La societa' italiana evolve velocemente, al traino dei grandi
trend demografici. Di meno, piu' vecchi e concentrati al Nord,
solo i "nuovi italiani" potranno mitigare lo spopolamento di
alcune aree del Paese. L'istituto della famiglia e' in continuo
mutamento, prevalgono forme di unione piu' snelle e flessibili:
piu' convivenze, piu' separazioni, piu' distanza anagrafica tra gli
sposi.
Cambia anche il mercato del lavoro che diventa sempre piu'
smart nelle forme e nelle modalita', mentre ritrova smalto il
mito del posto fisso, soprattutto tra i piu' giovani. In questo
contesto in evoluzione si va sviluppando anche nel nostro
Paese la gig economy (l'economia dei lavoretti) che puo' offrire
nuove opportunita' di integrazione al reddito per giovani e
maturi.
Preoccupati per l'ambiente e l'ondata migratoria, gli italiani
sono diventati diffidenti ma continuano a contare sui rapporti
familiari. Benessere ed estetica diventano le nuove parole d'ordine
della quotidianita' delle persone: da gioielli e abbigliamento
ad acconciature, tatuaggi e ritocchi, il corpo diventa emblema
di identita' personale. D'altra parte, gli italiani coltivano
la propria spiritualita', prediligendo forme piu' leggere e meno
impegnative che si concretizzano nella diffusione del buddhismo,
delle filosofie orientali, dello yoga e della meditazione.
Innamorati della tecnologia, essi non possono rinunciare allo
smartphone di ultima generazione, anche se sorgono le prime
crepe nel rapporto con i social network: bullismo e fake news
rappresentano il lato oscuro del web da cui gli italiani vogliono
difendersi.
Un nosocomio: con questa immagine avevamo rappresentato
l'Italia del futuro nelle pagine del Rapporto Coop 2016. Un
Paese che si stava preparando ad essere piu' vecchio e meno
popolato, con individui irrimediabilmente piu' soli e orfani dai
tradizionali legami di tipo familiare.
Eppure, incrociando statistiche e proiezioni demografiche
nazionali ed internazionali, la metafora della casa di cura non
e' sufficiente per descrivere adeguatamente l'Italia che verra'.
Elementi emergenti contribuiscono infatti a disegnare il ritratto
di un Paese che tra cinquant'anni sara' profondamente
diverso da quello attuale.
Sulla base dello scenario centrale delle recenti previsioni
demografiche dell'Istat, la popolazione residente e' attesa decrescere
dai 60,7 milioni di abitanti attuali a 58,6 milioni entro
il 2045 per poi ripiegare ulteriormente sino ai 53,7 milioni
del 2065, con una perdita complessiva di 7 milioni di persone
(-11,5% rispetto ai valori odierni). In altre parole, indietro di
cinquanta anni rispetto ad oggi: 54 milioni era infatti la popolazione
italiana agli inizi degli anni Settanta.
Cio' che rileva non e' tanto il processo di arretramento del
numero dei residenti, fenomeno del resto ampiamente indagato
e documentato, quanto la distribuzione sul territorio
nazionale degli italiani del futuro. Le statistiche raccontano infatti
di un Paese vittima di una preoccupante desertificazione
demografica che finira' per accentuare la frattura Nord-Sud:
lo spopolamento andra' infatti a colpire segnatamente le aree
meno prospere del Paese, innescando una spinta migratoria
dalle Regioni meridionali a quelle settentrionali che nelle dimensioni
sara' paragonabile a quella osservata a cavallo degli
anni Cinquanta e Sessanta. All'epoca del "miracolo economico
italiano" si realizzo' infatti la piu' imponente migrazione
di massa della storia del nostro Paese: milioni di lavoratori si
spostarono dal Mezzogiorno, abbandonando l'agricoltura, in
direzione delle aree piu' dinamiche del Nord. Nelle Regioni settentrionali
risiedera' un abitante su due, mentre in quelle del
Sud e nelle Isole l'incidenza della popolazione su quella nazionale
scendera' progressivamente sotto la soglia del 30%. A spopolarsi
saranno in prevalenza i centri periferici, lontani dalle
rotte dell'industria e del turismo, i medesimi che hanno gia'
sofferto di una riduzione del 20% della popolazione nel corso
degli ultimi quaranta anni.
Anche l'impatto sulla domanda interna sarebbe ingente: un
monte atteso di minori consumi pari a 130 miliardi di euro
ai prezzi attuali (-12,7%), l'equivalente della spesa annuale
dell'intero Paese per alberghi e ristoranti e poco meno di tutti
i consumi alimentari. Un cambiamento al quale non sara' facile
prepararsi. Oltre a un cambiamento della distribuzione
degli abitanti, la dinamica del fenomeno sara' influenzata dalla
portata dei movimenti migratori dall'estero: si tratta di una
variabile che contribuisce ad alimentare l'incertezza, soprattutto
in ragione della delicatezza del quadro geopolitico nell'area
mediorientale e nel continente africano. Secondo le stime
disponibili, entro il 2065 il saldo migratorio fara' aumentare i
residenti stranieri in Italia di ulteriori 7,7 milioni di persone,
facendo crescere il peso della popolazione di origine straniera
sul totale a poco meno del 25%.
A tal proposito, giova ricordare che e' in atto un ampio dibattito
sulla sostenibilita' e l'efficacia delle politiche di accoglienza
e integrazione dei migranti: a lungo il governo italiano ha
avanzato proposte circa una piu' equa riallocazione dei nuovi
arrivati su scala sovranazionale e sulla base di criteri che insistono
sulla capacita' di assorbimento di ogni Paese, in ragione
della popolazione, del Pil e del numero di migranti gia' ospitati.
Parte del dibattito insiste anche sulle modalita' di acquisizione
del diritto di cittadinanza per quelli che saranno i "nuovi
italiani". Nel corso del 2017 si e' a lungo dibattuto sul provvedimento
dello Ius soli, che permetterebbe ai bambini nati in
Italia di acquisire la cittadinanza italiana nel momento in cui
uno dei due genitori si trovasse legalmente nel nostro Paese
da almeno cinque anni. L'importanza del provvedimento dello
Ius soli non si limiterebbe alla sola materia giuridica, dal momento
che gli effetti economici sarebbero ingenti: dal punto
di vista previdenziale, ad esempio, allargare l'acquisizione del
diritto di cittadinanza significherebbe incrementare il gettito
contributivo.
L'ultimo Rapporto Inps pone l'accento proprio su questo
aspetto, sottolineando come la chiusura delle frontiere ai migranti
significherebbe 73 miliardi in meno di entrate contributive
in 22 anni, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per
l'Inps. Del resto, se volessimo mantenere i livelli demografici
di oggi (e con essi i medesimi consumi, il medesimo sistema di
welfare e di attivita' produttive), dovremmo necessariamente
"importare" persone dai Paesi stranieri: per avere la medesima
popolazione di oggi l'incidenza dei nuovi italiani dovrebbe
superare il 30% del totale.
Compensazione straniera esclusa, infatti, le future nascite
non saranno sufficienti a supplire ai decessi, per effetto non
solo del graduale invecchiamento della societa' ma anche della
riduzione del numero delle potenziali madri. Per comprendere
la portata di quanto sta avvenendo, e' utile considerare che
le donne arrivate alla fine della loro vita riproduttiva, ovvero
attorno ai 50 anni, sono oltre mezzo milione in Italia, mentre
le donne che stanno approdando alla fase di costruzione della
famiglia, ovvero quella nella fascia prossima ai 25 anni, sono
poco piu' di 300 mila. Nell'ipotesi mediana, il saldo naturale
raggiungera' quota -200 mila individui all'anno entro il 2025,
per poi toccare una soglia pari a -300 e -400 mila unita' in meno
all'anno nel medio e lungo termine.
D'altra parte, il processo di invecchiamento (il numero dei
centenari decuplichera' nei prossimi trenta anni, passando dai
17 mila attuali ai 157 mila del 2050) risulterebbe piu' moderato,
piu' gestibile e quindi anche meno costoso per la finanza pubblica
se fosse prodotto solo dall'aumento della longevita' e non
accentuato anche dall'erosione delle nuove generazioni.
Per quel che concerne il primo punto, le piu' recenti statistiche
quantificano l'incremento prospettico dell'eta' media e
dell'aspettativa di vita: entro il 2065 uomini e donne arriveranno
a vivere rispettivamente sino a 86,1 anni e fino a 90,2 anni,
circa 6 anni in piu' in confronto ad oggi.
Quanto al secondo aspetto, insieme all'evoluzione dei modelli
comportamentali e valoriali, il deterioramento delle condizioni
economiche di base di questi anni ha determinato un
rovesciamento degli schemi tradizionali: la lunga recessione,
colpendo in misura piu' accentuata i nuovi entranti nel mercato
del lavoro, ha prodotto un congelamento delle scelte di
emancipazione e di formazione di una nuova famiglia. I dati
piu' recenti mostrano come l'eta' di uscita dal nucleo di origine
sia salita attorno ai 30 anni nel nostro Paese, mentre risulti
inferiore ai 25 non solo nei Paesi scandinavi, tipicamente piu'
flessibili nei processi familiari, ma anche in Francia, Germania
e Regno Unito.
Questo pero' non significa che i giovani italiani siano "mammoni"
o "bamboccioni" o che non siano portatori di desideri,
valori e aspirazioni: secondo i dati dell'ultimo report dell'Osservatorio
Giovani, oltre l'80% degli intervistati tra i 18 e i 32
anni vorrebbe mettere al mondo due o piu' bambini, ma solo il
60% ritiene che, considerati i limiti e le difficolta' che si trovera'
a fronteggiare nel corso della propria vita, riuscira' a realizzare
tale obiettivo. In termini di numero complessivo di figli, la percezione
di tali barriere implica una riduzione di circa mezzo
figlio, da oltre 2,1 desiderato a 1,6 realisticamente atteso.
