I GRANDI PERSONAGGI STORICI
Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.
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Domiziano
Genealogia della dinastia flavia
Tito Flavio Domiziano (Roma, 51 – Roma, 96) è stato l'ultimo imperatore della dinastia flavia.
Buon amministratore, cercò di migliorare le condizioni economiche dei sudditi e abbellì Roma con una lunga stagione di lavori pubblici. Non mirò all'espansione dell'Impero ma a difendere i confini costituendo gli Agri Decumates, territori colonizzati alle frontiere del Reno e della Rezia, rafforzandone le difese. Si appoggiò sulla popolazione urbana, sui piccoli coltivatori e sull'esercito, comprendendo i difetti della diarchia di un governo diviso tra l'autorità dell'imperatore e quella di un Senato aristocratico geloso delle proprie prerogative ma incapace di governare.
Si fece chiamare o venne chiamato dagli adulatori dominus et deus ma rimase nel solco della tradizionale cultura romana e non riuscì o non volle sciogliere il nodo della divisione dei poteri, pur ingaggiando un'aperta lotta con l'aristocrazia. Dopo la fallita insurrezione di Lucio Antonio Saturnino accentuò la repressione, instaurando un regime di terrore cui pose fine un complotto del Senato, con il suo assassinio.
Domiziano nacque in un luogo della VI regione (Alta Semita) chiamato Malum Punicum, il melograno, dove farà poi costruire il Tempio della Gens Flavia. I genitori, Vespasiano, allora console e la madre Flavia Domitilla, avevano già altri due figli: Flavia Domitilla minore e Tito. Ricevette l'educazione riservata ai giovani della classe senatoriale: studiò retorica, letteratura (pubblicando anche qualche scritto), legge e amministrazione. Nella sua biografia Svetonio lo descrive come un adolescente istruito ed educato, dalla conversazione elegante.
Vespasiano, impegnato dal 67 nella repressione della rivolta giudea, nel 69 fu proclamato imperatore contro il regnante Vitellio dalle sue legioni, alle quali si unirono quelle stanziate nelle regioni danubiane che, al comando di Marco Antonio Primo, entrarono in Italia e, sconfitto l'esercito di Vitellio a Bedriaco, presso Cremona, avanzarono verso Roma attestandosi a Otricoli in attesa di rinforzi dalla Siria. Vitellio abdicò il 18 dicembre ma i suoi veterani di Germania non accettarono la resa e presero d'assalto il Campidoglio dove il prefetto Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, si era rifugiato con le sue coorti e con Domiziano: questi scampò alla strage, travestendosi da sacerdote di Iside, e si nascose nella casa al Velabro di Cornelio Primo, un cliente di suo padre.
Il 20 dicembre Antonio Primo entrava in Roma, impadronendosene e uccidendo Vitellio; il giorno dopo il Senato proclamava Vespasiano imperatore e console con il figlio Tito, mentre Domiziano era eletto pretore con potere consolare. Quando giunse a Roma, Muciano, il legato della Siria che aveva appoggiato il pronunciamento di Vespasiano, presentò alle truppe Domiziano come cesare e reggente fino all'arrivo di Vespasiano. Gli storici dell'epoca sostengono che il diciottenne Domiziano fu preso da questo momento dall'ambizione del potere, ma nei fatti il governo fu comunque esercitato da Muciano. Domiziano fece una buona impressione ai senatori per la modestia e la grazia del comportamento e la moderazione delle iniziative: propose la riabilitazione di Galba e rifiutò di rivelare i nomi dei delatori del precedente regime, invocando la necessità di sopire gli odi e le vendette.
