorio accanto alla farmacia di Brera e vi installa un generatore di vapore, una motrice, due grandi spostamenti (apparecchi per ottenere precipitazioni) a doppio fondo e altri tipi di strumenti. Nel nuovo laboratorio lavorano quattro operai. La sua affermazione economica si accompagna all’ascesa sociale, facilitata dai contatti inerenti alla professione (molti medici facevano parte di organismi amministrativi e politici) e dalla fortunata localizzazione della sua attività in un quartiere abitato dalla nobiltà e dalla buona borghesia. Nel 1859 Erba matura la decisione di passare alla produzione su scala industriale: nel 1862 costituisce la ditta Erba e inizia la costruzione di uno stabilimento che entra in funzione nel 1864. La nuova struttura è dotata delle apparecchiature più moderne e più adeguate a soddisfare la domanda di prodotti chimico-farmaceutici che le nuove esigenze del costume borghese e del processo di industrializzazione rendono sempre più diversificata e quantitativamente più consistente. Il catalogo dei prodotti si arricchisce rapidamente: accanto agli estratti acquosi, alcolici e idroalcolici appaiono le chine, i rabarbari, le gialappe, la salsapariglia, la liquirizia, il cremortartaro, le gomme arabiche e lo zucchero. Prima del 1880 il listino dei prodotti Erba arriva a comprendere 1.736 voci. La commercializzazione della produzione incontra un buon successo anche all’estero, particolarmente nei Paesi extraeuropei (Oriente e Americhe), dove non erano dominanti le produzioni delle più solide industrie farmaceutiche tedesca e francese. Non risulta che per l’impianto della nuova attività Erba sia ricorso a soci finanziatori o a forme di indebitamento al di là del credito corrente, che l’apparato bancario e finanziario milanese gli accordò, considerata la solida fortuna commerciale della farmacia di Brera e i promettenti sviluppi del settore. Negli anni Settanta si realizza il definitivo consolidamento della sua attività imprenditoriale. Già nel primo decennio postunitario Erba aveva dimostrato una spiccata propensione a occuparsi degli aspetti amministrativi dello sviluppo economico di Milano. Negli anni Sessanta è tra i membri della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri; compare inoltre come socio in un paio di circoli elettorali patrocinati dal giornale «La Perseveranza», di orientamento conservatore. Nello stesso periodo il suo nome figura tra i soci della Camera di commercio di Milano e tra gli azionisti della Banca industriale di Milano. Nel 1867 è tra i soci promotori dell’Associazione industriale italiana, fondata quello stesso anno nel capoluogo lombardo per iniziativa di alcuni tra gli esponenti più prestigiosi dell’imprenditoria e dell’aristocrazia milanese. Nel settembre del 1872 Erba è ascoltato dal Comitato d’inchiesta sulla situazione dell’industria in Italia, promosso dal Governo nel 1870 per conoscere le caratteristiche quantitative e qualitative delle attività industriali e individuare le esigenze e gli orientamenti degli operatori economici. In questa occasione l’imprenditore sottolinea il carattere di novità della sua produzione e i buoni margini di profitto che l’attività comporta, ma lamenta le difficoltà create al settore dalla politica doganale adottata dal Governo, che grava di dazi le materie prime che necessariamente devono essere importate dall’estero e sottolinea, come molti altri industriali, la carenza di personale tecnico esperto in Italia: anche in questo caso, devono essere importate competenze dall’estero, il che comporta per l’imprenditore un costo molto elevato. Sottolinea infine la necessità di ridurre la dipendenza dai prodotti esteri, sforzandosi di produrre all’interno quanto ancora si importa dagli altri Paesi, mostrando come esemplare la produzione farmaceutica della sua impresa, che in piccola parte è esportata anche in Francia, Germania e Inghilterra, ossia in quei Paesi dove l’industria farmaceutica è più solida e scientificamente più prestigiosa. La maggior parte della produzione, tuttavia, è esportata in Sudamerica, Egitto, Asia Minore, Costantinopoli e Smirne. Le cronache economiche milanesi della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta segnalano la presenza dell’imprenditore farmaceutico nella Filatura dei cascami di seta, nella Società elettrica Edison (tra i fondatori), nella Fabbrica di munizioni Barthe, nella Società Ricordi. È tra i fondatori della Società di esplorazione commerciale in Africa e nel 1879 finanzia una spedizione geografico-commerciale in Abissinia. Finanzia inoltre le ricerche di Cesare Lombroso sulle origini e le cause della pellagra, collaborando anche dal punto di vista tecnico ai suoi studi. Alla fine del 1878, dopo 41 anni di attività, Erba lascia la farmacia di Brera. L’anno successivo rileva la farmacia situata in piazza Duomo. Nel 1886 destina una donazione di 400.000 lire al Politecnico di Milano perché provveda alla fondazione di una scuola di elettrotecnica: all’Istituzione elettrotecnica “Carlo Erba” resta legato il nome del pioniere italiano dell’industria chimica farmaceutica, che muore a Milano nella primavera del 1888. Negli anni la ragione sociale della ditta cambia prima in Carlo Erba S.A. e poi in Carlo Erba Spa e nel 1946 la sua produzione spazia dall'originario campo farmaceutico al settore alimentare fino a strumenti scientifici, e conta vari stabilimenti a Milano, Ozzano Taro e Grazzano Visconti. All'apice del suo successo all'inizio degli anni '70 l'impresa era molto ben inserita nel mercato europeo e sudamericano, l'azienda iniziò un lento declino con la protesta dei lavoratori del chimico-farmaceutico legato al contratto collettivo nazionale di lavoro del settore, che vide vari cambi di proprietà fino ad essere assorbita nel 1993 dalla società di farmaceutica svedese Kabi Pharmacia. Attualmente il marchio Carlo Erba è di proprietà della Johnson and Johnson.

3.5 Giovanni Ansaldo (Genova, 1815 – Genova, 1859). A ventun anni conseguì la laurea di architetto civile e, un anno dopo, quella di ingegnere idraulico. Dopo il 1840 compì viaggi per l'Europa, specie in Inghilterra, fermando la propria attenzione sui problemi della produzione meccanica e della costruzione di locomotive ferroviarie.
Nel 1852 quattro esponenti della finanza e della industria genovese, Carlo Bombrini, Raffaele Rubattino, G. F. Penco e Giovanni Ansaldo, costituita una società in accomandita semplice con capitale di L. 1.200.000, rilevarono dallo stato lo stabilimento meccanico di Sampierdarena, già della ditta Taylor e Prandi, che lo aveva fondato nel 1846 con prestiti statali, e successivamente rivenduto allo stato. Intestata a Giovanni Ansaldo, cui fu affidata la direzione, la società iniziava la sua attività ai primi del 1853.
Alla base del fenomeno dell'industrializzazione di Genova ci fu l'evoluzione di un’élite imprenditoriale, che, da ricchi negozianti e artigiani (di olio, sapone, biacca, tessuti, ecc.) che si limitavano a piccoli investimenti locali, passa a quella di nuovi dinamici imprenditori. Nasce su un’area iniziale di 6.850 mq acquistata nel 1846 da Philip Taylor, la fabbrica da lui progettata e chiamata “Il Meccanico”. Cointestatario era il cav. Fortunato Prandi, uomo d’affari piemontese, con anni di lavoro in Gran Bretagna, esperto in questioni ferroviarie, che divenne il firmatario del prestito di 500mila lire senza interessi concesso da parte dello Stato nell’ottica di finanziamenti per le strade ferrate da restituire entro il 31 dicembre 1859. Il progetto, scritto in francese era “plan general pour les Ateliers de construction de M.M. Taylor et Prandi à Gênes”. Lo scopo era un’officina per riparazione e costruzione di macchinari necessari alle ferrovie del Regno; la prima ordinazione fu, l’anno dopo, di dieci serbatoi; la decisione di costruire una ferrovia tra Torino e Genova era nata nel febbraio 1845, e l’idea di aprire uno stabilimento capace di fabbricare e riparare materiale ferroviario, arrivò al momento giusto. Nei terreni di proprietà della moglie del marchese Fabio Pallavicini, espropriati quali “oggetto di pubblica utilità”, furono eretti due lunghi capannoni rettangolari affiancati e paralleli al mare e alla via al Ponte di Cornigliano; ad alta navata e grandi spazi, che prendevano luce da finestroni e da abbaini posti sul tetto tipicamente spiovente; l’entrata fu aperta su una nuova strada creata appositamente, e poi chiamata via Operai. Le difficoltà fecero chiedere due altri prestiti, di duecentocinquantamila e poi di sessantamila lire. Ma il 18 agosto 1852, i due dovettero rinunciare all’impresa, e per saldare il debito totale contratto con lo Stato di ottocentodiecimila lire di allora restituirono alla pari lo stabilimento al governo torinese.
Il tutto venne rilevato, con l’aiuto di un prestito statale di 812mila lire, dal gruppo genovese pilotato da Giovanni Ansaldo, intervenuto con l’investimento personale di quarantamila lire, unico dei quattro soci ad avere delle competenze in materia e quindi in grado di assumere la gestione dell’impresa. Carlo Bombrini, allora presidente della banca Nazionale Sarda che poi divenne la Banca del Regno d’Italia partecipò con ottantamila lire, Raffaele Rubattino, armatore e assicuratore marittimo, partecipò con ottantamila lire e Giacomo Filippo Penco con centoventimila lire. Penco era un classico esponente dell’alta borghesia genovese di metà ‘800 con interessi in agricoltura ed edilizia; fu tra gli artefici dell’espansione urbana di Genova in quel periodo; nonché finanziere nell’armamento, nell’industria mineraria e nelle saline sarde. Questo gruppo, il 15 settembre 1852 formò la “Società in accomandita semplice Gio. Ansaldo e C.”, con previsto principale incarico di lavoro da parte delle ferrovie. Inizialmente le ordinazioni pervennero col contagocce, preferendo il prodotto estero sia per diffidenza verso i genovesi, che per convenienza di alleanze belliche necessarie per la progettata guerra all’Austria (1859); però l’attività ufficiale iniziò il 26 gennaio dell’anno dopo, solo dopo la firma del Parlamento e di re Vittorio Emanuele sulla cessione della precedente gestione, il 19 giugno 1853. In quell’anno fu inaugurata, la nuova linea ferroviaria Torino-Genova con la presenza del re e di Cavour sia alla cerimonia che nella fabbrica. Le officine Ansaldo furono le prime a essere collegate con quella linea, grazie a rotaie che collegavano i vari capannoni col porto e con la stazione locale, a mezzo traino dei vagoni con cavalli. In genere tutti gli operai erano di bassa qualifica e spesso analfabeti; agli inizi per l’impresa fu necessario assumere come capi officina personale straniero (inglese e tedesco). Nello stesso anno venne ratificato il contratto dell’Ansaldo dal Parlamento con legge 19 giugno 1853 n.1561. I relativi progetti di legge erano stati presentati da Cavour (ministro delle finanze) alla Camera dei deputati il 25 febbraio; e poi al Senato il 28 aprile. La legge fu approvata il 28 aprile 1853 alla Camera e l’ 11 giugno al Senato.
La produzione di locomotive iniziò subito, e la prima di esse, chiamata “Sampierdarena”, fu consegnata nel 1855 per essere messa in azione nella tratta iniziale Torino-Rivoli. In tempi così ristretti, mancò la possibilità di essere competitivi con eguali prodotti stranieri; né il ministro, prima Paleocapa poi Bona, poteva giustificare lo spendere di più solo perché il prodotto era nazionale. In previsione di una guerra all’Austria non ci si poteva inimicare gli alleati. Questa locomotiva a vapore rimase in servizio fino al 1909 e nel 1953 fu messa in mostra all’interno della stazione ferroviaria di Savona. La seconda ordinazione fu di due locomotive per la tratta Torino-Novara. Dopo tre anni già venti locomotive erano attive sulla rete nazionale. In contemporanea, nel 1857 si costruì la complessa macchina idropneumatica inventata da Sommeiller e usata per il traforo del Cenisio.
Nel 1859, alla morte di Ansaldo, l’impresa già forte di 480 operai, fu affidata fino al 1865 all’ingegnere navale Luigi Orlando. Questi allargò il campo d’azione alla meccanica navale e cantieristica: nel 1860 furono costruite due cannoniere, le prime navi da guerra del Regno. Questo indirizzo obbligò i dirigenti dell’impresa ad allargare lo stabilimento verso il mare: nel 1882 l’area occupata era divenuta di 12mila mq, il doppio di quando era nata 25 anni prima. Parallelamente c’è l’immissione di manodopera proveniente da tutta Italia, con diversità di cultura, tradizioni e lingua; anche la ferrovia importa maestranze per i cantieri, dotati di pochi mezzi meccanici e molta mano d’opera per scavi, muri, gallerie. Ovunque si costruisce, dentro l’Ansaldo e la città, e occorrono materiali nuovi come calce, cemento, esplosivi, attrezzi, legname, prodotti alimentari. Le merci girano, e con loro, i capitali. Produzione importante furono nel 1858 i cannoni di ghisa di nuova invenzione. Alla vigilia delle ostilità con l’Austria (1859), Cavour ordinò la fabbricazione di cannoni in bronzo da 6, 8 e16 mm, fece modificare e rigare i cannoni navali e cerchiare quelli fatti in ghisa svedese, fece fabbricare proiettili adeguati; e in contemporanea le macchine per quattro cannoniere della flotta del Garda costituenti le prime navi da guerra a vapore italiane ovvero la “regia flottiglia interna”, utilizzate anche da Garibaldi nella campagna del 1866. Nel 1865 vi lavorano mille operai. L’anno dopo si costruirono i motori per il “Regio Avviso Vedetta” (da 661 cavalli, primo per nave italiana a vapore e in ferro) e per la corazzata Conte Verde. Se all’inizio erano due, nel 1869 lo stabilimento aveva sette tettoie e occupava quasi 27.000 mq. con 1.00 operai e salario medio di lire 3,5 (variabile da 2 a 12). Si utilizzano sei macchine a vapore della forza di 65 cavalli, 5 forni fusori, un forno a riverbero, altri 15 forni minori e 100 fucine.
Nello stesso anno, scioperano gli operai del “Meccanico”, per 25 giorni. Saranno seguiti l’anno dopo dagli operai della “Carena e Torre”. La tensione politica preoccupa le autorità. Esse accusano “L’Associazione Generale di Mutuo Soccorso” quale fomentatrice e sovversiva, e la chiudono; rinascerà subito come “Associazione Universale”. Non esistono ancora i sindacati né Camere del Lavoro,che nasceranno a fine secolo e la difesa del lavoratore sarà fino ad allora affidata alle Associazioni e Cooperative. Nacque malgrado tutto nel 1872-3, la prima nave costruita completamente dall’Ansaldo. Dopo aver costruito il primo macchinario a vapore di costruzione interamente italiano per la corazzata “Palestro”, varata a La Spezia, fu aperto un cantiere navale sulla spiaggia cittadina accanto allo stabilimento; e quattro anni dopo fu varata la “Regio Avviso Staffetta” di 1.800 t. La “Staffetta” fu iscritta nel Naviglio Militare nel 1887, dopo tre anni fu messa a disposizione della regina; nel 1882 andò in missione speciale a Londra. Seguirono altri motori per l’ ”Avviso Marcantonio Colonna”, per gli incrociatori “Amerigo Vespucci” e “Savoia”, navi costruite in altri cantieri o parti di navi, pezzi per la corazzata “Lepanto”, “Duilio”, “Dandolo”, divenendo così il più vasto e importante stabilimento meccanico del Regno. Nel 1881 morì Rubattino; l’anno dopo Carlo Bombrini. Nel 1883 la Commissione (presidente l’on. Brin), poté esclamare che l’Ansaldo era in grado di costruire ottime macchine motrici, per navi di qualsiasi grandezza. La direzione guidata dai due figli di Bombrini, Giovanni e Carlo Marcello, abbandona San Pier d’Arena e si trasferisce a Genova. Intanto, anche in virtù dell’opificio, l’ampliamento in Sampierdarena fu progressivo e inesorabile. Le prime regole "sindacali" scritte, prevedono una giornata lavorativa che dura 10 ore; l'impresa si preoccupa solamente di trovare il lavoro e non della qualità di vita dei lavoratori; questi hanno diritto a far festa la domenica, con 6 giorni all’anno, non retribuiti, di permessi; obbligatorie eventuali ore straordinarie, massimo 4 al giorno. Molti i licenziamenti per inosservanza di questo regolamento. Nel 1884 il varo non completamente riuscito del “San Gottardo” di 3.600 ton., che si incagliò sul basso fondale e richiese due mesi di lavoro per liberarlo, diede inizio a un programma di spostamento a Sestri dove il fondale vicino a riva era più scosceso.
Nel 1885, dall’occupazione di un’area di 42.750 mq (di cui 7.000 mq di spiaggia) si arriverà ben presto a raddoppiare il terreno occupato a 75.000 mq.; la costruzione di locomotive (in quindici anni ne erano state prodotte 389; diverranno mille nel 1912). Sempre del 1885con l’acquisto di nuovi terreni si ha lo spostamento del cantiere navale a Sestri ove il fondale è più alto; si evitò così che le navi, sempre più grosse, si incagliassero, minacciando di far perdere le importanti commesse che il ministro della marina Benedetto Brin stava affidando alle industrie italiane. Nel 1895 si ha la vendita dell’incrociatore Garibaldi all’Argentina. Negli anni tra il 1883 ed il 1890, l’applicazione di una legge sui premi per le costruzioni navali e protezione nazionale dell’industria meccanica in genere, fece aumentare le commesse non contrastate più dall’estero; iniziò per l’azienda quella dipendenza dalle ordinazioni statali che condizionerà per un secolo successivo tutta la storia cittadina. Si produssero 168 locomotive, si avviò una proficua attività di riparazione del materiale rotabile, si vararono a Sestri 8 torpediniere, 1 trasporto, 2 cannoniere, 2 rimorchiatori, 1 pontone, 22 barche trasportom, si fabbricarono 9 grossi motori, i più potenti del mondo, per navi da guerra (il primo, per la corazzata “Sicilia”), nonché lastre di blindaggio, pezzi forgiati per corazzare le navi, speroni e timoni, si era allargata la superficie occupata, espandendosi con un secondo stabilimento a Sestri. Dal 1883 era in attività anche la “Soc. Cooperativa di Produzione” formatasi con operai licenziati dall’Ansaldo in quell’anno. Ricevette commissioni, dal 1889, pure la “Soc. Meccanica Storace Frioli” divenuta poi “Roncallo, Storace e C.” Gravi periodi di crisi ci furono negli 1853-60; 1861-77; 1890-5. La ripresa dell’Ansaldo avvenne dopo il 1895, in rapporto all’aumentata produzione di locomotive (in sette anni, ben 270), all’acquisto all’asta, a metà prezzo dopo otto incanti, della “Soc.Italiana Delta” di Cornigliano, all’acquisto (1903) della “Armstrong” inglese (fabbrica di cannoni a Pozzuoli), divenendo “Soc. An. Italiana Gio. Ansaldo – Armstrong Whitworth e C. Ltd.”, divenendo così proprietaria di stabilimenti di artiglieria a Pozzuoli con una capacità di impiego di 16.000 operai e con afflusso di nuovo capitale (anche dai Bombrini, per nove milioni e da Ferdinando Maria Perrone). Nell’anno 1903 l’Ansaldo era particolarmente specializzata nel campo delle costruzioni e riparazioni navali e malgrado comprendesse attività produttive a Sampierdarena (lo stabilimento Meccanico), a Cornigliano (le Fonderie e Acciaierie, l’Officina Elettrotecnica e lo Stabilimento Metallurgico ex-Delta), a Sestri Ponente (il Cantiere navale), e a Genova (l’Officina Allestimento Navi al Molo Giano e l’Officina Riparazioni al Molo Vecchio), rischiò di rimanere fuori del mercato, scalzata dal trust delle grandi aziende metalmeccaniche. Allo scopo concluse l’accordo con l’azienda inglese onde potersi assicurare la fornitura dei materiali necessari a resistere alla pressione del trust avversario. In questo modo ebbe solo un relativo calo nel settore cantieristico e del suo indotto nel 1904-6, e riuscì a svincolandosi dalla dipendenza dei gruppi siderurgici. L’accordo con la Armstrong dopo aver trovato una nuova soluzione al proprio problema si interruppe nel 1912. Ma fino ad allora fu positivo per l’economia aziendale l’allargamento produttivo alla fabbricazione di armi di qualsiasi tipo (cannoni, proiettili e corazze). Dopo l’inserimento dell’Italia nella Triplice, era ovvia la possibilità di uno scontro con le potenti squadre inglesi e francesi; e pertanto il Ministro della Marina nel 1893 commissionò la corazzata “Garibaldi” a Sestri e le altre, rispettivamente a Venezia e Livorno. La “Garibaldi”, fu varata nel 1899; e consegnata il 23 febbraio 1902. Aveva sperone a prora; cannone da 254mm, due da 203, 14 da 152, dieci da 76, sei da 47; due mitragliere e 4 tubi lanciasiluri. La fiancata aveva spessore di 150mm; la plancia di 40 circa; dislocava 8.100 t.; lunga 111,76, larga 18,20; 24 caldaie per due motori alternativi e con relativa elica. Il primo impiego bellico fu nella guerra italo-turca, con il bombardamento di Beirut nel 1912 e l’affondamento della cannoniera turca “Aunillah”. Scoppiata la guerra del 1915, fu mandata a difesa dell’esercito serbo sbaragliato dalle forze dell’impero. Chiudo qui la storia dell'Ansaldo perchè con l'arrivo dei Perrone si apre tutto un altro capitolo. Ferdinando Maria Perrone, nel 1902 entra nella società Ansaldo, diventandone unico proprietario due anni dopo. Al suo nome si legherà la storia dell'azienda per tutto il primo ventennio del XX secolo. Perrone perseguì - in una maniera assolutamente originale per l'epoca - l'obiettivo della completa autonomia produttiva, sia nel campo della siderurgia, sia in quello degli armamenti che proprio in quegli anni divenivano la principale attività dell'azienda genovese. Perrone seguì l'esempio di Ford nella completa integrazione del gruppo. Nel 1918 l'Ansaldo poteva contare su oltre 80.000 dipendenti e sul controllo di numerose società e poteva disporre di decine di stabilimenti. Con la proprietà dei Perrone il capitale sociale dell'Ansaldo passò da 30 a 500 milioni di lire nei soli cinque anni della prima guerra mondiale (1914-1918).

3.6 Eugenio Cantoni (Gallarate (VA), 1824 – Roma, 1888), compie i primi studi presso il collegio Rotondi di Gorla Minore (Varese); viaggia poi in Svizzera e in Germania per completare l’istruzione, e infine in Inghilterra, presso alcuni stabilimenti cotonieri, per approfondire le conoscenze di tecnica e di organizzazione industriale del settore. Rientrato in Italia nel 1845, inizia a collaborare con il padre nella gestione dell’impresa tessile. L’intervento del giovane Eugenio spinge il padre ad ampliare gli stabilimenti, costruendo a Castegnate (presso Gallarate, dove utilizza l’energia idraulica derivata dal fiume Olona) una nuova filatura dotata di macchinario inglese, con 120 telai semiautomatici e con un reparto di candeggio. Accanto all’attività manifatturiera, l’impresa allarga anche quella commerciale, con l’apertura di una succursale a Milano. Gli eventi del 1848 interrompono brevemente l’attività industriale di Eugenio Cantoni, che si unisce a una colonna di volontari gallaratesi e svizzeri mossa nel marzo in aiuto del governo provvisorio di Milano. Si intensifica il suo impegno presso l’impresa di famiglia. Negli anni successivi al 1850 il padre Costanzo abbandona gradualmente la cura delle attività industriali. Nel 1857 Eugenio Cantoni si era sposato con Amalia Genotte von Markenfeld e Sauvigny, figlia del Segretario particolare del Gabinetto dell’Imperatore d’Austria: la parentela gli consente, dopo l’unificazione d’Italia e il ristabilimento di normali rapporti con l’impero, l’accesso a incarichi e titoli onorifici: la nomina a Console d’Austria nel 1869, quella a Console Generale austro-ungarico nel 1873, e il conferimento della gran croce dell’Ordine di Francesco Giuseppe. L’andamento economico della ditta Cantoni conosce un netto miglioramento alla fine del decennio preunitario grazie all’introduzione di innovazioni tecnologiche che consentono l’immissione sul mercato di tessuti in cotone, in sostituzione di quelli di lino e misti di lino e cotone; nella prima metà degli anni Cinquanta la Cantoni aveva anche introdotto le macchine a vapore, sull’esempio degli altri cotonifici lombardi, come gli stabilimenti dei Ponti e dei Borghi. Nuove difficoltà si presentano durante la congiuntura postunitaria, quando l’industria cotoniera risente in modo particolare delle conseguenze della guerra di secessione negli Stati Uniti d’America, che rende impossibile l’esportazione del cotone greggio verso l’Europa; a questo si aggiunge la debolezza causata dall’indirizzo liberistico nella politica commerciale del Regno. Nel 1866 il complesso degli stabilimenti Cantoni conta complessivamente 9.000 fusi e 236 telai semiautomatici, ma è con la ripresa generalizzata dell’industria cotoniera, seguita all’introduzione del corso forzoso (1866), e all’espansione degli anni successivi alla guerra franco-prussiana, che Cantoni inaugura un processo di ampliamento dell’impresa e pone le premesse per una sua riorganizzazione finanziaria. Nel 1868 acquista gli immobili e il diritto d’uso di un canale per l’impianto di una nuova filatura a Bellano (Como), che nel 1870 arriva a contare 6.800 fusi, e decide l’acquisto di uno stabilimento a Milano, destinato a diventare una stamperia con macchine di fabbricazione inglese. La ripresa industriale del triennio 1871-1873 spinge il Barone Cantoni (il titolo nobiliare gli viene concesso da Vittorio Emanuele II proprio nel 1871) a un’attività più vasta non solo sul piano imprenditoriale. Nel 1871 è promotore nella costituzione della Banca industriale e commerciale, e l’anno successivo, con il concorso di quest’ultima e della Banca italo-germanica, attua la trasformazione dell'impresa Costanzo Cantoni nella società anonima Cotonificio Cantoni; nel 1872 fonda inoltre la Banca di Busto Arsizio, primo nucleo della Società bancaria italiana e poi della Banca italiana di sconto. Tra i sottoscrittori del capitale sociale (sette milioni di lire) del Cotonificio Cantoni figurano, oltre alle due banche, i maggiori rappresentanti dell’industria lombarda, tra cui Andrea Ponti, i fratelli Turati, Napoleone Borghi e Giuseppe Colombo. Costanzo ed Eugenio Cantoni appaiono come sottoscrittori rispettivamente per un milione e per 2.750.000 lire: una cifra leggermente superiore a quella di 3.506.523 lire, che rappresenta il valore degli stabilimenti e delle merci apportati dalla ditta Cantoni alla nuova società. A Eugenio Cantoni è attribuita la carica di Direttore degli stabilimenti. Nel 1873 il Cotonificio Cantoni dispone di un complesso di impianti che comprende le manifatture Cantoni di Legnano (1.000 fusi per filatura, 114 telai meccanici e un opificio per la tintura), di Castellanza (8.000 fusi, 124 telai meccanici e un opificio per il candeggio), di Bellano (6.844 fusi) e infine la stamperia meccanica alla Maddalena, a Milano; inoltre uno stabilimento di filatura e torcitura a Besozzo (Varese) e uno di torcitura, cardatura e tintura a Milano. Cantoni pianifica allora sostanziosi investimenti per l’ammodernamento di tutti gli impianti, e i primi anni di vita del Cotonificio Cantoni sono caratterizzati da una vivace polemica fra il Direttore e il Consiglio di amministrazione, che sostiene invece l’opportunità di contenere le spese. La fondazione, nel 1874, dell’officina meccanica Cantoni, Krumm e C. crea nuove tensioni, perché l’assemblea degli azionisti del Cotonificio Cantoni addebita all’imprenditore milanese un "conflitto d’interessi": Cantoni faceva acquistare alla società le macchine da un’impresa a cui egli era direttamente interessato. Nel 1876 assunse Franco Tosi come direttore della sezione meccanica della Cantoni-Krumm facendo sì che il giovane Tosi si facesse le ossa nel management. Nel 1877, in seguito alle polemiche interne alla società, in concomitanza con il peggioramento della congiuntura economica internazionale e in una fase di crisi per l’impresa, Cantoni deve rinunciare alla carica di Direttore, continuando tuttavia a far parte del Consiglio d’amministrazione e ad avere influenza determinante anche nella conduzione tecnica. Nel 1978 le perdite registrate costringono la società a sospendere i pagamenti dei dividendi fino a tutto il 1879, mentre l’amministrazione decide di cedere gli impianti con bilanci in passivo. Cantoni rileva allora gli stabilimenti di Milano e la stamperia della Maddalena. La spinta decisiva per il superamento della crisi degli anni 1877-78 arriva in seguito all’entrata in vigore, nel luglio 1878, della nuova tariffa doganale protezionista, che assicura una difesa contro la concorrenza straniera, soprattutto al comparto della filatura del cotone. Di questo mutamento della politica doganale italiana l’imprenditore milanese era stato un attivo sostenitore, anche quale amico e socio dell’industriale laniero veneto Alessandro Rossi. Cantoni aveva analizzato ed evidenziato da tempo l’arretratezza dell’industria cotoniera italiana, segnata dalla forte prevalenza della produzione non meccanizzata e da investimenti di capitali del tutto inadeguati a sostenere il rinnovamento e l’ampliamento degli impianti necessari per affrontare la concorrenza internazionale; i costi di produzione, inoltre, risentivano troppo degli oneri derivati dai trasporti ferroviari; la manodopera poi, ancora strettamente legata all’attività rurale, non garantiva la continuità della produzione in quanto disertava l’attività industriale in coincidenza con i lavori agricoli; il basso costo del lavoro italiano, infine, era considerato da Cantoni un vantaggio modesto, a fronte delle insufficienti competenze e capacità delle maestranze. Da queste considerazioni l’imprenditore aveva tratto la conclusione della necessità di una maggiore protezione doganale per i filati di cotone; la sua analisi aveva evidenziato inoltre la grave arretratezza dell’industria meccanica italiana, che rendeva impossibile attrezzare convenientemente gli stabilimenti per la tessitura. In numerosi interventi pubblici Cantoni sostiene orientamenti protezionistici: con lettere alla stampa economica, con promemoria al Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, nelle sedute della Camera di commercio e arti di Milano, di cui è consigliere, e nell’ambito dell’Associazione cotoniera italiana. L’intensificarsi delle lotte operaie nel decennio Settanta e l’emergere di una "questione sociale" che si impone alla classe dirigente porta Cantoni a esprimersi anche sui problemi del lavoro. Ogni intervento di tutela e controllo delle condizioni e degli orari di lavoro comporta per Cantoni un danno per l’industria cotoniera nazionale, capace solo di minare la sua capacità concorrenziale nei confronti della produzione estera. Dal 1881 il Cotonificio Cantoni registra utili consistenti e sviluppa gli impianti produttivi (24.166 fusi di filatura e 5.504 di ritorcitura, nel 1884; 200 telai meccanici nella sola Legnano), ma conosce anche, nel 1884, le prime agitazioni operaie. Il Consiglio d’amministrazione, di cui Cantoni farà parte fino alla morte, è costretto a ratificare la concessione di limitati aumenti salariali, e a provvedere alla costruzione di otto case per alloggi operai presso Legnano. La fase di intensificata attività industriale del decennio Ottanta permette al Cotonificio Cantoni di consolidare in modo definitivo le sue basi industriali e pone anche termine alle antiche polemiche sorte fra Cantoni e la società. Negli ultimi anni di vita l’imprenditore rivolge la sua attenzione al settore ferroviario, e – in funzione di uno sviluppo dei traffici diretto a favorire il rifornimento e il commercio degli stabilimenti Cantoni – si interessa allo sviluppo della rete lombarda. A questo scopo promuove anche la fondazione, all’inizio del 1888, del «Piccolo Corriere», giornale di Gallarate e Busto Arsizio, dalle cui pagine inaugura una campagna in favore dello sviluppo delle linee ferroviarie locali. Nello stesso tempo continua a partecipare al movimento per la revisione della tariffa doganale del 1878, giudicata dagli industriali italiani incompleta e difettosa, fino all’approvazione della nuova legge protezionista dell’aprile 1887. I prodromi della rottura doganale con la Francia, nel febbraio 1888, lo richiamano a Roma con una delegazione di industriali dell’Alta Italia per esercitare sul Governo pressioni a sostegno dell’applicazione integrale della nuova tariffa. E a Roma muore nel marzo 1888.

3.7 Cristoforo Benigno Crespi (Busto Arsizio, 1833 – Milano, 1920) fu il capostipite di una delle grandi famiglie di industriali milanesi; egli fu anche uno dei primi industriali a essere attivo nel campo del mecenatismo. Compì gli studi nel seminario rosminiano di Ponte Seveso, dal quale però uscì per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Pavia. Poco tempo dopo fu costretto a interrompere gli studi universitari e a trovare un impiego. Riuscì comunque a conseguire il diploma di ragioniere, grazie al quale dapprima entrò alle dipendenze di una banca e in seguito fu assunto alla sede di Milano della ditta bustese Turati. Intorno al 1863 lasciò l'azienda Turati e, disponendo di un modestissimo capitale, si mise in proprio dedicandosi a speculazioni sul cotone greggio. Questa attività gli apportò considerevoli guadagni e mise in luce le sue capacità di uomo d'affari. Gli fu facile perciò convincere il padre a prendere in affitto nel 1864 lo Stabilimento nazionale Archinto (già Sioli-Dell'Acqua) a Vaprio d'Adda. Intanto apriva a Milano un ufficio di rappresentanza di filati e di tessuti, nel quale entrò anche suo fratello. Tuttavia alla fine del 1865 l'ex stabilimento Archinto venne messo all'asta dai creditori della passata gestione, e fu acquistato dal duca Raimondo Visconti di Modrone. Privato della fabbrica di Vaprio, Crespi attivò dal 1867, in una ex cartiera di Vigevano, una piccola filatura (circa 5.000 fusi nel 1876) che alla morte del padre (1883) fu assegnata al fratello Giuseppe. Con quest'ultimo Crespi si era presto trovato in aspro contrasto. Nel 1869-1870 decise perciò di procedere a una nuova iniziativa industriale, fondando a Ghemme (Novara), assieme agli altri fratelli Carlo e Pasquale, un'altra filatura di qualche migliaio di fusi, alla quale furono aggiunti più tardi anche dei telai. Crespi aspirava comunque a creare un proprio stabilimento. Ciò gli fu possibile nel febbraio 1877, quando ottenne l'autorizzazione a utilizzare una derivazione d'acqua dal fiume Adda di cui intendeva servirsi come forza motrice per un'erigenda filatura tra i comuni di Capriate e di Canonica d'Adda. Crespi lasciò dunque a Carlo e a Pasquale lo stabilimento di Ghemme, e iniziò la costruzione del canale di derivazione dall'Adda. Fu impresa tecnicamente assai ardua, ma fu condotta a buon fine e il 25 luglio 1878 il nuovo stabilimento, dotato di 5.000 fusi Platt Brothers, iniziò a funzionare. Benché l'impianto fosse ancora di modeste dimensioni, Crespi ebbe l'accortezza di adottare soluzioni tecniche d'avanguardia e di approntare locali capaci di contenere in futuro un insieme di fusi assai più imponente. La decisione d'investimento fu assai fortunata, perché proprio in quell'anno entrarono in vigore le prime tariffe protezionistiche a favore dell'industria cotoniera. Reso appunto "sicuro" dalla protezione doganale, Crespi aumentò progressivamente il macchinario dell'impresa: i fusi, che erano già saliti a 15.000, nel 1882, erano 20.000 nel 1884 e 25.000 nel 1891 (con 600 operai). Ma già in precedenza Crespi aveva raggiunto una notevole capacità finanziaria se nel 1886 poté acquistare la filatura di Baveno (Novara), dotandola fin dal primo anno di 5.000 fusi e di un organico di 165 operai. Affidata alla direzione del giovane Vittorio Olcese, la filatura passò qualche anno dopo (probabilmente nel 1890) alla ditta Luigi Pozzi di Busto Arsizio. Inoltre nel 1889 Crespi aveva partecipato con 200.000 lire, su un capitale complessivo di un milione, alla costituzione della società in accomandita semplice Festi Rasini e C., con stabilimento a Villa d'Ogna nel Bergamasco. A questi investimenti, per così dire "esterni" alla propria impresa, si aggiunse un importante ampliamento della fabbrica di Capriate: nel 1895 veniva attivato un reparto di tessitura di 200 telai meccanici Rüti, per il cui funzionamento furono installate motrici a vapore di fabbricazione italiana. La Benigno Crespi - unico tra i fratelli, egli poté continuare a utilizzare il nome della ditta fondata dal nonno - cominciò così a specializzarsi soprattutto nella produzione di satin nero, un articolo destinato prevalentemente all'esportazione nell'America Latina, nei Balcani e anche nell'Estremo Oriente. Circa tre anni dopo fu aperto anche un reparto di tintoria (nel quale fu impiegato, tra le prime esperienze di questo genere in Italia, il sistema Thomas-Prevost per la mercerizzazione dei tessuti), cosicché all'aprirsi del nuovo secolo la ditta si presentava come una delle poche imprese cotoniere italiane a ciclo integrale di fabbricazione. Né si arrestò il potenziamento degli impianti: se nel 1902 i fusi di filatura erano 36.600 e i telai meccanici 320, nel 1909 i fusi erano saliti a 44.000 e i telai a 726, mentre gli operai occupati superavano le 1.500 unità. Nel 1904 Crespi assieme al figlio Silvio, e con parziale contributo della Edison e della Banca commerciale italiana, aveva inoltre creato la Società anonima Benigno Crespi per lo sfruttamento delle forze idrauliche di Trezzo sull'Adda, che, attraverso appunto la nuova centrale idroelettrica di Trezzo, consentì l'utilizzazione dell'energia elettrica come forza motrice nello stabilimento di Capriate. Nel 1906 Crespi fu colpito da un male improvviso: fu dunque costretto a disinteressarsi dell'azienda, che rimase sotto la direzione del figlio Silvio. Nel 1910 la ditta Benigno Crespi fu trasformata in società anonima (con un capitale di nove milioni di lire), di cui Benigno fu presidente. In realtà la nuova società mantenne il suo carattere familiare, non solo per quanto riguardava il capitale - che era diviso tra padre, figli, figlie e cognati - ma perché la decisione di costituire la società anonima era motivata da ragioni esclusivamente familiari. Da un lato si evitò un provvedimento di interdizione per Benigno, che non avrebbe così avuto, grazie all'istituzione di un consiglio di amministrazione, alcuna possibilità di decisioni autonome; dall'altro si intendeva impedire che uno dei figli di Benigno, Daniele, continuasse ad ottenere dal padre forti finanziamenti a fondo perduto per le sue avventurose e disgraziate speculazioni, che rischiavano di portare alla rovina l'azienda cotoniera. Il Crespi preferì dedicarsi alla raccolta di quadri di notevolissimo valore artistico, sebbene da vero uomo d'affari riuscisse ad acquistarli a prezzo conveniente. La raccolta ebbe sede nel palazzo di via Borgonuovo a Milano, acquistato nel 1884 per ben 800.000 lire, nel quale si trovavano anche gli uffici della ditta e l'abitazione della famiglia. La galleria sarà venduta in asta a Parigi nel gennaio 1914, per una forte crisi di liquidità dell'impresa, provocata dalla crisi che dal 1907 incideva sull'industria cotoniera. Crespi è noto anche per avere costituito, sin dal 1878-1880, il primo nucleo del villaggio operaio di Crespi d'Adda (tale fu il nome ufficialmente assunto dalla frazione di Capriate in cui fu eretto lo stabilimento). Se i successivi e più importanti sviluppi urbanistici del villaggio operaio sono dovuti essenzialmente all'iniziativa del figlio Silvio, fu senz'altro lui l'ideatore delle case più antiche, palazzi a tre piani posti all'ingresso del paese e che erano destinati ad accogliere "le famiglie di quel nucleo di operai finiti che dovevano educare al lavoro di fabbrica i contadini dei dintorni". Fu ancora lui, assieme alla moglie Pia, instancabile animatrice di opere benefiche a favore degli operai dello stabilimento, a creare il clima "paternalistico" e da "grande famiglia" - come usavano dire i Crespi - che caratterizzò per così lungo tempo il villaggio operaio. Cristoforo Benigno Crespi morì a Milano il 5 genn. 1920. La galleria Crespi ebbe sede nello stesso palazzo di via Borgonuovo 18, in Milano.