Come hanno sottolineato diversi autorevoli studi, e' necessario
invertire con urgenza la rotta per evitare di finire in una
trappola demografica e per restituire vitalita' e dinamismo al
Paese: e' dimostrato che quando la bassa fecondita' diventa un
fenomeno di carattere persistente, si innescano meccanismi
che tendono a portare a un riadattamento strutturale verso il
basso. A livello di atteggiamenti e comportamenti individuali,
infatti, diventa socialmente piu' sostenibile adeguarsi all'idea
di rinviare la formazione della famiglia o di fermarsi al figlio
unico, all'interno di una collettivita' in cui tale condizione si
afferma come il paradigma prevalente.
Nel corso dell'ultimo biennio l'economia italiana ha beneficiato
di una moderata ripresa. Il reddito disponibile delle famiglie,
in termini nominali, si e' riportato sui livelli precedenti
la crisi, anche se la sua distribuzione e' molto cambiata: benche'
il potere d'acquisto delle famiglie sia stato sostenuto da una serie
di misure a carattere redistributivo (dall'indennita' di cassa
integrazione ai sussidi per le famiglie a basso reddito, sino al
bonus degli 80 euro per i lavoratori dipendenti) e nonostante
la percezione del benessere economico sia significativamente
migliorata (i due terzi degli italiani valutano la propria condizione
stabile o piu' favorevole, con una disponibilita' di risorse
adeguata in relazione al proprio tenore di vita), le difficolta'
permangono diffuse.
L'incidenza della poverta' resta non trascurabile ed e' sostanzialmente
raddoppiata nel corso degli ultimi dieci anni: il numero
di famiglie in condizioni di disagio economico e' stimato
attualmente in circa 1,6 milioni (corrispondenti a 4,6 milioni
di individui).
Ancora piu' rappresentativa, tuttavia, e' la percentuale di individui
che si trovano esposti a rischio di caduta in poverta' o
di esclusione sociale: si tratta di oltre un italiano su quattro
(28,7%), pari a 17,5 milioni di persone, concentrati in prevalenza
nei nuclei piu' numerosi, tra le persone piu' giovani, tra i
non occupati e nelle aree metropolitane.
Oltre che nei suoi valori assoluti, il fenomeno va inquadrato
in termini di distanze rispetto al valore medio. Sotto questo
profilo, e' infatti opportuno dare risalto all'allarme che origina dall'esplosione delle disuguaglianze e che, secondo diversi
commentatori, richiederebbe l'adozione di un vero e proprio
"Piano Marshall" sociale: la crescente complessita' del mercato
del lavoro ha determinato un incremento delle disparita' non
solo tra individui con diversi gradi di responsabilita' ma anche
all'interno delle medesime professioni. Questo ha contribuito,
in assenza di mobilita' sociale, ad acuire la polarizzazione tra
le classi sociali, ma anche le divaricazioni presenti all'interno
di esse.
La piu' interessante chiave di lettura per l'esame delle disuguaglianze
e' certamente quella che riguarda la distribuzione
del reddito e della ricchezza. A partire dai dati dell'indagine
della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie, e' infatti possibile
ricostruire lo spaccato delle principali grandezze che qualificano
lo stato di salute economica degli italiani.
Le famiglie italiane dichiarano in media un reddito netto
pari a 30.500 euro l'anno e detengono una ricchezza netta, costituita
dalla somma delle attivita' reali (immobili e oggetti di
valore) e delle attivita' finanziarie (depositi bancari e postali,
titoli obbligazionari e azionari, al netto delle passivita' finanziarie)
di 218 mila euro. Nel primo semestre 2017 oltre un terzo
degli italiani, piu' precisamente il 35,4% del totale della popolazione
maggiorenne (in crescita del +4,1% rispetto a un anno
fa), risulta essere indebitato e, a livello pro capite, mensilmente
rimborsa 356 euro. La crescita delle erogazioni conferma il
consolidamento dell'intero comparto ma anche l'allargamento
della platea di cittadini che ne usufruiscono, pur mantenendo
pressoche' stabili sia la rata media sia l'indebitamento residuo,
segnali indubbiamente positivi per quanto riguarda la sostenibilita'
finanziaria delle famiglie.
Il vero tema resta tuttavia quello delle disuguaglianze: secondo
una recente indagine di Boston Consulting Group, oltre 300
mila famiglie italiane, l'1% del totale, detengono una ricchezza
che e' pari ad un quinto del totale. Entro i prossimi cinque anni
la porzione di famiglie con una ricchezza superiore al milione
di dollari dovrebbe salire a quota 433 mila per una incidenza
sulla ricchezza nazionale prossima ad un quarto del totale.
L'evidenza piu' rilevante ha a che vedere con la distribuzione
non uniforme di reddito e ricchezza lungo le diverse porzioni
di popolazione: l'indice di Gini, che sintetizza l'entita'
delle disuguaglianze, colloca l'Italia tra i Paesi con i maggiori
divari, superata solo da alcuni Paesi dell'Europa orientale che
hanno sistemi di welfare particolarmente arretrati (Lituania,
Romania e Bulgaria) o dalle economie mediterranee che
hanno subito le piu' pesanti conseguenze della crisi (Grecia,
Spagna e Portogallo).
La medesima lettura si coglie dalla concentrazione della proprieta'
immobiliare, se si considera che il 60% degli immobili
e' detenuto dal 20% delle famiglie piu' abbienti. La proprieta'
dell'abitazione di residenza, tratto peculiare dell'economia
delle famiglie italiane, non e' poi uniforme tra i diversi gruppi
sociali: ne sono titolari i tre quarti dei nuclei con capofamiglia
con almeno 55 anni, delle famiglie dei laureati e degli autonomi e attorno al 70% delle famiglie residenti nei comuni piu'
piccoli o del Centro. All'opposto, ben quattro famiglie straniere
su cinque vivono in un alloggio in affitto.
L'analisi consente altressì di isolare in maniera piu' precisa le
principali direttrici e le cesure presenti: la prima dimensione
e' quella generazionale, come si evince dal minore reddito dei
millennials rispetto alle famiglie con persona di riferimento in
eta' compresa tra i 55 ed i 64 anni (-30%, ben 11 mila euro in
meno all'anno). Ancora piu' marcata la distanza sulla ricchezza,
con i piu' giovani accreditati di uno stock di risorse che ammonta
alla decima parte delle disponibilita' presenti in famiglie
con persona di riferimento in eta' adulta (18 mila contro 180
mila euro di patrimonio).
Una seconda spaccatura attiene al grado di istruzione: nei
nuclei ove il capofamiglia e' in possesso di una laurea, reddito e
ricchezza medi sono rispettivamente pari a 47 e 257 mila euro,
mentre nei nuclei ove la persona di riferimento ha un titolo
di studio che si ferma alla licenza di scuola primaria reddito
e ricchezza si fermano a meno della meta', 20 e 115 mila euro.
I divari si ampliano ulteriormente prendendo in considerazione
la condizione professionale della persona di riferimento:
il reddito passa dai 25 mila della famiglia di un operaio ai 56
di un dirigente d'azienda o di un libero professionista (per la
ricchezza dai 42 mila ad oltre 260 mila euro).
Un terzo livello di differenziazione, infine, attiene alla collocazione
geografica: le famiglie residenti nelle Regioni settentrionali
hanno un reddito e una ricchezza rispettivamente del
48% e del 58% piu' elevati rispetto al Sud, con un gap che in
termini assoluti vale 11 mila euro l'anno di reddito e circa 60
mila euro di patrimonio accumulato.
Famiglie allargate, scomposte e riunite. Famiglie adottive,
famiglie che accolgono minori in affido. Figli avuti da nuovi
matrimoni o relazioni precedenti. Matrimoni multiculturali e
multietnici. Vedovi risposati e nuovamente genitori. Coppie
di fatto. Famiglie omogenitoriali. Genitori single. Mamme in
carriera e papa' casalinghi, nonni multitasking ed in piena attivita'
lavorativa.
La rassegna non esaustiva di queste tipologie familiari, facilmente
riscontrabili anche nell'esperienza quotidiana individuale,
conferma, qualora ve ne fosse ancora il bisogno, che
la famiglia di oggi non si identifica piu' soltanto nel modello
tradizionale della coppia sposata con figli.
Esiste invece un universo sfaccettato e multiforme che ha
finito per ridisegnare il perimetro delle relazioni personali e
snocciolare nuovi codici sociologici. Una analisi di lungo periodo
sulle strutture familiari consente di isolare alcuni dei
tratti distintivi delle famiglie moderne, a partire dall'evoluzione
che ha interessato l'istituto del matrimonio. Guardando ai
cambiamenti che sono intervenuti nel corso degli ultimi dieci
anni, e' infatti possibile individuare una serie di dimensioni innovative
lungo le quali i nuclei di oggi tendono a differenziarsi
rispetto al passato.
La prima notizia e' quella che riguarda il fenomeno crescente
delle unioni con e tra stranieri, che rappresenta una chiave
interpretativa interessante per leggere la multietnicita' della
societa': i matrimoni in cui almeno uno dei due sposi e' di cittadinanza
straniera sono circa 24 mila (pari ad oltre il 12% delle
nozze celebrate nel corso dell'ultimo anno, con valori piu' elevati
e vicini al 20% nel Nord-Est).
Gli uomini italiani che hanno sposato una cittadina straniera
hanno nel 20% dei casi una moglie rumena, nel 12% di
nazionalita' ucraina e nel 6% russa (nel complesso oltre una
sposa straniera su due proviene da un Paese dell'Est Europa).
Le donne italiane che hanno sposato un cittadino straniero,
invece, hanno scelto piu' spesso uomini provenienti dal
Marocco (13%), dall'Albania (11%) e dalla Romania (6%).
Complessivamente, in questa tipologia di coppia, il 32% degli
sposi e' cittadino di un Paese dell'Est Europa ed il 27% di un
Paese africano. Le informazioni disponibili sembrano quindi
confermare che a credere nel matrimonio sono piu' i nuovi
italiani di quelli vecchi, che al contrario prediligono sempre
piu' altre forme di relazione alla vita coniugale.