Si limitò a revocare i consoli ordinati da Vitellio ma, per evitare disordini, mantenne al pretorio i suoi legionari, congedandoli con onore solo in un secondo tempo. Si dice che Domiziano sia stato insofferente del predomino esercitato da Muciano e per questo motivo divenisse amico dei suoi avversari politici, Antonio Primo, il vincitore di Vitellio, e il prefetto del pretorio Arrio Varo. Muciano fece quest'ultimo prefetto dell'annona, concedendo la prefettura del pretorio a un amico di Vespasiano, Marco Arrecino Clemente. Intanto, una coalizione di tribù germaniche – i Batavi, i Canninefati e i Frisoni – si erano uniti alla rivolta di Giulio Civile, mentre Treveri, Lingoni, Vangioni, Tribochi, Ubii e altre popolazioni sottraevano in Gallia vasti territori al dominio romano. Fu l'armata di Petilio Ceriale a schiacciare quest'ultima rivolta, senza bisogno dell'intervento di Domiziano che, sperando di dimostrare le sue capacità di cesare, dall'Italia aveva superato le Alpi insieme con Muciano.
Poiché la rivolta di Civile non destava particolari timori, Muciano, molto dubbioso delle capacità militari del giovane principe, si fermò a Lione con Domiziano e insieme tornarono, di lì a poco, a Roma. Nel 70 Domiziano fece in modo di provocare il divorzio di Domizia Longina allo scopo di sposarla. Il marito Lucio Elio Lamia non riuscì a contrastare i desideri del principe, e così Domizia divenne nuora dell'imperatore. A dispetto dell'avventatezza iniziale, questa alleanza fu vantaggiosa per entrambe le parti. Domizia Longina era l'unica figlia del generale Gneo Domizio Corbulone, una della vittime del terrore neroniano, ricordato come valoroso comandante e politico onorato. Essi ebbero un figlio nel 71 e una figlia nel 74, ma entrambi morirono giovanissimi.
Con l'arrivo in ottobre di Vespasiano, Domiziano dovette rinunciare a ogni impegno di governo e si dedicò agli otia letterari, diversamente dal fratello Tito che, più anziano e con una ormai lunga esperienza nel campo politico e militare – aveva appena portato a termine la repressione della rivolta giudaica – fu associato dal padre all'impero. Tuttavia Vespasiano era intenzionato a lasciare l'impero alla sua discendenza e poiché Tito non aveva figli maschi, dovette prendere in considerazione la possibilità che Domiziano succedesse un giorno a Tito. Domiziano fece parte dei collegi sacerdotali, dal 72 poté essere effigiato nelle monete, dal 74 battere anche moneta, portare la corona d'alloro e ottenere l'incisione del suo nome nei monumenti pubblici accanto a quelli del padre e del fratello.
Durante il regno di Vespasiano, Domiziano fu console per sei volte, anche se «ne esercitò uno solo ordinario perché Tito gli cedette il posto e chiese per lui questo onore». Con tutto ciò, rimase escluso dall'attività politica e militare. Vespasiano non accettò, malgrado le insistenze di Domiziano, l'invito di Vologase I, re dei Parti, di inviargli come alleato un esercito comandato da uno dei suoi figli.
Domiziano ripiegò allora sulla poesia, forse scrivendo sulla recente battaglia avvenuta in Campidoglio e sulla presa di Gerusalemme, guadagnandosi le lodi di Quintiliano: «gli dei hanno ritenuto che fosse troppo poco per lui essere il più grande dei poeti. Cosa vi è di più sublime, di più dotto, di più armoniosamente bello delle sue poesie composte nell'ozio in cui si è confinato nella sua giovinezza, dopo averci fatto dono dell'Impero? Chi potrebbe cantare meglio la guerra di colui che la fece così gloriosamente? A chi dovrebbero mostrarsi più benigni gli dei che presiedono agli studi? I secoli futuri parleranno meglio di me; ora la sua gloria poetica è eclissata dalla fama dei suoi altri talenti».
Alla morte di Vespasiano, il 23 giugno 79, Tito rimase unico imperatore e, come il padre, escluse Domiziano dagli affari di Stato, non associandolo all'Impero né concedendogli l'imperium proconsulare né la tribunicia potestas, ma lo dichiarò suo successore, gli fece ottenere il consolato ordinario nell'80 e gli propose anche di sposare la sua unica figlia Giulia. Domiziano rifiutò tuttavia di separarsi da Domizia ma Giulia, dopo aver sposato il cugino Tito Flavio Sabino, divenne sua amante. Tito morì di febbri malariche ad Aquae Cutiliae il 13 settembre 81, quando con lui si trovava Domiziano: partito subito per Roma, si fece acclamare imperatore dai pretoriani, ai quali distribuì, come tradizione, la stessa somma che essi avevano ricevuto da Tito. Il giorno dopo il Senato gli concesse il titolo di Augusto e di padre della patria, e poi vennero il pontificato, la potestas tribunicia e il consolato.