3.8 Ferdinando Maria Perrone (Alessandria, 1847 - Genova, 1908) Nato in una famiglia del ceto medio subalpino, trascorre l’adolescenza senza portare a termine un regolare corso di studi superiore. Nel 1873 diviene procuratore e amministratore dei beni di un aristocratico proprietario terriero dell’Alessandrino, Alessandro Paulucci, e affittuario di una vasta tenuta appartenente allo stesso Paulucci, che ne farà dono a Perrone, da lui trattato come figlio. Ha così modo di leggere, studiare, fare affari come amministratore di un vasto patrimonio.
Stabilisce rapporti con Luigi Luzzatti, economista e politico dell’Italia del tardo Ottocento, scrive articoli su giornali e periodici, è affittuario di aziende agricole. Nel 1885 si stabilisce a Buenos Aires, dove si era già consolidata una robusta comunità di italiani. In Argentina si occupa di aziende vinicole, scrive sui principali giornali del Paese e costruisce una fitta rete di relazioni con politici e uomini d’affari. Nel 1894, su sollecitazione del cognato Antonio Omati, ingegnere e dirigente industriale dell’Ansaldo, allora di proprietà dei fratelli Bombrini, diviene rappresentante per l’Argentina dell’impresa genovese, che grazie alla mediazione di Perrone riesce a vendere al Governo del Paese sudamericano un incrociatore corazzato.
Nel 1895 ottiene l’incarico di rappresentare l’Ansaldo nell’America del Sud e in Messico e, a partire dal 1896, fa la spola tra Italia e America. Nel 1897 rileva dai Bombrini la proprietà del quotidiano genovese «Il Secolo XIX».
Rapporti di lavoro con la grande impresa industriale, presenza attiva sul mercato internazionale delle navi da guerra (e confronto obbligato, e istruttivo, con la realtà dei grandi produttori navalmeccanici esteri), impegno diretto nel mondo della stampa e relazioni con la politica: Perrone, nel pieno della sua maturità, acquisisce ulteriori conoscenze e competenze e sviluppa le sue notevoli capacità relazionali.
Tutto ciò gli serve per ascendere all’inizio del Novecento al vertice dell’Ansaldo e per rilevarne nel 1903-1904 il controllo, in collaborazione con la britannica Armstrong Whitworth and C., colosso internazionale nel campo delle costruzioni navali e della produzione di armamenti. Della Gio Ansaldo Armstrong and C. – questo il nome della joint venture della cui nascita è protagonista – Perrone diviene Amministratore delegato e, nel giro di pochi anni, primo azionista.
Intrapresa dunque l’attività di imprenditore industriale, Perrone persegue una strategia di crescita dell’impresa, già avviata peraltro dai Bombrini, di integrazione verticale volta alla formazione di un grande complesso navalmeccanico capace anche di produrre direttamente i materiali siderurgici necessari agli stabilimento. In questa prospettiva si misura e si scontra con agguerriti rivali quali i costruttori navali Odero e Orlando, che controllano anche le acciaierie di Terni.
Tanto l’Ansaldo quanto i suoi competitori beneficiano della favorevole congiuntura economica che l’Italia attraversa all’inizio del Novecento e di flussi di commesse pubbliche destinati ad aumentare. Alla sua morte, avvenuta nel 1908, Perrone lascia ai figli Mario e Pio un’impresa dotata di 6 stabilimenti, cui si aggiunge un’officina di riparazioni navali a Istanbul, dove lavorano circa 4.000 persone, capace di produrre navi, apparati motori, locomotive, elettromeccanismi diversi, getti e fucinati d’acciaio. Una realtà che testimonia, e sostiene, l’avvenuto decollo industriale italiano.

Nel 1912 l'accordo stipulato con la Armstrong venne sciolto e l'Ansaldo riassume la precedente ragione sociale. Tra le realizzazioni di quel periodo della cantieristica Ansaldo la costruzione di alcuni incrociatori corazzati della classe Garibaldi e della corazzata Giulio Cesare. Nel 1914 il capitale sociale è di 30 milioni di lire, nel 1918 arriva a 500 milioni di lire, grazie ai ricavi ottenuti dalla produzione del 46% di tutta l'artiglieria costruita in Italia durante la guerra, 3000 aerei, 1574 motori aeronautici, 96 navi da guerra, 200000 t di naviglio mercantile e 10 milioni di munizioni. Nel 1918 l'Ansaldo arriva a impiegare 80.000 addetti, in decine di stabilimenti e società controllate tra le quali: A. Cerpelli e C., Banca Industriale Italiana, Cantieri Officine Savoia, Dinamite Nobel, Gio.Fossati e C., Lloyd Italico, Nazionale di Navigazione, Fabbrica Aeroplani Ing. O. Pomilio, Società Idroelettrica Negri, S.P.A., Transatlantica Italiana, S.A. Ansaldo. Nel 1921, con le dimissioni dall'Ansaldo, i Perrone cessano ogni impegno in campo industriale continuando, soprattutto, nell'attività editoriale. In seguito alla grande depressione del 1929 che penalizzò fortemente l'economia mondiale nella prima metà degli anni trenta e all'incapacità dell'impresa di riconvertire la propria produzione bellica a quella civile, l'Ansaldo non si poté sottrarre al fallimento nel 1932. L'azienda dopo la conclusione del primo conflitto mondiale aveva provato a produrre materiale ferroviario, aeroplani e persino automobili aprendo il suo mercato verso il Messico e la Polonia, paesi che sfortunatamente dopo pochi mesi precipitarono in una crisi di insolvenza e portarono in breve tempo al declino l'impresa italiana, coinvolgendo nel suo fallimento anche la Banca Italiana di Sconto (BIS). L'impresa venne in seguito risollevata dall'intervento di un consorzio di salvataggio, promosso dalla Banca d'Italia, che la porterà sotto il controllo dell'IRI, la cui gestione e riarmo permettono ad Ansaldo nuova vita e crescita. La figura principale di questa rinascita e l'artefice della ridefinizione strutturale-organizzativa è l'ing. Agostino Rocca, amministratore delegato della società dal 1935 alla fine della guerra. I cantieri navali varano corazzate da 35.000 tonnellate, mentre i tecnici, in collaborazione con FIAT realizzano dal 1935 i primi prototipi di carri armati italiani, e aerei (Fiat AS.1 e Fiat-Ansaldo A.120). Ansaldo presso l'arsenale di Napoli produsse anche cannoni come il 75/32 Mod. 1937. Grazie alle commesse belliche la società registra un'enorme crescita: nel 1939 Ansaldo conta 22.000 dipendenti, nel 1943 ben 35.000 ma alla fine della seconda guerra mondiale si riproporranno i gravi problemi della riconversione. L'IRI nel 1948 affida la gestione delle società Ansaldo alla società finanziaria Meccanica, Finmeccanica (dal 2016 Leonardo-Finmeccanica) con un decreto legge vengono scorporati dall'azienda il siderurgico, l'elettrotecnico e il ferroviario e vengono accorpati i cantieri di Muggiano e Livorno. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta saranno operati da Leonardo-Finmeccanica (prima Finmeccanica) numerosi interventi riorganizzativi, tra cui, nel 1966, il trasferimento delle attività navali all'Italcantieri di Trieste. Dal 1966, l'impresa viene ristrutturata completamente da Leonardo-Finmeccanica (prima Finmeccanica). Nel 1977 le imprese rimaste vengono raggruppate sotto la dizione Raggruppamento Ansaldo, che comprendeva, oltre al meccanico-nucleare e l'Asgen di Genova, l'Italtrafo, la SIMEP, la Breda termomeccanica e la Tecnosud. Nel 1980 viene costituito il principale gruppo termo-elettromeccanico italiano, il più grande in Italia con i suoi 16.000 dipendenti, ma che rappresentava anche l'abbandono da parte del colosso industriale della città di Genova. Nel 1993 viene assorbita completamente in Finmeccanica (dal 2016 Leonardo-Finmeccanica).

3.9 Giovanni Battista Pirelli (Varenna (CO), 1848 - Milano, 1932). Il padre, Santino, era «prestinaio» (fornaio), mentre i genitori della madre erano registrati come «possidenti». Nel 1861 il giovane Pirelli si trasferisce a Milano per frequentare la Sezione Fisico-Matematica dell’Istituto tecnico di Santa Marta (oggi “Carlo Cattaneo”). Ottenuta la licenza con il massimo dei voti, nel 1865 si iscrive alla Facoltà di Scienze fisiche, matematiche e naturali dell’Università di Pavia, dove segue il biennio propedeutico di studi fisico-matematici. Nel 1867 si iscrive all’Istituto tecnico superiore di Milano (il futuro Politecnico): dapprima frequenta i corsi della sezione di ingegneria civile ma, dopo il primo anno, opta per quella di ingegneria industriale, dove ritrova il suo maestro Giuseppe Colombo. Il 10 settembre 1870 consegue il diploma di ingegnere industriale ottenendo i migliori voti della sua sezione. Questo risultato gli consente di vincere una delle due borse di studio istituite dalla nobildonna milanese Teresa Berra Kramer, destinate ai due migliori laureati del Politecnico. Il Premio Kramer gli permette di intraprendere un “viaggio di istruzione” all’estero con l’obiettivo di individuare e studiare “una industria nuova”: il viaggio dura quasi 10 mesi (novembre 1870 - settembre 1871) e lo porta nelle più sviluppate regioni industriali dell’Europa continentale: Pirelli acquisisce un’esperienza diretta delle realtà produttive più moderne dell’epoca ed entra in contatto con alcuni dei protagonisti dello sviluppo industriale europeo, in particolare nel settore della lavorazione della gomma elastica (caucciù). Dopo il suo rientro a Milano, Pirelli costituisce nel gennaio 1872 la prima impresa italiana per la manifattura di oggetti in caucciù, la società in accomandita semplice G. B. Pirelli e C., della quale è nominato gerente, e al cui capitale partecipano personalità importanti della vita economica cittadina. Il primo stabilimento, sorto sulle rive del torrente Sevesetto (nell’area dove oggi sorge il grattacielo “Pirelli”) ha proporzioni modeste: poco meno di 1.000 metri quadrati coperti, una motrice a vapore di 26 Hp effettivi, cinque impiegati e 40 operai, che diventeranno oltre 250 in meno di dieci anni. La nuova impresa si trova a operare in un settore industriale ancora nella sua prima fase di sviluppo, soprattutto se si considera che il processo di vulcanizzazione, essenziale per eliminare la grande sensibilità del caucciù ai cambiamenti termici, era divenuto pienamente applicabile solo nel 1844 e si era andato diffondendo piuttosto lentamente nei decenni successivi. Le lavorazioni della Pirelli si estendono rapidamente dal nucleo iniziale dei cosiddetti “articoli tecnici” e arrivano a comprendere i prodotti in gomma per un’ampia varietà di settori, dai cavi ai pneumatici, fino ai beni di consumo come impermeabili e calzature in gomma. Superato il difficile biennio d’esordio, nel quale Pirelli deve farsi carico anche della gestione tecnica, l’impresa conosce una progressiva affermazione, prima sul mercato interno, grazie anche alle commesse da parte dell’amministrazione militare, e poi all’estero: al termine del terzo anno di attività le vendite coprono più di metà del consumo nazionale di manufatti di gomma. A partire dalla seconda metà degli anni settanta, Pirelli affianca all’attività imprenditoriale l’impegno nella vita politica milanese. Nel 1877 entra a far parte del consiglio comunale, dove resterà fino al 1889, occupandosi in particolare dei problemi del quartiere dove abitava e dove ha sede la fabbrica. Nello stesso periodo, dal 1879 al 1886, e poi nel biennio 1889-90, è anche consigliere della Camera di commercio cittadina. Nel 1883 è membro della commissione esaminatrice, formata da tecnici e industriali, del nuovo piano regolatore edilizio della città, e presenta una relazione in cui sottolinea la necessità di garantire migliori collegamenti fra il centro cittadino e le aree industriali del circondario. L’esperienza politica maturata in questi anni serve a Pirelli anche nella risoluzione di uno dei problemi che più influiscono sullo sviluppo dell’impresa, ossia quello delle tariffe doganali sui prodotti di caucciù. Al momento della fondazione della società, il regime vigente non offriva praticamente alcuna protezione dalla concorrenza estera, assai più avanzata sul piano tecnico, né i tentativi compiuti negli anni seguenti di riformare la tariffa doganale sui prodotti in gomma avevano ottenuto grande successo. Insieme ad altri imprenditori di orientamento protezionista, riuniti nel Circolo industriale e commerciale di Milano, Pirelli si rende protagonista di un'efficace azione di lobbying nei confronti degli ambienti politici nazionali impegnati nella discussione sulla riforma della tariffa doganale, poi entrata in vigore nel 1887, sia attraverso le petizioni inviate in parlamento, sia come membro del comitato direttivo di una nuova rivista, l’«Industria». Con la nuova tariffa l’industria della gomma vede per la prima volta riconosciuta l’esigenza di una protezione, sia pure non elevata, dei propri prodotti. Nel corso degli anni ottanta dell’ottocento Pirelli inizia a interessarsi ai nuovi prodotti richiesti dal nascente settore elettrico: nel 1881 avvia la produzione industriale di conduttori elettrici e nel 1883 quella di cavi elettrici subacquei. A partire dal 1887 posa i primi cavi telegrafici sottomarini nel Mar Rosso e nel Mediterraneo per conto del governo italiano, una commessa cui fa seguito, nel 1888-90, l’incarico da parte del governo spagnolo di costruire e immergere una serie di linee telegrafiche fra la Spagna, le Baleari e il Marocco. La Pirelli e C. fa così il suo ingresso in un campo di attività fino ad allora monopolio assoluto di poche compagnie inglesi. Per sostenere questo nuovo business, viene appositamente costruito nel 1896, presso La Spezia, il primo stabilimento di cavi sottomarini sul continente europeo, e contemporaneamente entra in servizio la nave posacavi “Città di Milano”. Nel decennio successivo, intuendo le grandi potenzialità di un nuovo prodotto appena apparso sul mercato – il pneumatico – Pirelli impegna l’impresa in quello che diventerà uno dei settori più importanti per la sua evoluzione futura: nel 1890 inizia la produzione di pneumatici per biciclette e nel 1901 avvia la produzione industriale di pneumatici per automobili e motocicli. La strategia di Pirelli si caratterizza fin dai primi anni di vita dell’impresa per l’abilità nel costruire solide relazioni con le maggiori imprese a livello internazionale – le inglesi Henley Telegraph e Eastern Telegraph per i cavi telegrafici, l’americana Western Telegraph dal 1898 per i cavi telefonici – al fine di acquisire tecnologia e know how, e conservare una continua attenzione ai mercati internazionali: a partire dal 1891 più del 20% della produzione degli stabilimenti italiani della Pirelli trova sbocco all’estero, soprattutto in Spagna, Portogallo e Inghilterra, e la proporzione cresce costantemente fino a superare il 40% dopo il 1910. La fase favorevole attraversata dal mercato della gomma ai primi del secolo viene così sfruttata dall’impresa, che registra una notevole crescita del fatturato. Per adeguare i mezzi della società ai nuovi impegni e alle nuove dimensioni, Giovanni Battista Pirelli ricorre a ripetuti aumenti di capitale che permettono l’ampliamento della rete commerciale e, soprattutto, la costruzione di un nuovo grande stabilimento nell’area di Milano-Bicocca, che viene completato nel 1908. A partire dall’inizio del secolo diventa più incisiva anche la penetrazione del mercato internazionale, tramite il ricorso a massicci investimenti legati alla creazione di partecipate e all’apertura di impianti produttivi all’estero: nel 1901 viene costruito uno stabilimento in Spagna e nel 1913 uno in Inghilterra per la produzione di cavi elettrici; nel 1909 viene creata una filiale commerciale inglese, e nel 1910 vengono aperte filiali a Buenos Aires, Bruxelles e Parigi. Negli stessi anni cresce costantemente la produzione di pneumatici per autovettura: alla vigilia della prima guerra mondiale questa linea di prodotto arriva a rappresentare un quarto del fatturato della società milanese. L’età giolittiana rappresenta per Pirelli non solo il periodo del consolidamento della sua posizione all’interno del ristretto circolo dei grandi industriali italiani, ma anche la prosecuzione e l’intensificarsi della sua partecipazione alla vita pubblica, non più strettamente limitata all’area milanese bensì proiettata sul piano nazionale. È consigliere e poi presidente del Credito Italiano e presidente della Edison. Lasciato il consiglio comunale di Milano, viene eletto in quello provinciale dove rimane fino al 1902, e pochi anni più tardi, nel 1909, è nominato senatore del Regno d’Italia. Entra a far parte fin dalla fondazione dell’ateneo, nel 1902, del consiglio direttivo dell’Università privata Bocconi, prima come rappresentante del consiglio provinciale, quindi per nomina diretta dell’erede del fondatore. Pirelli mostra inoltre un particolare interesse per il mondo dell’informazione, divenendo uno dei principali soci del «Corriere della Sera». La presenza attiva di Pirelli in diversi ambienti politici e di rappresentanza economica industriale è anche un segnale del progressivo trasferimento di responsabilità nella conduzione dell’impresa ai due figli, Piero (1881-1956) e Alberto (1882-1971), entrati a far parte del consiglio di amministrazione della Pirelli e C. nel 1904. La guerra coglie la società al culmine di un trend di forte espansione, testimoniato dall’aumento costante del capitale sociale e del fatturato, un quarto del quale derivante, nel 1914, dall’esportazione. La crescita continua anche nel periodo bellico, sia grazie alle forniture di conduttori elettrici e articoli di gomma all’esercito, sia per la struttura multinazionale dell’impresa, che permette di mantenere elevato anche il livello delle esportazioni. Il trauma della riconversione postbellica, seppure piuttosto intenso – gli operai occupati negli stabilimenti italiani della Pirelli passano da un massimo di 9.520 nel 1918 a 4.580 nel 1921 – è comunque di breve durata, tant’è che già dall’inizio degli anni Venti del Novecento la Pirelli può dedicarsi a un ampio programma di ristrutturazione societaria e di consolidamento delle strutture internazionali, anche grazie alle risorse rese disponibili in seguito all’emissione nel 1927 di un prestito obbligazionario di 4 milioni di dollari con la Banca Morgan di New York. Nel 1920 viene sancito definitivamente il carattere multinazionale dell’impresa con la trasformazione della Pirelli e C. in una holding a capo delle neocostituite Compagnie Internationale Pirelli (Cip), società con sede in Belgio, a cui viene affidato il controllo di tutte le consociate estere, e Società Italiana Pirelli (Sip), che raccoglie le strutture di produzione italiane. Nel 1929 la Pirelli e C. è la prima società italiana a quotarsi allo Stock Exchange di New York. Giovanni Battista Pirelli muore a Milano nell’ ottobre del 1932.

3.10 Ernesto De Angeli (Laveno, 29 gennaio 1849 – Milano, 17 gennaio 1907) nato a Laveno si trasferì a Milano per prepararsi ai corsi in ingegneria industriale del Politecnico, studi che a sedici anni, con la morte del padre, dovette interrompere per provvedere al sostentamento della madre e di tre sorelle. Trovò un impiego a Milano nell'impresa di Eugenio Cantoni. Lo stipendio non era però sufficiente ai bisogni familiari, e perciò fu costretto a cercarsi un altro guadagno occupandosi della contabilità di una piccola tintoria, situata nel sobborgo della Maddalena (VA), acquistata dal Cantoni nel 1868. In questa seconda attività ebbe modo di formarsi ai problemi relativi alla conduzione d'impresa e di progettare una ristrutturazione della tintoria-stamperia. Lo stesso Cantoni gli fornì le somme necessarie per un prolungato soggiorno di studio e di pratica in Germania, Francia e Gran Bretagna. Divenuto direttore della stamperia, approfittando delle favorevoli condizioni del mercato finanziario milanese e della ripresa del settore, spalleggiato dal Cantoni, De Angeli costituì nel 1878 una Società in accomandita semplice per la stamperia e la colorazione dei tessuti E. De Angeli e C., con un capitale sociale di L. 650.000 sottoscritto dai più bei nomi della finanza e dell'imprenditoria lombarda: oltre allo stesso Cantoni, Crespi, E. Krumm, A. Namias, L. Terruggia, G. Borgomancri e il Credito lombardo. Le carature sottoscritte dal De Angeli erano percentualmente inferiori a quelle degli altri azionisti. Nel 1886 però, dopo successivi aumenti di capitale (giunto in quell'anno a L. 1.875.000), De Angeli era il terzo maggiore azionista della società, e nel 1897, quando il capitale sociale fu elevato a 7.500.000 lire, raggiunse il primo posto tra i sottoscrittori, con una quota di L. 650.000 circa. In venti anni l'impresqa divenne uno dei giganti dell'industria italiana grazie alle capacità tecniche e imprenditoriali di De Angeli, in collaborazione con Giuseppe Frua (anch'egli era stato assunto dal Cantoni) che nel 1883 ne aveva sposato la sorella Anna e fu poi nominato procuratore generale della società. Gli interessi di De Angeli si erano anche allargati verso settori di recente sviluppo tecnologico e finanziario: nel 1883 divenne presidente della Banca cooperativa milanese; nel 1890 consigliere della Società filati cucirini e, nel 1898, della Società italiana industria linoleum; nel 1899 presidente della Società anonima lombarda per la distribuzione di energia elettrica. Nel 1899 veniva sciolta la società in accomandita E. De Angeli e C. per dare vita, il 14 ottobre, alla Società italiana per l'industria dei tessuti stampati De Angeli-Frua, con capitale sociale di 15 milioni in azioni da lire 250. De Angeli sottoscrisse l'11% del capitale; altri sottoscrittori erano la Banca cooperativa milanese, la Banca svizzera italiana, la Banke Suisse, le famiglie Casati e Weill Scott, U. Pisa (presidente della Camera di commercio di Milano), Giovanni Battista Pirelli. Animatore della Camera di commercio, De Angeli ne diventò consigliere nel 1882, Sostenuto dal Circolo industriale e commerciale, dall'Associazione industria e commercio delle sete, e dai quotidiani La Perseveranza, Il Pungolo e Corriere della Sera, proprio quando più rovente si faceva la lotta per la riforma del trattato economico con la Francia. Moderatamente favorevole a una protezione da accordarsi all'industria cotoniera, interrogato dalla Commissione per l'inchiesta industriale (1870-74) in qualità di direttore della fabbrica per la stamperia dei Cotonificio Cantoni, aveva dichiarato di non ritenere necessaria una salvaguardia doganale per questa lavorazione. Anzi, era propenso ad abolire i dazi d'ingresso per le materie coloranti che, insieme alla mancanza di manodopera qualificata, costituivano uno degli ostacoli principali alla crescita industriale. Il suo protezionismo, in concomitanza con le difficoltà del settore tessile, maturò all'interno del Circolo industriale e commerciale, del cui consiglio direttivo fu nominato presidente il 30 diembre 1882. In quell'occasione presentò una relazione dettagliata sui risultati economici ottenuti con l'applicazione delle tariffe doganali del 1878, in rapporto alla revisione che il Parlamento si apprestava a farne discutendo su un disegno di legge governativo. Alla fine fu votato un ordine del giorno redatto dallo stesso De Angeli e indirizzato alle Camere, con cui si informava delle apprensioni destate negli industriali milanesi dalla presentazione del progetto di legge sulle tariffe doganali che non rispondeva all'aspettativa di una larga e profonda revisione in senso completamente protezionista, e si invitava a sospenderne l'approvazione in attesa di una sua modifica, tale da soddisfare realmente gli interessi economici del paese. Divenne esponente di punta dello schieramento filoprotezionista all'interno della Camera di commercio, ancora incerta sulla linea da seguire; il De Angeli fu uno degli artefici della successiva rapida adesione di questa al protezionismo integrale, tanto che la sua ascesa alla presidenza costituì una sorta di riscontro a tale conversione. Nell'aprile del 1887 inviava una relazione, elaborata dalla Commissione per le tariffe doganali, alla giunta d'inchiesta ministeriale in cui si chiedeva un inasprimento delle aliquote contenute nel tariffario generale, richieste che la giunta aveva già respinto come pretestuose ed eccessivamente favorevoli agli industriali (soprattutto per quanto riguardava il settore tessile). L'impegno dal De Angeli profuso su tale questione, all'interno e all'esterno della Camera di commercio, gli valse l'enchetta di protezionista di ferro, sia da parte dei contemporanei sia della storiografia. Giova sottolineare che l'imprenditore fu il primo a rendersi conto che la concorrenza nel settore tessile sarebbe venuta dall'estero, da imprese più capitalizzate o da nazioni a costo della manodopera inferiore. La sua autorevolezza e il suo impegno non riuscirono comunque a sanare i contrasti che in quel periodo lacerarono i membri della Camera di commercio, tanto che ai primi del 1889 si dimise dalla carica presidenziale adducendo motivi di lavoro; cercò poi negli anni successivi di dimostrare che il suo era stato un protezionismo pragmatico e contingente. Nel 1891, al Circolo industriale commerciale e agricolo, si oppose all'ulteriore aumento del dazio sulla importazione delle sete e nel 1895, all'Associazione industriali cotonieri, affermò di aver sempre combattuto il principio di imporre dazi all'ingresso di materie prime. Nel necrologio scritto quattro anni dopo per Alessandro Rossi, a cui lo avevano legato, oltre che gli affari, una profonda stima ed amicizia, diceva: "Non mi si chiegga, a questo punto, un giudizio su tale propaganda protezionista ...: che non le mie idee ma quelle di Alessandro Rossi io qui espongo. Io certo non condivido tutto il suo credo economico ...; né posso dire che quella protezione legittima che ho sempre invocato per le più promettenti produzioni nazionali sia alla mia mente giustificata dagli stessi presupposti. Non credo che lo Stato debba trascurare gli interessi dei consumatori, come non credo che solo questi esso abbia ad avere di mira. Gli è che, a parer mio, la protezione concessa a quelle produzioni che ne sono degne, la protezione accordata con sano criterio a chi ha attitudini alla lotta e chiede solo tempo per svolgere queste attitudini al riparo da sopraffazioni dei più forti ed agguerriti, se aggrava momentaneamente il consumatore, promuove e sviluppa il lavoro nazionale, generando poi all'interno una concorrenza la quale ribassa i prezzi e sollecita i progressi e l'esportazione" (A. Rossi, in Nuova Antologia, 16 marzo 1899, pp. 306-21). Per parte sua egli aveva dimostrato la massima attenzione verso le condizioni sociali degli operai: con l'ampliamento della sua fabbrica aveva provveduto a dotarla di alloggi per operai, di cooperative di consumo, di scuole. Nel 1894 fu nominato vicepresidente del III Congresso internazionale infortuni sul lavoro, carica che gli fu confermata nel comitato italiano presente al Congresso internazionale sugli infortuni del lavoro a Parigi nel 1900. In prima linea nel richiedere l'abolizione dei lavoro notturno (fu uno dei relatori dell'apposita commissione del Consiglio dell'industria e del commercio). In primo luogo respingeva l'insinuazione di quanti andavano dicendo che i cotonieri volevano questa legge per ridurre il fatturato in un momento di crisi di sovraproduzione: "presupporrò un attuale eccesso di produzione e mi domanderò senz'altro: hanno i cotonieri diritto e ha lo Stato il dovere di promuovere leggi di qualsiasi natura che tendano a frenare eccessi di produzione? Io non sono un liberalista ... : ma a una tale domanda non esito a rispondere negativamente perché non credo che lo Stato, dopo aver stabilito un equo sistema di dazi, abbia il compito di provvedere perché la produzione si mantenga in limiti che assicurino ai produttori un tranquillo monopolio nel mercato interno ... a quanto io mi so, i più autorevoli espositori dei sistema produttivo hanno sempre pensato e detto che fra gli Stabilimenti sorti all'ombra delle tariffe si sarebbe dovuta sviluppare una concorrenza benefica ... . Questo in massima. Nel caso concreto poi non so convincermi come nell'abolizione del lavoro notturno possa ravvisarsi un rimedio a un eccesso di produzione. Intendiamoci, parlo di quell'abolizione ... che si compirà entro tre anni dal giorno della promulgazione della legge. Come è mai possibile prevedere quale sarà la condizione dell'industria cotoniera trascorsi tre anni da quel giorno? E come è mai possibile non credere che molti filatori a cui sia vietato il lavoro notturno, non aumentino il numero dei fusi appunto per rimediare ai danni della diminuzione della produzione che deriverà dall'abolizione del lavoro notturno?". Del resto, continuava il De Angeli, l'associazione cotoniera aveva già avanzato proposte simili in tempi non sospetti. L'abolizione del lavoro notturno era un atto dovuto per migliorare le condizioni igieniche della collettività e inserire, anche su questo piano, l'Italia tra le nazioni più progredite. Invitando dunque gli imprenditori tessili a trovare in loro stessi la forza per superare le eventuali difficoltà che sarebbero scaturite dall'applicazione della legge, toccava l'altro tema che preoccupava molto i suoi colleghi: l'intervento dello Stato. "Esso suscita sempre diffidenze e timori .... Ma lo Stato italiano non ha colpe in questo genere; cioè le ha ... dal punto di vista fiscale, ma non dal punto di vista sociale. Anzi lo Stato italiano ha troppo praticato una politica di non intervento, che ha offerto buon gioco ai partiti sovversivi". Per tutto il 1897, in particolare, L'Industria ospitò articoli di raffronto sulle condizioni della classe operaia in alcuni paesi europei e sulle colpe dei politici per il vuoto di legislazione sociale. E verso questi ultimi, come verso la politica, De Angeli conservò sempre un atteggiamento ambiguo, al pari di altri notabili dell'alta borghesia milanese. Da un lato, non si riconosceva pienamente in nessuna forza politica allora operante a Milano; né nella conservatrice Associazione costituzionale, né nei circoli radicali e tantomeno in quelli repubblicani. Dall'altro, non mancò di promuovere iniziative e sottoscrivere programmi, convinto com'era che anche nel campo politico gli imprenditori (industriali e non) dovessero conquistare la leadership. Nominato senatore nel 1896, in tale veste intervenne nei lavori parlamentari concernenti soprattutto i problemi della produzione e del lavoro sui quali doveva calibrarsi l'azione dello Stato italiano sia all'interno sia all'estero. Contrario alle imprese coloniali di stampo crispino, il De Angeli concepì, fin dagli esordi della sua attività imprenditoriale, la penetrazione dell'Italia in aree geografiche esterne come passo per la creazione di una vasta rete commerciale e di rifornimento di materie prime necessarie alla produzione nazionale. Nel 1879 era stato tra i soci fondatori della Società di esplorazione commerciale in Africa, il cui scopo primario si orientò sullo studio e la valorizzazione dell'Africa mediterranea. Tale valorizzazione doveva compiersi, secondo De Angeli, costituendo in loco società di esportazione con personale formato da giovani preparati sulle necessità e sui meccanismi della produzione nazionale. La Società si rivelò incapace di realizzare un simile progetto, paralizzata ben presto dalla mancanza di fondi e dalle opposizioni ministeriali, sicché nel 1884 De Angeli finì per dimettersi dal comitato direttivo. Quando, però, nel 1891 l'ingegnere Manfredo Camperio, che si era dimesso anch'egli lo stesso anno dalla Società di esplorazione commerciale e dalla direzione del periodico L'Esploratore, propose l'istituzione di un ente per il conferimento di borse biennali che permettessero ai migliori allievi degli istituti commerciali di far pratica all'estero, il De Angeli vi aderì prontamente sperando di realizzare finalmente la società di esportazione. Modificava però il progetto Camperio in tre punti: la sede dell'ente doveva essere Milano anziché Roma; esso doveva suddividersi in due sezioni, agricola e industriale; i borsisti dovevano espatriare previo apprendistato di due anni sul funzionamento e sulle necessità delle industrie italiane. Fallito anche questo tentativo per l'indifferenza del mondo imprenditoriale (lo stesso Camperio accusò il De Angeli di non aver sostenuto fino in fondo la sua iniziativa), migliore esito ebbe la Compagnia commerciale del Benadir allo scopo di coltivare cotone in Somalia ed esportarvi tessuti e di cui, anche qui, il De Angeli figurò tra i soci promotori insieme a Pirelli, Crespi, Amman e il sindaco di Milano Vigoni. Insieme al primo, il De Angeli diventò comproprietario del Corriere della sera nel 1895 facendo assumere, come redattore, grazie anche all'intervento di Luzzatti, Luigi Albertini. Convinto della capacità del giornalista, riuscì a portarlo alla direzione del giornale successivamente ai moti di Milano del 1898, durante lo stato d'assedio, dopo l'estromissione di Torelli-Viollier. La difesa delle prerogative imprenditoriali e l'opposizione alle ingerenze governative furono caratteri peculiari del quotidiano milanese anche durante il periodo giolittiano. L'amministrazione municipale, secondo il De Angeli, doveva essere guidata dalla borghesia economica attiva e modellare lo sviluppo e la vita della città secondo le esigenze della fabbrica e del suo sistema. Con questo spirito era stato eletto per la prima volta consigliere comunale nel 1885, intervenendo attivamente nei lavori dei Consiglio e delle commissioni (fece, tra l'altro, parte della commissione incaricata di studiare i termini dell'allargamento della cinta daziaria al circondario dei "corpi santi"). Personaggio di spicco dell'alta società milanese, membro della Società di incoraggiamento di arti e mestieri, del Museo commerciale di Milano, della Società industriale di Mulhouse, Rouen, Lilla e dell'Accademia industriale di Parigi, conservò la sua residenza a Milano in via della Maddalena, nel pressi del cotonificio, dove morì il 17 gennaio 1907.