Insieme alla diffusione della condizione di conviventi, una
ulteriore significativa novita' ha a che vedere con l'eta' dei partner
e piu' precisamente con il differenziale anagrafico tra marito
e moglie: diminuisce come incidenza sul totale la frequenza
di coppie di coetanei, tipicamente il corpo centrale della distribuzione,
a favore di relazioni con maggiori e piu' ampie differenze
d'eta'. La quota di matrimoni tra persone che presentano
almeno 10 e 20 anni di distanza e' pressoche' raddoppiata dal
2004 ad oggi, passando rispettivamente dal 4% al 7% e dallo
0,5% all'1% del totale. Un fenomeno che lentamente sta uscendo
dalla nicchia, una nuova visione della vita di coppia e una
penetrazione di geometrie relazionali considerate sin qui un
esempio di anticonformismo. Un modello Macron, per riprendere
l'enfasi che i commentatori hanno voluto attribuire
alla composizione della famiglia sui generis del neo eletto
presidente francese, piu' giovane di 25 anni in confronto alla
premiere dame.
Si e' inoltre a lungo dibattuto dell'impatto che la disaffezione
nei confronti della religione cattolica ha prodotto sull'allontanamento
dalla pratica matrimoniale, cui ha contribuito l'equiparazione,
formale oltre che sostanziale, tra coppie sposate
e coppie di fatto: al noto calo dell'incidenza del matrimonio
religioso (-50% negli ultimi venti anni), si sovrappone un fenomeno
del tutto peculiare (secondo una recente indagine del
Censis a partire dal 2031 non verranno piu' celebrate nozze in
chiesa).
Esaminando lo spaccato delle informazioni disponibili, si
desume come la preferenza per il matrimonio religioso in luogo
di quello civile sia funzione del livello di istruzione e quindi
di reddito: tra le persone meno istruite la celebrazione secondo
il rito cattolico interessa il 40% degli sposi, a fronte di un piu'
elevato 60% per i laureati.
È dunque assai plausibile che il minor numero di matrimoni
religiosi che si osserva tra le persone dotate di un piu' basso titolo
di studio possa essere derubricata a effetto collaterale della
crisi economica, un ripiego verso il matrimonio civile, meno
impegnativo e cerimonioso, e dunque anche meno costoso. In
dinamica, tuttavia, le tendenze si invertono: negli ultimi dieci
anni la quota di matrimoni religiosi ha ceduto 15 punti percentuali
tra le persone che sono in possesso di un titolo di studio
terziario (dal 73% al 58%), mentre ha guadagnato 8 punti
nel caso delle persone che hanno una licenza di scuola elementare
(dal 33% al 41%). Una inversione di rotta che suggerisce
una graduale e trasversale convergenza degli stili di vita nella
direzione di paradigmi piu' snelli e meno "impegnati".
Un altro elemento interessante e' quello che riguarda il regime
patrimoniale dei nuovi sposi e quindi le scelte nella gestione
economica familiare: la separazione dei beni riguarda
oggi il 70% dei nuovi matrimoni (era il 56% dieci anni fa)
e risulta in forte diffusione soprattutto nelle aree del Paese
che nell'immaginario collettivo sono piu' legate alle tradizioni
(nel Mezzogiorno si e' passati da meno della meta' a circa
i tre quarti del totale, una quota anche superiore alla media
nazionale).
Se la flessibilita' anche nella vita familiare e' un valore, essa
ha pero' assunto le deviazioni della precarieta' e dell'instabilita':
secondo le ultime informazioni disponibili, si registra un
consistente aumento del numero di divorzi (oltre 82 mila casi,
+60% in confronto all'anno precedente, anche se il fenomeno
resta di lunga data).
Per leggere correttamente le statistiche, e' comunque utile
tenere a mente che il boom dei divorzi nell'ultimo anno e' stato
assecondato dalla cosiddetta legge sul divorzio breve, entrato
in vigore a meta' 2015 e che ha accorciato drasticamente
(da tre anni a sei mesi nei casi di separazioni consensuali o a
un anno nei casi di separazioni giudiziali) il periodo che deve
intercorrere obbligatoriamente tra il provvedimento di separazione
e quello di divorzio.
Giova altressi' ricordare che il 2016 e' stato anche l'anno che
ha sancito l'introduzione nel nostro ordinamento giuridico
delle unioni civili: nonostante sia stato stralciato l'elemento
piu' delicato, la cosiddetta stepchild adoption (l'istituto giuridico
che consente al figlio di essere adottato dal partner unito
civilmente o sposato con il genitore naturale), il riconoscimento
giuridico resta un passaggio fondamentale per equiparare
la normativa italiana a quella dei piu' civili Paesi europei. I
primi dati sembrano suggerire una accoglienza piuttosto timida:
il numero delle trascrizioni tra maggio 2016 e marzo 2017
ammonta a meno di 3 mila unioni civili, di cui piu' della meta'
celebrate nelle Regioni del Nord.
Il lavoro ha tradizionalmente rappresentato una delle componenti
centrali della vita quotidiana delle persone. Archiviati
dieci anni di crisi economica, esso rappresenta la dimensione
che piu' di altre catalizza speranze, paure, aspettative e frustrazioni
per una ampissima quota di cittadini. E costituisce uno
degli ambiti per i quali e' certamente piu' interessante indagare
gli effetti dei cambiamenti strutturali avvenuti nell'economia
del Paese e valutare i mutamenti nell'approccio degli italiani.
Sebbene la debole ripresa degli ultimi anni abbia permesso
di recuperare oltre 900 mila occupati persi negli anni della crisi,
la morfologia occupazionale del Paese e' di molto cambiata
nei suoi assetti strutturali.
Risultano ampie le divaricazioni tra settori (gli occupati nei
servizi hanno largamente superato i livelli antecedenti la recessione,
mentre restano ingenti le perdite nell'industria e nelle
costruzioni) e tra aree geografiche (se le Regioni del Centro-
Nord hanno chiuso il gap, al Sud il saldo degli occupati e'
negativo in una misura pari a 450 mila unita').
Ma soprattutto sono cambiate le forme del lavoro, e' mutato
l'identikit dei lavoratori e lo stesso contenuto aspirazionale e
valoriale che essi esprimono nei suoi confronti.
Un aumento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato
si e' verificato negli ultimi anni soprattutto grazie agli sgravi
contributivi introdotti a partire dal 2015.
Incentivi a parte, la geografia dei rapporti di lavoro si e' in
generale spostata verso modelli piu' flessibili e precari (stagionale,
occasionale, a termine, part time, a progetto) che contribuiscono
a delineare un quadro piu' liquido.
D'altra parte, i lavoratori di oggi sono mediamente piu' vecchi:
gli over 50 pesano oggi per il 34% sul totale degli occupati,
dieci punti in piu' in confronto al 2005, quando l'incidenza era
di poco superiore al 20%.
Lo spostamento in avanti del''eta' media origina da tre fenomeni:
il ridimensionamento degli organici e il blocco delle
assunzioni, che hanno penalizzato i giovani alla ricerca di occupazione;
la riforma delle pensioni, che tende a comprimere
la domanda di lavoro cosiddetta "sostitutiva", cioe' di coloro
che trovano un impiego per rimpiazzare quanti escono dal
mercato del lavoro per sopraggiunti limiti di eta'; infine, la dimensione
relativa delle coorti dei lavoratori over 50, ovvero
di coloro che sono nati fra la meta' degli anni Cinquanta e gli
anni Sessanta, caratterizzati da un tasso di partecipazione al
mercato del lavoro significativamente superiore in confronto
alle generazioni nate nei primi anni del dopoguerra.
Un secondo elemento ha a che vedere con il contenuto aspirazionale
e valoriale del lavoro: esso e' infatti una componente
fondamentale della qualita' della vita di ogni individuo e la sua
mancanza rappresenta una delle principali preoccupazioni
(con una quota non lontana dal 70% sul totale degli intervistati,
l'Italia detiene il primato in Europa per il timore da disoccupazione).
E qui, proprio l'indagine Demos-Coop ha messo in evidenza
come le difficolta' degli ultimi anni e la diffusione del precariato
abbiano dato nuovo vigore al mito del posto fisso, soprattutto
nel settore pubblico. Una occupazione nella Pubblica
Amministrazione e' preferita soprattutto dai millennials, nella
fascia tra 25 e 34 anni. Una sorta di risposta di pancia per la
generazione piu' colpita dalla piaga del precariato, per la quale
un contratto del pubblico impiego racchiude tutte le caratteristiche
positive di una oggettiva situazione di privilegio.
Insieme alla stabilita', l'elemento nuovo che raccoglie il favore
dei lavoratori ha a che vedere con la cosiddetta "work
life balance" e la possibilita' che il lavoro guadagni in "agilita'"
e consenta di ottimizzare in maniera intelligente il (poco)
tempo a disposizione, "ibridando" in una timeline quotidiana
unica lavoro e vita privata, rigidamente distinti nel modello
di vita tradizionale casa-lavoro. Nel corso degli ultimi mesi
e' stato introdotto nel nostro ordinamento un provvedimento
che ha inteso regolamentare dal punto di vista normativo ed
economico lo strumento del lavoro agile: gia' oggi solo il 70%
degli italiani dichiara di lavorare in ufficio e quasi un italiano
su sei dichiara di svolgere almeno una parte del proprio
lavoro da casa.
Ma e' in chiave prospettica che l'interesse per il telelavoro
evidenzia l'ampiezza dell'interesse degli italiani, dal momento
che oltre il 40% del totale dei lavoratori apprezzerebbe la possibilita'
di lavorare da casa. Una parte significativa di questi, piu'
del 10% del totale degli occupati, sarebbe addirittura disponibile
ad accettare una riduzione del proprio reddito.
A tal proposito, evolvono in maniera significativa le modalita'
retributive dei nuovi modelli di lavoro: in una fase di perdurante
difficolta' salariale, la contrattazione collettiva e aziendale dedica
crescente importanza alle varie forme del cosiddetto welfare
aziendale e delle forme integrative del reddito: l'asilo nido
per i figli, la polizza sanitaria, la palestra, il viaggio di formazione
all'estero, il piano di previdenza complementare e labbonamento
ai mezzi pubblici rappresentano le forme piu' diffuse di
benefit e prestazioni che vengono erogate al dipendente.