Come nel caso di Tiberio, Domiziano è stato in parte riabilitato dall'odierna storiografia, sfumandone almeno i connotati più negativi. Infatti, la dinastia flavia, provenendo dal ceto medio-basso, era sempre stata vista con diffidenza dall'aristocrazia, che per dodici anni era stata controllata dall'accorta diplomazia di Vespasiano e del figlio maggiore Tito. Domiziano decise invece di tornare alla politica popolare dei Giulio-Claudi, rafforzando i propri privilegi per contrastare l'opposizione dei patrizi, ammantandosi di un'aureola divina e pretendendo di essere chiamato «signore e dio nostro».
Durante la guerra contro gli invasori daci, alcune legioni al comando di Saturnino, governatore della Germania, si ribellarono, costringendolo a firmare una pace affrettata e sfavorevole ai romani. Sentendosi tradito, Domiziano fu portato a vedere congiure ovunque, anche oltre la loro reale esistenza, e a difendere ulteriormente il culto della sua personalità. Questa situazione esacerbò il carattere già diffidente dell'Imperatore, che si isolò dal suo ambiente. Gli storici dell'epoca lo ricordano come un uomo sfuggente, di cui restano poche informazioni personali nonostante i quindici anni del suo regno. Plinio il Giovane scrive che «era sempre alla ricerca di isolamento, senza mai uscire dalla sua solitudine se non per crearne un'altra», mentre Svetonio ricorda che «cenava da solo e fino all'ora di coricarsi altro non faceva se non passeggiare in disparte».
Un curioso aneddoto sui passatempi preferiti di Domiziano è fornito da Aurelio Vittore: «Per qualche ora teneva lontani tutti e si metteva a inseguire battaglioni di mosche». Su questo fatto ritorna anche Svetonio, scrivendo: «Vibo Crispo, interrogato da un tale se ci fosse qualcuno con l'imperatore, gli rispose: - No, neppure una mosca»: l'aneddoto delle mosche è ricordato anche da Cassio Dione: «Sta per conto suo, non ha con sé nemmeno una mosca». Quanto alla sua figura, gli storici dell'epoca ricordano l'alta statura, la bellezza, le guance spesso arrossate - particolare scambiato per collera e timidezza - i grandi occhi sormontati da sopracciglia rialzate, lo sguardo inquietante e il tono basso della voce. Piuttosto frugale e sobrio, «dopo la colazione del mattino dove mangiava di buon appetito, per il resto della giornata spesso non prendeva altro se non una mela [...] se dava frequentemente sontuosi festini, li faceva servire alla svelta, senza prolungarli oltre il tramonto».
Riflessivo e dotato di spirito, sembra aver amato la cultura e le tradizioni greche: citava volentieri Omero, fu nominato Arconte di Atene e concesse privilegi a Corinto, istituì a Roma giochi ellenici a cui assisteva vestito alla greca ed era devoto soprattutto di Atena. Rinunciò a ogni attività letteraria per dedicarsi interamente al governo, studiando gli atti amministrativi di Tiberio. Gli storici del tempo lo dipingono così orgoglioso da aver sempre pensato di aver meritato di governare più del padre e del fratello, verso il quale avrebbe mostrato risentimento anche dopo la morte, criticandone gli atti e abolendo le feste in onore dell'anniversario della nascita.
Domiziano fu accusato di mollezza, di non amare la vita militare e di essere un dissoluto. La moglie Domizia lo tradì con Paride, un famoso pantomimo che egli fece uccidere per strada ma, dopo averla ripudiata, si riconciliò con lei. Ebbe però numerose amanti, tra le quali la nipote Giulia, figlia del fratello Tito e moglie di Tito Flavio Sabino. Non nascose una così scandalosa relazione e si limitò a non volere figli da lei, imponendole più volte di abortire, così che Giulia morì di aborto. Ebbe anche relazioni omosessuali, come del resto il fratello Tito: il suo amore per Flavio Earino, suo schiavo affrancato, fu celebrato da Stazio e Marziale. Questi suoi comportamenti erano in contraddizione con la sua conclamata volontà di restaurare gli antichi costumi e con la sua condotta di censore severo.