3.11 Ernesto Breda (Campo San Martino (Pd), 1852 – Milano, 1918). A Padova, dove si era laureato in ingegneria civile, iniziò a lavorare come caposervizio della trazione e del materiale ferroviario presso la Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche del cugino Vincenzo Stefano Breda. Nel 1882, per incarico della Veneta Ferrovie, Breda aveva compiuto il primo di una serie di viaggi di studio e di informazione sull'organizzazione delle ferrovie in Germania, Olanda e Danimarca. Il rapporto redatto al termine del viaggio è uno dei primi documenti che permettano un raffronto tecnico tra le ferrovie italiane e quelle europee del tempo, tanto che l'allora ministro dei Lavori pubblici Baccarini sottolineò pubblicamente il valore dell'iniziativa e del rapporto. Furono certamente questi viaggi all'estero che gli permisero di valutare in tutta la sua gravità lo stato dell'industria meccanica italiana e la possibilità di intervenire nel settore. Ma egli dovette anche rendersi conto delle difficoltà di simili iniziative: così, quando decise nel 1885 di lasciare la Veneta, cercò di associarsi con la ditta Kessler di Esslingen, costruttrice di locomotive. Fallito il tentativo, nel 1886 decise di mettersi in proprio costituendo la società in accomandita "Ing. Ernesto Breda e C.". Rilevò così a Milano, fuori Porta Nuova, nella periferia della città, in una località detta Elvetica perché un tempo occupata da un convento di missionari svizzeri, una modesta fonderia di ghisa con annessa officina per lavorazioni meccaniche, creata nel 1846 dal francese Giuseppe Adolfo Bouffier. Breda riuscì, benché un pesante protezionismo favorisse solo la siderurgia, a espandere la propria attività industriale dirigendola da un lato verso la produzione bellica di proiettili (in particolare shrapnel) e cannoni da campagna (dal 1888) richiesta dallo Stato, dall'altro specializzandosi in una produzione meccanica - quella delle locomotive - quasi del tutto assente nell'industria italiana e che per le condizioni del mercato interno ed europeo, aveva grandi prospettive di espansione. A questo scopo Breda aveva iniziato la trasformazione dello stabilimento facendovi lavori di ampliamento e di riorganizzazione, dotandolo di nuovi impianti, creando reparti appositi di lavorazione per renderlo indipendente dai subfornitori. Le condizioni nel 1886 dell'industria metalmeccanica italiana, specie per la costruzione di locomotive, furono così riassunte in un memoriale della Società del 1895: "L'industria meccanica in Italia, si può dire non dati da oltre una decina d'anni, giacché quantunque in quell'epoca già esistessero stabilimenti, anche di qualche importanza, che s'occupavano di costruzioni meccaniche, essi erano tuttavia insufficienti e per mezzi e per mancanza di giusti criteri organici, a dare all'industria quell'ordinamento che i bisogni del nostro paese ed in confronto coi notevoli progressi fattisi fuori d'Italia reclamavano". Si aggiungano le difficoltà che la legislazione italiana creava imponendo dazi elevatissimi all'importazione sia di macchine sia di parti di macchine. Nel 1885 però la convenzione ferroviaria aveva fatto obbligo alle società esercenti linee ferroviarie di acquistare prodotti dell'industria italiana fino alla differenza del 5% in più rispetto al prezzo straniero, offrendo così un primo incentivo alla metalmeccanica specie delle locomotive. Tuttavia, più che nell'appoggio di simili misure legislative, le ragioni per cui Breda avviò la sua fabbrica proprio alla vigilia della nuova gravosa tariffa del 1887 consistono nella previsione che un'industria di locomotive in Italia avrebbe avuto un mercato interno sufficientemente vasto per i primi anni di avvio e che gli alti costi iniziali non avrebbero inciso sui prodotti nazionali più di quanto incidessero gli altissimi costi di trasporto delle locomotive straniere. Inoltre dovette essere di un certo peso nella decisione anche il fatto che la vecchia Elvetica ora "Cerimedo e C.", che insieme con la Grondona era la maggiore industria meccanica milanese del tempo, aveva risentito fortemente della crisi del 1884 e, costretta a licenziare 156 dei suoi 600 dipendenti, non si era ripresa ed era entrata in pratica in liquidazione. Quando Breda aveva rilevato la "Cerimedo e C.", lo stabilimento poteva contare non solo su una manodopera addestrata da anni, ma specializzata proprio nella costruzione e nel montaggio di locomotive. Infatti l'antecedente "Bamat e C." nel 1887 aveva iniziato la costruzione di alcune locomotive di cui la prima fu destinata alla ferrovia Milano-Vaprio, mentre la "Cerimedo e C." aveva intrapreso la fabbricazione di caldaie e di pezzi di locomotive. Breda provvide alla sostituzione del vecchio con nuovo macchinario, in parte americano, e specializzò la produzione della fabbrica nelle locomotive. Nel 1891, con la vincita della prima asta per la fornitura di 22 locomotive alla Romania, la società entrava d'autorità nel consesso europeo fino allora dominato dalle industrie tedesca e inglese, uniche valide concorrenti all'industria americana delle locomotive. Assunse occasionali forniture di carri e carrozze per ferrovie e tramvie, e specialmente, previsto l'intensificarsi ed il meccanizzarsi delle lavorazioni agricole, mise in costruzione locomobili e trebbiatrici diversificate in base alle varie esigenze regionali. Il particolare regime doganale interno e la concorrenza settoriale estera non concedevano margini all'industria metalmeccanica italiana, costringendola a contare solo sulla qualità dei prodotti. Puntando perciò su questo obiettivo, Breda attuò un programma di qualificazione e aggiornamento dei propri tecnici, inviando per esempio nel 1899 una commissione di ingegneri e tecnici negli Stati Uniti per visitare le più importanti fabbriche metalmeccaniche americane. Lo stesso anno, essendo l'impresa ormai affermata e in continua espansione, Breda ne decideva la trasformazione in società anonima. Il 19 dicembre 1899, questa assumeva la ragione sociale di "Società italiana Emesto Breda per costruzioni meccaniche". L'atto costitutivo della società in accomandita semplice "Ing. Ernesto Breda e C." era stato firmato a Milano il 6 novembre 1886. Il capitale iniziale, di lire 1.200.000, circa due anni dopo, il 28 febbr. 1888, passava a 1.500.000. Oggetto della società erano: "le costruzioni meccaniche e più specialmente la costruzione di locomotive, locomobili, caldaie a vapore, materiale fisso e circolante per ferrovie, tranivie". Manca ogni indicazione relativa alla produzione bellica, che sarà introdotta al momento del cambiamento della ragione sociale da accomandita semplice a "Società anonima Ernesto Breda per costruzioni meccaniche". La nuova società infatti, che si dà una durata di trenta anni, si dedicherà a "costruzioni di macchine di qualsiasi specie; e di materiale per ferrovie, tramvie, artiglierie e marina". I nuovi aspetti della politica aziendale e sociale furono affrontati in primo luogo attraverso il raggruppamento sindacale degli interessi industriali: il 9 settembre 1898 Breda partecipava alla riunione costitutiva del Consorzio fra gli industriali meccanici e metallurgici. In seguito, anche sotto la spinta dell'organizzazione e della propaganda del movimento operaio, egli prenderà una serie di iniziative. Nel 1906 fece istituire uno dei primi fondi di previdenza e risparmio per gli impiegati; nel 1908, in occasione della consegna della millesima locomotiva, anticipando di dodici anni la legislazione sul lavoro, istituì una settimana di ferie per gli operai con cinque e più anni di anzianità. Nel 1910 costruì per primo a Milano case per i suoi lavoratori. L'iniziativa veniva incontro a un orientamento, oramai prevalso, di assistenza e di agevolazioni tali da permettere un più agile controllo e un più razionale impiego di quella manodopera che affluiva a Milano da tutta la Lombardia e da altre regioni, e che aveva posto con la sua presenza massiccia seri problemi politici e sociali agli amministratori milanesi. Nel 1903 egli acquistava terreni edificabili nei comuni di Niguarda e di Sesto San Giovanni. Lo stabilimento di Milano nel 1895 aveva già un'area di mq 35.617, dei quali 24.730 coperti, area che nel 1900 era diventata di 45.000 e 35.000 mq, rispettivamente. L'occupazione era passata dai 400 dipendenti del 1887 ai 2.000 nel 1889, poi, superato un periodo di crisi ai primi del '90, nel 1895 aveva raggiunto di nuovo gli 800 dipendenti, e i 1.200 nel 1898. Ancora una flessione dell'occupazione nel biennio 1901-1902 (da 3.500 a 2.800 occupati), poi, nel 1904, di nuovo un aumento, a circa 4.000. L'acquisto dei terreni e l'inizio dei lavori per le nuove officine lo costrinsero a ricorrere, nel 1904, all'emissione di obbligazioni per lire 4.000.000, curata, come le altre successive operazioni finanziarie della società, dalla Banca commerciale italiana. Il trasferimento nelle nuove officine permise la realizzazione di un progetto amministrativo di notevole importanza per quel tempo (1907), e cioè la separazione amministrativa dei tre stabilimenti di Milano, Sesto e Niguarda coordinati da una direzione generale. Comportò anche problemi di alleanze tra gruppi industriali e finanziari: dal 1911 compaiono nel Consiglio di amministrazione, tra gli altri, Giuseppe Orlando e Giuseppe Balduino. La produzione di locomotive per il mercato nazionale ebbe questo andamento: 1887, 21 locomotive; 1888, 24; 1889, 49; 1890, 27; 1891, 13; 1892, 43; 1893, 48; 1894, 21. Tra il 1895 e il 1897 non vi furono ordinativi da parte delle maggiori società ferroviarie italiane. Nel 1899 però la "Strade ferrate del Mediterraneo" ne ordinava 131, e 78 la "Adriatica" nel biennio 1898-1899. Un notevole ampliamento produttivo si ebbe a partire dal 1904, da quando, cioè, si seppe con certezza che la nazionalizzazione delle ferrovie italiane sarebbe avvenuta l'anno successivo e che quindi lo Stato avrebbe ripreso la politica del rinnovo e dell'ampliamento del parco macchine e vagoni ferroviari. Difatti nel solo quadriennio 1905-1908 furono ordinate alla produzione italiana ben 1.050 locomotive. L'ordinativo alla Breda nel solo 1908 ammontò a 120 unità. Gli effetti della produzione della società si fecero sentire presto sulle importazioni dall'estero di locomotive e parti di locomotive; dai 70.000 q d'importazione per un importo di lire 7.500.000 nel 1888, si passò a 4.000 q nel 1891 ed a 3.000 nel 1895 per un valore di circa lire 300.000. Le prime esportazioni, oltre alla Romania (22 locomotive), toccarono la Società belga delle ferrovie (5), lo Stato serbo e la Danimarca. Nel 1908 l'esportazione all'estero assommava a 137 locomotive. Nel 1908 la società festeggiava la consegna della millesima locomotiva costruita nelle proprie officine. In quel momento la Breda occupava un'area di 456.000 mq, dei quali 95.000 coperti: aveva alle proprie dipendenze 4.500 operai che, uniti ai 4.000 cavalli di forza motrice installati e alle 1.400 macchine utensili, davano un rapporto tra capitale costante e forza lavoro tra i più elevati in Italia. Dal 1908 al 1914 la Società procedette a un regolare sviluppo della produzione ampliando contemporaneamente, secondo piani sistematici, gli stabili di Sesto San Giovanni e costruendovi nuove officine. La continuità e la sistematicità degli indirizzi di politica produttiva possono essere desunti anche da un altro parametro: dalla sua presenza nei consigli d'amministrazione di altre industrie. Breda compare come consigliere della ditta di trasporti "Innocenti Mangili" (Milano, capitale 3.500.000), della "Vagoni frigoriferi" (Milano, 500.000), della "Società italiana Langen e Wolf" (Milano, 4.000.000), della "Quartiere industriale Nord-Milano" (Milano, capitale 5.000.000); come vicepresidente della "Società umbro-marchigiana per l'esercizio dell'industria agricola" (Perugia, 2.000.000); come presidente della "Società italiana per commercio delle macchine ed istrumenti agrari" (Piacenza, 2.250.000). Alla vigilia della prima guerra mondiale la struttura organizzativa della società era in condizioni di poter non solo sopperire alle nuove richieste, ma anzi di diventare uno dei punti di forza della industria strategica. Scoppiato il conflitto, Breda si adoperò con grande energia nella immediata trasformazione delle officine di Sesto e di Niguarda in proiettifici, pur conservando in efficienza lo stabilimento per la riparazione delle locomotive e una parte dello stabilimento per la costruzione dei carri ferroviari, poiché il materiale di trazione e quello mobile ferroviario erano altrettanto necessari alla condotta della guerra quanto armi e munizioni. Il resto degli impianti venne radicalmente trasformato in vero e proprio arsenale, destinato alla fabbricazione dei macchinari necessari alla produzione bellica non più reperibili in quel periodo sui mercati stranieri. Lo stabilimento di Milano fu convertito in fabbrica di macchine utensili e, più tardi, in fabbrica di cannoni, obici e mortai, e infine di siluri. Affrontò inoltre il problema dell'integrazione del ciclo produttivo, avviando a Sesto la sezione siderurgica con due forni Martin Siemens e un treno laminatoio, operativi tra il 1915 ed il 1916. Nel biennio 1917-1918 la sezione siderurgica produsse 40.000 tonnellate di acciaio per armi e munizioni. Intanto, poiché la guerra sottomarina rendeva più accentuate le già gravi difficoltà del rifornimento di carbone, egli si indirizzò allo sfruttamento del potenziale energetico idrico, mirando a produrre l'acciaio anche con forni elettrici. Vennero valorizzati così dapprima piccoli impianti idroelettrici sulle pendici del monte Rosa, poi, sui progetti dell'ing. A. Omodeo, fu approntato nel 1917 l'integrale sfruttamento idroelettrico del bacino della valle del Lys. Nell'ultimo periodo della guerra la società avviò nuove costruzioni, quali le navali (cantieri di Venezia), e, su licenza, velivoli (il Caproni 600) e motori Fiat d'aviazione, toccando una produzione mensile di circa 100 grandi aeroplani. L'organizzazione e l'efficienza degli impianti e la manodopera qualificata permisero alla Breda di sfruttare al massimo le opportunità offerte dalla guerra, senza però dover ricorrere, almeno nelle misure in cui vi ricorsero altre industrie, a mastodontici ampliamenti delle strutture produttive prebelliche, il cui ammortamento non fu sempre coperto dai profitti di guerra e che, spesso, portarono quelle società al fallimento. Questa conduzione dell'impresa è confermata indirettamente dall'inchiesta per le spese di guerra, che non accertò nessuna irregolarità a carico della Breda. .L'apporto della società al complesso della produzione bellica, a cui Breda destinò soprattutto le officine di Sesto e di Niguarda, divenute in pratica dei proiettifici, fu il seguente: 3.000.000 di proiettili di piccolo calibro; 2.700.000 di medio; 300.000 di grande; 100.000 bombe per aviazione; 1.600 accumulatori d'aria per la marina; 687 mortai da 210 mm; 480 obici da 149 mm; 680 siluri; 700 motori d'aviazione. Vennero anche prodotti una gran quantità di affusti per cannoni, parti di ricambio per motori, e circa 2.000 carri ferroviari. La guerra offrì un'altra opportunità a Breda per lo sviluppo della propria impresa, cioè la diffusione della motoaratura per proprietari privati e per i terreni demaniali con concorso o a carico dello Stato, data la scarsità di manodopera agricola maschile. Si ebbe infatti l'espansione dell'industria delle macchine agricole, settore al quale egli aveva destinato prima della guerra lo stabilimento di Niguarda. Egli infatti non trascurò una direttiva strategica di sviluppo aziendale tale che gli permettesse di inserirsi in una prospettiva a lungo raggio dell'evoluzione della meccanica e di riconversione dell'industria bellica. Proprio negli anni della guerra, avviò studi e ricerche per la costruzione di locomotive elettriche, presto tradotti in un'officina di produzione. Nel giugno del 1917 esponeva pubblicamente il progetto di un istituto scientifico-tecnico per lo studio dei problemi siderurgici e metallurgici e per le inerenti ricerche scientifiche, che cinque anni dopo, nel 1922, cominciò a funzionare come "Istituto scientifico-tecnico Ernesto Breda". Nell'annunciare il suo progetto, egli ripeteva il motivo dell'emancipazione dell'Italia dall'industria, straniera, ma sottolineava significativamente che si voleva "... fondare sopra salde basi scientifiche un'industria forte...". Alla fine del 1918 l'area complessiva di tutti gli stabilimenti era di 3.000.000 di mq (Milano 45.000 mq; Sesto e Niguarda 925.000 mq; cantieri aereonautici 1.500.000 mq), di cui 315.000 coperti. La potenza motrice installata era di 20.000 cavalli, azionante 1.400 macchine utensili; la manodopera occupata era di circa 10.000 tra operai, impiegati e tecnici. Il capitale, già portato a 25 milioni nel 1917, subiva nel 1918 due aumenti, prima a 50, poi a 100 milioni.
Morì a Milano il 6 novembre 1918, colpito da malore nella sede del Comitato di mobilitazione, mentre ascoltava il bollettino della vittoria. Egli era stato fatto cavaliere del lavovo il 17 dicembre 1905.

3.12 Franco Tosi (Villa Cortese 1850 - Legnano 1898). Nacque a Villa Cortese, ma si trasferì a Legnano nel 1876 dopo un periodo di tirocinio in Germania, quando venne assunto da Eugenio Cantoni alla Cantoni-Krumm. Erede di una agiata famiglia di proprietari terrieri originaria di Busto Arsizio, nel 1868 si iscrive al Politecnico di Zurigo, conseguendo la laurea in ingegneria meccanica nell’agosto del 1872. Nei tre anni successivi intraprende un percorso di perfezionamento che lo porta prima in Inghilterra e, successivamente, in Germania. Nel marzo del 1876 rientra in Italia e accetta l’incarico di direttore tecnico della Cantoni-Krumm e C., un'impresa meccanica costituita l’anno prima a Legnano da un gruppo di imprenditori attivi nella zona dell’Alto Milanese, fra cui spicca l’industriale cotoniero Eugenio Cantoni. Negli anni successivi, Tosi spinge l’impresa ad abbandonare progressivamente l’originaria specializzazione nella produzione di macchinari per l’industria tessile e ne indirizza l’attività verso la progettazione e la costruzione di macchine motrici e caldaie a vapore. Alla guida di questa azienda sviluppò i motori a vapore 3 HP (1877) e 40–50 hp Ryder (1881) L’intuizione è coronata dal successo: i primi modelli sono presentati all’Esposizione Universale di Milano nel maggio del 1881 e incontrano un generale apprezzamento da parte degli esperti del settore, che guardano con favore all’idea di una produzione italiana di macchine a vapore capace di sostituire l’importazione dall’estero. Nel novembre del 1881 Tosi costituisce insieme a Eugenio Cantoni una nuova società in accomandita, la Franco Tosi e C., al fine di rilevare lo stabilimento di Legnano della Cantoni-Krumm. Tra il 1882 e il 1885 Tosi porta avanti un piano di espansione e riorganizzazione dell’impianto, che prevede l’acquisto di nuove macchine utensili – torni, trapani, frese – di fabbricazione tedesca e americana e l’assunzione di diverse decine di tecnici e operai specializzati stranieri. L’aumento della produzione viene facilmente assorbito dal mercato italiano, grazie anche alla decisione di Tosi di offrire modelli di macchine a vapore e caldaie simili a quelli già esistenti in commercio, e quindi già noti alla clientela, ma a prezzi più bassi. La consacrazione definitiva per il giovane imprenditore arriva con l’Esposizione industriale svoltasi a Torino nel 1884, dove la Franco Tosi presenta una macchina a vapore da 200 cavalli, una delle più grandi mai costruite in Italia. Fra il 1884 e il 1886 il fatturato derivante dalla vendita di caldaie passa da 272.000 a 474.000 lire, mentre quello delle macchine a vapore aumenta più lentamente, passando da 176.000 a 273.000 lire, ma arriva già nel 1888 a superare la cifra di 681.000 lire. All’inizio degli anni Novanta la Franco Tosi è ormai diventata una grande impresa: lo stabilimento di Legnano impiega oltre 700 operai, occupa una superficie di 95.000 mq ed è in grado di produrre annualmente circa 120 macchine motrici e 150 caldaie a vapore. La crescita dimensionale impone notevoli cambiamenti anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro. Tosi, al pari di altri imprenditori della sua generazione, deve affrontare il problema di formare una nuova generazione di operai specializzati adatti alla “disciplina di fabbrica”, imperniata sul rispetto di orari fissi e sull’accettazione della monotonia e della ripetitività delle mansioni lavorative. Nel suo caso, l’incentivo offerto per vincere le resistenze degli operai, oltre a salari più alti, prevede una serie di misure assistenziali: una scuola serale per gli operai, una mensa e uno spaccio aziendali, la costruzione di abitazioni per impiegati e operai, tra le altre. Nel maggio del 1894 Tosi rileva le quote della società in possesso degli eredi di Eugenio Cantoni, morto alcuni prima. Rimasto l’unico proprietario, l'imprenditore può indirizzare lo sviluppo della Franco Tosi verso un nuovo settore in forte crescita – l’elettromeccanica – in cui l’azienda era entrata con tempestività già dal 1888: allora era stata avviata la commercializzazione di una speciale motrice a vapore, progettata dallo stesso Tosi per attrezzare le centrali termoelettriche in costruzione in diverse città italiane e in un numero crescente di stabilimenti industriali. Le motrici Tosi diventano in poco tempo uno dei prodotti più apprezzati dalle imprese elettriche a livello internazionale e vengono esportate con successo in Europa e in Sud America. La scelta vincente in questo caso è il rapporto di collaborazione creato da Tosi con le imprese elettrotecniche tedesche, fra cui spiccano la Siemens, la AEG e la Schuckert, che fino alla prima guerra mondiale godranno di una posizione di egemonia sul mercato italiano. Già nel 1895 il fatturato dell’impresa raggiunge così i 3,8 milioni di lire, una cifra pari a più del doppio di quella dell’anno precedente, e aumenta ancora in maniera significativa negli anni seguenti. Il successo imprenditoriale conquistato da Tosi gli guadagna i primi riconoscimenti pubblici: nel 1894 viene nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, e l’anno successivo commendatore. Nel 1896 viene eletto al Comune di Legnano e gli viene assegnato l’incarico di assessore ai Lavori pubblici. Franco Tosi muore alla fine del 1898, assassinato nei pressi dello stabilimento di Legnano da un operaio, ma la sua opera proseguì con il grande successo che riscosse la sua creatuta la Franco Tosi, fino al lento declino seguito al referendum sul nucleare del 1987.
La Franco Tosi.
Nata come Cantoni-Krumm nel 1874, nel 1881 prese il nome di "Franco Tosi". Il primo motore che fu sviluppato dall'impresa fu uno di 2,2 kW. Nel 1881 seguì il Ryder da 30-37 kW. La Franco Tosi sviluppò nel 1904 il primo motore a vapore con potenza superiore a 6 MW e nel 1907 l'azienda di Legnano iniziò, prima in Italia, a realizzare industrialmente motori diesel. Prima dello scoppio della prima guerra mondiale alla Franco Tosi lavorò Ettore Maserati, uno dei fondatori della Maserati. Ricopriva il ruolo di ingegnere capo per lo sviluppo dei motori. Nel 1914 la Franco Tosi impiantò dei cantieri navali a Taranto. I sommergibili costruiti in questo arsenale furono i primi al mondo a raggiungere una profondità di immersione di 75 m. Negli anni trenta la Franco Tosi fornì i macchinari necessari (turbine, motori Diesel, caldaie, ecc.) all'attivazione della Centrale Montemartini di Roma. Questa centrale fu il primo impianto pubblico di produzione elettrica della Capitale. In questi anni furono assunti Felice Musazzi e Tony Barlocco, che in seguito fondarono la compagnia teatrale dialettale I Legnanesi. Dopo la seconda guerra mondiale, per commercializzare a livello mondiale le turbine nel campo nucleare e i generatori di vapore, la Franco Tosi iniziò a collaborare, rispettivamente, con le aziende americane "Westinghouse Electric Corporation" e "Combustion Engineering Company". In particolare la Franco Tosi divenne licenziataria per l'Italia delle centrali nucleari PWR (Pressurized Water Reactor) e delle turbine Westinghouse. Negli anni settanta, nel periodo di maggior sviluppo, l'impresa legnanese impiegava circa 6.000 lavoratori. La crisi iniziò nella seconda parte degli anni ottanta a causa del referendum sulla localizzazione delle centrali nucleari in Italia, che portò a un vistoso calo degli ordini dei componenti per questo tipi di impianti. Negli anni settanta ebbi il piacere di visitare la Franco Tosi di Legnano in merito a problemi inerenti l'erosione delle palette delle turbine a vapore. Negli anni novanta la Franco Tosi passò di proprietà. Il controllo della società passò infatti all'Ansaldo. Nel 2000 il "Gruppo Casti" acquistò da Finmeccanica l'azienda legnanese. Nell'occasione la società cambiò nome in "Franco Tosi Meccanica S.p.A.". Al 2001 la potenza totale installata negli impianti prodotti dalla Franco Tosi ammonta a circa 75 GW. Nel giugno 2009 la Franco Tosi viene acquistata dalla società indiana Gammon Group, specializzata in opere civili. Il 25 luglio 2013 il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza per l'impresa a cui ha fatto seguito la decisione di porre la società in amministrazione straordinaria. Il 9 giugno 2015, a conclusione della procedura di cessione, il gruppo Presezzi ha acquistato il ramo d'azienda relativo alla gestione caratteristica della Franco Tosi Meccanica che comprende, tra l'altro, tutti i beni strumentali destinati all'attività d'impresa (impianti, macchinari, attrezzature), il marchio "Franco Tosi", i brevetti e ogni altro diritto di proprietà industriale e intellettuale, il know-how e tutta la documentazione tecnica, tra cui l'archivio disegni e, infine, tutti i lavori in corso e il portafoglio ordini.

3.13 August Abegg (Zurigo 1861 - Torino, 1924) Figlio di Charles Abegg, banchiere e imprenditore tessile svizzero, Consigliere d’amministrazione della Banca commerciale italiana (e in seguito Vicepresidente dell’istituto). Compie gli studi prima a Zurigo e poi a Ginevra, dove frequenta le scuole di commercio e a 18 anni si trasferisce in Italia. Nel 1880 fonda a Borgone di Susa, in provincia di Torino, insieme con il connazionale Emilio Wild, un tecnico esperto in filatura, il cotonificio Wild e Abegg, che si specializza nella produzione di filati. Nel 1886 i due soci impiantano un nuovo stabilimento a Bussoleno per la produzione di filati più fini. Nel 1893 avviano poi l’attività in una nuova fabbrica, nei pressi di Torino, che, dotata di macchinari moderni, produce filati finissimi, in grado di far concorrenza ai prodotti dell’industria cotoniera inglese. Alla fine del secolo negli stabilimenti del cotonificio Wild e Abegg sono impiegati circa 1.700 operai. Nel 1906, con un capitale di 10.000.000 di lire e una manodopera di 2.112 addetti, i due soci danno vita alla società anonima Cotonificio Valle Susa. Presto Wild se ne distacca e viene sostituito nella società dal fratello di August Abegg, Carl. La vicenda imprenditoriale di Abegg richiama l’importanza del flusso migratorio di imprenditori stranieri che giungono in Italia nel secondo Ottocento e contribuiscono, per i loro legami con gli ambienti economici di origine e la capacità di creare nuove relazioni nelle regioni di insediamento, ad agevolare l’afflusso di capitali privati e di banche tedesche e svizzere, e a realizzare la prima fase del processo di concentrazione finanziaria e di aggiornamento tecnico degli impianti negli anni del decollo industriale italiano. Al finanziamento dell’impresa, infatti, provvedono istituti di credito di primaria rilevanza, come la Banca commerciale italiana e il Crédit suisse. Abegg si presenta inoltre come esponente della nuova leva imprenditoriale torinese che alla fine dell’Ottocento ha impresso un forte dinamismo all’economia regionale: è consigliere dell’Associazione cotoniera fin dalla costituzione nel 1883, mentre nel 1906 contribuisce alla fondazione della Lega industriale di Torino, prima organizzazione sindacale degli imprenditori italiani. Il Cotonificio Valle Susa diventa uno dei gruppi di maggiore rilievo dell’industria tessile italiana all’inizio del secolo e svolge un ruolo determinante nel trasformare la valle piemontese in un’area ad alta intensità di industrializzazione, legandone l’evoluzione proprio allo sviluppo dell’impresa guidata da Abegg. Dopo l’impianto degli stabilimenti a Sant’Antonino, Pianezza, Borgone e Bussoleno, Abegg spinge l’espansione della società anche nel Canavese, con gli impianti di Mathi, Rivarolo, San Giorgio e Strambino, mentre a Rivoli decide la localizzazione della tintoria, della tessitura, del finissaggio e di una centrale termica. In seguito alla crisi di sovrapproduzione del 1908-1913, la società Cotonificio Valle Susa si orienta all’esportazione, indirizzandosi soprattutto verso il bacino del Mediterraneo e l’Est europeo. Nel 1920 Abegg espande i suoi interessi di imprendiore cotoniero al Pinerolese, entrando nella proprietà della filatura per la produzione di titoli fini Jenny e Ganzoni di Perosa Argentina, e creando complessi fortemente specializzati a Collegno, Lanzo, Pessinetto e Pianezza. Nel quadro della crisi che nel 1920-22 colpisce l’industria tessile italiana, il settore cotoniero piemontese riesce a evitare i contraccolpi peggiori, perché i maggiori imprenditori della regione come Abegg, Wild, Mazzonis, Garbagnati procedono ad ammodernare gli impianti e imprimono un andamento dinamico alle esportazioni, favorite dalla qualità del prodotto e dal costo relativamente basso della manodopera. Consolidata la sua posizione nel comparto cotoniero, durante la Prima guerra mondiale Abegg comincia a volgere l’attenzione anche ai settori industriali nuovi, come quello elettrico, e agli ambienti finanziari interessati alle combinazioni societarie emergenti: prende parte, insieme con Ercole Marelli, alla fondazione della Società elettrotecnica italiana, costituita con un capitale di 2.500.000 lire, per la costruzione di macchinari elettrici, impianti per il trasporto della forza a distanza, impianti di illuminazione e motori per trazione elettrica; figura tra i principali azionisti della Società per lo sviluppo delle imprese elettriche, creata durante la guerra, nel luglio 1916, per acquisire i titoli di società elettriche appartenenti alla Continentale Gesellschaft e ad altre società straniere; è presente inoltre nei consigli di amministrazione di sette tra le maggiori società elettriche dell’area lombarda-piemontese e, a partire dall’esercizio 1922-1923, in quello della Snia Viscosa, in cui fornisce un forte appoggio all’operato dell’azionista di maggioranza e presidente della società, Riccardo Gualino; fra le cariche ricoperte dall’imprenditore figura infine quella di consigliere di amministrazione della Sip, oltre alla vicepresidenza della Società elettricità Alta Italia e della Società forze idrauliche del Moncenisio. Poco prima della morte, avvenuta a Torino alla fine del 1924, Abegg entra a far parte del consiglio di amministrazione del Credito italiano. Prima del Dopo Guerra, nel 1947 la famiglia Abegg ha venduto le sue azioni a un imprenditore italiano di Legnano di nome Giulio Riva, che già possedeva una serie di aziende tessili cotoniere (Unione Manifatture, Cotonificio Olcese e Cotonificio C. Dell'Acqua). Giulio Riva morì nel 1959 a causa di alcune complicazioni seguite da un'operazione medico-chirurgica, giudicata in principio non di grande rilevanza. Il figlio di Giulio, Felice Riva (1935-2017) detto "Felicino" o anche "delfino della finanza" o semplicemente "biondino", fece precipitare la fabbrica in alcune speculazioni finanziarie ad alto rischio. Il 20 settembre 1960 iniziò poi una vertenza sindacale portata avanti dalle maestranze femminili dell'impresa che si concluse soltanto cinque mesi dopo ed il 18 febbraio 1961 con la firma di un accordo sindacale che prevedeva l'aumento dei salari e l'introduzione del premio aziendale di produttività. La vertenza, iniziata senza sospetti, si trasformò tuttavia in una dura contrapposizione, a causa del rifiuto opponente ad ogni trattativa di Felice Riva. Le dimostranti sindacali ricevettero l'appoggio dei metalmeccanici aderenti alla Fiom e alla Fim. Nel 1969 l'azienda entrò in fallimento, a causa della spregiudicata gestione della proprietà Riva, lasciando senza lavoro i circa 8.000 dipendenti del gruppo industriale. La gestione del gruppo passò alla società E.T.I. Vallesusa che portò a termine la difficile ristrutturazione aziendale. Nella società, inizialmente con una forza lavoro composta dalle maggiori aziende italiane, rimase isolata la fabbrica Montefibre, attraversata anch'essa da un importante ristrutturazione aziendale

3.14 Giovanni Agnelli Sr (Villar Perosa, 1866 – Torino, 1945) Nato Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Lorenzo, nel 1866 in una famiglia di proprietari terrieri nel comune di Villar Perosa, venne iscritto al collegio San Giuseppe per la sua formazione e in seguito avviato alla carriera militare presso l'Accademia militare di Modena, dove conseguì il grado di ufficiale di cavalleria iniziando la sua carriera nel Savoia Cavalleria, ma ben presto il giovane Agnelli avvertì un sempre più crescente disinteresse per la vita militare, perché era instancabilmente attirato dai progressi tecnologici, che a poco a poco, grazie anche alla diffusione delle idee positiviste nell'Europa della Belle Epoque, risvegliavano in lui il desiderio d'intraprendere una carriera dedita interamente alla produzione di nuovi mezzi tecnologici. Nel 1889 sposò Clara Boselli e dal matrimonio nacquero due figli: Edoardo e Aniceta Caterina. La saga degli Agnelli, la centenaria storia della Fiat, è grande e terribile. Fiat, nasce come Fabbrica Italiana di Automobili Torino, il primo luglio 1899, quattro anni prima che Henry Ford fondasse la sua società nel Michigan. Il fondatore è Giovanni Agnelli, quella Fiat nata nell'ultimo anno del secolo e fondata insieme al conte Emanuele Bricherasio di Cacherano doveva significare la svolta della sua vita e del suo destino, da ufficiale di cavalleria a ferreo capitano d'industria. Non mancavano infatti a Giovanni Agnelli, spregiudicatezza, talento, energia, denaro. La piccola fabbrica torinese decolla subito, «fin quasi dall'inizio la Fiat diventò famosa e gli affari non tardarono a prosperare», scrive Alan Friedman nel suo "Tutto in famiglia". Nel 1903 la società produce solo 103 automobili piccole e con piccoli motori; ma nel 1906 la produzione si è già moltiplicata per otto, già 30 auto sono esportate in Inghilterra e Giovanni Agnelli ha già praticamente fagocitato gli altri soci. Nel 1908 un grosso scandalo travolge la Fiat, costringendo alle dimissioni sia Giovanni Agnelli che tutto il consiglio di amministrazione. «Il procuratore di Torino accusa Agnelli e compagni - è sempre Friedman - di una serie di reati finanziari che includevano la diffusione di notizie di borsa falsamente ottimistiche per far salire il prezzo delle azioni Fiat, manovre di borsa fraudolente, falsificazione del bilancio 1907, col risultato complessivo di arricchirsi a spese dei piccoli azionisti». Ci fu un processo, naturalmente, all'epoca clamoroso: ma Agnelli esce assolto sia in primo che in secondo grado; a difenderlo è sceso in campo Vittorio Valletta, un nome di cui si sentirà molto parlare alla Fiat. A far pendere la bilancia dalla parte di Agnelli dà una consistente mano lo stesso governo, nella persona dell'allora ministro della Giustizia, Orlando, che arriva a inviare una lettera alla Procura generale di Torino, chiedendo un'accelerazione dell'istruttoria. "Inesistenza di reato", questa la sentenza definitiva, Agnelli può riprendere la sua corsa.
Gli industriali dell'auto si organizzano, in vista delle lotte operaie che si profilano all'orizzonte. La più grande rappresentanza sindacale è la Fiom, nelle fabbriche metalmeccaniche della cintura torinese e soprattutto negli stabilimenti Fiat, è concentrata una classe operaia politicizzata e fortemente sindacalizzata. Ma il padronato non è da meno. «Nel 1911 le nove società del gruppo automobilistico - scrive Castronovo nel libro citato - contavano un capitale di 23.475. 000, di cui 14 milioni controllati dalla Fiat, che assorbiva ampie quote della manodopera specializzata. I 6.500 operai che avevano trovato lavoro nelle fabbriche dell'automobile, figli e nipoti dei vecchi "arsenalotti" o gente immigrata di recente dalle vicine vallate, erano circa un quarto delle maestranze torinesi occupate nella meccanica; e di essi oltre la metà era composta dai dipendenti della società di corso Dante». Questa la situazione alla vigilia dei primi scontri operai. Anche se godono di salari più alti rispetto ad altre categorie e rappresentano una élite "privilegiata", le condizioni degli operai dentro l'universo Fiat sono al di là della sopportazione. Giovanni Agnelli ha i guanti bianchi e il pugno di ferro . Di sua iniziativa promuove (1911) il Consorzio delle fabbriche di automobili, che pretende di imporre un contratto che, tra l'altro, imponeva l'abolizione delle commissioni interne, la facoltà di licenziamento senza preavviso, la soppressione di ogni tolleranza sull'orario. In cambio delle mani libere e del completo controllo sugli operai, si offriva un esiguo aumento salariale, la riduzione dell'orario settimanale a 55 ore e mezza, da 70 che erano, e il "sabato inglese". Gli operai non ci stanno, sconfessano l'accordo che è stato sottoscritto dalla Fiom e il 18 gennaio 1912 proclamano uno sciopero durissimo, destinato a durare 64 giorni. Finirà con un compromesso. L'anno successivo, di fronte a un altro sciopero proclamato il 13 marzo 1913, la Fiat, insieme agli altri industriali del ramo, decide «la serrata di tutti gli stabilimenti metallurgici».
La guerra beve sangue ma è manna per le casse della Fiat. Affari in grande stile, e pingui guadagni. Grazie alle entrature giolittiane, fioccano le commesse nel settore militare. Veicoli ed equipaggiamenti militari, per l'occasione è prodotto anche il primo motore aereo, un modello da 50 cavalli. E saranno ben apprezzati dai militari gli autocarri leggeri, particolarmente adatti all'impresa nel deserto libico. La prova libica è il viatico, il lasciapassare per un posto di prim'ordine nella industria della guerra: perché è ormai alle porte la Prima Guerra Mondiale. La Fiat è il primo beneficiario; particolarmente apprezzata la sua produzione di esplosivi e soprattutto di mitragliatrici, 100 pezzi al mese già ai primi del 1915. Una "macchina da guerra". Dal settembre 1915, la Fiat è infatti entrata a far parte degli stabilimenti "ausiliari", Torino e le sue fabbriche metallurgiche sono considerate zona di guerra, la Fiat va a pieno ritmo sfornando cannoni e mitraglie e imponendo nuovi micidiali ritmi di lavoro. I profitti furono ottimi. Quando la Prima Guerra Mondiale finisce nel 1918, in Europa si contano 9 milioni di morti e 6 milioni di feriti. Ma per la Fiat è stato fantastico. In Italia, come si sa, vengono chiamati alle armi 5.900.000 uomini (600 mila morti, 600 dispersi, un milione di feriti), le spese di guerra arrivano a raggiungere il 76 per cento della intera spesa pubblica, vengono prodotti 12 mila pezzi di artiglieria e oltre 70 milioni di proiettili, 37 mila mitragliatrici e 12 mila aeroplani. La Fiat realizza utili di bilancio dell'80 per cento, i suoi dipendenti si moltiplicano per dieci (da 4000 a 40 mila) e il suo capitale dai 17 milioni del 1914 passa ai 200 milioni del 1919: alla fine della guerra la società di corso Dante è balzata dal trentesimo posto nella graduatoria delle industrie nazionali al terzo. Il "bottino di guerra" e i "sovrapprofitti di guerra": sono anch'essi capitoli della storia Fiat. Ci saranno scandali, clamori di stampa, denunce, il tentativo di una commissione di inchiesta: ma la Fiat se ne infischia.
"Battere sul tempo i Consigli operai", è la parola d'ordine di Agnelli a partire dal 1919. Ci riuscirà. Nel '20 ci saranno le guardie bianche a proteggere gli stabilimenti; gli operai e i sindacati escono sconfitti dalla stagione dell'occupazione delle fabbriche. E le squadre fasciste, finanziate da Agnelli e soci, già hanno cominciato a incendiare le Camere del lavoro. In quegli anni viene fondato il famoso stabilimento del "Lingotto" dove venne impiantata la prima catena di montaggio italiana, ispirata senza ombra di dubbio alla Ford che l'imprenditore aveva visitato in quegli anni. Egli vide inoltre un grande futuro nello sci, sport allora nato da poco. Fra il 1928 e il 1931 acquistò alcuni terreni al colle del Sestriere, in alta Val Chisone, dove costruì la seconda stazione sciistica italiana dopo Bardonecchia che era stata aperta nel 1908. Nel marzo 1923 Giovanni Agnelli è nominato senatore del Regno, «unico fra i grandi industriali italiani a beneficiare del laticlavio alla prima "infornata" del nuovo regime». Ha ben meritato a quanto pare, dal momento che «il Duce sa chi è l'onorevole Agnelli», uno che «ha dato moltissimo per la propaganda fascista sostenendo giornali rappresentanti la più vera espressione del Fascismo». In effetti, per la Fiat Mussolini sarà un vero uomo della Provvidenza. Ormai battuto il movimento dell'occupazione, schiacciate ed estromesse le commissioni interne e buttati fuori, causa licenziamento, 2600 operai (comunisti, socialisti, sindacalisti), per «il più perfetto stabilimento di stile americano» la strada è tutta in discesa.
E' accantonata, come richiesto da Agnelli e soci, tutta la spinosa faccenda delle tassazioni sui cosiddetti extraprofitti di guerra; la "pacificazione sociale", come viene chiamata, può procedere con i connotati della schiacciante rivalsa degli industriali, la emarginazione dei sindacati, l'affermazione del corporativismo in funzione di rottura dell'unità di classe; e può procedere dentro la fabbrica, giorno per giorno, con la pratica dei «licenziamenti e delle riassunzioni a condizioni peggiori». La reciproca collaborazione fra il regime e gli industriali è sancito dal Patto di palazzo Chigi già il 19 dicembre 1923, non si perde tempo. Agnelli ha elargito soldi e benevolenza al Fascio locale - e durante il delitto Matteotti si è anche lui attenuto rigorosamente al "silenzio degli industriali" - ma non gratis, ovvio. Tra i benefici incamerati immediatamente dalla Casa torinese per mano del nuovo regime si può elencare (grosso modo): il progetto di elettrificazione delle linee ferroviere con Milano e Genova; la partecipazione della Fiat alla Sip anche nel settore telefonico; la conclusione delle trattative per l'incorporazione della società Aeronautica Ansaldo; e soprattutto la costruzione di un'altra grande acciaieria Martin-Siemens. Senza perdere tempo, si può anche elencare «la benevola udienza del governo per un trattamento doganale di favore nel rinnovo del trattato di commercio italo-tedesco; le trattative di Agnelli con Mussolini e Ciano del febbraio 1925 per l'aggiudicazione alla Fiat delle linee sovvenzionate dell'Alto Tirreno, già proprietà dell'Ansaldo; l'ingresso del gruppo torinese nel Consorzio delle Ferriere Nazionali all'ombra dei dazi protettivi...». Insomma, un assai redditizio do ut des (ed è dell'ottobre 26 la costituzione della "Società Editrice La Stampa", «il quotidiano finiva così sotto il diretto controllo, politico e amministrativo, del senatore»).
Dopo la "501", esce la "509", un nuovo modello di vettura utilitaria. E' il 1925 «e il fatturato aveva raggiunto in quell'anno l'importo di 1 miliardo e 260 milioni, una cifra d'affari superiore a quella di qualsiasi altra impresa meccanica europea». Non per tutti sono rose e fiori. Per esempio non stanno benissimo i 35.000 operai Fiat. Sullo sfondo delle manovre per la rivalutazione della lira, in quegli anni, mentre il governo fascista decide per decreto la decurtazione del 10 per cento del salario, Agnelli taglia le maestranze e riduce l'orario lavorativo: il numero degli addetti scende a 30 mila e poi a 23 mila. Negli stessi anni la Fiat intasca centinaia di milioni a seguito di un prestito americano; ottiene ulteriori premi fiscali e, quello che più conta, incassa il primo grosso provvedimento protezionistico. C'é infatti il reale pericolo che la Ford arrivi in Italia con le sue auto, Agnelli corre ai ripari: ed ecco che Mussolini in persona vara una legge straordinaria la quale, «includendo l'industria automobilistica tra le attività interessanti la difesa nazionale», impedisce lo smercio di macchine non costruite integralmente in Italia. Il successo negli affari di Agnelli viene funestato dalla morte dei figli Aniceta, nel 1928 ed Edoardo nel 1935, rimasto vittima di un incidente aereo all'idroscalo di Genova. Edoardo, dal 1920 presidente della RIV, era avviato alla carriera del padre e lo sconforto spinse Giovanni Agnelli, inizialmente, ad abbandonare l'attività. Il decesso del figlio ebbe come conseguenza anche una lunga serie di conflitti, anche legali, con la nuora Virginia Bourbon del Monte, specialmente per quanto riguardava la tutela dei nipoti del senatore. L'intero commercio estero diventerà materia corporativa a favore esclusivo dei grandi gruppi industriali, Fiat in testa: si inaugura l'era dei premi per le esportazioni e del contingentamento stretto delle importazioni. A totale beneficio della Fiat: la "Balilla" - che esce nell'aprile del 1932 - è esentasse (cioè non paga tassa di circolazione) per più di un anno; la prima autostrada Torino-Milano, chiesta dalla Fiat, viene fatta anche se falcidia le casse dello Stato; i superdazi su certi prodotti esteri, vedi caso gli autoveicoli, arrivano persino al 200%. Per di più, non mancano le rimostranze di Agnelli in persona contro il governo, a causa del ventilato rilancio delle ferrovie. La Fiat introduce il sistema Bedaux. Esso consiste sostanzialmente in una campionatura del lavoro, e precisamente nel cronometrare il tempo impiegato dall'operaio per ogni singola operazione; in seguito veniva fissata la quantità di lavoro che poteva essere effettuata in quella porzione di tempo e veniva stabilito un tempo standard che determinava la paga base. Il carico di lavoro che poteva essere effettuato in un'ora era detto Punto Bedaux. In un'ora ci si attendeva quindi che l'operaio realizzasse almeno 60 Punti Bedaux.. «Alla fine del 1930 i salari di tutti gli operai italiani - annota Valerio Castronovo ("Giovanni Agnelli", Einaudi) - venivano ridotti d'autorità dell'8 per cento. Ma già da alcuni mesi la Fiat aveva proceduto a massicci licenziamenti. Prima ancora della fine dell'anno, tremila operai venivano allontanati dalla Sezione Automobili, altri quattrocento dalla Spa; e nuclei non meno consistenti seguivano la stessa sorte nei diversi stabilimenti della casa torinese, contribuendo ad ingrossare le file della disoccupazione, che arriverà a superare a Torino, in pochi mesi, la cifra di trentamila persone».
Ma a salvare i profitti arrivarono altre commesse militari: quelle per l'Abissinia, dove vennero impiegati anche i velivoli C32 e i nuovissimi camion poi ribattezzati "gli autocarri della vittoria"; quelle per l'appoggio a Franco nella guerra di Spagna (commesse militari per oltre 42 milioni di lire, che prevede la consegna, tra l'altro, di 51 velivoli); e quelle per la Seconda guerra mondiale che ormai è alle porte. Già nel settembre 1939 «Agnelli aveva inviato Valletta a Roma per assicurare il "duce" che, in caso di mobilitazione, la produzione delle vetture di piccola cilindrata avrebbe potuto essere convertita integralmente in lavorazioni di impiego militare entro sei mesi». Il mondo brucia, ma gli affari sono affari. «Paolo Ragazzi, che fu dirigente della Fiat in epoca fascista e stretto collaboratore sia di Agnelli che di Valletta - scrive Alain Friedman ("Tutto in famiglia", Longanesi) - ha rievocato incontri con ufficiali della Wehrmacht a Torino, numerose visite nella Germania nazista, e l'importanza che la Fiat dava a questi contatti. Ma, sottolineava Ragazzi, Agnelli e Valletta cercavano di fare affari con tutti, dai nazisti ai francesi. Ed è vero che durante la guerra la Fiat mantenne contatti con i nazisti, i fascisti, gli alleati, la resistenza. Non c'era tempo per scrupoli ed ideologie. Gli affari erano affari, e niente era più importante dei profitti dell'impresa». Sono gli operai, obbligati con orari vessatori e salari sempre di fame alla produzione bellica, a dare il segnale della rivolta. «La mattina del 5 marzo alla Fiat Mirafiori inizia lo sciopero. In tutti i reparti il lavoro si ferma e i lavoratori denunciano le pessime condizioni di vita. Poi, il 16 agosto la truppa apre il fuoco contro gli operai della Fiat Grandi Motori, che per primi hanno iniziato " lo sciopero della pace" e sette lavoratori restano feriti. Il giorno dopo per protesta settemila operai incrociano le braccia, e poi gli scioperanti diventano 35 mila. Nella Torino occupata dai nazisti, i lavoratori Fiat scioperano anche il 1 dicembre 1944, sotto i fucili degli uomini del generale delle SS Zimmermann che minaccia dure rappresaglie». A Liberazione avvenuta, Agnelli e Valletta subiranno una sentenza di epurazione da parte del Cln. Ma pochi mesi dopo, auspici gli alleati, tutto finisce, Agnelli e Valletta tornano al loro posto. Nel 1945 Giovanni Agnelli muore a Torino e nel 2002 il suo nome è inserito nell'Automotive Hall of Fame con tutte le maggiori personalità legate al mondo dell'automobile.