Secondo le piu' recenti informazioni rilasciate dal Ministero
del Lavoro sui premi di produttivita', quasi un contratto su
tre ha offerto ai dipendenti la possibilita' di scegliere il welfare
aziendale "esentasse" in alternativa al bonus monetario in busta
paga (tassato al 10%): un fenomeno ancora di nicchia ma certamente
destinato ad acquisire vigore nel corso dei prossimi anni.
In questo senso l'indagine Demos-Coop ha permesso di verificare
quali siano le forme integrative di remunerazione cui
gli italiani ambirebbero. E alle spalle delle forme piu' consuete
di welfare (previdenza e assistenza sanitaria integrativa) i lavoratori
italiani sembrano preferire integrazioni salariali non
monetarie a carattere ludico come i viaggi e altre attivita' ricreative.
Un ulteriore segnale di cambiamento e' rappresentato dalla
centralita' che viene attribuita alla qualita' dell'ambiente di
lavoro: oltre la meta' degli intervistati dichiara di partecipare
all'organizzazione del proprio lavoro ma quasi il 90% e' convinto
che un contributo attivo possa migliorare le performance
aziendali e il benessere dei lavoratori.
Se l'importante e' la salute, gli italiani possono dormire sonni
tranquilli. Nonostante tutto, il nostro Paese si conferma in
testa alle classifiche mondiali per il benessere psicofisico degli
individui, seppure la percezione di benessere risulta in calo
negli ultimi anni (gli individui che dichiarano di stare bene o
molto bene corrispondono al 65% della popolazione).
A ben vedere, infatti, l'analisi dello stato di salute degli italiani
restituisce una storia fatta di luci e ombre, con una situazione
decisamente piu' articolata rispetto all'immagine che
tratteggia gli italiani come il popolo piu' in salute del mondo.
Partiamo dalle notizie positive: ogni giorno l'aspettativa di
vita media cresce di sei ore. Nonostante un lieve calo nell'ultimo
anno, la speranza di vita alla nascita ha toccato rispettivamente
gli 80,1 anni e gli 84,6 anni di media per gli uomini
e le donne.
Molto marcate, tuttavia, appaiono le distanze territoriali, tali
da qualificare ancora una volta una vera e propria "questione
meridionale": in Trentino-Alto Adige si vive circa 3 anni in
piu' in confronto alla Campania, a suggerire una disparita' di
accesso alla prevenzione ed ai servizi di assistenza sanitaria.
Del resto, la sanita' migliore sembra sempre piu' riservata a
pochi privilegiati. Una recente indagine Censis ha infatti documentato
come sono 11 milioni gli italiani che non possono
permettersi le principali cure mediche, concentrati prevalentemente
nelle aree piu' disagiate del Paese.
Ancora piu' sorprendente e' la dinamica della mortalita' delle
persone piu' giovani, che denota purtroppo non solo una
persistenza degli scostamenti territoriali, ma anche una loro
progressiva divaricazione: nel corso degli ultimi venti anni la
mortalita' sotto i 70 anni e' diminuita sensibilmente in tutte le
Regioni settentrionali ed e' risultata stazionaria in quelle del
Centro. Al Sud, al contrario, il trend e' in forte aumento, al
punto da far perdere agli individui che risiedono in questa
area del Paese cio' che era stato guadagnato negli anni successivi
al secondo dopoguerra. Indicativo, in questo senso,
appare il dato sulla prevenzione: con riferimento alle sole
patologie oncologiche, in Lombardia la quasi totalita' della
popolazione si sottopone ad esami di screening, mentre in
Calabria la quota di copertura dei soggetti a rischio si ferma
ad appena il 30%.
A tal proposito, l'ultimo rapporto Osservasalute ha enfatizzato
il tema della disparita' di risorse: la spesa sanitaria pro
capite, pari in media nazionale a poco meno di 1.850 euro,
oscilla tra un massimo di 2.255 euro (Bolzano) e 1.725 euro
(Calabria).
Ma sono molti i lati oscuri della sanita' nel nostro Paese, a
partire dai tempi di attesa nelle strutture pubbliche: per una
risonanza magnetica occorrono in media 80 giorni, per una
visita cardiologica quasi 70 e per un appuntamento con un
ginecologo si arriva a circa 50 giorni. Numeri che spiegano e
giustificano il crescente ricorso degli italiani all'alternativa della
sanita' privata: nel complesso, il giro d'affari delle prestazioni
extra settore pubblico ha raggiunto nell'ultimo anno quota
35 miliardi di euro, una vera e propria "tassa" addizionale che
vale circa 600 euro l'anno a persona.
Si tratta di un fenomeno che naturalmente tende ad acuire le
disuguaglianze, mettendo in discussione il modello di welfare
tradizionale finanziato con la fiscalita' generale: tra i cittadini
che hanno dovuto affrontare spese sanitarie private, hanno incontrato
difficolta' economiche il 74,5% delle persone a basso
reddito (ma anche il 15,6% delle persone benestanti), il 22% di
quelle residenti al Nord, il 35% al Centro, fino al 54% al Sud e
delle isole.
D'altra parte, se e' vero che il miglioramento delle condizioni
di base tende a portare sempre piu' in avanti l'eta' del decesso,
e' altrettanto emblematico che le principali cause di morte
sono associate a malattie diverse rispetto al passato. Secondo
una recente indagine Istat, nell'ultimo decennio si e' assistito
a un calo delle malattie infettive e a una diffusione di tumori e patologie cardiovascolari, che rappresentano oggi i due
principali "big killer". Piu' nello specifico, al primo posto nella
graduatoria figurano i tumori, soprattutto quelli della trachea,
dei bronchi e dei polmoni (tra gli uomini il cancro alla prostata
e' la decima causa di morte, tra le donne quello al seno e' invece
la sesta). Tra le prime cause di morte in Italia anche le malattie
ischemiche, quelle cerebrovascolari e le altre patologie del
cuore, anche se i tassi di mortalita' si sono ridotti in dieci anni
di oltre il 35%. In forte crescita alcune delle patologie cerebrali
degenerative, quali demenza e morbo di Alzheimer, arrivate a
provocare oltre 26 mila decessi negli ultimi dodici mesi.
Quanto alla variabile geografica, si osserva un ridimensionamento
dei differenziali territoriali della mortalita' per malattie
cerebrovascolari e dei tumori maligni, mentre permangono gli
scarti nei livelli di mortalita' tra Nord e Sud per cardiopatie
ischemiche, malattie ipertensive e diabete.
Complice l'invecchiamento della popolazione, gli italiani si
possono considerare un popolo di malati cronici: ne sono affetti
4 italiani su 10 (23,6 milioni di persone), mentre uno su
quattro tra i pazienti adulti in carico alla medicina generale
presenta contemporaneamente almeno due condizioni croniche
(era il 21% nel 2011).
Insieme all'ulteriore incremento degli antidepressivi (siamo
arrivati a circa 40 dosi ogni mille abitanti), il tema piu'
spinoso del dibattito recente e' quello delle vaccinazioni, dal
momento che dal 2010 ad oggi si e' registrato un calo dei vaccini
contro le malattie trasmissibili, soprattutto in eta' infantile.
Secondo il Censis, la quota di bambini vaccinati e' scesa
al 95%: l'immagine piu' preoccupante della medicina "fai da
te" e della disinformazione che viaggia sulla rete e sui social
network (nel nostro Paese, piu' del 40% delle persone predilige
l'autodiagnosi: una percentuale ragguardevole, ma
comunque piu' contenuta rispetto alle altre grandi economie
europee).
Un altro fenomeno rilevante, per concludere, e' quello della
medicina non convenzionale: secondo l'ultimo rapporto
Eurispes, circa 13 milioni di italiani si affiderebbero a cure
alternative e di questi quasi 10 milioni (il 76,1%) sceglierebbe
quelle omeopatiche. Secondo le informazioni disponibili,
in Italia sono quattromila i medici che esercitano l'omeopatia
con regolarita', con una concentrazione nelle Regioni del
Nord (in Lombardia negli ultimi sette anni i medici iscritti nei
registri delle "medicine non convenzionali" dell'Ordine sono
sostanzialmente triplicati).
Secondo un'indagine Emg-Acqua, oltre la meta' di coloro
che assumono prodotti omeopatici ha un livello di istruzione
superiore e ha iniziato su consiglio del farmacista, di parenti
e amici, del medico generico o dello specialista. Si rileva
una significativa differenza di genere tra i consumatori: tra
le donne il 9,6% ha utilizzato almeno un medicinale omeopatico
in tre anni, mentre tra gli uomini la percentuale scende
al 6,8% (dati Istat). L'omeopatia viene usata soprattutto per
curare riniti, raffreddori, influenze (63,6%), dolori articolari
o muscolari (30,4%), allergie e problemi all'apparato respiratorio
(21,8%).
Se il quotidiano degli italiani e' dominato dalla tecnologia e
dal costante accesso alla rete, il rapporto con il mondo social
sembra ultimamente vivere di un binomio amore e odio.
"Internet is broken", ovvero internet ha fallito: la denuncia
di Evan Williams, co-fondatore di Twitter, ha destato grande
scalpore. Che l'ammissione di colpevolezza e la presa di distanza
arrivino da uno dei principali social network, portatore
della filosofia del dialogo attraverso la scrittura e l'interazione
virtuale, la dice lunga sulla fase controversa che sembra attraversare
il web.
Nella cronaca e nel dibattito attuali, infatti, si sta facendo
largo l'idea che internet finisca per enfatizzare il lato piu'
oscuro della societa': bullismo, violazione della privacy, fake
news sono solo alcune delle manifestazioni che scaturiscono
da un utilizzo distorto di quello strumento potentissimo che e'
l'accesso alla rete. È del resto diventata opinione comune che
nell'arena senza regole di un web malato, dove l'insulto si e'
affermato come il registro dominante, tende a prevalere chi
urla e offende di piu', non chi ha idee e opinioni brillanti e
condivisibili.