3.15 Giorgio Enrico Falk (Dongo, 1866 – Sanremo, 1947) nel 1882, sedicenne, si trasferì a Zurigo alla Technische Hochschule, dove seguì un corso propedeutico alla sezione industriale di quel politecnico; si recò poi in Germania per un tirocinio in vari centri della Ruhr: fu nello stabilimento Union di Dortmund nei reparti di pudellaggio prima e di laminazione poi, a Plettenburg presso la H.B. Seissenschmidt costruttrice di materiali ferroviari, alla trafileria Allhof e Müller, e quindi a Colonia alla Kalker Werkzeugmaschinen. Completò l'apprendistato entrando nella società commerciale milanese Figli di Ippolito Sigurtà, per prepararsi a vendere il prodotto del laminatoio di Malavedo. Ben presto i Redaelli, soci del laminatoio, gli affidarono l'installazione della nuova trafileria a Gardone Val Trompia, per la quale gli fu preziosa l'esperienza fatta presso la Allhof e Müller. A Hagen, in Germania, si recò per acquistare i macchinari. L'attività del Falck cominciava in un periodo di novità, e dal 1884 di netto miglioramento congiunturale per la siderurgia italiana. Negli anni '80 il governo aveva deciso di dar vita, sostenendo la Terni di Vincenzo Stefano Breda, a una moderna acciaieria che affrancasse l'industria bellica dal ricorso alle forniture straniere producendo corazze e proiettili per la marina militare e rotaie per le ferrovie. La nuova società era legata alle commesse statali, alle sovvenzioni concesse ai cantieri navali, alla politica protezionistica, alle agevolazioni fiscali, e aveva forti vincoli con le banche: sarà a lungo la caratteristica della siderurgia peninsulare rispetto a quella padana, e susciterà le aspre critiche degli economisti Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni. La mancata installazione degli altiforni a Civitavecchia dimostrò ancora una volta che il nostro paese poteva stare al passo con il resto d'Europa nella produzione di acciaio e nella laminazione, ma non riusciva a risolvere il problema della ghisa, strettamente connesso alla disponibilità di carbon fossile. Nel 1887 venne approvata la nuova tariffa doganale, voluta soprattutto dai settori più moderni e dinamici dell'industria che modificò le basi stesse del sistema economico italiano. Fu larga di concessioni alla siderurgia, che secondo taluni danneggiarono l'industria rneccanica, ma è un giudizio non condiviso da altri, che non mancano di rilevare come la potenzialità di questo settore poté accrescersi grazie anche alle commesse pubbliche, alle ordinazioni di materiale ferroviario, alla crescente domanda di attrezzature da parte di settori in espansione. Nel 1888 l'economia italiana entrò in una crisi gravissima, che che colpì soprattutto le industrie metallurgiche e meccaniche. La produzione di ferro e di acciaio, fino a quell'anno in forte espansione - tra il 1881 e il 1889 era cresciuta da 98.571 a 339.552 -, scese a 180.816 nel 1892 e ancora a 166.343 tonnellate nel 1894, risultando più che dimezzata. Non tornerà ai livelli massimi del 1889 che nel 1903. Accanto alle vicende del ciclo economico proseguivano i mutamenti di tendenza a lungo termine. La produzione italiana di ghisa continuò a scendere nel corso degli anni '80 e nella prima metà del decennio successivo, registrando un minimo assoluto di 6.987 tonnellate nel 1896; nel frattempo le tonnellate importate salivano, arrivando a 250.000. Anche la tecnica del rimpasto del ferro vecchio, che usava rottami per ottenere ferro, era invecchiata e senza sviluppo e venne sostituita con la produzione di acciaio omogeneo nei forni Siemens-Martin. La trafileria di Gardone Val Trompia fu messa rapidamente in opera e a lavoro ultimato, nel 1889, i Redaelli nominarono il giovane socio direttore del Laminatoio di Malavedo e, poi, procuratore generale della società. Negli anni di massima depressione per la siderurgia, il triennio 1892-1894, la produzione del Laminatoio arriverà alle punte massime: ulteriori espansioni erano frenate dalla posizione degli impianti, e dalla stretta di Laorca (Lecco) che ostacolava i trasporti del materiale in arrivo e dei prodotti in uscita. Sul piano tecnico si rammenta che sotto la direzione di Falck la società fu la prima in Italia a laminare vergella di acciaio dolce. Negli anni '90 fui invitato a visitare la trafileria della Val Trompia per una consulenza riguardante le macchine per la trafilazione della vergella e rimasi colpito dalla grandiosità della fabbrica. Negli anni della crisi e della stentata ripresa il Laminatoio di Malavedo era riuscito ad andare controcorrente e a mantenere i bilanci in attivo grazie a una politica commerciale aggressiva e a un continuo aggiornamento tecnico. Falck capiva però che nel lungo termine ben altri mutamenti si rendevano necessari. La siderurgia lombarda, per motivi geografici ed economici, era esclusa dalla possibilità di adottare altiforni a coke, e quindi di produrre con il ciclo integrale: la recente scoperta del procedimento Thomas, che eliminava il fosforo durante le operazioni di affinazione, permetteva ormai lo sfruttamento delle minettes lorenesi e lussemburghesi e rendeva possibile la nascita di quei possenti distretti siderurgici. Lontano dalle materie prime - anche i minerali di ferro locali erano disponibili in quantità insufficienti per le nuove esigenze - l'avvenire della siderurgia lombarda non poteva essere che nei forni Siemens-Martin a carica fredda, la cui localizzazione era vincolata alla disponibilità di rottami e di mano d'opera e alle linee di trasporto per l'approvvigionamento del carbone e delle quantità supplementari di rottame da importare. Il forno Martin-Siemens o forno open-hearth è utilizzato nelle acciaierie mondiali, in particolare nel nord Europa. Il Siemens ha il principale scopo di eliminare il carbonio contenuto nella ghisa ed altre sporcizie della "ghisa grezza" (in inglese pig iron), al fine di ottenere l'acciaio. L'acciaio è una lega principalmente costituita da ferro e carbonio, dove quest'ultimo è presente con un tenore non superiore al 2.06 % circa, superato il quale l'acciaio assume la denominazione di ghisa. E in effetti acciaio e ghisa sono correlati tra loro non solo sotto questo aspetto, ma anche per il fatto che l'acciaio non può essere prodotto direttamente, ma la sua produzione passa attraverso un processo indiretto che permette di ottenere dapprima la ghisa, che viene considerata quindi in questo caso un prodotto intermedio. L'idea di Falck era che le prime operazioni di trasformazione metallurgica ed eventualmente le laminazioni di massa dovevano lasciare le tradizionali località alpine e prealpine per trasferirsi vicino ai grandi centri della pianura. Si trattava di una intuizione certamente corretta, ma che sollevava allora più di una obiezione, in parte dettate da attaccamento al passato e a un ordine di cose collaudato, in parte dalla constatazione che molti elementi di persistenza continuavano ad operare nel tempo. Si aggiungeva la congiuntura, che scoraggiava ogni iniziativa e in particolare gli aumenti di capacità: la ferriera di Rogoredo, dopo aver più volte mutato proprietario, era fallita a pochi anni dalla fondazione. La recessione stava tuttavia per finire: dopo un pessimo 1894 la produzione di ferro e di acciaio salì improvvisamente a 214.000 tonnellate, con una ripresa del 20% rispetto al minimo dell'anno precedente. In questo nuovo clima Falck e i Redaelli acquistarono in società, il 10 dic. 1895, lo stabilimento della ferriera di Rogoredo messo all'asta dopo il fallimento, e il 17 seguente lo affittarono alla Società del Laminatoio di Malavedo (di cui essi stessi possedevano, insieme con i Bolis, il capitale) che a sua volta ne affidò a Falck la conduzione. Il successo dell'iniziativa non apparve però subito: nel 1896 e nel 1897 la produzione nazionale di ferro e acciaio si stabilizzò sul livello di poco superiore alle 200.000 tonnellate, raggiunto nel 1895, restando di un buon 40% al di sotto del massimo registrato nel 1889. La vecchia ferriera di Rogoredo, con i suoi impianti di ribollitura, venne rimpiazzata da una moderna acciaieria con due forni Siemens-Martin da 16 tonnellate per colata, terminata nel 1898 e in produzione nel maggio dello stesso anno. Per prima produsse in Lombardia e su vasta scala lingotti di acciaio dolcissimo usando ghisa mista a rottami di diverse qualità. La produzione andava in parte ad alimentare il Laminatoio di Malavedo, affrancandolo dalle importazioni dalla Germania, in parte veniva venduta sul mercato. Nel 1902, come era nei disegni originari, il laminatoio fu trasferito da Malavedo a Rogoredo. Il programma di laminazione venne comunque ampliato e nel 1904 fu esteso ai prodotti piatti. Nel 1898 Falck si era sposato con Irene Bertarelli; nacquero quattro figli, tre maschi - Enrico, Giovanni e Bruno, che continuarono la sua opera - e una femmina, Giulia. La sua vita fra i trentacinque e i cinquant'anni, nei primi quindici anni del secolo XX, coincise con una lunga fase di espansione congiunturale che diede all'Italia mutamenti definitivi rispetto al passato. Crebbero il reddito complessivo e quello per abitante, i risparmi, gli investimenti; aumentò la partecipazione dell'industria alla formazione del prodotto lordo privato e decrebbe, parallelamente, quello dell'agricoltura. L'industria conobbe profondi mutamenti strutturali: il suo sviluppo si basò meno sul vapore e sui suoi costosi impianti e più sull'elettricità, che dopo il 1884 ebbe una crescita eccezionale. I settori manifatturieri più tradizionali furono affiancati da nuovi quali la chimica e l'industria automobilistica; la siderurgia adottò importanti innovazioni e vide crescere notevolmente la quantità dei prodotti, accentuando nel contempo quel dualismo che già si era delineato nell'ultimo scorcio dell'Ottocento fra industria peninsulare - che produsse finalmente la prima ghisa italiana con altiforni a coke - e quella padana. Nell'agosto del 1902 entrò in funzione il primo altoforno di Portoferraio nell'isola d'Elba, alimentato con minerale locale e con coke di importazione, cui seguì nel 1903 un secondo; nel 1905 quello di Piombino, il primo stabilimento a ciclo siderurgico completo, fino ai laminati; nel 1909 quello di Bagnoli. Oltre a errori di localizzazione, ai creatori delle nuove imprese si rimproveravano eccessiva disinvoltura nelle manovre finanziarie e speculative, e legami troppo stretti con le banche e con la cantieristica e la grande meccanica (che permettevano la spartizione di un mercato garantito dal protezionismo e dalle sovvenzioni statali). La rivalità tra i maggiori gruppi portò a un eccesso di capacità produttiva che rese la siderurgia peninsulare più vulnerabile alla recessione del 1907. Del tutto diversa la situazione a Nord. Qui la tendenza della siderurgia era verso la costruzione di acciaierie di tipo moderno che sostituissero le vecchie ferriere: già nel 1896 i trafilatori di Lecco, riuniti in consorzio, avevano costituito la Ferriera del Caleotto che, dotata di forni Siemens-Martin, avrebbe prodotto l'acciaio e la vergella loro occorrenti; a Torino la FIAT assorbì alcune imprese per assicurarsi l'acciaio necessario, e nel 1906 la Mannesmann diede vita a Dalmine alla filiale italiana per la produzione di tubi senza saldatura, dotata di una acciaieria elettrica con forni Hérault. L'acciaieria di Rogoredo era stato un primo importante passo nella riorganizzazione tecnica e territoriale della siderurgia lombarda, secondo il disegno di Falck.; si trattava ora di coinvolgere altre ferriere prealpine e ampliare adeguatamente lo stabilimento principale. I Redaelli non se la sentirono di seguire il socio in questa nuova dimensione. Aderirono invece i Rubini - zii e cugini materni di Falck - che apportarono lo stabilimento di Dongo, e Angelo Migliavacca e Alfredo d'Amico della Ferriera di Vobarno. La Società anonima Acciaierie e ferriere lombarde venne costituita il 26 genn. 1906; presidente era Migliavacca (lo resterà fino al 1921) mentre Falck ebbe le cariche di vicepresidente e di amministratore delegato. La Banca commerciale, già fortemente interessata nel gruppo Ilva, e molti interessi privati sottoscrissero il capitale sociale di 6 milioni. La Soc. an. Ferriera di Milano, di Porta Romana, si unirà al gruppo qualche anno dopo, nel 1911. Costruire lo stabilimento principale, che rifornisse di acciaio e di semilavorati gli altri centri produttivi, non era facile, anche per le limitazioni geografiche, tecniche ed economiche rispetto alla concorrenza estera. I forni Siemens-Martin, grazie alla flessibilità della carica, potevano usare rottami in elevata quantità - fino al 65-70% del totale - ma erano svincolati solo parzialmente dalla necessità di ghisa mentre avevano un elevato consumo di carbone, e le loro spese di trasporto mantenevano i costi dell'acciaio italiano a livelli più elevati. Fu scelto Sesto San Giovanni perché era vicino a Milano (uno dei principali centri di consumo), il costo dei terreni era relativamente basso, vi passava una strada ferrata internazionale che collegava direttamente con le fonti di approvvigionamento di carbone ed eventualmente di lingotti e di semilavorati (Francia, Belgio, Lussemburgo), aveva buona accessibilità per la mano d'opera bergamasca e lecchese, insieme con quella bresciana. L'acciaieria venne dotata di quattro forni Siemens-Martin, da 35 tonnellate per colata, e il laminatoio di treni per travi e profilati; la produzione di acciaio grezzo cominciò nel marzo del 1908, e quella di laminati nell'agosto successivo. Gli stabilimenti di Dongo e di Vobarno, a loro volta, furono notevolmente rafforzati eliminando gli impianti tecnicamente sorpassati, installandone di nuovi e specializzati (come la bulloneria di Vobarno), rendendo ove possibile economiche le produzioni più tradizionali, come la rilaminazione del ferro da pacchetto. Dongo si specializzò nella produzione di getti di ghisa, di profilati mercantili, con tre treni mossi da turbine idrauliche e alimentati con il ferro da pacchetto prodotto con cinque forni, di fucinati. Vobarno ribolliva i rottami in cinque forni e produceva barre tonde e quadre, profilati, rotaie ed era dotato di quattro laminatoi. Lo stabilimento di Porta Romana aveva originariamente due treni per travi, sagomati e profilati, e un reparto per tubi saldati che non stavano ormai più alla pari con quelli di Sesto e Vobarno; venne quindi dotato, nel 1913, di un treno vergella e di impianti per tubi senza saldatura laminati a caldo e a freddo. La centrale elettrica di S. S. Giovanni Gli inizi di Sesto presentarono le difficoltà tipiche dello stabilimento greenfield, che non può contare sulle economie derivanti dalla presenza di infrastrutture, di mano d'opera addestrata, di consuetudine con i fornitori. Per di più l'avvio avvenne tra la recessione del 1907 e la ricaduta del 1909, che ridussero la domanda ma non la produzione; la quale, spinta dal continuo aumento delle capacità ampiamente eccedenti il fabbisogno, fra il 1902 e il 1910 raddoppiava ogni quattro anni. Lo squilibrio fra domanda e offerta, aggravato dal dumping dei produttori stranieri, specialmente tedeschi, mise in crisi molte acciaierie peninsulari e condusse al salvataggio del 1911 e alla costituzione del Consorzio Ilva per la gestione comune degli impianti. Un parziale sollievo venne dalla creazione di un sindacato commerciale, la Società anonima Ferro e acciaio, alla quale Falck partecipò. Lo sforzo bellico impegnò notevolmente l'industria italiana: tra il 1914 e il 1917 la produzione siderurgica totale (ferro e acciaio: ma ormai il secondo era predominante) crebbe del 9,1% l'anno, un tasso ancora inferiore della metà a quello registrato fra il 1904 e il 1910. L'Ilva e l'Ansaldo andarono a gara nell'accaparrarsi le commesse belliche, la seconda estendendo le produzioni ai settori più diversi. Le imprese lombarde, che risentivano delle generali difficoltà di rifornimento e del mutamento di alcune tra le principali fonti di materie prime, accrebbero il ricorso al rottame sviluppando l'elettrosiderurgia: notevole il fatto che la produzione di ghisa al forno elettrico passò da 2.000 tonnellate nel 1914 a 62.000 nel 1918. Nel 1917 Falck volle assicurare agli impianti una disponibilità diretta di energia elettrica che evitasse anche le oscillazioni stagionali e iniziò la costruzione di un sistema idroelettrico che comprendeva centrali nelle Alpi e negli Appennini, completandolo poi con una centrale termica nella pianura. Aveva anche un preciso disegno di ampliamento del centro sestese attorno al nucleo originale, che porterà ben presto la società ad acquisire, già nel corso degli anni venti, una posizione di rilievo nell'ambito della siderurgia italiana. La Società sarà annoverata, insieme con la FIAT, che nel frattempo aveva attuato il suo progetto di integrazione verticale nell'acciaio, tra "i migliori e più tipici rappresentanti del nuovo corso intrapreso dalla siderurgia italiana" (Pozzobon, L'industria padana). Lo stabilimento originario, poi denominato Unione, verrà ampliato ed affiancato dal Concordia, dal Vittoria, e quindi dal Vulcano, dotato di forni elettrici per ghisa, che utilizzavano un sottoprodotto, le ceneri di pirite, e l'energia elettrica di supero prodotta nei tempi morti dalle centrali. Sempre negli anni Venti due forni Siemens-Martin da 90 tonnellate verranno ad aggiungersi ai quattro esistenti e ai cinque forni elettrici, facendo dell'Unione la più grande acciaieria italiana prima di Torino (FIAT), Bagnoli (Ilva), Piombino (Magona), Piombino (Ilva). In questo periodo vennero portati a compimento i due principi di base del disegno di Falck: accentramento della produzione di acciaio grezzo in un unico centro nella pianura e specializzazione, flessibilità e adattamento al mercato degli altri stabilimenti; costruzione di impianti ausiliari che, con le centrali elettriche, assicurassero la regolarità degli approvvigionamenti: lo stabilimento di Zogno per la produzione di materiali refrattari e le miniere di ferro a Schilpario. Nel 1931 la società mutò la ragione sociale in Acciaierie e ferriere lombarde Falck, aggiungendovi il nome del fondatore; il carattere familiare dell'impresa era sottolineato dall'entrata nel consiglio di amministrazione dei figli Enrico, Giovanni e Bruno (che erano anche direttori centrali) e del genero Giovanni Devoto; direttori generali erano lo stesso Falck e Ludovico Goisis. Negli anni fra le due guerre si formò anche, attraverso l'acquisizione di partecipazioni e la creazione di nuove imprese, il gruppo Falck, che arrivò a controllare le Officine metallurgiche Broggi (1922) e i Cantieri metallurgici italiani (1924), le Trafilerie e corderie italiane (insieme coi Redaelli), l'Acciaieria e tubificio di Brescia (con l'Ilva). Vennero create le Acciaierie di Bolzano, dotate di forni elettrici, sbozzatori e treni di laminazione e specializzate nella produzione di acciai di elevata qualità; la costruzione degli stabilimenti cominciò nel 1935 e nel 1938 ebbe luogo la prima colata. A Sesto lo stabilimento Vittoria venne affiancato nel 1933 dallo stabilimento Vittoria S per la trafilatura a freddo; nel 1938 entrò in attività il Centro ricerche e controlli per la ricerca sulla natura e sulle caratteristiche dei materiali ferrosi nonché per il controllo ed il perfezionamento dei cicli produttivi. Il capannone Bramme Il programma dì ampliamento e di ammodernamento degli impianti dovette subire una stasi forzata negli anni della seconda guerra mondiale, che cominciò quando il creatore della società aveva ormai 74 anni; alcuni stabilimenti subirono anzi danni non lievi a causa degli eventi bellici. La ricostruzione e la ripresa dello sviluppo avverranno ad opera dei figli e successori. La sede storica Falck ebbe anche una intensa partecipazione alla vita pubblica. Il 29 settembre del 1942, mise la propria abitazione a disposizione di esponenti politici cattolici, quali Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi, Achille Grandi, Piero Malvestiti, Giuseppe Brusasca ed altri, per l'effettuazione di riunioni clandestine che furono propedeutiche alla fondazione della Democrazia Cristiana. Dopo il 25 luglio 1943, curò a proprie spese la stampa di un milione di copie dell'opuscolo di Alcide De Gasperi Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana. Nonostante ciò, il 7 agosto 1944 fu deferito con l'accusa di aver supportato con la propria opera il fascismo e la guerra. Nell'aprile del 1945 si ritirò a vita privata, affidando la presidenza della società al figlio Enrico; spirò due anni dopo, a San Remo, il 12 genn. 1947.

3.16 Givanni Battista Caproni (Trento, 3 luglio 1866 - Roma, 29 ottobre 1957) Figlio di Giuseppe, geometra e piccolo possidente, il giovane Caproni manifesta presto una spiccata preferenza per gli studi matematici e il disegno e, dopo aver frequentato la Realschule di Rovereto (allora, come il resto del Trentino, parte dell’Impero asburgico), si iscrive al Politecnico di Monaco di Baviera, dove si laurea nel 1907 in Ingegneria civile. Decide allora di dedicarsi, come progettista e costruttore, al nascente campo dell’aeronautica e, già fornito di una solida cultura tecnica, si iscrive nel 1908 a Liegi a un corso di specializzazione, diplomandosi in Ingegneria elettrotecnica. Risalgono a questo periodo i suoi primi studi e progetti, nonché una serie di osservazioni su aeroplani in costruzione a Parigi. Ritornato ad Arco, si impegna nell’allestimento di una piccola officina per costruire il suo prototipo; nel 1910 si trasferisce con il fratello Federico in territorio italiano, dove ottiene dal comando del corpo d’armata di Milano l’uso della cascina La Malpensa, nel comune di Somma Lombardo. Qui costituisce la Società d’aviazione fratelli Caproni. La motivazione tecnica del trasferimento (la necessità di zone pianeggianti per le prove di volo) si unisce per Caproni alla scelta politica di gestire la propria attività scientifica e imprenditoriale in Italia, in quanto sostenitore dell’irredentismo. Alla Malpensa Caproni termina il prototipo Ca.1 e compie il primo volo il 27 maggio 1910. Quando la Direzione del Genio militare alla fine dell’anno ritira la concessione del terreno per impiantarvi una scuola militare d’aviazione, Caproni si trasferisce nel vicino comune di Vizzola Ticino. Qui, per incrementare le entrate, apre una scuola di volo, poi chiusa nel 1913, dopo aver assegnato il brevetto a 62 piloti, tra cui molti stranieri. Con l’allargamento dell’attività dell’impresa, le spese che Caproni deve sopportare per disporre di operai specializzati e di piloti qualificati diventano insostenibili. I record e i raid effettuati nel 1912-13 con diversi modelli di aerei Caproni non appaiono sufficienti a creare un mercato capace di dare autonomia economica all’impresa. Nel 1913 Caproni vende quindi le officine allo Stato (che le destina alla riparazione di aerei militari), restandovi come Direttore tecnico. L’imprenditore trentino prevede in questa fase le potenzialità d’impiego civile dell’aviazione, ma ha anche ben presenti le implicazioni dell’impiego militare, destinate a vincolare la produzione aeronautica all’iniziativa statale. Già nella primavera 1913 completa i disegni di un biplano a tre motori: si tratta del primo aeroplano espressamente concepito per il bombardamento. Inizia quindi le trattative di commessa con il Governo, e nel marzo 1915 si costituisce la Società per lo sviluppo dell’aviazione in Italia, presieduta dal Senatore Carlo Esterle, con illustri personalità politiche come soci, e Caproni quale consulente tecnico. La società riscatta, ampliandole e attrezzandole, le officine di Vizzola Ticino, e inizia la costruzione di quelle di Taliedo, a Milano. La congiuntura bellica consente a Caproni di affermarsi come progettista e produttore, e il suo prestigio cresce al punto da influire sugli orientamenti generali dell’aviazione dell’epoca; è Amministratore unico della Società per lo sviluppo dell’aviazione in Italia (trasformata in anonima dal maggio 1917) e costituisce nel novembre del 1917 la Società italiana Caproni: entrambe sostengono lo sforzo produttivo delle commesse di guerra onorando i cospicui contratti di fornitura; i perfezionamenti tecnici apportati da Caproni nel periodo bellico ai suoi modelli gli consentono anche di operare, all’inizio del 1918, la cessione della riproduzione su licenza alla Francia (con commissione di 150 velivoli) e agli Stati Uniti (con commissione di oltre 1.000 aerei). Già dal 1917 Caproni si pone inoltre il problema della riconversione della produzione alle necessità postbelliche e lavora all’elaborazione di mezzi civili adattando la tecnologia degli aerei militari al trasporto di passeggeri. Il periodo 1919-1922 non offre particolari prospettive di sviluppo per l’industria aeronautica, data la limitata domanda di trasporto di merci e passeggeri; gli aerei civili Caproni (17 posti più sei di equipaggio) coprono però il percorso Milano-Roma-Napoli con frequenza quasi settimanale, e la ricerca in questo periodo culmina nel 1920 con la realizzazione del “transaereo” Ca.60 per centodieci passeggeri: un exploit tecnico eccezionale, dati i materiali, i motori, le conoscenze aerodinamiche e tecnologiche di allora, un mezzo “pesante” di comunicazione intercontinentale dalle prestazioni di trasporto non uguagliate per molti anni. A partire dalla primavera 1922, con la ripresa della repressione della guerriglia in Tripolitania, ricominciano anche le commesse statali per gli aerei da bombardamento Caproni. L’imprenditore inizia quindi un nuovo periodo di ricerca e sperimentazione per la produzione di apparecchi militari (caccia, da ricognizione, anfibi), mentre le imprese Caproni sfruttano la fase di ripresa congiunturale: la Società per lo sviluppo, nel 1929, cambia ragione sociale in Aeroplani Caproni, con sede a Milano, mentre la Società italiana Caproni è trasformata in Scuola di aviazioni Caproni, entrambe con incremento del capitale sociale. Dal 1929, inoltre, per la cessione di licenze negli Stati Uniti alla Curtiss-Wright, Caproni ottiene una partecipazione nella Curtiss-Caproni con officine a Baltimora, e sviluppa una rete di collegate e di accordi per la produzione, la vendita e l’assistenza (dal Perù alla Bulgaria, dall’Ungheria alla Francia, dall’Africa orientale alla Cina). Dalla fine degli anni Venti e negli anni Trenta quindi, la carriera imprenditoriale di Caproni subisce una svolta, passando dalla guida della progettazione tecnica a una strategia di costruzione e direzione di un gruppo di imprese con importanti diramazioni internazionali: a metà degli anni Trenta Caproni controlla e dirige un vasto complesso industriale per molti aspetti autosufficiente e capace di un ciclo integrale, che trova consolidamento nella mobilitazione della produzione di guerra e nel quadro autarchico. Le imprese sono complementari e operano in coordinazione, nell’ambito di un collegamento tecnico basato sull’interscambio di materie, prodotti intermedi, prodotti finiti e servizi e sulla ripartizione della produzione finale. L’organigramma di rapporti, intrecci e produzione ha un impianto articolato: del complesso, accentrato nella società madre Aeroplani Caproni (di cui è Presidente lo stesso Caproni), fanno parte tre società capofila, la Isotta Fraschini di Milano (produzione di motori, mitragliatrici, armamenti, bombe, duralluminio, con fonderia e forgia), la Officine Meccaniche I)taliane di Reggio Emilia (locomotive, aerei e motori avio, armamenti e bombe, con fonderia e forgia) e la Aeroplani Caproni di Milano (aeroplani, tubi trafilati, eliche). Alla prima società, attraverso la Fonderie Isotta Fraschini (magnesio, electron), è collegata la Compagnia chimico-mineraria del Sulcis, di Cagliari (benzina, glicoli, solventi, vernici); attraverso la Motori marini Carraro (attrezzature, motori marini, mozzi, eliche), è collegata la Società anonima magnesio italiano, del Sulcis (magnesio, electron), a sua volta collegata alla Compagnia chimico-mineraria Sulcis attraverso la Sabbie industriali di Livorno. Alla seconda società era collegata la Officine meccaniche romane (bombe, lamiera, alluminio). Alla terza società, attraverso la Cantieri aeronautici bergamaschi (aeroplani, scuola aviazione), la Società immobiliare turismo aereo (a Montecolino sul lago d’Iseo; idrovolanti e scuola), la Avio industrie stabiensi (a Castellammare; aeroplani, bombe), la Officine reatine lavorazioni aeronautiche (aeroplani, bombe) la Caproni bulgara (a Kazanlak; aeroplani, radio, materiale elettrico), la Curtiss-Caproni (a Baltimora, Usa; aeroplani); erano infine collegate l’Industria specializzata in strumenti aeronavigazione (Bergamo; strumenti di bordo) e la Segherie italiane (Milano; legni compensati). Nella seconda metà degli anni Trenta il gruppo assesta questo organigramma con acquisizioni di altre imprese, nuove costituzioni, cessioni. Entrano, tra le principali, la Fabbrica nazionale d’armi di Brescia, la Costruzioni elettromeccaniche di Saronno, la Officine romagnole di Imola, la Industrie riunite di Arco, la Manganesifera italiana di Tremonte Leffe, l’Aeronautica Predappio, l’Aeronautica sicula di Palermo, la Società romana gassogeni, la Compagnia nazionale aeronautica di Roma. Il gruppo Caproni, con i suoi incroci di accordi, vive comunque negli anni Trenta difficoltà di finanziamento che lo spingono a orientarsi quasi completamente sulla sicurezza della crescente e trainante produzione militare. La progettazione e produzione Caproni nel decennio è comunque caratterizzata dal notevole numero di prototipi, varianti e miglioramenti. Tra questi, vengono prodotti il gigantesco Ca.90 (esamotore da bombardamento), caccia militari e aerei da ricognizione, ma anche biplani da turismo, da scuola e da acrobazia. L’articolazione qualitativa agevola la penetrazione dei prodotti aeronautici italiani all’estero, cui largamente partecipano le imprese del gruppo Caproni (nel 1939 i Paesi importatori sono una quarantina), ma nello stesso tempo la politica del Governo fascista non sostiene gli sforzi di Caproni sui mercati internazionali: nel 1939 l’imprenditore è nettamente contrario all’entrata in guerra dell’Italia, e la dichiarazione di guerra, il 10 giugno del 1940, sorprende le sue imprese con cospicui contratti in corso, specie con enti francesi e inglesi. La produzione su commesse belliche per lo Stato vede il gruppo Caproni impegnato nella fornitura di velivoli (da bombardamento, da ricognizione e da assalto), sommergibili, bombe, mitragliatrici, autocarri, motori per aereo. Dopo l’8 settembre 1943, gli impianti Caproni ancora operativi nel territorio non liberato vengono dichiarati dal Governo nazista industrie protette e messi sotto il controllo dell’organizzazione Speer. Prodotti ultimati e macchinari di maggior interesse vengono requisiti, la fabbricazione vigilata in loco da commissioni tedesche, alcuni stabilimenti decentrati per sicurezza: l’azione resistenziale e il sabotaggio operaio (iniziato nel 1942) portano comunque a interruzioni delle lavorazioni e a consegne incomplete o difettose. Caproni è denunciato a Milano, dopo il 25 aprile 1945, per «atti rilevanti a mantenere in vigore il Regime fascista» e per collaborazionismo; a metà del 1946 verrà però prosciolto in istruttoria. Il procedimento penale, durante il quale Caproni è latitante, insieme al sequestro dei beni e dei titoli propri e sociali, innescano il collasso del gruppo. In una fase accelerata di passaggio da un’economia guidata e bellica a un’economia di mercato e di pace, la riconversione delle imprese Caproni assume un carattere precario, sia nel riassetto produttivo, sia sul versante finanziario: la drastica stretta creditizia della fine del 1947 causa la definitiva disgregazione del gruppo. Caproni infatti, dopo vari tentativi di raccogliere finanziamenti nel 1947, trattando a Parigi, Bruxelles e Londra, poi in Argentina e a New York, assiste alla serie di cessioni e liquidazioni delle imprese, dalla capofila alle collegate, nella prima metà degli anni Cinquanta. Muore a Roma nell’autunno del 1957.

3.17 Ercole Marelli (Milano, 1867 - Tremezzo (CO) 1922). Figlio di un modesto artigiano trasferitosi nel capoluogo lombardo dal vicino Comasco, termina gli studi di base e, a quindici anni, inizia a lavorare come apprendista presso una piccola officina meccanica. In seguito, viene presentato a Bartolomeo Cabella, Direttore del Tecnomasio italiano, dove comincia a lavorare nel 1885 in qualità di meccanico. Nell’ottobre 1888, per conto dello stesso Cabella, si reca ad Asunción, in Paraguay, dove, monta e mette in funzione un intero impianto elettrico per lo stabilimento Concha Sociedad, dotato di cento lampade a incandescenza e di diciannove fari ad arco da 1.000 candele, che servivano in parte anche per illuminare alcune vie e il teatro principale della città. Nel 1891, a pochi mesi dal suo rientro Italia, apre un proprio laboratorio nel centro di Milano dove inizia a fabbricare apparecchi di fisica e di geodesia, macchinette elettriche per laboratori scolastici, pile, accumulatori e apparecchi elettromedicali. Nel 1893, il buon andamento delle vendite gli permette di trasferirsi in una più ampia officina in via Quadronno dopo aver costituito con il ragioniere L. Gorla una società in nome collettivo con un capitale di 8.000 lire. Partecipa, nello stesso anno, all’Esposizione medica internazionale di Roma e allarga la produzione a parafulmini, lampade ad arco e accumulatori elettrici portatili: costruisce, tra l’altro, le batterie utilizzate per l’illuminazione dei lavori per il traforo del Sempione. Nel 1911 Marelli, celebrando i primi venti anni della propria attività imprenditoriale, rende nota l’intenzione di iscrivere tutti i dipendenti, già coperti da una cassa mutua interna per malattie, alla Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia. È il segno di un’attenzione per le condizioni di vita dei propri dipendenti che si sarebbe tradotta in pionieristiche iniziative di welfare aziendale: dagli alloggi per gli operai all’ambulatorio medico, dall’asilo nido all’assistenza ostetrico-ginecologica per la numerosa manodopera femminile. Deciso assertore della specializzazione, Marelli è tra i primi in Italia a effettuare la lavorazione in serie, tanto per la parte meccanica dei motori, quanto per la più complessa componente elettrica. La precisa divisione dei compiti e delle mansioni viene estesa anche alla fase della commercializzazione: sin dal 1898 sono istituite all’estero autonome agenzie di rappresentanza, poi strutturate come indipendenti filiali di vendita. La penetrazione sui mercati stranieri, in America Latina e nell’Europa orientale, ma anche in Francia, Austria, Germania e Inghilterra è sostenuta da una costante opera di marketing e da accurate campagne pubblicitarie. Fino al Primo conflitto mondiale le esportazioni si mantengono superiori alle vendite sul mercato interno, risultato più che lusinghiero se si considera che, ancora nel 1927, il settore elettromeccanico italiano nel suo complesso non arrivava a esportare il 10% della produzione. Con lo scoppio della prima guerra mondiale la Marelli si dedica alla fabbricazione di materiale bellico: nel dicembre 1915 la ditta ottiene la concessione di un brevetto per la progettazione di un trapano per la foratura dei proiettili e l’anno successivo registra il primo brevetto relativo ai magneti per accensione, perfezionando l’innovazione nel 1917, e poi ancora con un brevetto “completivo” verso la fine del 1918. Vista l’espansione della domanda, viene attrezzato un apposito reparto per la produzione di magneti, finché nel 1919 si procede allo scorporo di questa attività dall’accomandita Ercole Marelli, dando vita in compartecipazione con la Fiat di Torino alla società anonima Fabbrica italiana Magneti Marelli. Il patto sociale stabilisce paritetiche quote di capitale riservando, tuttavia, Presidenza e Direzione tecnica e commerciale a Marelli; questi affida la guida della nuova società a un manager di assoluta fiducia, il marito di sua figlia, Bruno A. Quintavalle, destinato a rimanere alla guida dell’azienda fino al 1967, quando l’intero pacchetto azionario passerà nelle mani della Fiat. Alla fine della guerra, grazie alle ingenti e remunerative commesse belliche, l’impresa appare notevolmente rafforzata: il fatturato, pari a 10 milioni di lire nel 1915, è di 42 milioni nel 1920. Riprendono lentamente anche le esportazioni. Nel frattempo l’impresa avvia anche la fabbricazione del macchinario elettrico di media e grossa potenza, del quale avevano avuto fino ad allora il monopolio poche grandi imprese straniere (General Electric, AEG, Siemens, Brown Boveri). Nel 1920, in un’area attigua all’originario insediamento di Sesto San Giovanni, iniziano i lavori per la costruzione dello “stabilimento n. 2” per la lavorazione di alternatori, grandi trasformatori, quadri e apparecchiature per centrali e impianti di propulsione terrestre e navale. Anche per far fronte alle nuove necessità finanziarie Marelli decide lo scioglimento della vecchia accomandita Ercole Marelli e C. e la costituzione della società anonima Ercole Marelli, con capitale di 20 milioni, portato dopo un anno a 30 milioni. Marelli controlla il 72% delle azioni e il rimanente 28% viene sottoscritto da Antonio Stefano Benni, che egli chiamava il suo «figliolo di lavoro»: entrato in azienda come dipendente nel 1894, ne diventa socio con una quota di 15.000 lire nel 1906 e proprietario di quasi un terzo del capitale sociale al momento della costituzione in società anonima, ereditandone la conduzione alla morte di Marelli. Nel 1922 l'impresa viene ereditata da Fermo Marelli, figlio di Ercole Marelli. Negli anni trenta venne fortemente potenziata la produzione di grossi macchinari come alternatori e trasformatori, sistemi di comando per laminatoi per i maggiori produttori di acciaio mondiali, macchine di propulsione per navi ed equipaggiamenti per treni, elettropompe per acquedotti ed opere di bonifica. Prima della seconda guerra mondiale, i dipendenti superavano le 5.000 persone. Negli anni sessanta la Ercole Marelli esporta locomotive di grande potenza per le Ferrovie del Cile e diesel-elettriche per le ferrovie dell'Argentina toccando il massimo occupazionale con 7.100 dipendenti. I suoi prodotti, tecnologicamente avanzati per l'epoca, sono presenti in moltissime realizzazioni per il trasporto di massa, come ad esempio gli azionamenti di trazione per la Metropolitana di Milano; successivamente, è stata la prima impresa italiana a proporre azionamenti di potenza per locomotive a chopper. A partire del 1968, l'impresa si dovette ristrutturare per far fronte al ribasso dei prezzi nel settore elettromeccanico. Nel marzo 1981 venne messa in liquidazione. Nel 1993 viene incorporata nel gruppo Firema. Le origini della Firema possono essere individuate nella costituzione del Consorzio Fi.Re.Ma, avvenuta nel 1980, il cui nome era un acronimo costituito dalle iniziali dei tre soci fondatori, a partecipazione paritaria, Fiore, Regazzoni e Marchiorello. Il consorzio raggruppava le Officine di Casaralta, le Officine Fiore, le Officine Meccaniche della Stanga, le Officine di Cittadella, le Officine Meccaniche Casertane e la società Firema Engineering. In seguito entrarono a farne parte altre società. Nel 1993 fu fondata Firema Trasporti S.p.A., partecipata al 49% dell'IRI tramite Ansaldo S.p.A., e si ebbe la fusione delle principali aziende private del settore riunite in Firema Finanziaria Srl. Obbiettivo dell'operazione era quello di poter mantenere la competitività in un settore nel quale le piccole realtà produttive avevano ormai poca possibilità di sopravvivenza in un mercato aperto più che mai alla concorrenza straniera e caratterizzato dalla presenza di competitori mondiali quali Alstom, Bombardier e Siemens. La iniziale presenza di IRI, poi Finmeccanica, nel capitale comportò una stretta collaborazione con Breda e Ansaldo Trasporti, poi fuse in AnsaldoBreda, e comportò la partecipazione a numerose commesse in comune. La presenza di Finmeccanica cessò nel 2005. Nel corso degli anni l'insieme dei fattori costituiti dai mercati sempre più aperti alla concorrenza internazionale comportò la graduale chiusura di molte delle attività che costituivano il raggruppamento iniziale, come le storiche officine di Casaralta (Bologna), definitivamente smantellate nel 2010 e quelle di Cittadella. Anche la compagine societaria mutò, e alla fine degli anni Duemila l'unico azionista di riferimento risultava la famiglia Fiore, investita dalla crisi dell'azienda. A partire dal 2 agosto 2010, con decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, Firema Trasporti S.p.A. è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria, a norma dell'art. 2 comma 2, D.L. 23 dicembre 2003 n. 347 ed è stato nominato Commissario Straordinario l'ex parlamentare Ernesto Stajano, cui è stata affidata la gestione dell'Impresa.