Gli italiani sono tradizionalmente stati e sono tutt'ora fanatici
dei social network: nel confronto con le grandi economie
europee, il nostro Paese si colloca in testa alla graduatoria
(circa il 70% della popolazione accede quotidianamente alle
piattaforma principali, piu' degli omologhi spagnoli, tedeschi
e francesi).
Da piu' parti, tuttavia, diversi segnali documentano un progressivo
allontanamento dai social network, soprattutto tra i
piu' giovani: per la generazione dei nativi digitali gli effetti di
questo distacco dalla vita vera e vissuta sono gia' oggi emblematici e si concretizzano nell'incapacita' di costruire nuove relazioni
personali.
Secondo una recente indagine promossa da Nescafe', gli italiani,
conosciuti in tutto il mondo come un popolo di persone
solari, estroverse e aperte, hanno perso la capacita' di socializzare:
un italiano su due rinuncia ad avvicinarsi all'altro per diffidenza
(23%), per timore (24%) ma soprattutto perche' la vita
virtuale offusca ogni tipo di interesse sociale (29%). Questa
forma di distacco personale si riverbera anche nei comportamenti
quotidiani: in citta', al parco, sull'autobus o in un bar, 8
italiani su 10 (82%) dichiarano preferire di sedersi senza alcuno
di fianco e magari passare il tempo sul proprio smartphone.
Con gli occhi perennemente incollati allo schermo dello
smartphone, sembrano fare sempre piu' fatica a instaurare
contatti personali. Per oltre la meta' degli individui e' preferibile
affidare il proprio saluto a Facebook, Whatsapp o Instagram
piuttosto che farlo a voce. Alla tastiera del proprio dispositivo
gli italiani riconoscono una serie di benefici: la chat tende infatti
a creare meno aspettative rispetto al contatto fisico (38%),
consente di non esporsi in modo diretto evitando potenziali
brutte figure (44%), accresce la percezione dell'immediatezza
nell'approccio (73%) e si presta a interrompere piu' rapidamente
una conversazione (63%). Ecco perche' un italiano su
due preferisce ripiegare entro i confini del proprio mondo dedicandosi
a chattare simultaneamente con piu' persone (36%),
consultare i social per essere sempre informati su cosa fanno i
propri amici (44%) o ascoltare musica a tutto volume per isolarsi
da tutto cio' che li circonda (23%).
Sta del resto crescendo la consapevolezza circa gli effetti
negativi che derivano da un utilizzo intensivo dei social: sensazione
di disagio, perdita di sonno e peggioramento della
qualita' della vita rappresentano i sintomi piu' evidenti di un
autentico "mal da social".
Alle volte, questa chiusura assume deviazioni di tipo patologico,
con forme che arrivano al cyberbullismo (l'Italia si e'
dotata di una legge ad hoc) o ancora
di una depressione tipicamente giovanile: anche in Italia
un numero crescente di ragazzi decide infatti di ritirarsi dalla
vita sociale per lunghi periodi, sulla falsariga dei cosiddetti "hikikomori"
giapponesi, i giovani che per mesi o anche per anni
si isolano da tutto e tutti, affidando proprio alla rete l'unica
occasione di contatto con il mondo esterno.
Nato sul finire degli anni Ottanta in Giappone, in particolare
nelle famiglie con condizioni economiche di base piu' agiate
(laddove per i figli, vittima di bassa autostima, l'isolamento
corrispondeva al rifiuto di una societa' competitiva e soffocante),
il fenomeno si e' diffuso anche in Europa ed in particolare
in Italia, anche se con dimensioni molto piu' contenute
rispetto all'esperienza giapponese (dove, con circa un milione
di casi accertati, la tendenza e' quasi endemica). Zavorrati dal
non sentirsi all'altezza degli standard fisici, delle prestazioni e
dei modelli propinati dai media, tanti giovani italiani si abbandonano
a una condizione da eremita: non sono disponibili
statistiche ufficiali, ma i numeri ufficiosi parlano di 20-30 mila
ragazzi, soprattutto di sesso maschile, che praticano nel nostro
Paese una solitudine estrema.
Piu' in generale, il fenomeno nuovo che sembra possibile rilevare
e' l'avvio di un lento, graduale allontanamento dai social
network, accusati di privare le persone soprattutto di tempo e
privacy. Cosi' come gli italiani sono stati tra i primi ad innamorarsi
delle diverse piattaforme, sono anche tra coloro che non
hanno meno remore a rinunciarvi. Secondo le informazioni
disponibili, il social network piu' abbandonato in assoluto e'
Tinder (3,5 italiani su 10 dichiarano di essersi cancellati), seguono
Snapchat (25%), Pinterest e Twitter (il tasso di abbandono
e' pari al 10%).
Anche per Facebook, il principale social network anche in
Italia con oltre 30 milioni di utenti, sono i piu' giovani a fare il
primo passo indietro: lo scetticismo dei millennials non e' una
ricerca di attenzione o una moda di controtendenza, ma una
riflessione seria e ponderata. Il problema non consiste tanto
nell'impronta digitale lasciata dietro di sé sui social network,
bensi' rappresenta una forma di difesa dall'utilizzo di tali informazioni
a scopo commerciale e soprattutto dal fenomeno
dilagante delle "fake news" (notizie false fatte appositamente
circolare con l'obiettivo di fare disinformazione, orientare
l'opinione pubblica e creare paura e panico su basi del tutto
infondate).
Il 2017 e' stato ufficialmente proclamato anno dell'intelligenza
artificiale: l'investitura e' arrivata direttamente da Ericsson,
la big company svedese che opera nel campo delle tecnologie e
dei servizi di comunicazione.
Nel corso degli ultimi mesi la materia e' in effetti diventata
mainstream nel dibattito internazionale: si e' passati dal parlare
di intelligenza artificiale (AI) come di uno scenario futuristico,
adatto principalmente per la trama di un film di fantascienza,
all'elemento cruciale di una nuova rivoluzione, paragonabile
per impatto sulla societa' e sulla vita quotidiana alla diffusione
dell'energia elettrica o all'invenzione del web.
Solo di recente l'opinione pubblica ha iniziato a prendere
confidenza con l'idea di dover convivere con tutte quelle tecnologie
che consentono alle macchine di percepire, comprendere,
imparare e agire: come confermano i sistemi di intelligenza
artificiale attualmente in uso o in fase di sperimentazione
piu' avanzata (l'assistente vocale, l'auto senza conducente, i
droni, i robot domestici, i dispositivi per la realta' aumentata,
gli operai-automi), l'attivita' umana e la qualita' della vita potranno
trarne un enorme beneficio.
La gestione del tempo e' certamente il cuore di questo fenomeno:
la giornata lavorativa potrebbe accorciarsi, efficientando
gli spostamenti e le attivita' a minore valore aggiunto, regalando
piu' tempo libero per gli hobby e gli interessi personali.
Si sono espressi a favore di questa nuova frontiera personaggi
influenti della comunita' scientifica e della societa' civile, a
partire dallo scienziato Stephen Hawking e dall'imprenditore
Elon Musk, fondatore di Tesla Motors. L'attenzione sul tema,
tuttavia, e' cresciuta esponenzialmente da quando e' entrato
nell'agenda politica dell'ex Presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama, sotto la cui amministrazione e' stato pubblicato un libro
bianco dal titolo “Artificial Intelligence and life in 2030”, a cura
dell'Universita' di Stanford: la tempistica con cui questo report
e' stato diffuso (Ottobre 2016) ha indotto molti commentatori
a leggere in questo lavoro una sorta di testamento politico di
Obama a conclusione degli otto anni di mandato presidenziale.
Piu' nel dettaglio, e' opinione diffusa che il fenomeno cambiera'
la faccia dei nostri modi di produzione (la piu' recente
ricerca internazionale in materia, realizzata da Accenture, rivela
che l'implementazione dell'intelligenza artificiale potrebbe
raddoppiare i tassi annuali di crescita economica entro il
2035) con un elevato potenziale anche nella quotidianita' (si
stima che la produttivita' del lavoro potrebbe migliorare sino
al 40%). Il dibattito circa la diffusione su larga scala dell'intelligenza
artificiale ha conosciuto un forte inasprimento dei
toni nel corso degli ultimi mesi: da una parte i paladini della
tecnologia a tutti i costi, affascinati da una forma di rapporto
uomo-macchina piu' paritaria, dall'altra gli scettici, preoccupati
per la possibile spersonalizzazione del lavoro e soprattutto
per le conseguenze che l'industria 4.0 potrebbe determinare
sull'occupazione (secondo McKinsey, nel nostro Paese la sostituibilita'
potenziale tra uomo e automazione e' di circa 1:2: in
altri termini, l'attivita' lavorativa di circa 11 milioni di italiani
potrebbe essere svolta in un futuro piu' o meno lontano da un
robot o da una macchina).
Eppure, secondo l'indagine Eurobarometro, negli italiani
prevale un sentimento di apertura, fiducia ed entusiasmo che
non ha pari nelle altre grandi economie europee: non solo sperimentatori,
come abbiamo sempre descritto gli italiani, ma
anche avanguardisti, pronti a partecipare in prima persona a
questo cambiamento epocale.
La prima indicazione che si coglie dall'analisi dei dati e' la
trasversalita' nella visione positiva che gli italiani hanno di robot
e intelligenza artificiale: la quota di individui che esprime
una valutazione favorevole delle nuove tecnologie (61%) risulta
significativamente piu' elevata in confronto a Germania,
Francia, Spagna e Regno Unito e tende ad accomunare tutti i
principali gruppi della popolazione: prendendo in considerazione
una batteria di variabili quali l'eta', la condizione professionale,
il titolo di studio e la collocazione geografica, si percepisce
una certa diffidenza solo in alcune minoranze (oltre i 65
anni di eta' e tra i meno istruiti), ovvero coloro che denotano le
maggiori resistenze a digitalizzarsi.