3.18 Nicola Romeo (Sant'Antimo, 1876 – Magreglio, 1938). Nasce a Sant'Antimo in provincia di Napoli il 28 aprile 1876, in una famiglia lucana di modeste condizioni. Negli studi superiori ha modo di avvicinarsi e di raggiungere grande dimestichezza con le discipline matematiche. Conseguita nel 1899 la laurea in ingegneria civile presso la Scuola di Applicazione a Napoli, a 23 anni, si trasferisce a Liegi, in Belgio, per approfondire gli studi in ingegneria elettrotecnica, quindi in Francia e in Germania per acquisire le nuove conoscenze nei campi meccanico, ferroviario e idraulico. Tornato in Italia, conosce, un dirigente della Robert Blackwell and Co, società inglese che opera in campo ferroviario e dell'impiantistica elettrica, intenzionata ad aprire una filiale in Italia. Nicola Romeo viene assunto e dirige la filiale italiana per alcuni anni, con il compito di promuovere e sovrintendere la costruzione di tranvie elettriche. Nel 1906, con altri investitori, fonda la società "Ing. Nicola Romeo e C." che ebbe un successo commerciando i materiali rotabili dell'azienda siderurgica inglese Hadfield di Sheffield e, soprattutto, i macchinari per la produzione di aria compressa dell'americana Ingersoll-Rand. Nel 1911 fonda la Società in accomandita semplice Ing. Nicola Romeo e Co. per la produzione di macchinari per le attività estrattive. L'impresa si specializza presto nella produzione di rotabili ferroviari cogliendo anche le opportunità offerte dall'emergente tecnologia dei motori termici per produrre su licenza alcune fra le prime automotrici italiane. Nel 1909 gli stabilimenti di Portello presso Milano della "Società italiana di automobili Darracq" furono rilevati da un gruppo di imprenditori che avevano fondato l'"Anonima Lombarda Fabbrica Automobili" (A.L.F.A.), e nel 1915 da Nicola Romeo, che li riconverte alla produzione bellica. Con l'aiuto dei suoi potenti impianti di aria compressa, Nicola Romeo approntò nel 1916 la famosa esplosione del Col di Lana che, grazie a 5.500 kg di gelatina, consentì all'esercito italiano la conquista della cima. Dopo la fine della guerra nel 1918 la società, che aveva assorbito anche le "Costruzioni Meccaniche di Saronno", le "Officine Meccaniche Tabanelli" di Roma e le "Officine Ferroviarie Meridionali" di Napoli, cambia nome in "Società anonima Ing. Nicola Romeo e Co." L'impresa deve affrontare i problemi della riconversione post-bellica e della recessione e ottiene aiuti dal Consorzio per Sovvenzioni sui Valori Industriali. La società ha come obiettivi la produzione di diversi tipi di veicoli e macchinari, ma di fatto si specializza nelle autovetture e consegue una notevole fama per i suoi successi sportivi. Lo stabilimento di Portello riprende a produrre automobili progettate dal tecnico Vittorio Jano, che precedentemente aveva lavorato alla FIAT. Romeo si specializza in auto sportive e di lusso differenziandosi, come aveva fatto Sloan negli Usa per competere con Ford, dalla produzione della FIAT. Giova notare che la Fiat di Giovanni Agnelli, grazie soprattutto alle commesse militari, era diventata una potenza industriale, una delle prime in Europa. Le vetture vengono commercializzate con il marchio Alfa Romeo, dopo una battaglia legale per il nome "Alfa" con i vecchi proprietari della fabbrica. Nel 1920 nasce la Torpedo 20-30 HP ES e nel 1923 il modello RL, con cui il pilota Ugo Sivocci conquista la prima delle dieci vittorie nella Targa Florio. Nel 1924 viene presentata la P2. Giova notare che nel 1925 la FIAT produce le utilitarie 501 e 509. L'impresa si occupa anche di elettrificazione delle ferrovie e costruzione di locomotive elettriche negli stabilimenti di Saronno. In particolare è nota la sua collaborazione con l'ingegner Kálmán Kandó, progettista della Ganz e pioniere della trazione elettrica ferroviaria in Europa. Nel 1926 fu fondata a Pomigliano d'Arco in provincia di Napoli una fabbrica di aeroplani. Negli anni venti una seconda crisi si ebbe per il fallimento della Banca Italiana di Sconto che deteneva la maggioranza delle azioni. Anche alllora le banche erano responsabili di dissesti finanziari. La necessità di drastici cambiamenti per il salvataggio dell'impresa fece deteriorare i rapporti tra Nicola Romeo e gli altri soci; l'ingegnere lasciò l'Alfa Romeo nel 1928. Nel 1929 venne nominato senatore del Regno. Oltre che imprenditore e industriale l'ingegner Romeo si occupò in campo scientifico di problemi di geometria pura. Fu inoltre molto attivo nelle opere di beneficenza e fondò e sostenne un asilo infantile nel suo paese natale. Il 15 agosto del 1938 si spense nella sua casa a Magreglio sul lago di Como.

3.19 Guido Donegani (Livorno, 1877 – Bordighera, 1947) nacque in una casa sugli Scali Massimo d'Azeglio, zona eminentemente commerciale della città di Livorno, dove già erano approdati il nonno, Luigi Donegani, di origine comasca (nel 1846) e la famiglia Corridi, ai tempi proprietaria di un "negozio di medicinali" e poi di una distilleria.
Frequentò il biennio propedeutico a Pisa e si laureò in Ingegneria Industriale a Torino nel 1901. Seguono subito il lavoro presso i Cantieri Ansaldo di Genova, dove si occupa di demolizione di vecchie navi (e lo fa fino al 1907), e il matrimonio con la bellissima torinese Anna Coppa, che lo lascia vedovo dopo pochi mesi. Come Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Livorno risolve l'annoso problema dell'approvvigionamento idrico della città. Dal 1903 al 1907 frequenta sempre più assiduamente le miniere di rame della Società Minerarie Montecatini a Montecatini Val di Cecina, di cui è Amministratore il padre.

Giova illustrare la storia della Montecatini se si vuole comprendere la storia della chimica in Italia.
La Società anonima delle miniere di Montecatini era stata fondata a Firenze il 26 marzo 1888 da possidenti e uomini d'affari italiani e stranieri per sfruttare le miniere di rame di Montecatini in Val di Cecina, un villaggio della Maremma toscana. Il primo presidente della società fu G. B. Serpieri, già proprietario di diverse miniere, mentre vicepresidente era il banchiere parigino Jules Rostand. La scarsità di minerale ricco era uno dei maggiori ostacoli che la nuova impresa dovette affrontare, tanto che già nel 1889, per integrare le risorse cuprifere, acquistava la miniera di Boccheggiano e a fine secolo controllava i giacimenti di Fenice Massetana e Capanne Vecchie, tutti in Maremma. Ma la maggior difficoltà dei primi anni era certamente costituita dalle fluttuazioni dei prezzi del minerale, data la forte instabilità dei mercati internazionali. Particolarmente grave era la crisi che si ebbe nel 1907, allorché il valore della produzione passò dai 4.738.000 dell'anno precedente a 2.782.000 mentre l'utile cadde da 1.365.000 a 4.000 lire. Tuttavia la Montecatini, grazie alla solidità economica che le derivava dalla presenza fra i suoi azionisti delle grandi banche miste e di importanti interessi finanziari e commerciali francesi, attuò una serie di tentativi per sfuggire allo stato di incertezza che le era causato dal rame. Il più importante fu quello che condusse nel 1908 a Boccheggiano, alla scoperta di un giacimento di pirite, materia prima fondamentale per l'acido solforico, prodotto chiave della chimica per l'agricoltura, uno dei settori industriali più promettenti del paese.
In quello stesso anno Giovanni Battista e Giulio Donegani proposero la fusione fra la Montecatini e l'Unione piriti, il maggiore produttore italiano, a sua volta controllata dall'Unione concimi, la più grande azienda chimica del paese. Nel 1908 il tentativo non ebbe buon esito per l'opposizione della Commerciale e del Credito italiano, azioniste della Montecatini ma interessate anche all'Unione concimi. Ma due anni più tardi l'impresa chimica appariva in una condizione critica non superabile se non con la cessione delle azioni dell'Unione piriti. Il progetto dei Donegani, che attraverso una serie di complicati accordi con le banche italiane e con gruppi francesi esercitavano un ruolo decisivo nell'assetto proprietario della Montecatini, poté quindi realizzarsi.
Nel 1910, alla morte del padre, Guido entrò nel consiglio d'amministrazione e fu nominato amministratore delegato realizzando nello stesso anno l'assorbimento dell'Unione piriti. Da quel momento sino al 1945 l'identificazione fra Guido Donegani e la Montecatini fu totale. La nuova guida dell'impresa imponeva fin dall'inizio una serie di misure che segnarono una svolta come la riorganizzazione e il potenziamento impiantistico, la modifica dell'organizzazione del lavoro, la ristrutturazione della rete commerciale. I risultati sul piano economico furono immediati: da una produzione di 118.819 tonnellate di piriti nell'esercizio 1911 si saliva alle 238.895 tonnellate del 1914, mentre il valore della produzione, quasi quattro milioni nel 1911, era più che raddoppiato nel 1914. Le difficoltà a collocare sul mercato questi quantitativi induceva Donegani a progettare un tentativo di integrazione verticale verso la produzione di perfosfati, un settore cresciuto caoticamente in Italia dall'inizio del secolo, periodicamente afflitto da crisi di sovraproduzione e tuttavia di grande interesse dato il peso decisivo dell'agricoltura nell'economia del paese. All'iniziativa di Donegani si opponevano alcuni autorevoli consiglieri della Montecatini, preoccupati di un possibile conflitto con i due maggiori clienti della società, l'Unione concimi e la Colla e concimi. Tuttavia Donegani ottenne in questa circostanza il decisivo aiuto del direttore della Banca commerciale G. Toeplitz. La Montecatini costituiva quindi nel 1913 con la Metallurgica italiana di Livorno la Società per lo sviluppo dei superfosfati e prodotti chimici in Italia. Il disegno di integrazione subiva una battuta d'arresto, date le condizioni eccezionalmente favorevoli create dallo scoppio della grande guerra per le attività minerarie. Crebbe naturalmente l'estrazione delle piriti, data la richiesta d'acido solforico per gli esplosivi.
Ritornarono attive persino le quasi esaurite miniere di rame necessario alle coroncine dei proiettili di grosso calibro. Si tentarono iniziative in campi nuovi come nel settore della lignite e della torba ma soprattutto dello zolfo, la più rilevante risorsa mineraria dei paese.
Nel 1917 la Montecatini assorbiva la Società miniere sulfuree Trezza Albani Romagna, il più importante proprietario di miniere e raffinatore italiano fuori della Sicilia, ed elevava a 50 milioni il capitale sociale che all'inizio del conflitto era di 15 milioni. Al termine della guerra la Montecatini era il punto di riferimento dell'industria mineraria italiana; dominava nel rame e nelle piriti dove incideva rispettivamente per il 98% ed il 79% del mercato nazionale, controllava direttamente un settimo e indirettamente un terzo della capacità produttiva di zolfo, era largamente presente sia nell'attività di raffinazione di quest'ultimo minerale che nelle iniziative per sviluppare i giacimenti nazionali di combustibili fossili.
La crescita artificiale del settore minerario creata dal conflitto sembrava far considerare seriamente la possibilità di concentrarsi in questa attività anche nel dopoguerra; ciò in relazione sia all'ipotesi di un'ampia domanda di materie prime in una fase di intensa ripresa produttiva, sia alla speranza dell'acquisizione per l'Italia di territori nei Balcani e in Asia ricchi di risorse minerarie. Le aspettative andarono deluse, ma la Montecatini, che non aveva disperso le proprie iniziative né si era lanciata in operazioni borsistico-speculative, evitò la sorte dei "colossi dai piedi d'argilla" come l'Ansaldo e l'Ilva. Alla fine del conflitto fu necessario tuttavia un cambiamento degli indirizzi generali dell'impresa e si ripropose quindi il disegno di integrazione verso il settore chimico. Aveva inizio negli ultimi mesi del 1918 un insistente assedio alle due maggiori società produttrici di perfosfati, l'Unione concimi con sede a Milano, che poteva vantare 70 milioni di capitale sociale e il controllo di un gruppo di 16 imprese operanti nell'Italia settentrionale, e la Colla e concimi di Roma con 30 milioni di capitale che svolgeva la sua attività nel Centrosud. Già nel 1917 era stata assunta una consistente partecipazione nell'Unione concimi; Guido e il fratello Gustavo erano entrati nel consiglio d'amministrazione nell'ottobre 1918, e nel settembre 1919 quest'ultimo assunse la carica di amministratore delegato. Le fusioni con le due società si realizzarono nel 1920 in un clima non privo di seri contrasti interni alla Montecatini.
Affiorava un complesso intreccio d'interessi fra Montecatini, Unione coricimi, Société des phosphates tunisiens, tale da creare un aspro conflitto che oppose Guido, tenace promotore dell'iniziativa, al fratello Gustavo, anch'egli consigliere della Montecatini, ma anche amministratore delegato delle altre due società. Con l'assorbimento delle due imprese chimiche la Montecatini divenne uno dei complessi industriali più importanti del paese. Le divergenze fra i fratelli Donegani e le enormi necessità di capitali degli anni successivi al 1915 fecero si che la famiglia livornese non fosse più determinante per ciò che concerneva l'assetto proprietario. Tuttavia nel 1920 Guido era l'indiscusso leader di un'impresa che l'evoluzione economica e finanziaria degli anni precedenti aveva reso libera da pesanti tutele esterne.
Va però rilevato il determinante ruolo dei banchieri presenti al vertice della società nel sostenere il disegno di integrazione verticale. F. E. Balzarotti del Credito italiano agevolò il controllo della Colla e concimi, Toeplitz nel 1918 propose Guido D. alla presidenza della Montecatini mentre nel dibattito sulle fusioni parlò di queste come di un progetto da lui vagheggiato da lungo tempo nell'interesse della società e del paese.
Dal 1920 la Montecatini fu in una posizione di assoluta preminenza nel settore di prodotti chimici per l'agricoltura. La società gestiva direttamente 35 stabilimenti di perfosfati e acido solforico grazie ai quali controllava rispettivamente il 70 e il 60% dei mercato nazionale dei due prodotti, mentre incideva per quasi un terzo per il solfato di rame. Tuttavia Donegani dichiarava che l'obiettivo del nuovo grande organismo aziendale era di forzare i limiti del ristretto mercato interno sino ad ottenere il triplo del consumo di perfosfati che prima della guerra aveva raggiunto un tetto di quasi 1.100.000 tonnellate. Il progetto si fondava su una capillare organizzazione di propaganda e un sostanziale miglioramento dell'apparato produttivo.
Nel 1921 fu istituito un ufficio di propaganda che creò numerosi campi sperimentali, pubblicò decine di opuscoli, utilizzò il mezzo cinematografico, promosse la partecipazione a fiere campionarie ed esposizioni, mantenne rapporti con un importante canale di informazione sugli agricoltori, le cattedre ambulanti. Per l'opera di riorganizzazione degli stabilimenti Donegani dichiarava di destinare un quinto dell'aumento di capitale - da 75 a 200 milioni - realizzato per attuare le fusioni. Venivano chiusi gli impianti meno efficienti o troppo concentrati in alcune aree come in Liguria e in Veneto, rimodernati ed ampliati quelli collocati in posizioni più favorevoli, costruite nuove fabbriche fra cui particolarmente importante la fabbrica di Porto Marghera (1924).
L'iniziativa più importante degli anni Venti fu la produzione su vasta scala di concimi azotati. Il 26 maggio 1921 Donegani conosceva a Novara il giovane ingegnere Giacomo Fauser che aveva messo a punto un metodo per ottenere ammoniaca sintetica dal procedimento elettrolitico. Cinque giorni dopo si costituiva la Società elettrochimica novarese al cui capitale di 3 milioni oltre alla Montecatini (2 milioni) e a Fauser (mezzo milione) partecipò il senatore Ettore Conti che aveva promosso l'incontro. Nella seconda metà degli anni Venti la produzione di ammoniaca sintetica venne sviluppata su grande scala, tanto che nel 1927 la Montecatini disponeva di cinque stabilimenti - Novara, Mas (Belluno), Merano, Crotone e Coghinas (Sassari) - in grado di produrre 28 mila tonnellate annue d'azoto. Gli impianti andavano riforniti con grandi quantità di energia elettrica così che nel 1925 entrarono in funzione le centrali di Marlengo in Alto Adige e di Mas presso Belluno e l'anno successivo quella di Tel ancora in Alto Adige.
L'impresa ottenne un significativo risultato: non solo risolse senza il diretto supporto pubblico un problema industriale al quale i governi delle nazioni più avanzate avevano destinato ingenti risorse ma riuscì addirittura a esportare la tecnologia Montecatini-Fauser in diversi paesi fra cui la Germania. In Italia in questo periodo la Montecatini mantenne una sicura supremazia nel settore dei concimi fosfatici e controllò completamente quello degli azotati, con la sua potenzialità produttiva, mediante partecipazioni azionarie, grazie ad accordi sulla vendita. Un duro colpo venne però dal crollo dei consumi dei primi anni Trenta. Nel 1932 la domanda di concimi fosfatici precipitava a 900.000 tonnellate e la Montecatini toccò il minimo storico della produzione con 410.000 tonnellate. All'origine di queste difficoltà, oltre alle generali condizioni di crisi economica, vi erano le errate previsioni aziendali concepite nel clima euforico della "battaglia del grano".
Anche negli anni migliori la Montecatini doveva registrare una sproporzione fra apparato produttivo e consumi, così che nel settore dei fosfatici l'effettiva produzione si arrestava al 70-75% della potenzialità. La mancata saturazione degli impianti in un periodo di impegnativi investimenti rendeva sempre più impellente per la Montecatini restringere la presenza sul mercato del suo maggiore concorrente, la Federconsorzi, un compito al quale la società si dedicò con particolare determinazione, facendo leva sulla maggiore diffusione dei suoi stabilimenti sul territorio nazionale e sulla più efficiente struttura commerciale.
All'inizio degli anni Trenta la Montecatini, grazie a una indubbia superiorità tecnico-organizzativa e a un maggior peso politico, riuscì a vincere quella battaglia. Per ciò che riguarda l'industria dell'azoto alla fine degli anni Venti la Montecatini aderì a un accordo internazionale che in seguito si sarebbe basato sul criterio di riservare il mercato interno alle imprese nazionali. Del resto nel 1931 un elevatissimo dazio sul solfato di ammonio provocò di fatto la scomparsa delle importazioni di un essenziale concime azotato. Nell'autunno dello stesso anno si giunse a un'intesa fra Federconsorzi e Montecatini che, regolando la produzione in base alle capacità degli impianti e riconoscendo la piena autonomia della rete distributiva della società industriale, ne sanciva l'indiscusso predominio. In una situazione di forte recessione economica l'accordo prevedeva un aumento dei prezzi di vendita del 10% ponendo termine all'azione calmieratrice delle fabbriche cooperative.
Qualche anno prima Julio Fornaciari, presidente della Federazione nazionale bieticultori, nell'ambito dei lavori di una commissione d'inchiesta nominata dal governo, aveva efficacemente espresso il malumore del mondo rurale parlando di un monopolio tenuto sapientemente in piena efficienza e del timore degli agricoltori italiani di veder conglobato nelle mani di un uomo solo o di pochissimi uomini il movimento dei concimi chimici.
La favorevole conclusione del conflitto con la Federconsorzi mise in evidenza il benevolo atteggiamento del regime nei confronti dell'impresa. Del resto Donegani non sembra aver avuto esitazioni nei confronti del fascismo. Nel 1919 tentava l'elezione alla Camera per il partito liberale ma fu sconfitto per pochi voti. Riuscì nel 1921 nella lista del Blocco nazionale e nelle elezioni del 1924 Mussolini lo incluse nella lista nazionale "bis" per la Toscana. Durante la crisi successiva al delitto Matteotti, mentre altri industriali come G. Motta e Conti si schierarono apertamente contro il governo, Donegani lavorò a favore del capo del fascismo per il quale votò nella seduta del 15 novembre 1924 in piena astensione aventiniana. Tuttavia un rapporto della polizia politica del 1929 affermava che Donegani era un grande industriale e un forte capitalista piuttosto che un vero uomo politico.
Senza dubbio fra la Montecatini e il regime sembrava esistere una particolare sintonia. Con la battaglia del grano lanciata nell'estate del 1925, l'impresa si trovava di fronte all'opportunità di giocare un ruolo quasi istituzionale. Obiettivo comune del regime e della Montecatini fu il consenso del mondo rurale, ritenuto determinante per la costruzione politica totalitaria e altrettanto decisivo per l'espansione aziendale. Allo stesso modo una evidente convergenza di interessi si creava per l'azoto che, ottenuto da "aria acqua elettricità", era elemento base per i concimi, ma anche per gli esplosivi.
Dopo il 1922 nessuna importante misura di politica economica del governo può dirsi contraria agli interessi della Montecatini. La più significativa fu quella che nel dicembre del 1927 fissava il cambio della moneta con le divise estere equiparate all'oro sulla base di 92,46 lire per una sterlina e di 19 lire per un dollaro. Mentre "quota 90" provocava dure reazioni di parte degli industriali, soprattutto dei settori meccanico, tessile e delle fibre artificiali che temevano una forte diminuzione delle esportazioni e l'apertura del mercato interno alla concorrenza estera, Donegani dichiarava che il risanamento monetario, pur causando gravi ripercussioni nelle diverse industrie, era di minore importanza per la Montecatini. Nel 1928 l'impresa, usufruendo delle disposizioni del 23 giugno 1927, che le consentivano un risparmio rispetto alla precedente normativa fiscale, incorporava 13 società operanti nei settori degli acidi minerali e dei perfosfati con un capitale sociale complessivo di circa 111 milioni.
Se tutto ciò poneva in rilievo le buone condizioni dell'impresa, va anche ricordato che le fusioni erano possibili grazie a un'operazione finanziaria realizzata negli Stati Uniti. La stabilizzazione della moneta creò le condizioni di fiducia internazionale tali da favorire un nuovo afflusso di capitale estero, in particolare americano.
La Montecatini emetteva nel 1927 un prestito obbligazionario per 10 milioni di dollari, al tasso del 7% collocato presso due banche americane, la Marshall Field Gore Ward e la Guaranty Trust di New York; contemporaneamente si aveva, con la collaborazione delle stesse banche, un aumento del capitale sociale per 100 milioni di lire.
Sul finire degli anni Venti con diverse iniziative l'impresa superava i confini della chimica per l'agricoltura.
L'espansione e la diversificazione avevano senza dubbio una radice tecnologica: gli impianti per gli azotati, complessi e costosi, richiedevano il pieno impiego della capacità produttiva mentre la sintesi dell'azoto permetteva di ottenere direttamente da un numero limitato di elementi di base una notevole varietà di prodotti. Nel 1927 la Montecatini rilevava la maggioranza azionaria della Dinamite Nobel italiana e della Società esplodenti e prodotti chimici, conquistando così un'importante quota della produzione nazionale di esplosivi a base di nitroglicerina e nitrocellulosa.
Due anni prima - nell'ottobre del 1925 - Donegani aveva esposto agli azionisti il progetto di destinare parte dell'energia elettrica necessaria per l'azoto alla produzione di alluminio. Malgrado che con l'annessione dell'Istria l'Italia fosse entrata in possesso di vasti giacimenti di bauxite - il minerale da cui l'alluminio veniva ottenuto - il paese importava quasi due terzi del proprio fabbisogno. Con il gruppo tedesco Alluminium Werke detentore del brevetto Haglund - un procedimento elettrochimico per la produzione dell'intermedio allumina - venne costituita quindi nel 1927 la Società italiana dell'alluminio per fabbricare il metallo nell'impianto - con centrale elettrica annessa - di Morì e l'anno successivo la Società italiana allumina che apriva uno stabilimento a Porto Marghera.
Nello stesso periodo il processo di diversificazione toccava due importanti produzioni, le vernici, derivate dall'acido nitrico attraverso la nitrocellulosa, e il rayon, anch'esso esito di un percorso. elettrochimico che aveva come punto di partenza il carburo e come intermedio l'anidride acetica. In entrambi i casi la Montecatini dovette avvalersi della cooperazione di due imprese straniere: l'americana DuPont con la quale costituì nel 1928 la società Duco per le vernici e la francese Gillet, partner per il rayon nella Rhodiaceta italiana.
Lo sviluppo elettrochimico finiva tuttavia per creare seri problemi di approvvigionamento energetico. Nel 1934 il consumo fu di 1 miliardo 321 milioni kWh (l'azoto incideva per 899 milioni) di cui ben 842 acquistati. Nel 1935 l'impresa dovette contraddire il programma che vantava l'azoto autarchico da "acqua aria energia elettrica": con la costruzione, in società con l'Italgas, del grande stabilimento di San Giuseppe di Cairo; per l'idrogeno necessario alla sintesi dell'azoto si utilizzarono i gas di cokeria e quindi un combustibile importato.
In realtà che la leggenda del "carbone bianco" disponibile senza limiti e a prezzi minimi per l'Italia andasse ridimensionata era chiaro al Donegani fin dalla metà degli anni Venti; l'aumento che nel 1925 portava il capitale sociale da 300, a 500 milioni era stato in gran parte utilizzato per gli impianti idroelettrici dell'Alto Adige e del Veneto oltre che per l'acquisto dalla Società per forze idrauliche della Sila di 400 milioni di kWh annui necessari per la produzione nel Mezzogiorno. La solidità industriale e finanziaria dell'impresa tuttavia era tale in questa fase da consentirle di affrontare senza eccessive preoccupazioni impegni non certo lievi. Nel 1925 la consistenza delle riserve era di 314 milioni, più di tre quinti del capitale sociale e l'azienda appariva vigorosamente appoggiata e protetta dalle grandi banche. Nel 1927 la Commerciale risultava in possesso di più di un milione di azioni su un totale di cinque milioni, mentre con il Credito italiano e il Banco di Roma deteneva quasi il 30% del capitale. Particolarmente significativo fu il fatto che i banchieri Toeplitz, Balzarotti e Galicier, titolare dell'omonima banca parigina, fossero i soli ad affiancare Donegani al vertice dell'impresa in quel comitato direttivo al quale il consiglio d'amministrazione nel 1924 delegava i più estesi poteri per la gestione e l'amministrazione della società. Di speciale rilievo fu il ruolo svolto da Toeplitz, che sin dal 1910 appoggiò Donegani nei tornanti decisivi della sua ascesa e che grazie ad una vasta influenza sul mondo industriale italiano risolse a vantaggio dell'impresa alcuni difficili "contenziosi" come nel caso dei rapporti con i "fornitori di elettricità".
Alla vigilia della grande crisi la Montecatini era ormai il maggior gruppo chimico italiano tanto da esercitare una schiacciante superiorità sull'intero settore. Nel 1929 l'azienda controllava 44 società con oltre 27.000 dipendenti e pruduceva l'80% delle piriti italiane, il 55% dell'acido solforico, il 62% dei perfosfati, il 65% del solfato di rame, quasi l'80% dell'acido nitrico, i due terzi dei concimi azotati.
Tuttavia, in un confronto complessivo, la distanza con i maggiori gruppi europei era ancora rilevante. Nel 1925 sei grandi società chimiche tedesche davano vita alla I. G. Farbenindustrie con un capitale di venti miliardi di lire, mentre l'anno successivo le quattro maggiori aziende inglesi formavano la Imperial Chemical Industries (ICI) che dominava l'intera produzione chimica britannica e disponeva di un capitale di circa 6 miliardi.
Più che le dimensioni. un elemento determinante a indicare il divario fra la Montecatini e i più importanti gruppi continentali era il fatto che questi svolgevano in misura preponderante la loro attività nel più avanzato comparto della chimica organica. In questo senso la posizione della Montecatini fu emblematica del ritardo dell'industria italiana che, attratta dalla possibilità di ottenere energia a basso costo, aveva immobilizzato ingenti risorse nella traiettoria elettrica, risultando quindi incapace di investire in più difficili specializzazioni, come quelle della chimica derivata dal trattamento dei combustibili fossili.
Il ciclone che seguì il crollo di Wall Street fece sentire i suoi effetti anche sulla Montecatini. Tuttavia all'inizio degli anni trenta l'azienda compiva un importante passo per il completamento del proprio assetto industriale, l'ingresso nel settore della chimica organica, con l'acquisizione delle imprese chimiche nazionali associate (ACNA), il più importante produttore italiano di coloranti artificiali, un comparto basato sullo sfruttamento dei derivati dal carbone che presenta significative diversità con le precedenti esperienze industriali della Montecatini. La tecnologia era meno complessa rispetto all'azoto sintetico ma richiedeva una maggiore attenzione alla possibilità di ottenere economie di scala realizzando un fluido collegamento fra le diverse fasi produttive. Di primaria importanza era il problema della commercializzazione.
Nel 1931 la Montecatini ereditava dall'ACNA dell'Italgas i tre stabilimenti di Cengio, Cesano Maderno, Rho, un complesso che aveva superato molte carenze dei primi anni Venti, ma che tuttavia si caratterizzava ancora per scarso coordinamento e specializzazione produttiva.
La riorganizzazione fu affrontata con gli stessi criteri adottati dieci anni prima per il settore dei concimi. Subito dopo l'acquisizione si realizzava una ben definita divisione dei compiti per cui la produzione degli intermedi era concentrata a Cengio, quella dei coloranti a Cesano Maderno dove si trasferivano le lavorazioni di Rho che venne chiuso. Allo stesso tempo, per irrobustire la nuova azienda, la Montecatini acquistava una larga partecipazione in una ragguardevole ditta di coloranti, la Società chimica lombarda Bianchi, con la quale si cercava di pervenire a una integrazione sul piano commerciale. Di fatto fra il 1931 e 1935 si aveva il raddoppio della produzione che passò da 52.000 a 104.000 quintali. Tuttavia ancora nel 1934, per impedire la massiccia presenza sul mercato italiano della concorrenza estera, fu necessario un decreto governativo che istituiva un apposito comitato per l'esame delle richieste d'importazione. Che l'impresa non fosse agevole era confermato dal fatto che nella nuova società veniva dall'inizio coinvolta la potentissima I.G. Farben con il 49% delle quote azionarie.
Il salvataggio della più importante azienda italiana di coloranti fu però per la Montecatini una scelta per molti versi obbligata. Premettero sicuramente ragioni strategico-difensive. Altrettanto valide erano motivazioni di ordine tecnico-economico. Non bisogna però sottovalutare le conseguenze del rapporto che negli anni Venti si era instaurato fra impresa e potere politico: la logica del do ut des che esso implicava emerge con grande evidenza nel decennio successivo. L'intervento nell'ACNA fu in modo esplicito richiesto dal capo del governo. Similmente nel 1934 per scongiurare il pericolo di disoccupazione dei 1.500 operai della Società miniere di Montevecchio che in Sardegna gestiva gli omonimi giacimenti piombiferi, la Montecatini, insieme con l'altra grande azienda del settore, la Monteponi, fu invitata a ricostruire la società. Il 17 ottobre 1934 venne istituito un dazio protettivo sul minerale di piombo cosi che la Montevecchio poté risollevarsi.
La prima metà degli anni Trenta segnò per la Montecatini un rallentamento rispetto all'intenso processo di crescita che si era registrato nel periodo precedente. Il capitale sociale fu quadruplicato fra 1911 e 1920, triplicato nel decennio successivo, mentre passò da 500, a 600 milioni fra il 1930 e il 1936. L'industria dell'azoto, cresciuta del 53% tra il '27 e il '29, nei due anni seguenti aumentava solo del 13%, il consumo di energia elettrica, salito del 65% dal 1928 al 1930, nel triennio 1930-32 aveva un incremento che non andava oltre il 15%. Anche in questa fase non mancarono tuttavia episodi di espansione.
Le novità potenzialmente più interessanti si ebbero nella chimica industriale. Nel 1930, riorganizzando la produzione di litopone, il gruppo partecipava più largamente al settore dei pigmenti, mentre quasi contemporaneamente iniziò la produzione dell'alcool metilico, materia prima per la fabbricazione della formaldeide, a sua volta essenziale per le resine sintetiche e le materie plastiche.
Inoltre, dall'Italgas la Montecatini rilevava anche lo stabilimento di Bussi, in Abruzzo, che le consentiva, grazie all'elettrolisi dei cloruri alcalini, di rafforzare la produzione di esplosivi, e l'azienda farmaceutica Schiapparelli con lo stabilimento di Settimo Torinese, in seguito riorganizzata nell'ambito della Farmaceutici Italia, l'impresa, costituita in società con la Rhône-Poulenc, con la quale dopo il 1935 il gruppo entrava con notevole impegno nel settore dei prodotti medicinali.
La Montecatini non sembrò sfavorita dalla politica industriale del governo che cercava di affrontare i gravissimi problemi creati dalla crisi con la limitazione e il controllo delle capacità produttive. Nel giugno 1932 fu approvata una legge sulla costituzione di consorzi obbligatori fra esercenti uno stesso ramo di attività economica, completata nel gennaio successivo da una normativa sulla disciplina degli impianti industriali. Alla fine degli anni Trenta la Montecatini esercitava un peso determinante nei cartelli del settore minerario e chimico, come nell'azoto con la quota del 71%, negli anticrittogamici con il 60%, negli esplosivi con il 65%.
Maggiori problemi per la leadership aziendale avrebbero potuto derivare dai cambiamenti nell'assetto della proprietà provocati nel 1933 dal definitivo tramonto della banca mista e dalla nascita dell'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Rilevando le quote della Commerciale, del Credito italiano, del Banco di Roma, l'IRI era diventato il maggior azionista della Montecatini; alla fine del secondo conflitto mondiale controllava circa il 20% del capitale. È questo un dato di fatto che evidentemente preoccupava Donegani, se nel 1937 egli era fra i più tenaci oppositori della costituzione dell'IRI in ente permanente.
Tuttavia il modo di operare di A. Beneduce (presidente dell'IRI) attento a non compromettere gli equilibri faticosamente raggiunti fra sfera pubblica e capitalismo privato dopo la grande crisi, e deciso a non invadere campi di attività per i quali non disponeva di autonome risorse manageriali, non sembrò creare all'impresa vincoli di alcun genere; Beneduce faceva parte del comitato esecutivo dal 1932, ma il suo atteggiamento appariva del tutto simile a quello di Toeplitz.
Quando il 23 marzo 1936, in un discorso tenuto all'assemblea nazionale delle corporazioni, Mussolini dichiarava l'assoluta necessità dell'autarchia economica da ottenersi mediante un piano regolatore dell'economia italiana, la sintonia fra impresa e regime sembrò raggiungere il suo apice.
In effetti il piano autarchico della chimica esposto dal vicepresidente della corporazione Angelo Tarchi nell'agosto del 1937 aveva nella Montecatini un indispensabile perno e la seconda metà degli anni Trenta coincise per l'impresa con alcune impegnative realizzazioni ed interessanti esperienze sul piano tecnico-scientifico: la grande cokeria di San Giuseppe di Cairo, il potenziamento del ciclo dell'alluminio, la fondazione con l'Azienda generale italiana petroli (AGIP) e le Ferrovie dello Stato dell'Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) per l'idrogenazione degli olii minerali, la collaborazione fra Giacomo Fauser e Giulio Natta per la sintesi dei metanolo.
Tuttavia il clima creato dalla politica autarchica faceva compiere all'azienda scelte che una strategia dettata da logica squisitamente economica avrebbe probabilmente evitato. Ad esempio nel settore minerario nel 1936 si rilanciava la produzione e la ricerca della lignite a Ribolla sebbene solo un anno prima fonti ufficiali dell'impresa affermassero che da tempo non sussisteva la pura convenienza diretta della gestione. Allo stesso modo si può ricordare che nel 1936 la Società italiana dello zinco della Montevecchio metteva in funzione a Porto Marghera un grande impianto elettrolitico proprio nel momento del crollo dei prezzi internazionali, mentre per produrre alluminio "totalmente italiano" si preferiva il processo Haglund (che poteva servirsi delle bauxiti nazionali a basso tenore di alluminio) al sistema Bayer, più efficiente sotto il profilo energetico e utilizzato con successo dalla concorrenza straniera.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale la Montecatini offriva l'immagine di una potenza dell'economia italiana.
Tutte le variabili dimensionali erano in fase di crescita accelerata: il capitale sociale era più che raddoppiato rispetto ai 600 milioni del 1936; i dipendenti erano quasi 60.000, il consumo d'energia elettrica raggiungeva la decima parte del totale nazionale, l'egemonia nelle produzioni "tradizionali", le piriti, i perfosfati, i concimi azotati si era rafforzata, e senz'altro considerevole era la quota del mercato interno nei nuovi campi dei cloruri alcalini, degli intermedi, dei coloranti, dello zinco elettrolitico, dell'alluminio.
Il prestigio dell'azienda era al suo apice. Donegani, che nel 1943 verrà nominato senatore, era definito nel celebre Taccuino di Ettore Conti fra i pochissimi che dominavano completamente i vari rami dell'industria mentre l'acquisto delle azioni Montecatini era paragonato all'investimento in titoli di Stato.
Il divario con i grandi gruppi chimici stranieri si mantenne però in proporzioni notevoli. Nonostante la Montecatini avesse considerato con notevole interesse la prospettiva di sviluppo e collaborazione internazionale - lo dimostrano la massiccia esportazione degli "impianti Fauser", la nascita di importanti consociate estere, la cooperazione per iniziative in Italia con imprese quali la DuPont, la I. G. Farben, la Rhône-Poulenc -, nonostante negli anni Trenta l'azienda avesse seriamente perseguito la via della chimica industriale, dopo il successo nell'azoto sintetico non era riuscita a raggiungere i massimi livelli tecnologici mondiali mentre il baricentro produttivo era rimasto saldamente legato alla chimica per l'agricoltura.
È necessario a questo proposito dare adeguato rilievo alle condizioni del mercato nazionale, caratterizzato rispetto a quello di paesi come la Francia, l'Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti da un'elevata incidenza della popolazione attiva occupata in agricoltura, da una bassa produzione manifatturiera pro capite, da una scarsa diffusione di alcuni beni di consumo durevole come l'automobile, indispensabili allo sviluppo della chimica industriale.
Le caratteristiche del mercato nazionale, un contesto politico-economico che garantiva l'impresa dalla minaccia di una seria competizione, non costituivano certo gli stimoli migliori per l'innovazione organizzativa. Mancava alla Montecatini quel circolo virtuoso che sistematicamente lega marketing, ricerca e sviluppo, produzione, tipico delle imprese chimiche americane e tedesche. La strategia tecnologica dell'azienda italiana era affidata negli anni fra le due guerre a un "geniale imprenditore", Giacomo Fauser; un grande laboratorio centralizzato fu aperto a Novara solo nel 1939.
Nella Montecatini, nonostante la politica di diversificazione, prevalse un forte accentramento decisionale. Da quando, nella seconda metà degli anni venti, la Montecatini si espanse in campi diversi dalla chimica per l'agricoltura, per controllare i nuovi settori venne utilizzata la forma giuridico-organizzativa della "consociata", alla quale si avrebbe voluto garantire flessibilità e autonomia operativa. In realtà al vertice delle società affiliate vennero spesso posti stretti collaboratori di Donegani, e non tanto per controllarne i risultati economici quanto per garantirne la conformità gestionale alle direttive della Montecatini, che delle consociate mantenne il controllo di funzioni fondamentali, la contabilità, il personale, le vendite, gli approvvigionamenti. Una così stretta tutela traeva probabilmente origine dalla consapevolezza della fragilità del processo di diversificazione, per la novità delle tecnologie, per le difficoltà della commercializzazione in un mercato ristretto come quello italiano. L'accentramento decisorio era infine il risultato delle peculiarità della genesi e dell'evoluzione del vertice aziendale. Donegani, pur con i vincoli che gli ponevano il potere politico e, forse, i grandi azionisti, determinava da solo le strategie della Montecatini e delle consociate mentre seguiva da vicino l'attività gestionale di entrambe; le sue caratteristiche di leader erano tali che, nonostante le dimensioni e la relativa dispersione della proprietà, la Montecatini appariva ancora un'azienda imprenditoriale. Il secondo conflitto mondiale non rappresentò per la Montecatini quella ulteriore occasione di crescita che era stata la guerra del 1915-18. Se inizialmente si ebbe un naturale incremento di alcune produzioni minerali, di esplosivi, di prodotti farmaceutici, dopo il 1941 le difficoltà di approvvigionamento, la scarsezza di manodopera, le distruzioni, le vicissitudini provocate dalla divisione del paese posero l'impresa in una situazione fra le più critiche.
Gli ultimi anni di Donegani furono molto amari. Accusato di collaborazione con il nemico fu arrestato e poi rilasciato dai Tedeschi nel marzo del '44. Di nuovo arrestato per lo stesso motivo dagli Inglesi nel maggio del '45, dopo la scarcerazione, nel luglio successivo fu colpito da mandato di cattura del Comitato di liberazione nazionale che gli addebitava l'attivo sostegno al regime. Visse quindi per circa un anno, fino al proscioglimento, in clandestinità e morì, in stato di grave deperimento psicofisico, il 16 aprile 1947 a Bordighera.

IL LABORATORIO DI RICERCA

La Società Elettrochimica Novarese nasce nel maggio 1921, grazie all'iniziativa di Giacomo Fauser e Guido Donegani e, subito dopo (inizio 1922), viene realizzato il primo laboratorio di ricerca all'interno dello stesso stabilimento. Nel novembre 1934 è inaugurato in un nuovo edificio, esterno all'azienda, il "Laboratorio di Ricerche di Chimica Inorganica". La massiccia struttura tutt'oggi esistente, è un significativo esempio di archeologia industriale. Nel luglio 1941 nasce infine l'Istituto di Chimica (intitolato in seguito a Guido Donegani), l'espressione più significativa del credo "ricerca e innovazione" condiviso da Fauser e Donegani. Anche durante la seconda guerra mondiale, Fauser continuò le sue ricerche sull'idrogenazione dei combustibili (scarseggianti in periodo bellico), mentre altri studiosi si indirizzarono verso nuovi processi farmaceutici, verso la creazione di nuovi coloranti, pigmenti, nuove leghe e l'adattamento del processo DuPont sul nylon, di cui la Montecatini aveva comprato i brevetti dall'azienda statunitense. Questi studi porteranno poi allo sviluppo della produzione del nylon e al grande successo di questo materiale, prodotto nel dopoguerra negli stabilimenti Rhodiatoce (Montecatini) di Pallanza.

3.20 Giuseppe Volpi di Misurata (Venezia 1877 - Roma 1947), figlio dell'ingegnere Ernesto Volpi e di Emilia De Mitri. Rimasto orfano di padre, con pochi soldi in tasca abbandonò l'università di Padova e iniziò a lavorare. Come rappresentante di commercio, entrò in contatto con gli ambienti finanziari legati alla Banca commerciale e con l'appoggio di quest'ultima promosse attività economiche in Oriente e nei Balcani. Nel 1903 assicurò al capitale italiano il monopolio dei tabacchi nel Montenegro e nel 1905 la società Antivari, da lui fondata, ottenne l'appalto per la costruzione della ferrovia Antivari-Vir Pazar. Investì i guadagni nella nascente industria elettrica e nel 1905, rientrato in patria, costituì la SADE (Società Adriatica di Elettricità), acquisendo in tal modo una posizione di rilievo nel settore della produzione e della fornitura di energia elettrica. Nel 1917 fu tra i protagonisti della realizzazione del nuovo Porto Marghera e dopo il primo conflitto mondiale acquistò prestigiose catene alberghiere, gestendo a Venezia il Grand Hotel e l'Excelsior. Fu Presidente dell'Assonime dal 1919 al 1921. Benché massone, aderì al fascismo e dal 1922 al 1925 fu governatore della Tripolitania italiana. In questa veste avallò le azioni di dura repressione ordinate dal generale Rodolfo Graziani contro i libici. Nel 1925 gli fu concesso il titolo di conte di Misurata da Vittorio Emanuele III. Dal 1925 al 1928 fu Ministro delle finanze del governo Mussolini: la sua azione governativa fu tesa ad avvicinare i capitalisti al fascismo. Per inciso, va ricordato che anche se la Massoneria fu posta fuorilegge, tutti e quattro i “quadrumviri” della Marcia su Roma (Italo Balbo, Michele Bianchi, Cesare Maria De Vecchi e Emilio De Bono) appartenevano alla Gran Loggia d'Italia. Alla stessa comunione appartenevano anche altri importanti gerarchi quali Roberto Farinacci, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo e Giovanni Marinelli. Fu presidente della Confindustria dal 1934 al 1943. In tale veste, Volpi si fece promotore degli interessi del capitalismo italiano presso il regime, assicurando in cambio il sostegno e la collaborazione del mondo industriale al fascismo e al progetto politico mussoliniano. Tale sostegno iniziò a venir meno nel 1943, quando le gravi distruzioni apportate alle infrastrutture e agli impianti industriali italiani dall'offensiva angloamericana - e la coscienza che la guerra fosse persa - misero in crisi il quadro politico ed economico del Paese[. Nel 1938 divenne presidente del consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali al posto del dimissionario Edgardo Morpurgo, che, in quanto ebreo, dovette cedere la guida dell'istituto assicurativo a causa delle leggi razziali. Negli stessi anni nei quali fu al vertice della Confindustria fu anche presidente della Biennale di Venezia e, in tale ambito, fu il principale promotore della 1ª Esposizione Internazionale d'Arte Cinematografica, oggi conosciuta come Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Per questa ragione il premio al miglior attore e quello alla miglior attrice (le "Coppe Volpi") portano il suo nome. Nei primi mesi del 1943, avvertendo il formarsi di una sempre più vasta e trasversale opposizione alla prosecuzione della guerra, all'alleanza con Hitler, e al suo stesso governo nei vertici politici e finanziari del Paese, Mussolini procedette a un vasto rimpasto del suo governo e rimosse Volpi dalla presidenza di Confindustria, sostituendolo, il 30 aprile con il direttore generale, Giovanni Balella. Per questo motivo Volpi non poté prender parte alla seduta del Gran Consiglio del fascismo che, nella notte tra il 24 e il 25 luglio decretò la fine del regime. Dell'evento Volpi fu informato, a quanto pare, solo la mattina successiva da Dino Grandi, al quale era legato da personale amicizia. Volpi cominciò a presentare i primi sintomi della malattia che nel giro di pochi anni spense le sue facoltà intellettive e lo condusse alla morte. Tentò due volte di fuggire in Svizzera, senza tuttavia riuscirci. Il giorno prima del suo secondo tentativo di fuga, delegò la cura delle sue imprese al conte Vittorio Cini. Nel dopoguerra subì una serie di procedimenti per le sue responsabilità durante il regime fascista. Il suo stato gli impedì di presentarsi davanti ai giudici, ma grazie all'amnistia Togliatti e alle testimonianze a suo favore di autorevoli personalità antifasciste, fu prosciolto da ogni accusa. Acquistò e restaurò Villa Barbaro di Maser, dimora cinquecentesca opera di Andrea Palladio ed inserita nei siti patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel 1996. Giuseppe Volpi si sposò per la prima volta, a Firenze l'8 ottobre 1906, con la nobile Nerina Pisani (morta a Roma il 29 novembre 1942), immortalata da d'Annunzio nel romanzo Il fuoco, da cui ebbe due figlie: Marina e Anna Maria Losanna. In seconde nozze sposò l'algerina Nathalie El Kanoni (Leonia Kanoni o Nathalie El Kanoui), nata a Orano. Dall'unione nacque (1938) Giovanni Volpi.

3.21 Riccardo Gualino (Biella, 1879 - Firenze, 1964). Figlio del titolare di una piccola impresa di oreficeria, una volta completati gli studi ginnasiali, nel 1896, si impiega come apprendista in una ditta di importazione di legnami americani a Sestri Ponente. A Genova Gualino rimane cinque anni, durante i quali, tra l’altro, studia giurisprudenza. Chiuso nel 1901 il periodo di apprendistato, Gualino lavora come viaggiatore di commercio a provvigione per varie imprese, legandosi in particolare alla ditta Ramponi di Milano. Per questa, di cui è procuratore, si occupa dell’importazione di legno d’abete acquisendo esperienza nel campo dello sfruttamento forestale. Nel 1904 si trasferisce a Casale Monferrato, presso il cugino Tancredi Gurgo Salice, attivo nel comparto delle calci. Qui costituisce, nel 1905, la Società in accomandita per il commercio dei legnami, con il cugino in posizione di socio accomandante e sottoscrittore di maggioranza. A partire dal 1905 avvia un’attività di importazione di legname pregiato dal Nord America, realizzando nei due anni successivi ingenti utili. Parallelamente entra nel gruppo di azionisti di controllo della Banca agricola di Casale. Nel 1906 fa poi il suo ingresso in un settore industriale in fortissima espansione, quello del cemento, concorrendo, con i Gurgo Salice, alla costituzione dell’Unione italiana cementi. In rapido sviluppo negli anni successivi, l’impresa diventa nel 1912 il centro del Sindacato nazionale calce e cementi e, di fatto, il principale antagonista del gruppo Pesenti di Bergamo sulla scena nazionale. Nel 1908 costituisce la Società anonima Riccardo Gualino, con 5 milioni di capitale. Suoi partner nella società sono, oltre ai Gurgo Salice, alcuni amministratori della Banca agricola ed Erminio e Gaudenzio Sella, nipoti di Quintino, esponenti della piccola – ma solida e stimata – Banca Sella di Biella. La nuova anonima si lancia immediatamente in una serie di spettacolari acquisizioni in Europa orientale, entrando in possesso, nello stesso 1908, di migliaia di ettari di tenute boschive in Ucraina e nei Carpazi orientali (Romania). Nel 1910, infine, mentre avvia vasti programmi di sfruttamento di queste proprietà dotandole di segherie, impianti di trasporto e altre infrastrutture, Gualino rileva la quota di controllo del gruppo Forst Union AG, pesantemente indebitato con il sistema bancario viennese, ma ancora proprietario di una dozzina di tenute nell’Impero asburgico e nella stessa Romania, oltre che titolare della vicepresidenza del cartello degli esportatori austriaci di legname. Gualino tenta quindi di ottenere, senza successo, un ribasso dei proibitivi prezzi di esportazione fissati dal cartello. In alternativa alla via austriaca, in collaborazione con la famiglia Piaggio, arma allora una flottiglia di velieri da trasporto per l’importazione diretta dal Mar Nero, mentre sul versante della commercializzazione si dota di una struttura adeguata acquistando nel 1910 il Cantiere lombardo (trasformato in Società nazionale legnami e materiali da costruzione) e avviando la costruzione di un esteso magazzino alle porte di Milano. Più che nelle difficoltà di realizzazione, i limiti di un tale disegno appaiono evidenti nei suoi presupposti finanziari, poggiando di fatto tutta l’espansione di quegli anni sul ricorso sistematico all’indebitamento e su un meccanismo per cui ogni nuova acquisizione serve da garanzia ai crediti ottenuti per la successiva, se non per ripagare se stessa. Alla base di questa piramide di debiti è l’anonima di Gualino, con l’irrisorio capitale di 7,5 milioni nel 1910, e la pesante esposizione delle piccole banche piemontesi, dalla Sella all’Agricola, che si troveranno a far fronte al panico della clientela e a una corsa agli sportelli quando, nel 1912, tutto il sistema si affloscia. A partire dal 1911, infatti, le chiusure sempre più frequenti dei Dardanelli provocate dalla guerra di Libia e poi dai conflitti balcanici, sorprendono Gualino mentre attende l’arrivo delle prime grosse partite di legna nei porti occidentali; fallisce poco dopo anche il tentativo in extremis di cedere la parte maggiore del suo complesso di attività a una combinazione finanziaria anglo-franco-svedese. Nel 1913, inoltre, oberato da oltre 50 milioni di passivo, il finanziere è costretto a chiedere una moratoria e a mettere le sue attività nelle mani di una commissione di creditori: questi si rivalgono infine acquisendo e rivendendo le tenute migliori. Dopo il crollo degli interessi all’estero e l’assoluzione per insufficienza di prove nel 1915 al processo intentato contro di lui da alcuni azionisti di minoranza della sua società, Gualino riprende l’attività nel settore del legname e dei materiali da costruzione incentrata sull’impresa di Milano, intrattenendo buoni rapporti con i Feltrinelli, compiendo investimenti fondiari a Roma, cominciando ad avvicinarsi alla chimica e soprattutto spostandosi su settori, come quello del commercio del carbone, divenuti estremamente redditizi con la guerra. La ripresa in grande stile del suo giro di attività data tuttavia al 1917, quando, in stretta combinazione con Giovanni Agnelli, si inserisce nel grande affare dei trasporti degli aiuti americani all’Europa. È in questa fase che alla Società marittima e commerciale italiana, da lui creata già nel 1914, si affiancano la Società di navigazione italo-americana (Snia) e due imprese negli Stati Uniti: la Marine and Commerce Corporation of America e la International Shipbuilding Company, destinate rispettivamente al commercio del carbone e alla produzione di motonavi nel Texas. Strettamente finalizzate allo sfruttamento della congiuntura, entrambe queste società falliscono clamorosamente con la crisi di riconversione dell’immediato dopoguerra, valendo non di meno ingenti profitti al loro fondatore. Sin dal 1918, d’altra parte, Gualino è impegnato al fianco di Agnelli nello scontro con il gruppo Ansaldo-Banca di sconto dei fratelli Mario e Pio Perrone, che conduce a un incrocio delle partecipazioni Fiat e Snia e porta Gualino alla vicepresidenza del gruppo automobilistico torinese. Questa stretta collaborazione si estende poi, fino alla metà degli anni Venti, a una serie di affari che vanno dal tentativo di scalata al Credito italiano, all’acquisto del quotidiano «La Stampa», alle manovre sulla «Gazzetta del popolo», al progetto di collegamento dei tre poli del triangolo industriale, Milano, Genova e Torino, con una ferrovia celere, fino ai comuni e via via più conflittuali interessi nel settore dei cementi e in quello dell’auto. Parallelamente, a partire dal 1920, prende il via la terza e più fortunata stagione d’affari di Gualino, quella della Snia, trasformata quell’anno in Società nazionale industria e applicazioni viscosa. Rilevati alcuni brevetti e due piccoli impianti sperimentali, Gualino realizza enormi investimenti nel settore della seta artificiale, facendo della Snia, entro il 1925, una delle maggiori imprese italiane e una delle principali produttrici di rayon a livello mondiale, capofila di un vasta costellazione di cui fanno parte imprese come il Setificio nazionale, l’Unione fabbriche viscosa, la Società italiana seta artificiale e i Calzifici nazionali riuniti. Sull’onda del successo nel nuovo comparto chimico-tessile, le attività di Gualino riprendono l’espansione. Nel 1921 acquisisce il controllo, inizialmente insieme ad Agnelli, della Banca Cravario e C., trasformata per l’occasione in Banca agricola italiana. Con ciò ha anzitutto la possibilità di regolare le pendenze del periodo prebellico con la Banca agricola di Casale, che viene assorbita dal nuovo istituto. Dopo l’acquisizione, alla metà degli anni Venti, del Credito piemontese, della Banca della penisola sorrentina e della Banca biellese, la Banca agricola italiana diventa di fatto la banca mista di Gualino, una struttura con una clientela ramificata e buone capacità di raccolta del risparmio, su cui far poggiare ampie e spesso spericolate combinazioni d’affari. Nel 1924, inoltre, mentre rilancia l’attività dell’Unione italiana cementi, Gualino costituisce la maggiore concentrazione dolciaria italiana, l’Unica, che riunisce alcune delle maggiori aziende nazionali del comparto, dalla Talmone, alla Moriondo e Gariglio, alla Bonatti, con l’obiettivo di trasformare il cioccolato in un genere di consumo di massa, ma risulta nei fatti sovradimensionata rispetto al ristretto mercato italiano. Alla metà degli anni venti Gualino è uno dei personaggi di spicco del panorama economico-imprenditoriale italiano, padrone di uno degli imperi industriali più vasti del Paese e centro di articolate reti di interessi che lo legano ai maggiori esponenti del mondo finanziario nazionale e internazionale. Sono questi gli anni in cui i successi tecnici e produttivi delle sue imprese, e segnatamente della Snia, ricevono l’apprezzamento di Mussolini, il quale per altro verso si vede costretto a tollerare le frequentazioni artistico-intellettuali di Gualino, se non esplicitamente ostili al fascismo, quanto meno ostentatamente a esso estranee. La grande casa di Gualino a Torino, la villa di Sestri Levante e il castello nei pressi di Casale diventano infatti in questi anni i punti d’incontro degli ambienti più raffinati e vivaci della cultura torinese dell’epoca.. La manovra di rivalutazione della lira aggrava, per un verso, il forte indebitamento su cui si fonda il suo impero industriale, mentre annulla, dall’altro, le prospettive di espansione del mercato nazionale e degli stessi sbocchi esteri cui è legato il successo della maggior parte delle sue imprese. Le esplicite proteste per la politica di "quota 90", per quanto espresse in forma privata in una lettera dell’aprile 1927, hanno l’effetto di indispettire Mussolini. D’altro canto, già l’anno precedente i crescenti contrasti con Agnelli, non da ultimo causati dagli interessi di Gualino e dei suoi nuovi soci francesi nel settore automobilistico, sono sfociati in una rottura con la Fiat e in un pericoloso isolamento dal fronte confindustriale. A una simile situazione l’imprenditore reagisce spostando all’estero il baricentro dei suoi affari: in Inghilterra, dove ottiene un importante credito della Hambro’s Bank, e soprattutto in Francia, dove già nella prima metà degli anni Venti si era impadronito del notevolissimo patrimonio immobiliare della Paris Foncier e dove, in occasione della quotazione in borsa dei titoli Snia, nel 1926, ha avviato una estesa collaborazione finanziaria con il banchiere parigino A. Oustric. All’estero Gualino crea un impero finanziario-industriale di dimensione non dissimile da quella del suo gruppo di interessi italiani, ma anche questo, basato ancora una volta su una girandola di debiti e su spericolate operazioni di borsa, non vale a frenare il progressivo deterioramento della sua posizione finanziaria e del suo prestigio. Nell’orbita della Holding française, creata nel 1928 insieme con la corrispettiva Holding italiana, entrano allora imprese automobilistiche, come la Peugeot e la Ford francese, partecipazioni nel settore assicurativo (Union vie) e soprattutto imprese del settore tessile, chimico-tessile, e dell’abbigliamento: Blanchisseries de Thaon, gli Établissements Desurmont (lana) di Rubaix, la filanda Bloch in Alsazia, la Sarlino (Societé anonime rémoise de linoleum) principale produttrice francese del settore, gli Établissements Maréchal di Lione (tela cerata), varie maison dell’alta moda parigina come Deuillet-Doucet, Agnès e Germaine Patat, e il grande gruppo delle Chaussures françaises, che riunisce 17 stabilimenti, sette catene di negozi al dettaglio e circa 10.000 dipendenti. Presi nel meccanismo del continuo gioco al rialzo, Gualino e Oustric arrivano, seppure per brevi periodi e controllando molto parzialmente le leve del potere effettivo, a occupare i vertici di imprese quali la Peugeot, la Tobler o, in Italia, la Cinzano. Ciò permette loro di garantire con i nomi di queste imprese nuove e vaste emissioni di titoli e così per qualche tempo di tamponare la situazione di crescente indebitamento che la crisi internazionale del 1929 fa precipitare. Il crollo della vasta costellazione d’affari di Gualino parte proprio dalla Francia, con il fallimento, nel 1930, della Banca Adam, una controllata del gruppo Oustric, seguita dal tracollo, a catena, di tutto il giro d’interessi che ruota intorno al socio francese, di cui si scoprono oltretutto le malversazioni all’epoca dell’introduzione in Borsa dei titoli della Snia. Con quest’ultima società ormai sotto la tutela del cartello internazionale del rayon, le altre imprese, dall’Unica all’Unione cementi, in gravi difficoltà per la recessione, lo scandalo Oustric comporta il venir meno anche di molte delle garanzie – prima fra tutte la Salpa – con cui Gualino, tra il 1929 e il 1930, ha ottenuto alcuni interventi straordinari della Banca d’Italia a favore della Banca agricola. Nell’ottobre del 1930, attaccato frontalmente da Mussolini con un discorso al Consiglio delle corporazioni, bollato come speculatore dalla Confindustria e oramai conclusa alla Banca d’Italia l’era di Bonaldo Stringher, Gualino viene arrestato nel gennaio 1931 e condannato dal Tribunale speciale a cinque anni di confino a Lipari, per aver arrecato gravi danni all’economia nazionale. Le attività della Banca agricola vengono smembrate e passate a vari istituti di credito, la Snia finisce sotto il controllo di Marinotti e Borletti, mentre le altre aziende del gruppo vengono liquidate o temporaneamente affidate a gestioni straordinarie sotto la vigilanza dall’Istituto di liquidazioni. Complessivamente, a due anni dal crack, una volta portata a termine cioè la prima fase della liquidazione, i vari organismi dello Stato accusano ancora 300 milioni di perdite, che riducono poi di circa un sesto attraverso le cessioni e i risarcimenti realizzati entro gli anni Trenta. Gualino rimane alle Eolie poco più di un anno, e riottiene la libertà nel settembre 1932. Negli anni successivi ricomincia a tessere la trama dei suoi affari, sia pure da una posizione più appartata che in passato. Insieme con l’Italia, sede delle sue attività è in quegli anni in primo luogo la Francia, dove pure è processato e condannato nel gennaio 1933, ma dove resta comunque concentrata una parte consistente delle sue risorse. Già alla metà degli anni trenta, personalmente o attraverso parenti e prestanome, Gualino si ritrova oltralpe alla testa di vasti giri di interessi nel settore immobiliare e in quello della grande distribuzione (Societé anonime des cafés et restaurants françaises e partecipazioni ai magazzini Bon Marché), nonché di una finanziaria lussemburghese, il Consortium privé, che con la sua controllata parigina, il Comptoir privé, diretto da P.G. Gurgo Salice, realizza operazioni ad ampio raggio sul mercato valutario e su quello dei titoli azionari. Con l’appoggio della Banque de l’Union parisienne, in cui è ancora attivo l’amico Oustric, Gualino riprende in breve le fila di una vasta trama di affari che include, tra le altre, le società anonime Roumano-Belge des pétroles, la svizzera S.a. des Fours Pieters (per lo sfruttamento, in combinazione con G. Nobel, di brevetti per la distillazione del carbone), la Compagnie industrielle française du platine o la Mines d’or de peck, per la gestione di giacimenti in Jugoslavia. In Italia i nuovi poli di interesse sono soprattutto la chimica e la cinematografia. Nel primo settore l’impresa principale diventa la Rumianca, originariamente un’impresa ausiliaria della Snia, di cui Gualino nel 1933 rileva il controllo dal gruppo Abegg. La Rumianca registra un notevole successo a partire dalla metà degli anni Trenta producendo fertilizzanti e anticrittogamici, per inserirsi poi nei flussi di commesse e finanziamenti pubblici della mobilitazione industriale e fare ottimi affari con le produzioni belliche. Durante la guerra l’impresa dispone di due stabilimenti nel Novarese per la lavatura dei minerali e le produzioni chimiche di base, uno nei pressi di Torino per la produzione di saponi e uno in costruzione a Carrara per quella di anticrittogamici, nonché di vasti complessi minerari in Val d’Ossola, Sardegna e Calabria per l’estrazione di piriti. Quanto alla cinematografia, Gualino costituisce nel 1934 la Lux francese e la Lux italiana, producendo l’anno successivo il suo primo film, Don Bosco, di G. Alessandrini. Attraverso il cinema ha modo di recuperare e mettere a frutto il patrimonio di contatti maturati negli anni Venti negli ambienti intellettuali, ma apre anche un importante canale di comunicazione con il regime, partecipando di fatto alla prima stagione di sviluppo della cinematografia nazionale, fortemente voluto dal fascismo. Dal 1940 al 1944 compaiono nel catalogo Lux autori e titoli di tutto rispetto, alcuni di grande impegno produttivo per l’epoca. Ideologicamente estraneo al fascismo, legato all’ambiente dei fuoriusciti italiani in Francia, la cui frequentazione non aveva mai interrotto, così come agli ambienti della finanza anglosassone, Gualino alla fine della seconda guerra mondiale si vede restituire i diritti al possesso e all’amministrazione delle imprese da cui era stato interdetto nel 1931. Ormai anziano, conduce una vita appartata nelle sue abitazioni di Roma e Firenze, mentre le sue imprese conoscono una nuova stagione di rigogliosa crescita. La Lux si impone nel dopoguerra come una delle maggiori case cinematografiche italiane, punto di aggregazione ed elemento propulsore di un cinema di alto livello professionale, in cui si formano molti nomi importanti della produzione italiana degli anni successivi come Carlo Ponti e Dino De Laurentiis; anche questo sviluppo, dovuto alle doti manageriali ma anche alla raffinata sensibilità culturale di Gualino, si estende all’estero, in primo luogo con l’Italian Film Export, costituita nel 1951 e rivolta principalmente verso i mercati americani. La crisi della Lux sopravviene verso la fine degli anni Cinquanta e vede Gualino, all’inizio del decennio successivo, impegnarsi in un’ultima complessa operazione di ricapitalizzazione, che fa leva sui flussi finanziari generati dalle indennità per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. La Rumianca diventa invece il centro di un gruppo articolato, con numerosi impianti in Italia e significative proiezioni all’estero, operando con successo, già prima del "boom" economico, in comparti di punta come la chimica di consumo (cosmetici, articoli da toeletta) e dei polimeri. Gualino muore a Firenze nel giugno del 1964. Dopo la sua scomparsa la Rumianca e la Lux saranno assorbite dalla Sir di Nino Rovelli.

3.22 Giuseppe Cesare Borletti, conte di Arosio (Milano, 1880 – Milano, 1939), figlio di Romualdo, noto imprenditore nei campi del lino e della canapa, compie i suoi studi a Milano dove, nel 1898, consegue il diploma di ragionieria al Regio Istituto Carlo Cattaneo. Completa i propri studi commerciali in Germania, dove risiede per due anni. Tornato a Milano nel 1900 inizia a lavorare nell'azienda paterna, la Borletti e Pezzi, seguendo in modo particolare i rapporti con l'estero. L'anno successivo, venuto a mancare suo padre, deve prendere le redini dell'impresa. Nel giro di pochi anni si afferma come il punto di riferimento dell'industria e del commercio dei filati: dà vita a due grandi realtà di settore, la Filature e Tessiture Riunite e la Filatura Lombarda. La sua storia si è spesso incrociata con quello di altre famiglie destinate a avere un posto nella storia di Milano. Gente che ha avuto un ruolo nella prima industrializzazione italiana e che di fatto ha inventato la grande distribuzione in Italia. L'avventura comincia nel 1896 quando Borletti mette in piedi le Industrie Femminili Lombarde (IFL) per produrre sveglie e rompere il monopolio dei tedeschi e degli svizzeri negli orologi a cucù. Poche centinaia di ragazze e una produzione non certo d'avanguardia. Nel giro di dieci anni, però, quella che pareva un' iniziativa di poco peso comincia a rivelarsi importante. Dallo stabilimento delle IFL escono 210 mila sveglie all'anno e il monopolio di svizzeri e tedeschi è saltato. Poi arriva la prima grande guerra e la conversione industriale. Borletti passa rapidamente dalla fabbricazione di sveglie a quella di inneschi per bombe. Nel 1917, assieme al fratello Romualdo, estende l'attività tessile alla meccanica di precisione fondando la "Officine Fratelli Borletti", che si specializza inizialmente nella produzione di orologi e strumenti di misura dando vita al ben noto marchio "Veglia". Nei due anni successivi, tuttavia, Borletti si dedica alle ben più fruttuose commesse belliche avviando, come già detto, la produzione di spolette . Borletti è amico personale di Gabriele D'Annunzio, del quale appoggia con ingenti finanziamenti l'impresa di Fiume. Nel 1924 Borletti viene chiamato a rispondere del fallimento della Banca Italiana di Sconto (BIS) con tutto il consiglio di amministrazione dell'istituto, del quale è membro dalla fondazione. La Banca di Sconto ha un ruolo fondamentale nel finanziamento della produzione bellica, in modo particolare dell'Ansaldo di Genova, all'epoca proprietà dei fratelli Mario e Pio Perrone. Questi ultimi, arricchitisi all'inverosimile con le commesse belliche, utilizzano i finanziamenti per la riconversione alla cantieristica navale per acquistare azioni della BIS, verso la quale si indebitano senza riuscire a conquistarne la maggioranza e trascinando l'istituto nel rovinoso fallimento. Il processo si conclude tuttavia nel 1926 con una sentenza di assoluzione di chiara matrice politica. Mondadori riesce a realizzare nel 1921 un accordo con Borletti che rappresenta il definitivo salto di qualità della sua casa editrice, tale da garantire sia un più stabile accesso al credito sia un rapporto organico con le nuove classi politiche del nascente potere fascista. Di qui la scelta del 31 maggio 1921 di nominare Borletti presidente della nuova Arnoldo Mondadori Editore con sede a Milano, di cui lo stesso Mondadori diviene consigliere delegato. Fin dalla fondazione delle officine e dal successo del marchio Veglia Borletti è a tutti gli effetti un industriale rampante, un uomo che confida nella diversificazione per aumentare non solo i propri profitti ma anche le possibilità di crescita del gruppo. Mentre le sue Officine si dedicano al nuovo settore della macchine per cucire, l'imprenditore rileva dai fratelli Bocconi i grandi magazzini "Alle città d'Italia", impresa fondata nel 1877. I Bocconi, forse per l'inesperienza italiana nel settore, avevano omesso di dare un preciso indirizzo all'impresa, pensando di potersi rivolgere indifferentemente a tutte le fasce della possibile clientela e l'impresa, venuto meno il fondatore, era andata in crisi. Con l'aiuto di Umberto Brustio, marito di sua sorella, Borletti fonde la Bocconi coi "Magazzini Vittoria" e il 27 settembre 1917 dà vita alla Società anonima La Rinascente per l'esercizio dei grandi magazzini. Il nuovo nome, necessario per evitare che i precedenti dei Bocconi nuocessero all'impresa, viene coniato da Gabriele D'Annunzio (un'azienda che rinasce). L' apertura ufficiale avviene il sette dicembre del 1918 e il successo è travolgente. Milano scopre il lusso e le novità proposte da Senatore Borletti, il consumismo in un certo senso. E' lì, a due passi dal Duomo, che si fa la moda, che si stabilisce il gusto, che cosa conviene o non conviene comperare. E' una tradizione che andrà avanti fino all' inizio degli anni Sessanta, e che segnerà gli anni del boom, con la gente che almeno tre o quattro volte arriva alla Rinascente da tutta la Lombardia "a vedere che cosa c' è". Come detto, Borletti rivolge La Rinascente a una fascia prevalentemente alta della clientela, che cerca non solo gli abiti confezionati ma anche prodotti di pregio se non di lusso. Non volendo perdere la fascia medio-bassa della clientela, che è la maggioranza della popolazione, decide di avviare una seconda catena di distribuzione, la Unico Prezzo Italiano Milano, UPIM. La UPIM vende prodotti a prezzo fisso, da 1 a 4 lire, e la clientela può per questo pagare anticipatamente all'entrata, acquistando dei buoni per un valore corrispondente agli articoli da acquistare, mostrando poi entrambi all'uscita. Nel decennio degli anni '20 Borletti attua una scalata alle imprese minori del settore tessile e riesce a riunire nella neo-costituita Linificio e canapificio nazionale anche aziende di media grandezza. La concentrazione dà inizialmente buoni frutti ma l'impresa fa presto a venire coinvolta nella grave crisi economica conseguente al crollo della borsa di Wall Strett, col risultato che la produzione nazionale scende da 949.000 a 545.000 quintali. Fidando nell'aiuto del Regime (Borletti è iscritto al PNF dal 1924) le sorti aziendali si risollevano nel giro di pochi anni grazie all'autarchia e più ancora alla campagna di Abissinia, per la quale si assicura l'esclusiva della fornitura delle uniformi alle truppe. Una congiuntura sfavorevole del mercato, legata al divieto governativo di importare dall'estero la materia prima e all'insufficiente produzione nazionale della stessa, non consentono tuttavia di tornare ai precedenti livelli, e men che meno aumentarli, ed è in questa situazione che Borletti entra nel settore in piena crescita dei tessili artificiali assumendo il controllo della SNIA Viscosa. L'occasione arriva con le conseguenze della citata crisi economica mondiale che trova il fondatore della società, Riccardo Gualino, indebitato fino al collo col sistema bancario. Di sentimenti antifascisti, e quindi rimasto privo di qualsiasi aiuto è costretto a cedere le sue quote a Borletti, che chiama al ruolo di amministratore delegato Franco Marinotti. I due riescono a risollevare le sorti dell'impresa attraverso un'oculata politica autarchica, e una solida alleanza coi possibili concorrenti, portando in pochi anni il fatturato a oltre mezzo miliardo. Borletti ne rimane presidente fino alla prematura scomparsa del 1939. Nel 1926, Borletti acquista il Football Club Internazionale Milano da Enrico Olivetti e ne diventa il decimo presidente; rimane in carica fino al 1928 quando per ordine del governo centrale avviene la fusione fra Inter e U.S. Milanese dando vita all'Ambrosiana. Borletti si distinse anche nel campo filantropico, fondando tra l'altro una colonia agricola per gli orfani dei contadini morti in guerra e una casa per i grandi invalidi di guerra ad Arosio. Fu infine presidente di numerose società culturali ed artistiche, tra cui il Comitato Italia-Francia costituitosi per lo sviluppo dei rapporti culturali tra i due paesi. Per le sue molteplici attività e per la sua fedeltà al regime, testimoniata tra l'altro dalla sua iscrizione al Partito nazionale fascista sin dal 1924, Borletti fu nominato senatore nel 1929, cavaliere del lavoro nel 1935 e conte d'Arosio nel 1937.

3.23 Carlo Feltrinelli (Milano, 27 agosto 1881 - Milano, 8 novembre 1935) Figlio di Giovanni e di Maria Pretz, austriaca; il padre e lo zio Giacomo, imprenditori del settore del legname con la ditta Fratelli Feltrinelli, si erano inseriti nel mercato delle costruzioni ferroviarie con le forniture di legname per le traversine e per la costruzione dei vagoni, e avevano ingrandito l’attività negli anni Ottanta dell’Ottocento, nella fase di avvio dello sviluppo industriale lombardo e della crescita urbanistica di Milano. Queste spinte positive avevano indotto i Feltrinelli ad assicurarsi il controllo diretto delle fonti di approvvigionamento per la loro attività, dando così avvio alla creazione di quello che, nel giro di qualche anno, sarebbe diventato un autentico impero internazionale nel campo della coltivazione e della lavorazione del legname, dotato di estese proprietà nelle foreste dell’Impero austro-ungarico. Nel 1892 i due fratelli Feltrinelli costituiscono una impresa bancaria. Una delle prime grandi operazioni della Banca Feltrinelli. Verso la fine del XIX secolo il settore dei legnami è ancora la principale attività della famiglia Feltrinelli, ma il ramo immobiliare e dell’edilizia si affianca al primo e diventa di grande rilevanza per Giacomo Feltrinelli, soprattutto dopo la morte del fratello Giovanni, nel 1896. Nel 1899 la Banca Feltrinelli si inserisce nelle operazioni di liquidazione della romana Banca Tiberina, acquisendo la proprietà del complesso degli immobili sul lato sinistro di piazza Esedra, nel centro di Roma. Il giovane Carlo Feltrinelli, dopo aver conseguito la licenza ginnasiale, completa gli studi a Bolzano, impara il tedesco e, nei primi anni del XX secolo, raggiunta la maggiore età, viene inserito a pieno titolo nelle attività economiche della famiglia. La società Feltrinelli, dopo la conclusione della lunga fase delle costruzioni ferroviarie in Italia, ottiene commesse per la fornitura delle traversine alle ferrovie greche e costruisce, nel 1898, una linea ferroviaria in Bosnia per il trasporto del legname dalle foreste dell’interno fino alla costa; per curare meglio la complessità degli affari viene anche costituita nel 1906, la Società forestale Feltrinelli, la cui sede sarà in seguito spostata a Fiume. Le attività immobiliari e finanziarie diventano nel frattempo sempre più importanti. È del 1907 la costituzione della Società di costruzioni e imprese fondiarie; nello stesso anno l’impresa di famiglia viene coinvolta in una delle operazioni immobiliari più importanti per lo sviluppo urbanistico di Milano, la costituzione della Società quartiere industriale Nord Milano, che ha come scopo l’urbanizzazione di una vasta area nei territori comunali di Greco, Niguarda, Sesto, Bresso e Cinisello, attorno agli insediamenti industriali della Breda, della Pirelli e della Falck. Negli anni che precedono la Prima guerra mondiale l'impresa bancaria Feltrinelli scala importanti posizioni nel mondo finanziario milanese e continua a far parte del pool bancario che appoggia la Edison in tutte le sue operazioni finanziarie. La Banca riesce ad assicurarsi come clienti alcuni dei nomi migliori della borghesia milanese, il più importante dei quali è quello di Giorgio Enrico Falck: nel 1906 questi trasforma l’azienda familiare in una società per azioni, le Acciaierie e ferriere lombarde, che usufruiscono stabilmente dei servizi finanziari della Banca Feltrinelli. Nel 1913 muore lo zio Giacomo Feltrinelli, ma in realtà il ruolo di nuovo capofamiglia è ormai da tempo ricoperto da Carlo. Le attitudini e gli interessi personali dei fratelli Feltrinelli portano a una spartizione delle diverse attività nelle quali il gruppo è coinvolto. Così, Giuseppe segue principalmente le vicende Edison, Antonio si occupa soprattutto di legnami, Carlo delle questioni bancarie, finanziarie e immobiliari (dal 1913 è anche consigliere della Edison, di cui la Banca è uno dei maggiori azionisti), mentre Pietro è inviato a seguire da vicino gli affari in Transilvania, dove muore suicida all’età di 28 anni. La conferma ufficiale della posizione particolare ricoperta da Carlo Feltrinelli nell’ambito dell’impero industriale e finanziario di famiglia risulta dalla sua nomina, nel 1915, a membro del comitato centrale amministrativo del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali (Csvi), uno strumento voluto dalla Banca d’Italia e dalle maggiori banche italiane per soddisfare le richieste finanziarie delle imprese industriali coinvolte direttamente nelle produzioni belliche (Feltrinelli sarà confermato in questo incarico fino alla fine del 1933). Il 1918 è un anno decisivo per Feltrinelli: muore il fratello Giuseppe, ma soprattutto nella Edison maturano le scelte che portano alla rottura delle relazioni tra la Società e la Banca commerciale. Il tentativo dell’istituto di piazza della Scala di riprendere il controllo dell’azienda elettrica milanese porta infatti alla lacerazione dei rapporti, e il nuovo amministratore delegato, Giacinto Motta, sigla un nuovo patto d’azione con la Banca italiana di sconto, confermando e rinsaldando nel contempo i legami con le imprese bancarie milanesi Zaccaria Pisa e Feltrinelli, il cui peso negli equilibri azionari e finanziari del gruppo Edison si rafforza notevolmente. Le vicende familiari e il continuo ampliamento delle attività, sia nel settore dei legnami sia in quello finanziario (con tutti gli addentellati in campo industriale e immobiliare) spingono Feltrinelli a una riorganizzazione della struttura delle due principali imprese alle quali faceva capo il gruppo. Nel settembre del 1919 la Banca Feltrinelli viene liquidata e al suo posto è costituita, sotto forma di società per azioni, la Banca Unione, dotata di un capitale sociale di 20 milioni di lire: Feltrinelli è presidente, mentre in consiglio d’amministrazione trovano posto, oltre al fratello Antonio e al cugino Giacomo, Giorgio Enrico Falck (che più tardi sarebbe stato nominato vicepresidente della banca) e l’industriale Raimondo Targetti, imprenditore del comparto laniero. Nel dicembre dello stesso anno l'impresa Feltrinelli è trasformata in Società anonima Fratelli Feltrinelli per l’industria e il commercio dei legnami. Il capitale iniziale, pari a 2 milioni di lire (aumentato a 10 milioni l’anno dopo), viene sottoscritto da Feltrinelli e dal fratello Antonio, dalla madre Maria Pretz e dal cugino Francesco; presidente della società è nominato Carlo. A quella data la società dispone di foreste in Austria, in Transilvania e in Italia e di stabilimenti per la lavorazione del legname in tutto il Paese. Feltrinelli è, nella prima metà degli anni Venti del Novecento, uno dei finanzieri più importanti del Paese, molto noto anche a livello internazionale: in Italia opera in rappresentanza degli interessi diretti della Banca Unione e poi, a partire dal 1924, quando diventa consigliere del Credito italiano, agisce come rappresentante della seconda banca del Paese in una ventina di società. È inoltre il punto di riferimento per una serie di iniziative che gli ambienti bancari e finanziari italiani cercano di allestire nell’area dell’ex Impero asburgico, per i suoi interessi nell’area e per le conoscenze personali. Tra il 1925 e il 1926 Feltrinelli figura, insieme con Giovanni Agnelli, Riccardo Gualino, Piero Puricelli, Piero Pirelli e Silvio Crespi, tra i promotori della società anonima Autostrada Torino-Milano all’epoca la più lunga d’Italia con i suoi 125,8 km: una conferma che il suo nome si lega alle iniziative della parte più dinamica del capitalismo italiano. Nel 1928, alla morte di Federico Ettore Balzarotti, Feltrinelli è nominato presidente del Credito italiano. L’andamento delle attività nel settore dei legnami non registra difficoltà durante gli anni Venti e neppure durante la crisi dei primi anni Trenta, mentre la carica e gli impegni di presidente del Credito italiano assorbono gran parte dell’impegno professionale dell’imprenditore-finanziere. La situazione della banca dopo il 1928 si rivela infatti sempre più complessa, perché si trova, analogamente alla Banca commerciale, nella necessità di alleggerire un portafoglio titoli appesantito nel corso degli anni Venti, in coincidenza di un progressivo mutamento delle “banche miste” in “banche holding”. L’aggravarsi delle difficoltà nel corso del 1930 rende necessaria un'operazione che vede l’intervento massiccio del Governo e della Banca d’Italia: la Società finanziaria italiana (Sfi) assume nel 1931 le partecipazioni industriali del Credito italiano gravate da enormi perdite, mentre i pacchetti azionari delle società elettriche, telefoniche, immobiliari e un pacco di titoli della banca stessa restano nella holding, che assume il nome di Società Elettrofinanziaria, il cui controllo è saldamente nelle mani del gruppo Feltrinelli-Pirelli-Motta. Nella stessa primavera del 1931 il gruppo tenta inoltre di portare a termine un’operazione che punta all’egemonia sull’intero settore elettrico nazionale, attraverso il controllo della finanziaria Bastogi, ma questa prospettiva trova l’opposizione del presidente della finanziaria Alberto Beneduce. Una serie di incontri tra Mussolini e Feltrinelli nel corso del 1932 – in una fase di approfondimento della crisi economica e finanziaria – porta alla decisione di alleggerire il Credito italiano dal peso dei debiti della Sfi attraverso l’intervento dell’Istituto di liquidazione, ma l’impossibilità di continuare nella ricerca di soluzioni tampone impone infine la decisione di costituire, all’inizio del 1933, l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), presieduto da Beneduce. Il passaggio allo stato delle “banche miste” e delle loro finanziarie, perfezionato nel corso del 1934, comporta la partecipazione del gruppo dirigente del Credito e il costante contatto di Feltrinelli, Pirelli e Motta con Beneduce, alla ricerca della soluzione per districare la complessa vicenda della liquidazione dell’Elettrofinanziaria. L’accordo finale, messo a punto all’inizio del 1935, prevede la costituzione di un sindacato guidato dalla Banca Unione, sempre presieduta da Feltrinelli, per l’acquisto e il collocamento presso gli azionisti Edison di 550.000 delle 600.000 azioni nelle mani dell’Iri: un’operazione del valore di poco meno di 400 milioni di lire. Una grossa fetta delle 550.000 azioni, circa 200.000, viene rilevata da società del gruppo Edison, le quali per finanziare tale acquisto vendono obbligazioni al Credito, ancora presieduto da Feltrinelli. In questa serie di operazioni si evidenzia il ruolo di primo piano esercitato dall’imprenditore-finanziere milanese: malgrado lo Stato assuma il controllo delle banche e quindi anche del Credito italiano, Feltrinelli continua a essere uno dei più importanti finanzieri del Paese e nel 1933 si attivano le pratiche burocratiche per preparare la sua nomina a senatore, che non giungono però a termine. Nell’aprile del 1935 Feltrinelli sarà invece nominato Cavaliere di gran croce della Corona d’Italia. Al novembre del 1934 risale però un primo controllo di carattere amministrativo che coinvolge negativamente l’attività imprenditoriale di Feltrinelli: alla società anonima Fratelli Feltrinelli venne contestata l’infrazione di esportazione di valuta, in base alle norme in vigore all’epoca, molto severe in materia. La questione, tuttavia, viene risolta senza creare scandali con l’accettazione da parte del Ministero delle finanze di un’oblazione di 500.000 lire della società. L’8 dicembre dello stesso anno il Governo emana però un decreto ancora più restrittivo in materia di esportazione di divise e di titoli e nell’ottobre del 1935 la Banca d’Italia avvia una serie di controlli su titoli posseduti in Svizzera dalla vecchia madre di Feltrinelli, l’ottantottenne Maria Pretz (all’epoca abitante a Gargnano sul Garda, dove la famiglia aveva fatto costruire un asilo, un ospedale e un ricovero). L’attenzione si rivolge al ritrovamento a suo nome, presso la sede di Zurigo della Società di Banca svizzera, di 165 kg d’oro e di titoli esteri per un valore di circa 2 milioni di lire. I figli Carlo e Antonio, interrogati alla fine di ottobre, si dichiarano ignari della vicenda, dando nel contempo disposizioni per far rientrare in Italia oro e titoli. Feltrinelli tenta di comporre il contenzioso all’inizio di novembre direttamente con il Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini, per impedire l’avvio della procedura amministrativa contro la madre, ma non riesce a evitare la contravvenzione per omessa denuncia di possesso di titoli all’estero. In un successivo, drammatico, incontro con Beneduce, la situazione precipita e, di fronte alla richiesta di dimissioni immediate da presidente del Credito italiano e da tutti gli incarichi ricoperti in società controllate dall’Iri, Feltrinelli ingerisce una dose di veleno. La morte non è immediata, ma sopraggiunge la sera successiva, l’8 novembre 1935, a Milano. La responsabilità di tutti gli affari di famiglia ricade allora sulle spalle del fratello Antonio, in perenne contrasto con la cognata, Giannalisa Gianzana Feltrinelli, che dopo la morte del marito si era dedicata alla gestione della sua eredità. A tali difficili, se non burrascose, relazioni va probabilmente fatta risalire la decisione, divenuta esecutiva dopo la morte dello stesso Antonio, nel giugno del 1942, di cedere in eredità la maggioranza delle azioni della Società Fratelli Feltrinelli all’Accademia dei Lincei.