L'apprezzamento e' tale che gli italiani ne sottolineano il carattere
innovativo a vantaggio della societa': macchine e robot
potranno rimpiazzare le persone nelle faccende domestiche e
saranno di supporto per l'esercizio di tutte le attivita' professionali,
e non solo di quelle piu' pericolose. La pensa cosi' il 70%
degli italiani, compresi gli operai, potenzialmente i lavoratori
piu' a rischio, con punte del 90% per coloro che svolgono
mansioni intellettuali, come i manager, i professionisti e gli
studenti, che evidentemente si percepiscono piu' al riparo dalle
conseguenze o vedono in questo cambiamento di paradigma
una via per valorizzare gli investimenti in istruzione compiuti.
Lo stesso vale per le implicazioni nel settore della sanita': gli
italiani sono i primi, tra le grandi economie europee, a vedere
di buon occhio l'utilizzo di dispositivi connessi nell'ambito dei
trattamenti medici.
Le informazioni disponibili restituiscono un sentimento di
consapevolezza ed attesa per il cambiamento cos. radicato da
non cadere mai nel timore. I nostri connazionali sono tra i primi
in Europa a riconoscere che in futuro l'intelligenza artificiale
potra' occupare le loro postazioni nelle linee produttive o
le loro scrivanie, ma nella convinzione che questo sia in realta'
un falso problema: nel giro di qualche anno i lavori attuali non
esisteranno piu' e il tutto il mondo del lavoro sara' proiettato
verso modelli che ad oggi non siamo ancora in grado di immaginare.
L'atteggiamento e' in effetti tutt'altro che dimesso: lo confermano
i dati relativi ad alcune delle esperienze piu' futuribili,
quali ricevere la spesa trasportata da un drone (il 60% dichiara
di sentirsi a proprio agio), essere sottoposto ad un intervento
chirurgico ad opera di un medico-macchina o ancora viaggiare
a bordo di una auto senza conducente (in entrambi i casi la
quota di favorevoli e' elevata, intorno al 50%).
L'impressione, guardando ai dati, e' che l'entusiasmo possa
avere un aspetto controproducente, portando a sottovalutare
i rischi e ad essere meno sensibili rispetto alle buone norme di
sicurezza: gli italiani, a differenza degli altri cittadini europei,
tendono a sottovalutare l'importanza della protezione dei propri
dati personali e le minacce informatiche.
Tra i nuovi interessi degli italiani c'e' la voglia di riscoprire
una nuova dimensione interiore meno perentoria e piu' soft:
i valori di riferimento degli italiani continuano ad evolvere,
prendendo la via di una morale piu' flessibile e in qualche
caso "fai da te". L'allontanamento della pratica religiosa tradizionale
e' ormai un fenomeno di lunga data: la partecipazione
religiosa e' ai minimi storici, se si considera che piu' del
70% degli italiani si dichiara cattolico (fonte Eurispes) ma
appena il 25% praticante. Nonostante il richiamo esercitato
da Papa Francesco, i dogmi tradizionali della religione tendono
a essere percepiti sempre piu' lontani dall'evoluzione
della societa' e degli stili di vita: sarebbero 1 milione e 600
mila i credenti italiani che non si riconoscono negli insegnamenti
della confessione cattolica, con una prevalenza tra
gli uomini, gli under 35 ed i residenti nelle Regioni settentrionali.
Secondo le informazioni disponibili, i cittadini italiani appartenenti
a minoranze religiose oggi sono il 2,9% della popolazione,
tre volte di piu' rispetto a trenta anni fa. In altri termini,
si sta diffondendo una sorta di nuovo pluralismo religioso:
il gruppo piu' consistente e' costituito dai cristiani protestanti
(27%), cui seguono i testimoni di Geova (25,7%), i musulmani
(15%), i cristiani ortodossi (9,6%), i buddhisti (9,1%) e gli
ebrei (2,2%). In prospettiva storica, e' particolarmente accentuato
l'incremento che ha interessato il buddhismo (i fedeli
sono saliti a quota 200 mila, il doppio rispetto al 2010) e la
crescita di quanti professano l'Islam, sostenuta dal contributo
dei movimenti migratori: dalle 10 mila persone del 2001 (lo
0,9%) ai 40 mila individui del 2008 (3,4%) fino alle 245 mila
unita' di oggi (15%).
La tensione spirituale si e' cosi' tradotta nell'adozione di forme
di religiosita' piu' leggere che mescolano la pratica fisica con
la meditazione e la ricerca della serenita' personale. L'emblema
di questo movimento e' certamente incarnato dallo yoga: non
solo una pratica fisica per il tempo libero, ma soprattutto uno
stile di vita che libera dalle tensioni e dalle paure verso il benessere
psico-fisico individuale, la consapevolezza del se' e una
maggiore armonia interiore. Senza peraltro impegnare il praticante
nell'adesione a particolari dogmi morali. Non esistono
statistiche ufficiali recenti ma, tra scuole e attivita' casalinghe,
si stima che gli italiani che praticano lo yoga superino abbondantemente
i 2 milioni di individui.
La nuova religione e' quella del benessere: tra pratiche di training
autogeno e tecniche di rilassamento, gli italiani guardano
sempre piu' allo stare bene individuale, nel fisico e nello spirito.
Si tratta di un riposizionamento della scala valoriale che trova
riscontro anche nei comportamenti quotidiani e nelle scelte
alimentari: tra vegetariani e vegani si contano in Italia quasi 2
milioni di persone (secondo l'ultimo rapporto Eurispes, i vegani
sarebbero addirittura triplicati negli ultimi dodici mesi).
Bellezza e canoni estetici hanno da sempre rappresentato una
forma di espressione della societa': l'arte e la pubblicita' hanno
tipicamente veicolato una serie di modelli in cui tutti, a partire
dai piu' giovani, hanno cercato di riconoscersi. Per decenni l'ideale
di fascino ed eleganza non ha potuto prescindere da alcuni
elementi di contorno: abiti, gioielli e accessori sono stati per
lungo tempo il principale strumento di identificazione o distinzione,
a volte addirittura di emancipazione se non di ribellione.
Eppure, oggi appare sempre di piu' direttamente il corpo
medesimo il luogo dove raccontare i tratti della propria personalita',
esibire valori, speranze e aspettative o magari affermare
la propria liberta'. Piu' del guardaroba o della carta d'identita',
sono acconciature, sopracciglia e tatuaggi a descrivere l'identita'
di molti italiani di oggi.
La cura del corpo e' diventata una delle priorita' fondamentali
degli italiani, superando anche le tradizionali barriere di eta'
e i tabu' di genere. Tutte le informazioni disponibili documentano
infatti un fenomeno in forte crescita, a partire dal numero
degli esercizi che operano nel campo dei servizi alla persona
(negli ultimi sei anni hanno avviato una nuova attivita' piu' di
mille tra parrucchieri e centri estetici).
In questo contesto, la moda del momento e' certamente
quella del tattoo: secondo la piu' recente indagine dell'Istituto
Superiore di Sanita', quasi sette milioni di italiani hanno scelto
di tatuarsi, circa il 13% della popolazione (l'incidenza tuttavia
cresce tra le giovani generazioni, attestandosi al 30% nel caso
dei millennials). Dai dati emerge che i tatuaggi sono piu' diffusi
tra le donne (14% del campione femminile) rispetto agli uomini
(circa il 2% in meno). La passione per scritte, tribali e portafortuna
e' comunque trasversale: l'eta' media del primo tattoo e'
attorno a 25 anni, un tatuato su quattro risiede nel Nord Italia,
il 30,7% ha una laurea e il 63,1 % ha una occupazione stabile.
L'elemento di discontinuita' piu' significativo rispetto ai
canoni del passato e' dato dall'interesse che l'aspetto estetico
suscita tra la popolazione maschile: l'immagine del "macho"
italiano ha ceduto il passo all'uomo curato e sempre in ordine,
che ha scoperto il fascino di cosmetici, rasoi e depilazioni (negli
ultimi dodici mesi sono stati spesi circa 40 milioni di euro
in creme e un quarto del mercato e' ormai destinato proprio
al genere maschile). L'uomo villoso ha ceduto il passo a quello
glabro: secondo una recente indagine condotta nel nostro
Paese da Gillette, il 75% degli uomini fra i 25 e i 34 anni dichiara
di depilarsi regolarmente, privilegiando il petto, le spalle, la
schiena e l'inguine.
Contemporaneamente, sempre in tema di nuovi canoni
estetici maschili, continua a crescere il fenomeno del grooming,
ovvero di chi di baffi e barba ha fatto uno stile di vita
(secondo le stime piu' recenti, la barba-mania interessa il 55%
degli italiani): un cambiamento di look che sta progressivamente
impattando sul mercato dei prodotti per la cura della
persona, con l'introduzione in commercio di oli e balsami per
barba, gel detergenti e cere modellanti.
Laddove non arriva la cosmetica (il giro d'affari previsto
per il 2017 e' stimato in circa 10 miliardi di euro, con un
incremento di un punto percentuale in confronto all'anno precedente), e' d'obbligo il ricorso alla chirurgia: secondo le
ultime informazioni disponibili, ogni anno vengono eseguiti
in Italia un milione di interventi di chirurgia e di medicina a
fine estetico (+6%), un numero che ci colloca in nona posizione
mondiale. Di questi il 15% va a beneficio degli uomini,
mentre larga parte risulta concentrata in tre Regioni (Lazio,
Lombardia ed Emilia-Romagna coprono da sole circa la meta'
del mercato).
Tra gli interventi di medicina estetica i piu' diffusi sono l'iniezione
di botox e di acido ialuronico contro le rughe (quasi
600 mila casi all'anno), mentre tra quelli di chirurgia estetica le operazioni piu' richieste sono la liposuzione (44 mila), la
mastoplastica additiva (ovvero l'aumento del volume del seno,
33 mila) e la blefaroplastica (ovvero il ringiovanimento dello
sguardo mediante la correzione delle palpebre, 32 mila interventi).
Tra gli under 18, infine, e' ricorrente la pratica di rifarsi il
naso: sia tra i ragazzi che tra le ragazze la rinoplastica diventa
il regalo preferito per passare alla maggiore eta'.