3.24 Ferdinando Innocenti (Pescia, 1891- Varese, 1966). Il padreDante Innocenti, fabbro, a Grosseto avvia due rivendite di ferramenta, sempre affiancate all'attività di fabbro. Ferdinando, partecipa con il fratello Rosolino (figlio di prime nozze del padre) e il padre, alla conduzione della "Ferramenta Innocenti" (1906) e già in quegli anni la famiglia si trova in una buona situazione economica. Ferdinando, dopo aver appreso il mestiere si trova a 18 anni a condurre l'impresa familiare e incomincia a commerciare ferrame usato proveniente per lo più da cantieri impegnati nella bonifica della Maremma. Dal 1920 approfondisce e sperimenta l'uso di tubi in ferro e le loro applicazioni e nel 1923 si trasferisce a Roma dove, con la somma di circa lire 500.000 intendeva ampliare l'attività, ma purtroppo la Banca presso cui aveva effettuato il deposito fallì. Iniziò a commercializzare i tubi prodotti dalla Dalmine su licenza Mannesmann (senza saldatura). In quegli anni, fino al 1928, l'esplosione edilizia e l'economia in genere conobbero una notevole crescita, facilitate dalle politiche autarchiche instaurate dal fascismo e dalla fine delle agitazioni sindacali che portarono a una riduzione dei salari reali dell'11-12% tra il 1921 e il 1924. Nel periodo compreso tra il 1921 e il 1931 il fascismo diede vita a un piano di costruzioni, soprattutto nella capitale che assunse l'aspetto di un enorme cantiere per dar vita ad una "rinascita monumentale dell'Urbe". Ferdinando non perse l'occasione che gli si presentava aprendo nel 1926, a Roma, un deposito-officina ove allestiva manufatti per l'edilizia e che nel 1933 iniziò la produzione di ponteggi tubolari Innocenti adottando un sistema di montaggio/smontaggio rapido, originario della Scafolding britannica. Nel 1932 la produzione industriale registra un crollo del 27% rispetto al 1928 ma Ferdinando Innocenti individua in Milano la sede adatta per impostare la sua attività. Infatti la città era in fermento per grandi ricostruzioni, per l'edilizia, per la nuova Stazione Centrale quindi la crisi era sicuramente meno sentita che altrove. Dai 20 operai nel 1929 la ditta ne conta oltre 100 nel 1931, anno in cui iniziò la produzione di impianti irrigui mobili e fissi. Nel 1933 costruirono uno stabilimento a Milano Lambrate in Via Pitteri per produrre e commercializzare gli ormai collaudati ponteggi Innocenti. Su una striscia tra Via Pitteri e il Lambro, nell'ottobre 1933 era terminato un capannone con gli impianti necessari alla produzione. La ragione sociale divenne, nel novembre 1933 "Fratelli Innocenti società anonima per applicazioni tubolari in acciaio" l'amministratore unico era Ferdinando Innocenti. Nell'estate del 1934 si dovevano disputare i campionati mondiali di calcio a Roma. Per l'ampliamento della capienza degli stadi venne affidato dal governo dell'epoca la costruzione delle tribune alla Innocenti. Questi lavori, con quelli terminati nello stesso anno in appalti, la costruzione di palchi, passerelle, strutture, tribune e altre svariate applicazioni, erano fonte di cospicue entrate tanto che lo stabilimento di Milano toccò i 200 operai. La struttura della società si divideva in due sedi e due stabilimenti: a Roma e a Milano; gli uffici e filiali per un totale di 9 a Genova, Napoli, Bologna, Trieste, Grosseto, Cagliari, Palermo, Padova, Firenze. In quel periodo (1935) l'Innocenti si apprestava a concentrare tutta la produzione negli stabilimenti milanesi. Nel 1935 ci fu il raddoppio del capitale sociale con l'assemblea degli azionisti che ammontavano a 11, con l'emissione di altre 5.000 azioni a 1.000 lire cad.
Si stavano preparando i presupposti per l'aggressione in Etiopia scattata il 3 ottobre 1935 e in estate l'intervento in Spagna. L'industria nazionale si fece sorprendere impreparata dagli eventi bellici, ma in breve tempo la produzione poté essere convertita cosicché già alla fine del 1936 le imprese coinvolte nella produzione bellica videro lievitare i fatturati. In quegli anni l'Innocenti partecipò alla fornitura di corpi per bombe per aereo di 150 e 250 kg. L'impresa registrava un utile nel 1935 di 840.000 lire. Per sfuggire alla legge sui prelevamenti operata dal fisco sulla base di una legge del 1935 molti industriali furono costretti a investire ampliando le proprie strutture industriali; così fece l'Innocenti che per sostenere le forniture di proiettili fu costretta ad ampliare la propria struttura industriale, spostando gli impianti da Roma a Milano, ampliando il reparto MO/l con una deviazione del Lambro e costruendo la palazzina uffici in Via Pitteri. A Roma rimaneva solo il magazzino per la vendita dei tubi. Gli eventi bellici avevano portato al raddoppio dei dipendenti rispetto al 1934. Con la nascita dell'IRI nel 1933 la Dalmine venne ad esserne conglobata, così che l'Innocenti, già in possesso di un ingente numero di azioni, accrebbe sempre di più la sua partecipazione, diventando uno degli azionisti privati più potenti. Il 1936 vide la proclamazione dell'impero che con l'allargamento della guerra e la stipulazione del patto d'acciaio con la Germania richiesero sempre di più l'impegno della Innocenti nella costruzione di proiettili che ora erano anche per l'artiglieria e la marina. Il 1938 vide la costruzione del capannone Marina (MO/2) con conseguente spostamento più ad est del Lambro. Nello stesso periodo venne eretta l'attrezzeria e il palazzo dei Servizi Sociali (attuale SOCI) e, malgrado le ingenti somme utilizzate per l'ampliamento, il bilancio si concluse con un utile di quasi 1.500.000 lire. Innocenti, che dal 1933 impersonava l'idea dei tubi, volle nel 1936 realizzare uno stabilimento per la loro costruzione. Innocenti chiese ed ottenne i finanziamenti atti ad impiantare la SAFTA (Società anonima fabbricazione tubolari acciaio). Il capitale fu composto da un pacchetto azionario di minoranza alla Dalmine e di maggioranza alla Innocenti. Nel 1939 iniziarono i lavori di costruzione dell'impianto per la fabbricazione di tubi senza saldatura che si conclusero nel 1942 con l'avvio, anche se parziale, della fornitura di tubi. Alla direzione e all'organizzazione dello stabilimento, in cui lavoravano oltre 500 operai, venne chiamato il lussemburghese ing. Alberto Calmes, esperto nella costruzione di tubi, che aveva acquisito una notevole competenza tecnologica in Germania da dove però era fuggito per motivi politici. I tubi, grazie all'ingegno di Calmes vennero così prodotti direttamente dai lingotti anziché dai costosi laminati e poi saldati. La produzione però rimase allo stato iniziale in quanto Kesserling, nella ritirata, trasportò parte delle attrezzature industriali in Germania e semidistrusse le unità operative. Nel novembre 1948 iniziò la produzione di tubi per perforazioni petrolifere, per condotte, metanodotti e gasdotti. Nel 1948 la Dalmine entrò in possesso dell'intero pacchetto azionario trasformando la SAFTA nella sua seconda grande unità produttiva.
Dopo 1'8 settembre anche la Innocenti non si sottrasse alle traversie dell'occupazione militare tedesca anche se con notevole resistenza dall'interno. La produzione bellica non è mai venuta a mancare. Ferdinando Innocenti da Roma seguiva da vicino gli eventi che coinvolgevano la fabbrica e intratteneva costruttivi ed equilibrati rapporti politici tra tedeschi, RSI, CLN e forze democratiche; tanto meno fece mancare aiuti in denaro alle forze partigiane tanto che il gen. Poletti era entusiasta della brillante collaborazione di Ferdinando Innocenti e anche per questi meriti non venne in seguito epurato dalle Forze Alleate. Certamente da Roma già intravedeva l'eventuale ripresa industriale dopo la fine della guerra e in questa ottica cercava di mantenere gli impianti più integri possibile per il rilancio. Non fu per caso che i bombardamenti alleati, su precise sue informazioni, colpirono solo reparti isolati di produzione bellica di poco valore, salvando i complessi industriali più importanti. Anche la diminuzione della produzione andava nel giusto verso in quanto le materie prime accantonate serviranno in gran parte a coprire le spese di ricostruzione. Cessata la guerra Ferdinando Innocenti ritorna a Milano e, convocata una assemblea dei lavoratori, riesce a conquistare la loro collaborazione, dando così inizio al piano di riconversione. Il piano di riconversione era così concepito: - produzione di un veicolo di grande diffusione popolare a costi bassi - costruzione di macchinari siderurgici ed impianti industriali - sviluppo dei processi di sinterizzazione.
Il veicolo da trasporto sarebbe stato poi la Lambretta. L'ispirazione venne nel vedere a Roma i mezzi paracadutabili dei parà inglesi. Innocenti si convinse che un mezzo simile poteva incontrare i favori del pubblico in una Italia bisognosa di rapidi spostamenti. Innocenti venne in contatto, a Guidonia, con il colonnello D'Ascanio ma presto insorsero discordanze sul modello di impostazione del veicolo cosicché il D'Ascanio se ne andò alla Piaggio dove diventerà il padre della "Vespa". Si mise in contatto allora con un altro colonnello in forza al Centro Sperimentale di Guidonia, l'ing. Torre, che diverrà il padre della Lambretta. Nel settore della siderurgia Ferdinando Innocenti voleva sfruttare gli studi e l'esperienza di Calmes sulle macchine per la produzione di tubi senza saldatura. Nel campo dei sinterizzati si voleva realizzare boccole e bronzine per motori. Ai primi del 1946 gli operai erano ancora 800 più 150 impiegati. Il 12 novembre 1946 arrivarono i primi finanziamenti per la ricostruzione e produzione (300.000.000 di lire), che doveva iniziare nel 1947. La carenza di carbone e di energia elettrica provocò non pochi ritardi al programma che era nel frattempo alleggerito del punto 3 (esperienza sui sinterizzati) a causa della tecnologia divenuta ormai superata. Alcune ordinazioni nel settore industriale cominciavano a vedersi già alla fine del 1946; 6 macchine speciali per la Dalmine per 200 tonnellate in totale, costruzione di laminatoi per tubi per la Jugoslavia per 3200 tonn. e 1150 tonn. di macchinari per la Polonia. La produzione scooteristica segnava ancora ritardi a causa delle forniture esterne per carenze energetiche e per la messa a punto di un prodotto sostanzialmente nuovo per l'impressa. Il primo lotto di 25 Lambrette erano in fase di completamento. Una rete commerciale di concessionari era pronta in ben 33 province e c'erano in tasca ben 3300 prenotazioni che si pensava di soddisfare già nel marzo 1948. La fonderia funzionava a pieno ritmo per le fusioni in alluminio mentre si stava terminando l'allestimento delle attrezzature per le fusioni in ghisa. La situazione finanziaria, ancora delicata, vedeva qualche schiarita all'inizio del 1948 con l'arrivo dei pagamenti per le commesse straniere e decisamente sicura in aprile con la concessione di 100.000.000 dollari all'industria italiana dalla Eximbank U.S.A. Purtroppo però invece delle 150 Lambrette giornaliere, la produzione non superava le 10 unità. La produzione di Lambrette del modello M (1° tipo) raggiunge alla fine del 1948 la potenzialità di 80-85 unità giornaliere ma in realtà, ne venivano prodotte solo 70 per le difficoltà di collocazione sul mercato nazionale. Nell'autunno si cominciò a esportare, verso gli USA e l'Argentina, un primo lotto di 2000 macchine; contemporaneamente veniva iniziato lo studio per la costruzione di un nuovo modello (tipo B) che doveva essere prodotto nel 1949 e che doveva ovviare agli innumerevoli difetti della serie precedente. Il settore della meccanica pesante non destava preoccupazioni in quanto gli ordini garantivano lavoro per un anno e mezzo anche se veniva affermato che "in questo periodo ci siamo mangiati il 30% finanziando la produzione della Lambretta". Al 31 ottobre 1948 erano state prodotte 9.660 unità di Lambretta A. Il consuntivo fatto a febbraio del 1949 indicava una perdita d'esercizio superiore agli 800.000.000, passivo che non impensierì più di tanto Ferdinando Innocenti, perché già nei primi 3 mesi di produzione del modello 125 B il passivo si era ridotto di 200 milioni, recuperati dalle vendite di questo nuovo modello. La produzione, ormai organizzata industrialmente, passava dalle 70 unita prodotte al giorno del gennaio 1949, alle 150 circa di luglio dello stesso anno e riusciva a malapena a seguire le richieste. Veicoli leggeri da trasporto con meccanica dello scooter, dal marzo 1949 venivano approntati al ritmo di 4 al giorno. Il settore della meccanica pesante andava a gonfie vele e aveva un portafoglio ordini di almeno 2 anni, soprattutto per una commessa di fornitura con l'Austria. La produzione di due nuovi modelli di Lambretta, decisamente migliorati rispetto ai modelli precedenti (125 C e 125 LC carenata) iniziò il gennaio 1950 con un programma di produzione di 60.000, il doppio rispetto al 1949. Le vendite, nel 1951, superarono decisamente anche le più rosee previsioni per cui, per il 1952, fu deciso un ulteriore aumento portando la produzione mensile da 7000 a 8000 unità. Nel dicembre 1951 vennero messi in produzione il nuovo modello D e LD il primo di tipo economico, il secondo carenato, di forma più elegante e pulita. Con il cambio della gamma dal modello C al modello D fu raggiunto e superato il numero di 8.000 al mese. Una produzione cosi elevata trovava difficoltà a collocarsi sul solo territorio nazionale mentre all'estero si opponeva resistenza alla penetrazione, così si decise di approntare un modello più economico, modello E, con una produzione di 70/80.000 unità e 40/50.000 mod.LD, questo nel 1953, per mantenere costante il fatturato. L'andamento della domanda non raggiunse però i livelli desiderati e programmati anche se registrò un incremento dell'11% rispetto al 1952. Nel 1955 l'Innocenti portò a termine uno dei più grandi contratti che gli fossero mai capitati. Infatti la costruzione di uno stabilimento in Venezuela rappresentava una commessa colossale, pari a 350 milioni di dollari. Nel settore della meccanica pesante vennero costruite, nel 1950, 2800 tonnellate di macchinari, 21.550 nel 1960 e gli utili alla fine del 1960 erano aumentati del 59% rispetto al 1950; il capitale sociale del 2000%; notevole incremento e' stato dato dall "affare" venezuelano. Il figlio Luigi (vicepresidente nel 1958) vissuto in realtà sempre all'ombra della personalità paterna, riuscì ad imporre (fu l'unica volta) il sogno sempre cullato fin dall'infanzia: la costruzione di una automobile. Questa svolta si rendeva necessaria per impiegare le ingenti risorse ottenute dagli anni precedenti. Già nel 1957 all'ing. Torre era stato affidato il progetto di una piccola vettura, ma in seguito Torre venne tolto dal progetto da Parolari (pupillo di Lauro) che voleva essere l'unico responsabile del settore motori. Nel 1957/1958 Torre studiò un prototipo di autovettura utilitaria costruibile totalmente dalla Innocenti, ma il progetto venne nuovamente accantonato agli inizi del 1959 in quanto si presero contatti con la Gogomobil Iseria per la costruzione di una vetturetta di 400 cm3. Innocenti inoltre non voleva urtare Fiat in questo settore.
Nel 1959 si presero contatti con BMC di Birmingham per la realizzazione di una berlina dell'Austin di 900 cm3: la A40. L'accordo stipulato prevedeva il montaggio, il sotto assemblaggio, la verniciatura dei pezzi forniti dalla BMC. Un accordo molto lacunoso e sfavorevole per la Innocenti, di durata settennale. In poco più di un anno venne approntata la linea della A40 e alla fine del 1960 si iniziò la produzione con circa 100 vetture al giorno. La produzione era realizzata con metodi di assemblaggio antiquati, decisamente più vetusti dei sistemi introdotti alla Fiat. Nel 1961/1962 venne impiantato anche un reparto di stampaggio per la produzione di pezzi necessari all'assemblaggio della A40, dello spider e del coupè di Bertone con la stessa meccanica della A40. La produzione complessiva delle auto ammontò a 20.900 unità nel 1962 e si incrementò nel 1963 quando venne messa in produzione la IM3 nelle versioni normale e super sicché alla fine del 1963 la produzione toccava le 30.600 unità.
Va ricordato che l'Innocenti, fin dal suo nascere, è sempre stata un'azienda fortemente politicizzata in cui il sindacato era in grado di mobilitare in poche ore la massa operaia. In quei tempi ci si batteva per ottenere condizioni di lavoro più umane e vantaggi reali; molte volte sventolando la bandiera dell'uguaglianza spesso le semplici e sacrosante richieste venivano trasformate in lotte di classe. Queste agitazioni raggiungevano l'obiettivo di danneggiare la produzione e di sottrarre risorse agli investimenti e alla ricerca. Non passava settimana senza che l'azienda dovesse subire scioperi e cedere ai ricatti sindacali. Venendo a mancare la figura carismatica del fondatore, i nuovi manager non sentendo lo scooter una propria creatura non cercarono di sviluppare la progettazione nella direzione che i tempi richiedevano e cioè l'industrializzazione di un progetto ormai diventato troppo costoso. Gli stabilimenti vennero svuotati e le linee di produzione dell'ultimo modello vennero cedute all'India (Scooterindia) che produrrà ancora la Lambretta con il Modello DL 150 e 200 per molti anni ancora. Nei padiglioni di Lambrate vennero prodotte automobili che mantennero il marchio Innocenti e che ebbero motorizzazioni prima BMC (il motore era lo stesso della Mini) poi di produzione giapponese (Daiatsu). La Innocenti, in questa ultima e poco illuminata gestione affidata a De Tomaso, ospitò anche il montaggio della Maserati riuscendo a immettere sul mercato una vettura di ottimo livello di 2.000 cc. (Maserati Biturbo) in diverse versioni a 2 e a 4 porte, spyder, coupè, che però non ebbe la meritata fortuna più per motivi pubblicitari che per la qualità intrinseca del prodotto. La produzione della Maserati venne spostata a Modena e l'enorme complesso della Innocenti abbandonato da ogni attività produttiva. Il marchio Innocenti e la rete di vendita venivano rilevati dal Gruppo Fiat e attualmente sono utilizzati ad identificare alcuni modelli di vetture prodotte per lo più da stabilimenti del Gruppo in Brasile. Ferdinando Innocenti, temperamento da pioniere, di formidabile coraggio, era nel contempo modesto e schivo, paternalistico, parlava poco, a bassa voce e lentamente, non amava mettersi in vista ma risoluto nell'orchestrare le sue operazioni anche tramite suoi uomini di fiducia. Uno tra i più geniali industriali italiani, si meritava facilmente la stima di tutti per il suo carisma ma non amava la mondanità tipica degli imprenditori di successo di quel periodo. Abile nell'intrecciare rapporti politici senza palesare troppo evidentemente le proprie scelte, le utilizzava, esclusivamente, per appoggiare le proprie esigenze industriali. Suo grave torto fu non aver pensato alla transizione generazionale; il figlio non era in grado di sostenere una così grande responsabilità, pertanto avrebbe dovuto far crescere un alter ego di spessore. I suoi manager tutte persone di grande valore non avevano una visione globale e unitaria, pertanto la grande industria si sgretolò rapidamente.

3.25 Marinotti Francesco (Franco) (Vittorio Veneto, 1891 – Milano, 1966) Nacque a Ceneda, odierna Vittorio Veneto, il 5 giugno 1891 in una famiglia piccolo borghese. Il padre, proprietario di una distilleria, morì quando Marinotti aveva soltanto 15 anni. In un primo tempo egli tentò di gestire direttamente l’impresa familiare, poi decise di concederla in affitto e si trasferì a Venezia dove riuscì a diplomarsi in ragioneria nel 1908. Nel 1910 venne assunto come contabile alla Filatura cascami di seta di Milano dove, dopo due anni, gli venne proposto un lavoro di maggiore responsabilità presso le filiali di Varsavia e poi di Mosca. Rientrato in Italia nel 1918, Marinotti decise di intraprendere un’attività di lavoro autonomo e iniziò a occuparsi di compravendita di merci tra l’Italia e la Russia. Nel maggio 1921, dopo aver preso contatto con alcuni industriali italiani, Marinotti si fece promotore della costituzione della Compagnia italiana commercio estero (CICE), finalizzata a intrattenere relazioni commerciali con l’Unione Sovietica. La vera e propria svolta per l’attività della CICE si ebbe quando, nel 1923, fece il suo ingresso nell’azienda Borletti. Nel 1927 Borletti acquistò la maggioranza azionaria della società, divenendone presidente, mentre Marinotti continuò a occupare la carica di amministratore delegato. Nel 1930, Marinotti fu chiamato a ricoprire l’incarico di direttore centrale della SNIA. La SNIA (Società di navigazione italo-americana) nata a Torino nel 1917, inizialmente come impresa di navigazione e trasporto di merci tra Italia e Stati Uniti, nel corso dei primi anni Venti, considerato il cattivo andamento del settore marittimo, aveva mutato oggetto sociale, convertendosi alla produzione di fibre tessili artificiali, industria che stava allora vivendo una fase di notevole sviluppo a livello mondiale. La SNIA avviò la produzione capital intensive di filati artificiali, scegliendo il sistema alla viscosa, che permetteva di ottenere, a costi contenuti, una fibra tessile per caratteristiche molto simile alla seta naturale. Nel 1922 la società aveva scelto di mutare la denominazione sociale in quella di Società nazionale industria applicazioni Viscosa (SNIA Viscosa), al fine di sottolineare l’avvenuto cambiamento di attività. In breve l’impresa, guidata dall’imprenditore biellese R. Gualino, si era affermata come leader indiscussa dell’industria del raion a livello mondiale. Fino al 1926 l’andamento dell’impresa era stato positivo ma, a partire da quell’anno, la situazione mutò radicalmente. La politica economica fascista, e in particolare «quota novanta», prima, la grande depressione poi, infersero un duro colpo alla SNIA che esportava circa l’80% della sua produzione. Gualino si trovò privo delle disponibilità finanziarie necessarie per risollevare la società; il 28 genn. 1930, quindi, rassegnò le dimissioni dalle cariche di presidente e consigliere di amministrazione. Nello stesso anno, entrarono a far parte del Consiglio di amministrazione della SNIA alcuni nomi di spicco dell’ambiente imprenditoriale milanese, tra cui Borletti, eletto presidente, e Feltrinelli. Il nuovo management era diretta espressione del mutamento intervenuto nella proprietà aziendale: la SNIA, infatti, si trovava oramai sotto il controllo azionario dell’inglese Courtaulds e della tedesca Vereinigte Glanzstoff Fabriken (nota come Glanzstoff o VGF), entrambe impegnate nella produzione di filati artificiali. Fu Borletti a designare Marinotti come direttore centrale, affiancandolo a Gavazzi. Il nuovo gruppo dirigente si trovò a gestire una società che versava in grave crisi. Dopo accurate stime contabili risultò un saldo negativo superiore a 666 milioni di lire, da coprire mediante la svalutazione del capitale sociale da 1 miliardo di lire a poco più di 333 milioni. Il gruppo SNIA, ridimensionato e razionalizzato, seppe, così, risollevarsi dalla crisi. Negli anni successivi, la società registrò aumenti nella produzione e nella fatturazione, riuscendo a conseguire buoni risultati di bilancio, grazie a uno scrupoloso controllo dei costi. Nei primi anni Trenta, poi, l’impresa intraprese la produzione di fibre artificiali corte che, filate opportunamente, erano in grado di presentarsi sul mercato come succedanee della lana, del cotone e del lino. Nel 1931-32 Marinotti fece installare un primo gruppo di filatoi, a Cesano Maderno e a Torino Stura, avviando su scala industriale una produzione che non aveva ancora alcun mercato di sbocco; fortunatamente le prime partite del ribattezzato SNIA-fiocco furono esaurite dalla clientela tedesca, allora coinvolta in una sperimentazione similare condotta da un’azienda locale, la IG Farben: alla loro fibra, il Vistra, venne però preferito il prodotto italiano. Alla fine del 1934, la SNIA ricopriva la quota del 60% della produzione mondiale di fibre artificiali corte. Nel 1935, la SNIA si affermò come la maggior produttrice ed esportatrice mondiale di fibre tessili artificiali, sia corte sia continue, e nel biennio 1937-38 il gruppo, forte di questa spettacolare rinascita, tornò a insediarsi ai vertici dell’industria mondiale delle fibre chimiche, ma con una nuova immagine di impresa dinamica e innovativa: l’importanza del fiocco viscosa, infatti, stava crescendo a livello esponenziale, e non solo nei paesi a economia autarchica.
Durante il periodo dell’autarchia, la SNIA riuscì a perfezionare il procedimento inventato da A. Ferretti per la fabbricazione della lana sintetica, presentando sul mercato il lanital, fibra artificiale di natura proteica che sfruttava, come materia prima, la caseina presente nel latte. Inoltre, allo scopo di limitare le importazioni di cellulosa dall’estero, la società allestì, a Torre di Zuino, nel Friuli, una vasta piantagione di canna gentile (più propriamente Arundo Dunax); il complesso agricolo-industriale friulano, che prese il nome di Torviscosa, venne inaugurato da Mussolini nel settembre 1938 e dette lavoro a più di 6000 operai. Nel 1939, Marinotti sostituì Borletti come presidente della società. Iscritto al fascio di Vittorio Veneto dal 28 ott. 1922, tra il 1935 e il 1938 era stato vicepodestà di Milano, nel 1938 preside della Provincia di Milano, dal 1939 consigliere nazionale e, nel 1940, primo podestà di Torviscosa. Contrario all’ingresso dell’Italia in guerra a fianco dell’alleato tedesco, prese posizione comunicandolo a Mussolini con una lettera nel 1940. Nel periodo a ridosso dell’8 settembre e durante l’occupazione tedesca, fu nominato responsabile per l’Italia della produzione di fibre tessili artificiali e si impegnò con le autorità germaniche a mantenere gli impianti della SNIA in piena efficienza e a fornire prodotti tessili secondo quote prestabilite. Arrestato il 3 marzo 1944 da uomini della Repubblica sociale italiana (RSI) fu trattenuto in carcere 21 giorni; nel settembre 1944, lasciò l’Italia per raggiungere il figlio Paolo in Svizzera. Durante l’assenza di Marinotti dall’Italia, Ferretti, l’inventore del brevetto per il lanital, assunse la carica di amministratore delegato e presidente della SNIA, entrando anche a far parte del comitato direttivo. Rientrato in Italia tra il 1945 e il 1946, Marinotti fu arrestato, subì il processo di epurazione e fu condannato alla sospensione per sei anni dalla funzione di amministratore delegato. Riabilitato grazie all’intervento del ministro dell’Industria e Commercio R. Morandi, ai primi del 1947 fu nominato consulente generale della SNIA e il 21 maggio dello stesso anno rientrò a pieno titolo, come direttore generale, consigliere di amministrazione e presidente. Negli anni a seguire, guidò il gruppo SNIA verso altri importanti traguardi: la società continuò a produrre fibre artificiali, ma intraprese anche altre attività, sia nella produzione di fibre sintetiche (lilion e velicren), sia nell’industria meccanica con l’assunzione del controllo della Nuovo Pignone, ma anche nei settori cotoniero, idroelettrico e termoelettrico, estendendo il raggio di azione ad altri paesi, tra gli altri in Spagna, Argentina, Brasile, Messico e Sud Africa. Cavaliere del lavoro dal 1937, nel 1954 l’Università di Milano gli conferì la laurea honoris causa in scienze agrarie, nel 1964 venne eletto presidente della Camera di commercio italo-sovietica; il 24 maggio 1946, Umberto II gli aveva concesso il titolo di conte di Torviscosa. Morì a Milano nel 1966.

3.26 Furio Cicogna ( Asti, 1891 - Milano, 1975) La famiglia, di estrazione piccolo-borghese, nel 1897 si trasferisce a Milano, dove il padre gestisce da qualche anno un’impresa di trasporti di modeste dimensioni. Conseguito nel 1908 il diploma dell’Istituto tecnico, sezione fisico-matematica, il giovane Cicogna si laurea a pieni voti all’Università commerciale “Bocconi” di Milano in Scienze commerciali nel 1912; viene quindi assunto in qualità di dirigente dalla Bombrini-Parodi Delfino, raggiungendo nel giro di nove anni la carica di direttore centrale. Nel 1921 passa alle Manifatture cotoniere meridionali e nel 1926 fa il suo ingresso nel consiglio d’amministrazione della Soie de Châtillon, impresa produttrice di seta artificiale (raion) il cui capitale azionario è controllato quasi totalmente dalla Banca commerciale italiana. Fondata solo pochi anni prima, al momento della nomina di Cicogna a direttore e procuratore generale nel 1929, la Châtillon si colloca al secondo posto in Italia, dopo la Snia Viscosa, coprendo il 25% della produzione nazionale di filati di raion e il 4% circa di quella mondiale. Nel marzo del 1930 cambia la denominazione in Châtillon - Società italiana per la seta artificiale, e Cicogna è nominato amministratore delegato. La crisi mondiale del 1929 sta nel frattempo cominciando a far sentire i suoi effetti su un’industria tradizionalmente rivolta all’esportazione: dal 1930 la Châtillon non riesce a produrre utili e a distribuire dividendi, e arriva a toccare il fondo nel 1932, quando la perdita di esercizio supera i 32 milioni di lire. A ciò si aggiunge la crisi finanziaria della Banca commerciale, che sempre nel 1932 – nell’ambito dell’intervento di risanamento deciso dal governo – è costretta a cedere le proprie partecipazioni industriali alla Società finanziaria industriale italiana (Sofindit), assorbita l’anno successivo dal neocostituito Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Cicogna conserva la carica di amministratore delegato e avvia un ampio programma di risanamento dell’impresa e di razionalizzazione della filiera produttiva, perseguita soprattutto attraverso la chiusura degli impianti inefficienti e la concentrazione della produzione in quelli più avanzati tecnologicamente. Gli effetti della ristrutturazione non si fanno attendere e già nel 1934 l’azienda torna in utile. Nello stesso anno Cicogna riesce a ottenere dall’Istituto mobiliare italiano (Imi) un finanziamento di 30 milioni, che permette alla società di acquistare i macchinari necessari per la fabbricazione di nuovi prodotti come il fiocco di raion e la lana artificiale (lanital). Nel corso degli anni Trenta, Cicogna è uno dei protagonisti della ristrutturazione dell’industria italiana delle fibre artificiali: gli accordi stretti dalla Châtillon con le principali società del settore rimaste di proprietà privata – la Snia e la Cisa Viscosa – portano alla costituzione nel 1931 dell’Italraion (Società anonima italiana per l’industria e il commercio dei tessili artificiali), e poi, nel 1939, a quella dell’Italviscosa, di cui Cicogna diviene amministratore delegato, a cui viene affidata la commercializzazione della produzione di raion e fiocco di viscosa delle tre imprese. Cicogna è designato nel marzo del 1939 membro del Consiglio nazionale delle corporazioni in rappresentanza della Federazione nazionale delle fibre tessili artificiali, e nel maggio dello stesso anno è nominato cavaliere del lavoro. Il suo tentativo in direzione di un rafforzamento del controllo statale sul cartello dei produttori di fibre artificiali fallisce, e all’inizio del 1942 l’Iri decide di riprivatizzare la società, cedendo il pacchetto di controllo a un gruppo di industriali lanieri, tra cui Gaetano Marzotto, Oreste Rivetti e Giuseppe Gavazzi. Nel dopoguerra Cicogna, confermato dalla nuova proprietà nel ruolo di direttore generale e amministratore delegato, si trova a gestire i problemi derivanti dai danni riportati agli stabilimenti del gruppo e dal calo della domanda di fibre artificiali sul mercato interno, a cui tenta di porre rimedio aumentando l’esportazione verso i nuovi mercati del Sud America e dell’Estremo Oriente. Fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta mette in atto una strategia di diversificazione produttiva, iniziando la produzione di raion per pneumatici e di prodotti petrolchimici per l’industria tessile e conciaria, e soprattutto avviando la sperimentazione sulle fibre sintetiche. L’interesse per queste ultime lo spinge a entrare con decisione nel settore industriale chimico con l’acquisto, nel 1952, di metà del pacchetto azionario dell’azienda chimica Acsa e con la firma di un accordo con la Montecatini per l’utilizzo di brevetti per la produzione di filati e fibre poliammidiche, che inizia nel 1954. L’ingresso nel settore chimico richiede tuttavia cospicui investimenti, che la proprietà non è in grado di effettuare. Nel corso del 1955 Cicogna guida un’operazione di trasformazione degli assetti proprietari dell’impresa, che culmina con il passaggio del pacchetto di controllo azionario alla società elettrica Edison. L’importante successo personale ottenuto con questa operazione è ulteriormente sottolineato dalla nomina nello stesso anno a consigliere della Edison e a presidente dell’Assolombarda, l’associazione degli industriali della Lombardia. Cicogna, che nel 1957 assume anche la presidenza della Châtillon, può così procedere alla realizzazione dei nuovi programmi di potenziamento degli impianti per la produzione di fiocco di raion e di fibre sintetiche. I risultati non tardano a venire: tra il 1959 e il 1964 il fatturato aumenta da 19,8 a 42,5 miliardi di lire, mentre i dipendenti passano dalle 4.000 alle 7.000 unità. A partire dall’inizio degli anni Sessanta, Cicogna avvia anche un processo di internazionalizzazione dell’impresa, attraverso la costruzione di impianti produttivi in Unione Sovietica e in Romania. Nel febbraio del 1961 Cicogna viene eletto alla presidenza della Confindustria e in questa veste l’anno successivo si oppone con forza al progetto governativo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, criticando aspramente il crescente intervento dello Stato nell’economia. Nonostante la sconfitta subita con l’approvazione della legge di nazionalizzazione dell’industria elettrica nel novembre del 1962, Cicogna viene confermato alla guida della Confindustria nel febbraio del 1963. Negli anni successivi la sua azione come presidente dell’organizzazione degli industriali si articola intorno a una linea di rigido rifiuto della politica di programmazione economica avviata dai primi Governi di centro-sinistra. Nel campo delle relazioni sindacali Cicogna si pone su posizioni nettamente conservatrici, manifestando una ferma opposizione sia nei confronti delle proposte di riforma della struttura della contrattazione basate sull’articolazione per settori e aziende, sia al varo nel 1962 della legge per la validità erga omnes dei contratti nazionali di lavoro. Nel 1965, quando in sede governativa si comincia a discutere di uno “statuto dei lavoratori”, da tradurre in legge come strumento di sostegno all’azione del sindacato, egli si dichiara contrario, difendendo la struttura bipolare delle relazioni industriali. Nel marzo del 1966 Cicogna viene sostituito nella presidenza della Confindustria da Angelo Costa (già vicepresidente nel biennio 1961-62). Nominato membro della giunta esecutiva della Confindustria e presidente della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, dedica le sue energie, oltre che all’impresa, all’impegno nella società civile: a partire dal 1957 riveste la carica di Presidente della Università “Bocconi”, che conserverà fino alla morte. L’ultima fase della parabola imprenditoriale di Cicogna non è felice come le precedenti. A partire dalla fine degli anni Sessanta si trova infatti a fare i conti con la feroce concorrenza scatenatasi sul mercato mondiale e, di riflesso, su quello italiano, nel settore chimico e delle fibre sintetiche. La guerra dei prezzi costringe le aziende a ricercare forti economie di scala aumentando la dimensione degli impianti, e ciò significa per la Châtillon procedere a nuovi investimenti e a una forte razionalizzazione delle produzioni. Il 1969 segna il culmine dell’espansione dell’impresa, nel frattempo entrata a far parte del gruppo Montedison in seguito alla fusione fra la Montecatini e la Edison, ed è allo stesso tempo l’ultimo anno che la vede in utile. Il fatturato tocca in quell’anno i 97,7 miliardi di lire, con una produzione di quasi 94.000 tonnellate di fibre (nel 1965 erano rispettivamente 44,7 miliardi e 58.200 tonnellate). L’anno seguente, che si chiude con una perdita di esercizio di oltre 2 miliardi di lire, segna l’inizio di una parabola discendente: di fronte alla sempre più agguerrita concorrenza internazionale, emergono le carenze di fondo del sistema produttivo italiano, basato su impianti fortemente sottodimensionati rispetto a quelli tedeschi e statunitensi. Inoltre, tra le aziende produttrici di fibre sintetiche appartenenti al gruppo Montedison – oltre alla Châtillon, la Polymer e la Rhodiatoce – manca il coordinamento gestionale necessario per ottenere una razionalizzazione della produzione e adeguate economie di scala. In questa situazione l’incremento del costo del lavoro, che prende il via con l’“autunno caldo” sindacale del 1969, elide un altro fattore di competitività delle merci italiane sul mercato internazionale, e rende ormai improcrastinabile una radicale riorganizzazione del settore. Viene così costituita nel 1972 – mediante l’incorporazione nella Châtillon della Rhodiatoce e della Polymer – la Montedison fibre (Montefibre). Gli anni settanta vedranno la progressiva evaporazione del settore delle fibre sintetiche. Cicogna, ormai più che ottantenne, è costretto a lasciare la presidenza. Muore a Milano alla fine del 1975.