Nel quotidiano degli italiani si annidano nuove paure: nonostante
la lenta uscita dalla recessione, essi non hanno ancora
ritrovato serenita' d'animo e felicita'. Esaminando l'indicatore
relativo alla qualita' e alla soddisfazione per la propria vita,
gli italiani sono gli unici tra le grandi economie europee a non
superare la sufficienza, insieme al Regno Unito, zavorrato
nel sentire comune dalla questione Brexit. E pensare che dieci
anni fa il quadro era sostanzialmente rovesciato, con il Bel
Paese patria del vivere bene.
Insieme a un deterioramento della propria condizione, gli
italiani sono stati assaliti dalle paure per i grandi fenomeni
economici, sociali e climatici che caratterizzano la nostra epoca.
Secondo un'indagine Nomisma, gli italiani sono spaventati
in primis dalla perdita del lavoro e dalla disoccupazione. La
crisi economica, l'aumento delle diseguaglianze e la difficolta'
nel trovare un nuovo lavoro hanno inevitabilmente influito
sui timori degli italiani, specie sulle fasce piu' vulnerabili della
popolazione.
Al capitolo sulle paure si aggiungono i macro-fenomeni legati
alla globalizzazione: il 44% degli italiani ammette di essere
preoccupato dalla minaccia terroristica, si tratta del 15% in piu'
rispetto al 2010, quando l'Europa veniva presa di mira molto
meno frequentemente dagli attentati. L'attacco alla redazione
della rivista francese "Charlie Hebdo" del 2015 e i gravissimi
episodi di Parigi e del Bataclan nel novembre dello stesso
anno, hanno avviato una spirale di paura che e' cresciuta a causa
della degli episodi di violenza di stampo terroristico sempre
piu' ravvicinati nel tempo.
Un mix di fattori, dalle problematiche economiche al terrorismo,
ha alimentato un'altra paura, spesso ingiustificata ed in
prospettiva molto pericolosa: il timore nei confronti dell'immigrazione.
Da un'indagine Ipsos e' emerso che il 70% degli intervistati
ritiene che in Italia ci siano troppi immigrati, un dato nettamente
superiore rispetto ad altri Paesi europei come Francia
e Germania, che presentano una quota di stranieri molto piu'
elevata sul totale della popolazione.
A preoccupare, oltre alla percezione sul loro numero, e' la
considerazione che hanno gli italiani degli immigrati: il 39%
ritiene che siano "un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza
delle persone", in crescita del 5% rispetto a un anno fa,
mentre il 35% teme che costituiscano "una minaccia per l'occupazione".
Una riprova implicita di queste tendenze sono le ricerche
online delle parole chiave associate a cio' che li preoccupa. Dai Google trends, emerge come la ricerca di termini legati alla disoccupazione,
alla sicurezza e all'inquinamento sia fortemente
aumentata negli ultimi cinque anni. Guardando all'andamento
complessivo, il livello generale delle paure e' aumentato del
38% rispetto al 2012.
In termini di variazione delle singole parole, le paure
emergenti sono due: l'inquinamento, ricercato su Google
con un aumento della frequenza del 53% rispetto al 2012, e
l'immigrazione. La ricerca del termine immigrati ha visto
un incremento addirittura del 107% rispetto al 2012, a testimonianza
di quanto il tema sia delicato e di quanto siano
urgenti politiche e messaggi rassicuranti, che guardino alle
questione non solo come ad un problema ma come ad una
opportunita'.
Per sublimare paure e ansie legate alla sicurezza c'e' chi reputa
necessario provvedere personalmente a proteggere la
propria incolumita'. Secondo l'ultima indagine dell'Archivio
Disarmo, 12 italiani su 100 posseggono un'arma da fuoco, acquistata
legalmente o detenuta illegalmente.
Il dato assume una valenza ancora maggiore se affiancato
agli ultimi dati diffusi dal Ministero dell'Interno sul porto
d'armi: a possedere la licenza sono quasi 1 milione e 300mila
italiani, circa 200 mila in piu' rispetto al 2011.
In molti casi il malessere diventa patologia: negli ultimi dieci
anni il consumo di antidepressivi fra gli italiani e' aumentato
del 18% (Rapporto Osserva Salute), in particolare nelle
Regioni del Centro e del Nord Italia, dove la cosiddetta "paura
di vivere" si e' radicata piu' a fondo nell'ultimo decennio, complice
anche la severita' della crisi economica.
Quella della depressione, il male del secolo, colpisce secondo
i piu' recenti dati OMS piu' di 300 milioni di persone nel mondo
(curiosamente aumentate proprio del 18% negli ultimi dieci
anni), e' una condizione che porta l'individuo a perdere fiducia
in se' stesso e a vivere in una condizione di perenne ansia
e apatia. Nei casi piu' gravi, puo' diventare una vera e propria
patologia, sempre piu' diffusa in alcune aree del nostro Paese.
Fra queste vi sono la Liguria e la Toscana, dove i livelli di consumo
di antidepressivi sono particolarmente elevati, mentre la
quota di assunzione degli stessi farmaci e' inferiore in Regioni
come Basilicata, Campania e Sicilia.
Nell'immaginario collettivo l'Italia e' il Paese del piu' famoso
seduttore di tutti i tempi, il veneziano Giacomo Casanova,
come delle atmosfere felliniane de "La dolce vita" e della
sensualita' di una icona intramontabile della bellezza come
Sophia Loren. Ma proprio nel Paese dei latin lover e dei dongiovanni
sembra aver luogo una metamorfosi silenziosa e
inattesa.
Sembrerebbe, infatti, sia entrato in crisi il lato piu' passionale
degli italiani: non soltanto di una perdita di interesse nei confronti
della seduzione e dell'arte amatoria, ma forse di un vero
e proprio calo del desiderio sessuale. Gli italiani stanno sempre
meno sotto le lenzuola: secondo la piu' recente indagine
Doxa in materia, negli ultimi 15 anni la frequenza dei rapporti
sessuali e' diminuita del 10% e il calo ha colpito tutte le fasce
d'eta', compresi i piu' giovani.
La fase piu' critica si colloca intorno ai 35-40 anni, eta' in corrispondenza
della quale soltanto 3 coppie su 10 continuano ad
avere piu' di un rapporto a settimana: oltre agli under 35, resistono solo i partner impegnati in una relazione non di lungo
corso (meno di 5 anni). Del resto, sul totale della popolazione,
ben il 75% degli italiani dichiara di essere preoccupato per un
calo del desiderio sessuale, soprattutto fra gli over 50, mentre
il 9% ammette di non aver avuto rapporti sessuali negli ultimi
sei mesi.
Nell'epoca delle relazioni digitali e dei social network, interpretati
dai sociologi come lo strumento per abbattere le barriere
della timidezza, lo specchio del cambiamento e' rappresentato
dalle fasce piu' giovani: secondo uno studio condotto
negli Stati Uniti, i millennials hanno in media meno rapporti
sessuali rispetto alle generazioni precedenti, con percentuali
di castita' paragonabili a quelle raggiunte dai coetanei degli
anni Venti. La diffusione delle app di dating online non hanno
contribuito ad invertire la tendenza, anzi le statistiche sull'Italia
che emergono da un ricerca condotta da Blogmeter documentano
un fenomeno di allontanamento e sfiducia: tra i
social network, il piu' abbandonato e' proprio Tinder, il portale
di appuntamenti piu' celebre al mondo. Un italiano su tre ha
dichiarato di essersi iscritto, ma di aver poi cancellato il proprio
account.
Tale possibile calo del desiderio sembra trovare conferma
nel ridimensionamento delle vendite dei prodotti legati alla
sfera sessuale, dai contraccettivi agli stimolanti, fino ai farmaci
per le disfunzioni sessuali.
Secondo i dati Iri – Information Resources, nell'ultimo
anno la spesa per profilattici e' diminuita del 6% (-4,7% in
volume), cosi' come e' scesa quella per i contraccettivi ormonali
sistemici, tra cui rientra la pillola anticoncezionale
(-3,4%, -4,2% in volume). Diminuiscono addirittura anche
gli acquisti di farmaci per la cura delle disfunzioni erettili
(-0,5% nell'ultimo anno). A fare da contraltare e' la spesa
per i contraccettivi d'emergenza, cioe' le piu' note pillole "del
giorno dopo" e "dei cinque giorni dopo": la spesa per questi
due farmaci e' aumentata di circa il 20%. Ma su tale picco
di vendite dell'ultimo anno ha sicuramente influito il provvedimento,
entrato in vigore nel marzo 2016, che permette
ai maggiorenni di acquistare tali farmaci senza l'obbligo di
ricetta medica.
Allo stesso modo, nei canali di distribuzione, dal 2014 ad
oggi e' calata la quota di prodotti per la profilassi e la stimolazione
sessuale venduti dalle farmacie, mentre e' in crescita
quella acquistata nel canale massmarket, soprattutto nel Nord
Italia.
In generale, l'industria che si occupa di prodotti legati alla
sfera sessuale ha registrato un calo delle vendite, anche se
nell'analisi non e' contemplato il canale di distribuzione online,
molto diffuso per l'acquisto di prodotti su cui il requisito della
riservatezza e' spesso apprezzato.
Se le case farmaceutiche hanno risentito del calo del desiderio
degli italiani, alla cosiddetta "industria del sesso" non
sta andando molto meglio. L'attrattivita' del porno e' in calo: il
traffico sui siti che distribuiscono materiale video a luci rosse
continua a diminuire (secondo dati PornHub, il nostro Paese
si conferma nella top ten mondiale ma cede una posizione),
mentre la frequenza delle ricerche su Google delle parole chiave
legate alla sfera pornografica e' diminuita negli ultimi quattro
anni, rivelando un minore interesse nei confronti del sesso
virtuale.
Stanno inoltre cambiando le abitudini di fruizione dei contenuti
sul sesso: nel nostro Paese i volumi di traffico sono concentrati
per lo piu' nel tardo pomeriggio e nelle ore serali. Il
50% degli utenti ha meno di 35 anni (ma l'Italia, con il 15%,
e' il Paese con la piu' elevata incidenza di ultracinquantacinquenni
che visitano abitualmente siti porno), mentre il 23% e'
donna. Rispetto agli anni scorsi, e' molto cambiata la modalita'
di fruizione: il primato e' oggi detenuto dal mobile, attraverso il
quale transita il 60% del traffico complessivo. Lo smartphone,
l'oggetto piu' personale ed intimo dell'ultimo decennio, si fa
veicolo anche dei desideri e delle trasgressioni.
Nella rappresentazione statistica che ormai quotidianamente
Istituzioni e centri di ricerca piu' o meno specializzati
offrono dell'Italia capita spesso di imbattersi in numeri che
ne quantificano e qualificano il passato, il presente e il futuro
adottando una metrica territoriale che guarda al Paese nella
sua interezza o, tutt'al piu', al consueto confronto tra Nord e
Centro-Sud. In realta', come e' facile intuire, in entrambi i casi
i valori associati ai fenomeni analizzati forniscono indicazioni
sistemiche che attengono alla loro dimensione macro, che in
ultima istanza altro non e' che la sintesi delle sue molteplici ed
eterogenee manifestazioni a livello micro.
In tale ottica, l'approfondimento territoriale circoscrive
inevitabilmente il possibile perimetro di indagine (il piu' delle
volte la disponibilita' e accuratezza dei dati statistici e' inversamente
proporzionale al livello di dettaglio geografico), ma
nel contempo consente di dare una lettura diversa, e per molti
aspetti inedita, dell'Italia. Tale considerazione di carattere generale
ha ispirato a piu' riprese il percorso realizzato in questo
primo anno di attivita' da italiani.coop nel tentativo di raccontare
il nostro Paese attraverso i numeri, in un viaggio tra le
Regioni, Province e Comuni d'Italia da cui emerge chiaramente
come il Nord e il Sud statistico, inteso come posizione ai
vertici e al fondo delle classifiche, non sempre corrisponde a
quello segnato dalla bussola, sia in ambito economico che
in quello culturale e sociale.
Partendo proprio dal sociale e, piu' precisamente, dalla mappa
demografica delle province italiane, si puo' ad esempio scoprire
che se da un lato e' nel Nord che si registra il piu' alto tasso
di natalita' su base annua (Bolzano, 10 nati ogni 1.000 residenti)
e l'aspettativa di vita piu' lunga (Treviso, 83 anni), il Sud
non e' da meno in quanto a primati positivi, tra cui spiccano il
piu' alto tasso di nuzialita' (Salerno, 4,6 matrimoni ogni 1.000
residenti), la piu' bassa eta' media della popolazione (Napoli, 40
anni) e quella delle madri al parto (Crotone, 30,4 anni).
Rimanendo sempre nella sfera demografica, un secondo
tema affrontato e' stato quello della presenza degli stranieri nel
nostro Paese, anche in questo caso con un occhio di riguardo
non tanto per i numeri che ne delineano le dimensioni e ne
qualificano la natura in un ottica complessiva, nazionale ed
europea, quanto piuttosto per l'approfondimento territoriale
e l'analisi di fenomeni che fossero il piu' possibile specifici e
circoscritti: il primo driver di ricerca ci ha portato, ad esempio,
a scoprire quanto amplio fosse il differenziale relativo
alla percentuale di stranieri nati in Italia, con un'incidenza sul
totale delle nascite che, a livello regionale, varia dal 4% della
Sardegna al 24% dell'Emilia Romagna (a fronte di una media
nazionale del 15%) e che in una piccolissima percentuale di
Comuni (47 degli oltre 8mila censiti da Istat) arriva al 100%;
al secondo driver appartiene, invece, la ricerca condotta sulle
nazionalita' che costituiscono una minoranza nel nostro Paese
(74 quelle con meno di 500 residenti, in rappresentanza di
tutti i Continenti, Africa e Asia in primis) e sulla loro geolocalizzazione
provinciale (tra comunita' radicate in una/due
province e, all'estremo opposto, una presenza capillare da
Nord a Sud).
D'altro canto, non di rado le statistiche di fonte istituzionale
che si prestano a lettura parametrica per ambito geografico
vanno ben oltre i confini della sola sfera demografica, approdando
in quella sociale ed economica, anch'essa ricca di sorprese
e ben lontana dal poter essere generalizzata in maniera
esaustiva nella tradizionale formula che vuole il Nord unico
"motore economico" del Paese. Quando il termine di paragone
e' la ricchezza, nelle sue molteplici declinazioni, accade
spesso di imbattersi in classifiche che vedono le Regioni e le
Province del Centro-Nord prevalere nettamente su quelle
del Mezzogiorno, tra primati noti (Milano – Pil pro-capite –
45mila euro) e meno noti (Siena – Patrimonio immobiliare
pro-capite – 104mila euro).
Tuttavia, la situazione cambia radicalmente, portando a
risultati spesso inaspettati, se spostiamo la lente di ingrandimento
dell'analisi territoriale su altri aspetti, quali: l'imprenditoria,
dove sul gradino piu' alto del podio accanto a Trieste
(provincia degli start-upper) troviamo Reggio Emilia (percentuale
di imprese artigiane), Nuoro (imprese attive ogni
1.000 residenti) e Vibo Valentia (percentuale di ditte individuali);
la caratterizzazione del tessuto produttivo, con profili
occupazionali a composizione variabile gia' a livello macrosettoriale
(massimo livello di polarizzazione nelle province
di Fermo – 52% occupati nell'industria, Roma – 87% servizi,
Ragusa – 20% Agricoltura); la specializzazione agricola, con
un sostanziale equilibro nei primati di produzione (kg per
abitante) tra province del Nord (es. pere a Ferrara, cereali a
Rovigo), Centro (es. spinaci a Pisa, patate all'Aquila)e Sud
(fragole a Campobasso, pomodori e melanzane a Foggia, olive
a Brindisi); la bilancia commerciale con l'estero (miglior
rapporto export/import per la provincia di Massa-Carrara,
maggiore incidenza dell'export sul Pil per quella di Arezzo);
cultura e ambiente, con i piu' sportivi nella provincia di
Trento, i piu' addicted agli spettacoli dal vivo a Rimini e la
maggiore fruibilita' di verde urbano a Matera.
La relazione societa'-economia-territorio puo', inoltre, essere
analizzata circoscrivendo l'ambito di indagine e di benchmark
a specifiche coorti demografiche. In questi primi mesi di attivita',
in piu' occasioni il team di italiani.coop si e', ad esempio,
occupato della condizione delle donne in Italia, verificando
come non di rado a posizionarsi sul podio, o comunque nella
parte medio-alta della classifica, siano realta' del Centro-Sud,
nel confronto regionale (Molise, primato di incidenza delle
imprese femminili sul totale attive) cosi' come in quello provinciale
(Pisa, piu' alto tasso di occupazione delle 18-64enni;
Enna, percentuale di donne con ruolo dirigenziale sul totale
delle dipendenti).
Ancora una volta la bussola geografica non corrisponde
quindi a quella statistica e lo stesso risultato lo si ottiene quando
si guarda ad altri segmenti della popolazione: parlando di
giovani e giovanissimi, se ancora una volta e' verso Nord, e
piu' precisamente verso la provincia di Bolzano che dobbiamo
puntare il dito se parliamo di migliori opportunita' occupazionali
(un terzo dei 15-24enni della Provincia ha un lavoro), per
i primati sul livello di istruzione universitaria tra i residenti
dobbiamo scendere di diversi chilometri, e piu' precisamente
ad Ascoli Piceno (10% dei 25-30enni laureati) per poi puntare
decisamente a Sud se si guarda all'incidenza sul totale della
popolazione (provincia di Napoli al primo posto con un residente
su cinque under-18).
La naturale conclusione di questo graduale percorso di approfondimento
territoriale (da nazione ad aree geografiche,
da aree geografiche a Regioni, da Regioni a Province) consiste
nel mettere a confronto gli oltre 8mila Comuni d'Italia.
Come abbiamo gia' accennato, tale
passaggio restringe ulteriormente il possibile ambito di indagine,
stante la difficolta' a reperire informazioni statistiche
puntuali ed aggiornate: tuttavia, la dimensione demografica
dei Comuni rappresenta una possibile chiave di lettura parametrica
di alcune ricerche istituzionali in ambito economico
e sociale, le stesse che ci hanno permesso di rilevare come
rispetto a chi vive nelle grandi metropoli gli italiani che risiedono
nei piccoli centri urbani (con meno di 1.000 abitanti)
siano mediamente piu' soddisfatti della vita nel complesso e
dei suoi singoli aspetti (tempo libero, situazione economica,
rapporti di amicizia, situazione familiare e salute), nonostante abbiano meno possibilita' di svago e di intrattenimento
fuori casa (cinema, musei, teatri, spettacoli dal vivo etc.);
lamentano meno problemi rispetto all'abitazione in cui vivono
(distanza dai familiari, dimensione, condizioni generali)
e spendano decisamente meno per la loro gestione (acqua,
luce, gas etc.).
Ma siamo andati oltre: grazie alla collaborazione con l'istituto
REF Ricerche, che ha condotto una lunga e complessa attivita'
di selezione, raccolta e sistematizzazione delle stesse fonti
istituzionali disponibili, siamo stati in grado di realizzare una
mappa completa dell'Italia dai mille e piu' campanili, scoprendo
ad esempio, qual e' il Comune con la piu' alta percentuale
di giovani under-35 (Plati', in provincia di Reggio Calabria),
o il piu' alto tasso di attivita' della popolazione (Rognano, in
provincia di Pavia), il Municipio piu' alto (Sestriere, in provincia
di Torino) e quello piu' piccolo per superficie (Atrani, in
provincia di Salerno).
Quanto fatto finora nell'ambito dell'iniziativa italiani.coop
e' in realta' solo la punta di un iceberg di possibili georeferenziazioni
delle statistiche nazionali e l'obiettivo per l'immediato
futuro consiste proprio nel proseguire questo viaggio nei
territori, scendendo al di sotto della superficie... alla ricerca di
numeri, dati e tendenze dell'Italia che cambia.
Italiani.coop - 13-03-2018
Tratto da