3.27 Adriiano Olivetti (Ivrea, 1901 – Aigle, 1960) Non ricevette alcuna educazione religiosa (anche se era riuscito a procurarsi un certificato di battesimo valdese per sfuggire alle leggi razziali fasciste del 1938); solo nella maturità, in vista del secondo matrimonio, si convertì al cattolicesimo. Nel 1924 conseguì la laurea in ingegneria chimica al Politecnico di Torino e, dopo un soggiorno di studio negli Stati Uniti insieme a Domenico Burzio, durante il quale poté aggiornarsi sulle pratiche di organizzazione aziendale, entrò nel 1926 nella fabbrica paterna ove fece le prime esperienze come operaio. Divenne direttore della Società Olivetti nel 1932, anno in cui lanciò la prima macchina da scrivere portatile chiamata MP1, e presidente nel 1938. Negli anni seguenti approfondì le tematiche industriali, studiando il taylorismo, accompagnandole anche a letture di pensatori liberali. Dalla fusione di queste influenze venne fuori una concezione assolutamente originale, nella quale l’attività d’impresa doveva assicurare non solo buoni profitti, ma anche realizzare lo sviluppo sociale, culturale e umano di chi vi lavorava, nel rispetto delle loro aspirazioni individuali. Insomma il lavorare per la Olivetti non doveva puntare solo al mero soddisfacimento dei bisogni primari del lavoratore, bensì creare le condizioni del suo benessere materiale e spirituale. Concetti troppo utopistici? Alcuni dissero così, cercando di farlo passare per un folle. Adriano Olivetti non si fece per questo scoraggiare e i risultati che ottenne gli diedero ragione. Nonostante avesse introdotto un vero e proprio sistema di servizi sociali per gli operai e avesse ridotto le ore della giornata lavorativa mantenendo invariato il salario, sia la produttività che la qualità erano aumentate. Per aumentare i profitti si faceva leva sull’organizzazione razionale del lavoro ma soprattutto sulla motivazione e sulla partecipazione dei lavoratori alla vita e al futuro dell’impresa. La fabbrica storica d’Ivrea divenne il centro di una cultura aziendale rivoluzionaria, che fondeva aspetti scientifici con altri umanistici. Da un punto di vista del successo aziendale, l’imprenditore piemontese puntò sempre all’eccellenza tecnologica, all’apertura verso i mercati internazionali e alla cura del design industriale, oltre che ad essere il primo nel campo dell’innovazione. Molti aspetti che sono comuni della realtà imprenditoriale contemporanea, come la comunicazione, la cura e lo sviluppo del brand, la pubblicità, la grafica, lo studio della sociologia e della psicologia lavorativa, vennero tutti introdotti prima degli anni sessanta nei numerosi stabilimenti che la Olivetti aprì in Italia e all’estero (Brasile e Stati Uniti). Ricordo che quando negli anni settanta iniziai a girare il mondo per lavoro il BRAND OLIVETTI campeggiava in quasi tutte le piazze delle città principali. Negli anni cinquanta molti prodotti divennero dei veri e propri oggetti di culto e di modernità. La più famosa fu la macchina da scrivere portatile “Olivetti Lettera 22”, che ricevette premi sia in Italia, sia all’estero. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò al campo dei calcolatori elettronici (i primi computer), dove superò perfino gli americani con la produzione dell’ELEA 9003, un avveniristico computer a transistor unico nel suo genere. Adriano Olivetti ci mostra quindi uno splendido esempio delle infinite potenzialità di una visione creativa dell’attività d’impresa e dei successi che vi si possono raggiungere. Come rispose a chi gli chiedeva se il suo pensiero non fosse troppo utopico… “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”. Nella vita privata si oppose al regime fascista con momenti di militanza attiva. Partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati (lo stesso Adriano era alla guida dell'auto che lo portò fuori dal paese). Durante gli anni della Guerra riparò in Svizzera da dove si mantenne in contatto con la Resistenza. Dal 1931 la questura di Aosta definì il giovane Olivetti come sovversivo. Rientrato dal suo rifugio alla caduta del regime, riprese le redini dell'impresa. Alle sue capacità manageriali, che portarono la Olivetti a essere la prima azienda del mondo nel settore dei prodotti per ufficio, unì un'instancabile sete di ricerca e di sperimentazione. Sotto l'impulso delle fortune aziendali e dei suoi ideali comunitari, Ivrea negli anni cinquanta raggruppò una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda chi all'interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Alla fine del 1945 pubblicò il suo libro "L'ordine politico delle comunità" nel quale sono espresse quelle idee che supporteranno il Movimento Comunità fondato a Torino nel 1948. Nello stesso anno entrò a far parte del Consiglio direttivo dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, cui aveva aderito dieci anni prima. Nel 1937 aveva partecipato a una serie di studi su un piano regolatore della Valle d'Aosta. Nel 1949 Olivetti si convertì al cattolicesimo «per la convinzione della sua superiore teologia». Nel 1950 espose la sua visione del primato in campo politico dell'Urbanistica e della Pianificazione. L'urbanistica fu solo una delle tante passioni di Olivetti che si interessò di storia, filosofia, letteratura e arte. Nel 1953 decise di aprire una fabbrica di macchine calcolatrici a Pozzuoli offrendo posti di lavoro con salari sopra le medie e assistenza alle famiglie degli operai la cui produttività in questo stabilimento superò quella dei colleghi nella fabbrica di Ivrea. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea e due anni dopo ottenne un seggio in Parlamento candidandosi con il Movimento Comunità. Nel 1957 la National Management Association di New York premiò l'attività di direzione d'azienda internazionale di Olivetti. Al momento del suo decesso, nel 1960, l'Azienda vantava una presenza su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all'estero. Nel 1962 nasce la Fondazione Adriano Olivetti per volontà di familiari, amici e collaboratori, con l'intento di raccogliere e sviluppare l'impegno civile, sociale e politico che ha distinto l'operato di Adriano Olivetti nel corso della sua vita. Adriano Olivetti ebbe un rapporto dialettico con il padre Camillo. Apparentemente visse la ribellione tipica dei figli "intelligenti" nel confronto dei padri altrettanto "intelligenti". Si può comunque affermare che tra Adriano e Camillo ci fu sempre identità di vedute nelle linee generali della politica. Camillo Olivetti sappiamo, fu un cauto interventista sopravvivendo in lui lo spirito risorgimentale. Adriano, in sintonia, dopo Caporetto si arruolò volontario pur non combattendo in quanto la guerra finì prima che potesse raggiungere il fronte. Sappiamo che collaborò con Tempi Nuovi il settimanale politico torinese che il padre promuoverà con Donato Bachi (che ne sarà il direttore) e altri progressisti. Con la svolta, prima critica, poi più marcatamente antifascista di quel giornale, ci fu anche la svolta politica di Adriano Olivetti, anche influenzato dall'ambiente culturale del Politecnico e dall'amicizia con la famiglia Levi. In particolare con Gino Levi suo compagno di corso. Acutamente, Natalia Levi Ginzburg nel libro Lessico famigliare descrive in questi termini il rapporto tra Adriano Olivetti e la propria famiglia: « Fra questi amici ce n'era uno che si chiamava Olivetti, e io ricordo la prima volta che entrò in casa nostra, vestito da soldato perché faceva in quel tempo il servizio militare. Adriano aveva allora la barba, una barba incolta e ricciuta, di un colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo fulvi, che si arricciolavano sulla nuca ed era grasso e pallido. La divisa militare gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde; e non ho mai visto una persona, in panni grigio verdi e con pistola alla cintola, più goffa e meno marziale di lui. Aveva un'aria molto malinconica, forse perché non gli piaceva fare il soldato; era timido e silenzioso, ma quando parlava, parlava allora a lungo e a voce bassissima, e diceva cose confuse ed oscure, fissando il vuoto con i piccoli occhi celesti, che erano insieme freddi e sognanti.» Con la famiglia Levi, Adriano fu tra i protagonisti della rocambolesca fuga di Filippo Turati. Ospitato prima dai Levi nella loro casa di Torino, Turati raggiunse poi Ivrea. Fece tappa nella notte in casa di Giuseppe Pero, dirigente della Olivetti, per ripartire al mattino seguente in una macchina guidata da Adriano che raggiungerà Savona, dove li aspettava Sandro Pertini con cui l'esule si imbarcò per la Corsica per poi raggiungere la Francia e Parigi. Sappiamo dagli articoli su Tempi Nuovi che la redazione, almeno fino al 1923 ebbe un rapporto di reciproca stima con il fascismo torinese di Mario Gioda, il quale sia pur scomparso nel 1924, aveva lasciato numerosi seguaci nella federazione torinese. L'antifascismo di Adriano si era già espresso immediatamente dopo il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti nella manifestazione che promosse, insieme al padre, al teatro Giacosa di Ivrea nel 1924. Maggiore prudenza Adriano Olivetti la dimostrò nei confronti del regime, parallelamente all'assunzione di responsabilità nella fabbrica di Ivrea. Adriano Olivetti venne nominato Direttore generale, quindi sposò Paola Levi, sorella di Gino, con rito civile. Paola, insofferente al provincialismo, lo convinse a trasferire casa a Milano; questa fu una delle svolte culturali per Adriano, perché nel capoluogo meneghino poté incontrare quell'intellighenzia che lo avvicinò in seguito all'architettura, l'urbanistica, la psicologia e la sociologia. Ebbe ancora problemi con il Regime, quando il fratello di Gino e Paola Levi, Mario (che lavorava alla Olivetti), venne fermato alla frontiera con la Svizzera, essendo l'auto carica di manifestini di Giustizia e Libertà. Riuscì a fuggire, ma la conseguenza fu che Gino Levi e il padre furono arrestati, rimanendo per circa due mesi nelle patrie galere. Adriano in quel frangente si mobilitò e molto spese del suo per difendere il suocero e l'amico cognato. È quello il periodo in cui a Camillo Olivetti fu momentaneamente ritirato il passaporto. Tuttavia i rapporti con il fascismo migliorarono negli anni trenta. Sarà soprattutto l'incontro con gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, i quali erano la punta più avanzata di quel razionalismo in architettura che in un primo periodo venne sostenuto anche da Mussolini. I due architetti erano i corrispondenti italiani del grande Le Corbusier, il quale, pure lui, per un certo periodo fu estimatore di Mussolini in quegli anni che saranno definiti del consenso, tanto che Figini e Pollini aderirono al partito fascista. Sicuramente Adriano fu influenzato da loro; essi saranno infatti gli architetti della nuova Olivetti. Non sappiamo con quanta convinzione, ma ad ogni modo è provato che Adriano Olivetti chiese ed ottenne la tessera al PNF. Non solo, ma fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia dove l'industriale presentò il suo piano al Duce. Le sue affinità politiche del periodo furono con Giuseppe Bottai che nel fascismo rappresentò una voce fuori dal coro. Prudente tanto da non farsi radiare come avvenne a Massimo Rocca, Bottai fu pur sempre uno spirito libero che rappresentò l'altra faccia del fascismo, quella meno totalitaria e folcloristica e più problematica. Divenne un sostenitore del federalismo europeo dopo aver conosciuto Altiero Spinelli durante l'esilio in Svizzera, iniziato da Olivetti nel 1944 a causa della sua attività antifascista. Nel 1948 fondò a Torino il "Movimento Comunità" e si impegnò affinché si realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese. Il movimento, che tentava di unire sotto un'unica bandiera l'ala socialista con quella liberale, assunse nell'Italia degli anni cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica.La sua morte prematura sancì la fine del movimento. Adriano Olivetti riuscì a creare nel secondo dopoguerra italiano un'esperienza di fabbrica nuova ed unica al mondo in un periodo storico in cui si fronteggiavano due grandi potenze: capitalismo e comunismo. Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l'organizzazione del lavoro comprendeva un'idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellezza dell'ambiente, i dipendenti godevano di convenzioni.

Storia del computer Nel 1957 l'Olivetti su impulso di Adriano Olivetti (spronato da Enrico Fermi) nello sviluppo dei calcolatori elettronici, grazie al contributo dell'ingegnere italo-cinese Mario Tchou (scomparso nel 1961), lancia l'Elea 9003 (il nome evoca i filosofi eleatici), presentata alla fiera di Milano davanti al presidente Giovanni Gronchi. È tra i primissimi antenati del moderno personal computer. Nell'ottobre del 1965 venne presentato all'esposizione Bema Show di New York l'Olivetti Programma 101, un elaboratore programmabile considerato il primo computer desktop o personal computer della storia. La P101, ideata dall'ingegnere italiano Pier Giorgio Perotto, era una macchina da calcolo per uso personale, che possedeva un set di istruzioni interne ben definito. Era realizzata con componenti discreti e output su nastro di carta. Fu il primo personal computer di successo per il mercato di massa. Dei circa 44.000 esemplari venduti, il 90 per cento dei quali sul mercato nordamericano, attualmente ne esistono circa una ventina ancora funzionanti. Il ruolo dell'Olivetti Programma 101 fu riconosciuto anche in tempi più recenti quando, nel maggio 2012, fu messo a confronto con altri due computer ritenuti pietre miliari della tecnologia informatica: lo statunitense Apple I, uscito nel 1976, primo esemplare fabbricato dalla Apple Computer, e il britannico Amstrad CPC, del 1984. Il confronto, tenutosi al Politecnico di Torino, più che mettere in luce le differenze di prestazioni, fu un omaggio allo spirito imprenditoriale che portò al concepimento di quelle tre macchine, della quale la Olivetti fu riconosciuta unanimemente come la progenitrice. Circa 10 Programma 101 furono venduti alla NASA e utilizzati per pianificare lo sbarco di Apollo 11 sulla Luna. Per il 50º anniversario (2015) dalla presentazione della Olivetti Programma 101 in tutta Italia si sono svolte varie mostre ed eventi, tra questi ricordo il TEDx di Arezzo e di Pompei. Il 14 ottobre 2015 (50 anni esatti dalla prima presentazione al BEMA a New York) due progettisti ancora in vita Giovanni De Sandre e Gastone Garziera sono stati ricevuti a Palazzo Chigi da Matteo Renzi per raccontare la loro esperienza. Agli inizi degli anni settanta le persone che accedevano alle istituzioni accademiche o di ricerca avevano l'opportunità di utilizzare sistemi come il LINC che erano monoutente, interattivi e si potevano utilizzare per prolungate sessioni di lavoro; comunque, questi sistemi erano ancora troppo costosi per essere posseduti da una singola persona. Nello stesso decennio Hewlett Packard introdusse dei computer programmabili in BASIC che potevano essere posizionati sopra una normale scrivania (serie HP 9800), includendo una tastiera, un piccolo display a una linea e una stampante. Il Wang 2200 del 1973 aveva un monitor (CRT) di dimensioni standard con memorizzazione su nastro magnetico. Un sofisticato computer programmabile, l'HP 9830A era in realtà uno dei primi computer desktop con una stampante. L'IBM 5100 del 1975 aveva un piccolo display CRT e poteva essere programmato in BASIC e APL. Questi erano comunque ancora computer costosi specializzati, pensati per un utilizzo scientifico o d'azienda. L'introduzione dei microprocessori, un singolo chip con tutta la circuiteria che prima occupava grossi case, portò alla proliferazione dei personal computer dopo il 1975. I primi personal computer erano spesso venduti in forma di kit e in volumi limitati, ed erano destinati in larga parte a tecnici. La programmazione era effettuata attraverso interruttori e l'output era fornito attraverso led presenti sul pannello frontale. Un uso pratico avrebbe richiesto periferiche come tastiere, terminali, disk drive e stampanti. Micral N, della INRA, fu il primo microcomputer commerciale, non venduto in kit, basato su un microprocessore, l'Intel 8008. Fu costruito a partire dal 1972 e furono vendute circa 90.000 unità. Il computer Sphere 1 è considerato il primo computer di tipo moderno creato in Bountiful, Utah nel 1975 da un pioniere dei computer Michael D. Wise. All'inizio, Sphere 1 (della sphere corporation di Beautiful) era venduto come kit, ma più tardi fu venduto interamente assemblato, con inclusa una tastiera un tastierino numerico e un monitor. Nel 1976 Steve Jobs e Steve Wozniak vendettero la scheda madre del computer Apple I, che conteneva circa 30 chip. Il primo personal computer di successo degli anni '70 per il mercato di massa è stato il Commodore PET (della Commodore International) introdotto nel gennaio del 1977, che aveva un impressionante somiglianza con lo Sphere 1 di due anni prima. Esso fu subito seguito dal TRS-80 (lanciato il 3 agosto 1977) di Radio Shack e dal popolare Apple II (5 giugno 1977). I computer già assemblati venduti sul mercato di massa, permisero a una più ampia categoria di persone l'utilizzo del computer, concentrandosi di più sullo sviluppo delle applicazioni software e di meno sullo sviluppo dell'hardware del processore. Nel 1981 fece la sua comparsa nel mercato il primo di una serie di personal computer che divenne molto popolare: l'IBM 5150, meglio conosciuto come PC IBM. Il costo era ancora elevato (circa 3.000 dollari), la capacità di elaborazione bassa, la possibilità di gestire grosse moli di dati era legata all'acquisto di costosi dischi rigidi, o unità a nastro esterne. D'altra parte era una macchina solida e affidabile, che godeva di assistenza tecnica ed era espandibile tramite un bus interno (caratteristica che solo l'Apple II all'epoca possedeva). Grazie al suo successo, il PC IBM divenne lo standard de facto nell'industria del personal computer. Le industrie informatiche situate in Oriente (Taiwan, Singapore, etc.) si misero subito al lavoro per clonare questa macchina (operazione possibile perché IBM forniva assieme al PC anche gli schemi elettrici, e il listato del sistema operativo era facilmente ottenibile, i componenti utilizzati, chip di memoria, processore, unità a disco erano "standard" e disponibili per tutti). In pochi anni il mondo fu invaso da enormi quantità di PC clonati, dalle prestazioni sempre più brucianti e dai costi sempre più bassi. Ricordo ancora la mia gioia quando in ufficio abbandonai un Commodore 64, con sistema operativo MS-DOS per un Macintosh con sistema operativo MAC OS.

3.28 Enrico Piaggio. (Pegli, 1905 – 1965, Pegli). L'impresa venne fondata nel 1884 da Rinaldo Piaggio, figlio di un imprenditore titolare di una segheria per legname, a Sestri Ponente e si occupò all'inizio di arredamento navale e in seguito di produzioni metalmeccaniche e ferroviarie. Nel 1915 l'azienda acquisisce le "Officine Aeronautiche Francesco Oneto", e nel 1924 successivamente cominceranno a essere prodotti i primi motori Jupiter e gli aeromobili Dornier Wal, costruiti su licenza.
Gli stabilimenti dell'impresa vennero utilizzati nel periodo tra le due guerre mondiali per la produzione di rotabili ferroviari, ma nello stesso periodo era stata avviata anche la produzione riguardante il settore degli aeroplani. Dopo la prima guerra mondiale, si assiste alla trasformazione da economia bellica a economia di pace. Nei primi anni venti Piaggio costruisce il treno reale e alcuni elettrodomestici rivoluzionari sia dal punto di vista del design che dell'utilizzo. Per assicurarsi delle maestranze anche nel settore aeronautico, proprio in quegli anni viene acquistato l'intero stabilimento Bonmartini di Roma, per la produzione del monoplano da caccia Piaggio P.2 i, il quadrimotore Piaggio P.108, unico bombardiere quadrimotore a essere impiegato dall'aeronautica durante la seconda guerra mondiale. Nel 1924 viene acquistato, a Pontedera, lo stabilimento Costruzione Meccaniche Nazionali; nel 1926 Rinaldo fonda la SANA, Società Anonima Navigazione Aerea, prima compagnia italiana per il trasporto aereo di passeggeri. Il capitale sociale passa da 15 a 30 milioni di lire nel 1930 per poi diminuire a 10 nel 1932: la crescita iniziale subisce immediatamente una frenata dovuta all'esplosione della Grande Depressione. Nel 1938 muore Rinaldo Piaggio: i suoi figli si dividono responsabilità e competenze, ad Armando vanno gli stabilimenti liguri (a Finale Ligure e Sestri) e a Enrico Piaggio quelli toscani (a Pontedera e a Pisa). Negli anni del fascismo vengono costruiti autocarri, autobus, teleferiche, rimorchi, funicolari, serramenti in alluminio. La storia della Piaggio ha una svolta nel dopoguerra, quando, il 23 aprile 1946, su progetto di Corradino D'Ascanio, viene brevettato uno scooter il cui nome diventerà quasi un sinonimo di "Piaggio": la Vespa. La nascita della Vespa segna la fine dei progetti e delle produzioni aeronautiche. Il nuovo scooter fu presentato il 29 marzo 1946 a Roma al circolo del golf al generale Stone, capo delle forze alleate in Italia. Soltanto a partire dal 1948, con l'uscita della Vespa 125, il veicolo registrò un successo di pubblico: nel 1953 vennero costruite 171.200 Vespe, nel 1960 a Pontedera esce la due milionesima vespa, nel 1970 si arriva a quattro milioni e nel 1988 verrà raggiunto il traguardo della dieci milionesima. A oggi, le vespe prodotte a partire dal 1946 superano i sedici milioni di unità. Nel 1964 le due divisioni (aeronautica e motociclistica) diventano a tutti gli effetti due imprese indipendenti; la divisione aeronautica prende il nome di IAM Rinaldo Piaggio, che diventerà in seguito Piaggio Aero Industries. Dopo la morte di Enrico Piaggio, avvenuta nel 1965, l'impresa passa sotto il controllo degli Agnelli. Una fase segnata dall'acquisto della Gilera nel 1969 e dall'ampliamento della gamma: sono gli anni del Ciao, del Bravo, del Boxer, del Si, del Grillo. Negli anni settanta, inoltre, si assiste alla creazione di nuovi prodotti nel segmento degli scooter e dei motocarri: nel 1977 nasce la Piaggio Vespa PX, nel 1980 viene acquisito il marchio di biciclette più antico del mondo F.I.V. Edoardo Bianchi che rimarrà per molti anni all'interno del gruppo. Dagli anni '90 vengono prodotti gli scooter Zip, Sfera, Hexagon. In seguito alla scomparsa di Giovanni Alberto Agnelli, il gruppo avvia il mutamento del proprio assetto proprietario: nel 1999 il controllo passa al gruppo finanziario Morgan Grenfell Private Equity, nel 2003 la società passa sotto il controllo della holding industriale Immsi S.p.A. di Roberto Colaninno, quotata alla Borsa di Milano. Nel frattempo (2001) Piaggio aveva acquisito il controllo di Derbi. Nel 2006 acquisisce l'impresa veneta Aprilia alla quale, tra l'altro, facevano capo altri marchi storici come Moto Laverda e Moto Guzzi. Nel 2006 la società Piaggio e C. viene quotata in Borsa. Tra le novità di maggior spicco introdotte negli ultimi anni è da citare l'MP3, scooter particolare a tre ruote, due anteriori e una posteriore. Nel 2007 è stato anche presentato alla stampa un prototipo di scooter ibrido, dotato di motore termico e motore elettrico. Con l'ausilio dei reparti corse Aprilia, Derbi e Gilera partecipa, supportando vari team in varie categorie, sia al Motomondiale che al Campionato mondiale Superbike.

3.29 Domenico Agusta (Palermo 1907 - Milano 1971). Giovanni Agusta nel 1907 aveva iniziata la costruzione di velivoli senza motore e per tale scopo aveva fondato a Palermo, nel 1908, la ditta Agusta Giovanni. Trasferitosi nel nord Italia, nel 1919 l'impresa prese il nome di Costruzioni Aeronautiche Giovanni Agusta S.A. con l'intento di svolgere attività di manutenzione e riparazione degli aerei militari. Le prime officine furono aperte a Tripoli, nel 1920, e a Bengasi, nel 1922. L'officina in Italia fu inaugurata nel 1923 a Cascina Costa, in adiacenza al campo di volo di Cascina Malpensa. Pochi anni dopo, nel 1927, Giovanni Agusta morì lasciando la ditta alla moglie Giuseppina Turetta e ai figli Domenico, Vincenzo, Mario e Corrado. Fu Domenico, insieme al fratello Vincenzo, ad assumere la guida dell'impresa e a seguirne lo sviluppo nella produzione e manutenzione di velivoli militari utilizzati dall'aeronautica fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945, a seguito delle clausole del trattato di pace, venne proibita all'Italia la produzione di velivoli e l'impresa dovette fronteggiare un periodo di crisi che tentò di superare, cambiando le linee di produzione, adattandosi a costruire barche e autobus. Nel 1945, gli Agusta decisero di costruire motociclette, fondando la Meccanica Verghera Agusta, più nota come MV Agusta. L'adozione di tecnologie derivate dalle costruzioni aeronautiche e la passione di Domenico e Vincenzo per la meccanica consentirono di realizzare modelli di grande successo e moto da competizione che si affermarono nei campionati mondiali arrivando a vincere 63 campionati del mondo di motociclismo, di cui 17 campionati del mondo consecutivi della classe 500 cm³ negli anni sessanta fino agli inizi degli anni settanta. Nel 1950 cessarono i divieti relativi alle costruzioni aeronautiche imposti dal trattato di pace e l'Agusta riprese la produzione nel settore, sia realizzando piccoli biplani, sia effettuando manutenzioni sugli aerei. Nel 1952 l'Agusta entrò nel settore pionieristico degli elicotteri, acquisendo la licenza di costruzione, prima in Europa, del Bell 47. Quasi contemporaneamente, iniziarono le sperimentazioni di modelli di propria progettazione. Vincenzo Agusta morì nel 1958 e Domenico Agusta assunse ancora di più il ruolo di guida dell'impresa. Nel 1961, l'Agusta ricevette la licenza di costruzione dell'Agusta-Bell AB204, ma, traguardo più qualificante, il 19 ottobre 1964 volò l'Agusta A101, elicottero di classe detta "pesante", di concezione e progettazione tutta italiana. Questo successo tecnologico convinse l'altra società americana allora al vertice del settore, la Sikorsky, a stringere un accordo commerciale nel 1967 per la costruzione, su licenza, dell'Agusta-Sikorsky SH-3D. Nel 1969 fu acquisita la SIAI-Marchetti. Domenico morì nel 1971 lasciando l'azienda al fratello Corrado. Con la morte dello storico capo, l'Agusta si trovò a fronteggiare nuovamente un periodo di crisi, dovuto agli investimenti per l'A109, che portò la famiglia Agusta a vendere il 51% delle quote della società nel 1973 all'EFIM. L'ente di Stato, considerò strategica per gli interessi nazionali la tecnologia delle costruzioni e della manutenzione degli elicotteri, ormai in buon numero in dotazione alle forze armate e alle forze di polizia e avviò la creazione di un polo aerospaziale, costituito dalle varie aziende aeronautiche del settore, la Agusta, la Caproni, la Elicotteri Meridionali e la SIAI-Marchetti, acquisite e consolidate nel Gruppo Agusta. L'EFIM, nel contempo avviò la dismissione del settore motociclistico e, come conseguenza, l'ultima vittoria nel campionato mondiale si ebbe nel 1976 per arrivare nel 1980 alla cessazione della produzione di motociclette. Nel 1975 venne avviata la produzione di serie dell'Agusta A109 che si è rivelato essere uno dei maggiori successi dell'Agusta. Nel 1983 volò il primo prototipo dell'Agusta A129 Mangusta. Si trattò del primo elicottero d'attacco progettato e costruito interamente in Europa. L'elicottero non ebbe un grande successo commerciale mondiale ma è in dotazione all'Esercito Italiano. Nel 1981 Agusta e la britannica Westland avviarono lo sviluppo dell'AgustaWestland EH101, un elicottero di classe pesante nato per rispondere ai requisiti della Royal Navy e della Marina Militare, intenzionate a rinnovare la flotta di elicotteri. Nel 1985 venne avviato il programma congiunto con le industrie elicotteristiche di Francia, Germania e Paesi Bassi per lo sviluppo e la produzione dell'NHI NH90, un elicottero della classe medio-pesante richiesto dalle rispettive forze armate. Nel luglio del 2000 la Finmeccanica SpA e la GKN plc firmarono l'accordo per la fusione delle rispettive controllate del settore elicotteristico, creando la AgustaWestland. Il 26 maggio 2004 la GKN vendette interamente la sua quota azionaria e AgustaWestland è ora controllata totalmente da Leonardo-Finmeccanica.
Nessuno sentì più parlare di MV Agusta fino al 1991, allorquando il gruppo Cagiva Motor dei fratelli Castiglioni, rivelò di aver acquisito il marchio creando la MV Agusta motor s.p.a con sede a Varese località Schiranna. Cagiva aveva nella sua storia una caratteristica in comune con MV Agusta, in quanto era nata dalle ceneri di un'altra industria aeronautica, la AMF Aermacchi, ed era al tempo in piena espansione avendo già salvato un'agonizzante Ducati ed avendo portato a Schiranna, sede della Società, un altro glorioso marchio specializzato nel fuoristrada, la svedese Husqvarna. Cagiva era anche proprietaria del marchio Moto Morini. Ma la storia MV Agusta ancora una volta ebbe un brusco rallentamento, il gruppo Cagiva piombò in una crisi finanziaria molto grave con nefaste conseguenze sulla continuità della produzione. Solo nel corso del 2004, grazie all'accordo con la malese Proton, la situazione si è definitivamente sbloccata e tutto il gruppo, ha potuto riprendere l'attività. Il 27 dicembre 2005, a distanza di un anno dall'acquisizione, la Proton ha ceduto il suo pacchetto azionario, pari al 57,57% del Gruppo MV Agusta, a un gruppo finanziario Italiano (GEVI S.p.A) al prezzo simbolico di 1 euro. L'11 luglio 2008 la Harley-Davidson ha preannunciato il rilevamento del gruppo italiano MV Agusta (comprensivo del marchio Cagiva) per circa 70 milioni di euro per espandere il proprio business in Europa. L'operazione ha avuto definitiva conclusione nell'agosto dello stesso anno. A ottobre 2009 la Harley, alla presentazione dei conti del trimestre, ha comunicato l'intenzione di cederla nuovamente. Nell'agosto 2010 il marchio è stato nuovamente ceduto a Claudio Castiglioni, ex proprietario del gruppo, per la cifra simbolica di 1 euro. Il 31 ottobre 2014 la AMG Mercedes acquisisce il 25% del pacchetto azionario della casa italiana per una cifra vicina ai 30 milioni di euro. Il 22 marzo 2016, MV Agusta richiede il Concordato preventivo in continuità aziendale al tribunale di Varese, per far fronte alla crisi di liquidità che sta affrontando l'impresa.

3.30 Carlo Pesenti (Alzano Lombardo (BG) 1907 - Montreal (Canada) 1984); Agli inizi dell’Ottocento Carlo Antonio Pesenti (1826-1868) avvia una piccola fabbrica di carta e una segheria in Alzano Lombardo. Nel 1877 i figli Carlo (1853-1911), Pietro (1854-1920), Luigi (1857-1911), Cesare (1860-1933), Daniele (1861-1911) e Augusto (1865-1918) convertono l'attività della ditta alla produzione di agglomeranti idraulici, con il nome di Fratelli Pesenti fu Antonio. In seguito alla scoperta nella zona del Bergamasco, all’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, di marne adatte alla produzione del cemento Portland, il perimetro delle attività aziendali viene allargato fino ad includere la fabbricazione del cemento bianco. Nel 1906, dopo l’acquisizione della concorrente Società bergamasca per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica, nasce la Società Italiana dei cementi e delle calci idrauliche, che sotto la guida di Antonio Pesenti (1880-1967), figlio di Luigi, arriva a coprire il 15% del mercato nazionale del cemento alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1925 l’impresa, operante in Italia con oltre trenta unità produttive, viene quotata presso la Borsa valori e nel 1927 cambia la sua denominazione sociale in Italcementi, arrivando a conquistare negli anni seguenti la leadership nazionale nel settore cementizio italiano, con una quota di mercato pari ad oltre il 35% del totale. Carlo Pesenti, figlio di Augusto e cugino di Antonio Pesenti, frequenta il liceo classico presso il Collegio dei Padri Barnabiti di Moncalieri e successivamente si iscrive al corso di Ingegneria meccanica del Politecnico di Milano, laureandosi nel 1933. L’anno successivo fa il suo ingresso nella società Italcementi, iniziando un tirocinio che lo vede occupare negli anni successivi tutti i gradi della gerarchia aziendale: ricercatore chimico, segretario della direzione tecnica, direttore di officina, capo ufficio acquisti. Entrato nel 1940 nel consiglio di amministrazione dell’impresa, nel 1942 viene nominato direttore generale e consigliere delegato, in seguito alla scomparsa del fratello maggiore Mario che aveva rivestito tali cariche in precedenza. Fin dai primissimi anni del dopoguerra Pesenti mostra un notevole dinamismo imprenditoriale. Nel 1946 riorganizza il gruppo in quattro rami: all’Italcementi resta affidata l’attività relativa al core business del cemento, alla Sacelit Spa viene assegnato il settore dei manufatti in legno-cemento e cemento-amianto, alla CIDI (Calci Idrate d’Italia) il comparto della calce idrata, mentre tutte le partecipazioni finanziarie vengono concentrate nella neocostituita società Italmobiliare. L’industria italiana del cemento, grazie alle opportunità offerte prima dalla ricostruzione e successivamente dal “miracolo economico”, conosce un’intensa fase di crescita, passando dai 5,4 milioni di tonnellate prodotte nel 1950 ai circa 23 milioni del 1965, dati che la portano al secondo posto in Europa – dopo la Germania – e al sesto nel mondo. La strategia di Pesenti punta a sfruttare la congiuntura favorevole attraverso l’ulteriore rafforzamento tecnico e produttivo dell’impresa. Nel giro di pochi anni viene portato a termine un complesso processo di riorganizzazione e ammodernamento degli impianti, reso possibile anche grazie a cospicui investimenti in ricerca e sviluppo. Le innovazioni tecnologiche introdotte riguardano inizialmente la sostituzione dei forni a “via umida” con quelli a “via secca”, con un conseguente maggior risparmio di energia, per poi estendersi alla meccanizzazione di tutte le fasi del processo produttivo del cemento: escavazione e trasporto delle materie prime, macinazione, cottura ed essicazione. Le opportunità offerte dalle maggiori economie di scala rese possibili da tali innovazioni vengono colte con tempestività da Pesenti, che avvia la costruzione di nuovi impianti di grandi dimensioni – sette solo fra il 1947 e il 1960 – destinati a servire sia le aree geografiche in cui l’Italcementi aveva consolidato la sua presenza nei primi decenni del Novecento – Piemonte, Veneto, Friuli – sia a sostenere lo sviluppo di nuovi mercati nelle regioni del Mezzogiorno. Di pari passo va il rafforzamento della rete distributiva, che viene articolata su quattro filiali commerciali principali (Milano, Napoli, Padova e Roma) e oltre sessanta uffici vendita locali, fra i quali viene suddiviso capillarmente il territorio nazionale in altrettante zone di vendita. Tra il 1947 e il 1964 il fatturato dell’Italcementi passa da poco meno di 18 miliardi a più di 46 miliardi di lire. Le ingenti risorse finanziarie che si rendono disponibili vengono utilizzate da Pesenti per alimentare una strategia di diversificazione che espande il perimetro degli investimenti del gruppo molto al di là dell’originario core business della produzione e commercializzazione di cemento. Nel corso degli anni Cinquanta il gruppo Italcementi acquisisce partecipazioni azionarie in numerose imprese industriali e società finanziarie. Fra queste ultime spicca la Bastogi, all’epoca vero e proprio “salotto buono” del capitalismo italiano, del cui consiglio d’amministrazione Pesenti entra a far parte nel 1951. Nel giugno 1956, con un investimento effettuato in prima persona, diviene anche il maggiore azionista della Lancia, in quel momento in gravi difficoltà finanziarie. Il tentativo di risollevare le sorti della seconda casa automobilistica italiana si rivela però sostanzialmente impossibile. Nonostante l’intuizione che per l’impresa occorresse definire una posizione di nicchia nel segmento alto di mercato e gli ingenti investimenti effettuati per perseguire tale obiettivo – in particolare la costruzione di un nuovo stabilimento a Chivasso (Torino) – la recessione iniziata nel 1964 e il conseguente calo della domanda costringono Pesenti a cedere il controllo della Lancia alla FIAT nel 1969. Durante gli anni Sessanta assume particolare rilevanza l’espansione nel settore bancario, che tocca il suo culmine nel 1967 quando viene costituito, attraverso la fusione di otto istituti di credito già acquisiti negli anni precedenti, l’Istituto Bancario Italiano (IBI), la terza banca privata in Italia per entità dei depositi. Nello stesso anno Pesenti, che nel 1962 è stato nominato Cavaliere del Lavoro, assume anche la presidenza dell’Italcementi, in seguito alla scomparsa del cugino Antonio. All’inizio degli anni Settanta il complesso di aziende controllate da Pesenti raggiunge il massimo della sua estensione e forza finanziaria, arrivando ad occupare il tredicesimo posto nella graduatoria delle imprese italiane in base al fatturato complessivo, conservando però una struttura piuttosto anomala nel contesto dei grandi gruppi italiani, al cui vertice si trova in genere una holding finanziaria. In questo caso la capogruppo è invece l’Italcementi, un’impresa industriale che, attraverso la finanziaria Italmobiliare, controlla le partecipazioni più importanti detenute da Pesenti nel settore bancario (Credito Commerciale di Cremona, IBI, Banca Provinciale Lombarda, Efibanca, Banca di Alessandria), assicurativo (il gruppo RAS), immobiliare (il complesso turistico di Punta Ala in Toscana), editoriale e cartario (i quotidiani “La Notte” e “Il Tempo”, le Cartiere Burgo), una quota rilevante nelle Acciaierie Falck e il controllo dell’azienda elettromeccanica Franco Tosi. La grande espansione del gruppo ha portato tuttavia a un parziale indebolimento della catena di controllo, culminato alla metà degli anni Sessanta con la discesa della quota azionaria detenuta dalla famiglia Pesenti nell’Italcementi al di sotto del 50%. Fra il 1968 e il 1969 l’Italcementi viene fatto oggetto di un tentativo di scalata ostile in Borsa da parte del finanziere Michele Sindona, che arriva a rastrellare un consistente pacchetto azionario, pari a più di un terzo del capitale sociale. L’operazione viene infine bloccata grazie al decisivo intervento del governatore della Banca d’Italia Guido Carli, ma l’elevato prezzo pagato per poter rilevare le azioni acquisite da Sindona porta a un significativo peggioramento della situazione finanziaria del gruppo e costringono Pesenti a chiedere, nel 1972, un prestito allo IOR (Istituto per le Opere di Religione), ente finanziario del Vaticano. Negli anni successivi il netto calo della redditività dell’industria del cemento causato dalla crisi petrolifera del 1973, e le difficoltà di mercato che colpiscono senza distinzioni tutte le aziende del gruppo, spingono Pesenti ad iniziare un graduale processo di dismissioni. Nel 1975 vengono cedute al Banco Lariano le partecipazioni di maggioranza nel Credito Legnanese e nella Banca Alto-Milanese, mentre l’anno dopo viene ceduto alla Montedison parte del pacchetto di maggioranza della Bastogi. Nel 1979 è la volta del Credito Commerciale di Cremona, ceduto al Monte dei Paschi di Siena. Sempre nello stesso anno, su pressione della Banca d’Italia e del Ministero del Tesoro, Pesenti deve ridisegnare la struttura del gruppo, ponendo fine all’anomalia rappresentata da una società finanziaria come l’Italmobiliare che controllava istituti bancari ed era posseduta da un’impresa industriale. Il problema viene risolto attraverso l’acquisizione del pacchetto di controllo dell’Italcementi da parte della stessa Italmobiliare, ribaltando in tal modo l’originario rapporto tra le due società. All’inizio degli anni Ottanta l’esplosione dell’indebitamento dell’Italmobiliare – dai quasi 600 miliardi di lire del 1980 ai 773 miliardi del 1981 agli oltre 1000 del 1982 – porta a ulteriori dismissioni: la banca IBI viene ceduta alla Cariplo nel 1982, mentre due anni dopo è la volta della Banca Provinciale Lombarda, venduta all’Istituto San Paolo di Torino. Agli inizi del 1983, in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute è costretto a passare il testimone al figlio Giampiero, che nel corso degli anni Ottanta porterà a termine il processo di risanamento del gruppo. Muore nel settembre 1984 al General Hospital di Montreal, in seguito a complicanze cardiache.

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Eugenio Caruso

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www.impresaoggi.com