Domiziano fu console ininterrottamente dall'anno 82 all'88 e poi nel 90, nel 92 e nel 95: in tutta la sua vita ottenne 17 consolati; nell'85 si fece attribuire la censura perpetua, carica particolarmente importante perché consentiva di condizionare l'attribuzione delle magistrature e la composizione stessa del Senato. Un'iscrizione del 93 lo ricorda «Imperator Caesar, Divi Vespasiani filius, Domitianus Augustus Germanicus, pontifex maximus, tribunicia potestate XII, imperator XXII, consul XVI, censor perpetuus, pater patriae». Da parte sua, la moglie Domizia Longina ottenne il titolo di Augusta.
Essendo entrato, già con la dinastia giulio-claudia, l'uso della divinizzazione post mortem degli imperatori e dei loro diretti famigliari, il culto dei Flavi fu curato da un collegio di quindici sacerdoti, i Sodales Flaviales Titiales, celebrato in un tempio appositamente fatto costruire da Domiziano e dedicato alla dinastia flavia. Non avendo figli da Giulia Flavia né da Domizia Longina, Domiziano decise che fossero Vespasiano e Domiziano, i figli del cugino Flavio Clemente e della nipote Domitilla, a succedergli, facendoli appositamente educare da Quintiliano.
La maggior parte dei senatori gli era ostile per principio: la decadenza, iniziata nel I secolo a.C., del tradizionale sistema clientelare radicato intorno agli aristocratici, a causa del sorgere e dello sviluppo di un nuovo tipo di clientela, militare e provinciale, che si organizzava intorno al principe, patrono e capo militare, favoriva l'ostilità nei confronti dell'istituto imperiale, che sottraeva l'assegnamento al patriziato delle magistrature, fonti di enormi arricchimenti, che ora andavano a favore degli homines novi prevenienti dalle file dell'esercito e dall'apparato burocratico legato al principe, e relegava sempre di più il Senato aristocratico, progressivamente svuotato di potere, a una funzione di ratifica di decisioni prese nel palazzo imperiale.
Tuttavia l'atteggiamento dei senatori non poteva essere apertamente ostile: al contrario, benché accadesse che complottassero segretamente, essi mostravano spesso un'apparente ammirazione che si manifestava in concreti omaggi. Il comportamento dell'aristocrazia senatoria era imitato da una corte di letterati, che dalle loro lusinghe speravano di ricavare protezione e privilegi: si distinsero per cortigianeria verso Domiziano intellettuali del valore di Marziale, di Quintiliano, di Silio Italico e di Stazio. Si comprende come lo scetticismo, la diffidenza e il disprezzo dell'imperatore nei confronti dei cortigiani e dell'ambiente senatorio, che una storiografia immediatamente posteriore attribuirà a patologie della sua personalità, potessero avere altre e più reali motivazioni.
Domiziano rifiutò di rinunciare al diritto di condannare a morte i senatori responsabili di gravi reati, annullò la legge di Roscio Cepio che prevedeva il pagamento di un'indennità a favore dei senatori di nuova nomina, e ripristinò l'onere, imposto da Claudio ai questori entrati in carica, di offrire al popolo giochi gladiatorii Intenzionato a non ricorrere al consulto del Senato, si rivolse a un gruppo di personalità di provata esperienza, pratica già sperimentata da Vespasiano e Tito, per riceverne consigli e indicazioni di amministrazione e di governo: tra questi, il giurista Pegaso, già console, governatore e praefectus urbi sotto Vespasiano, Quinto Vibio Crispo, console nell'83, Marco Arrecino Clemente, cognato di Tito, già console e prefetto del pretorio, Valerio Festo, console nel 71, Marco Acilio Glabro, Rubrio Gallo, Lucio Valerio Catullo Messalino, il prefetto del pretorio Gaio Rutilio Gallico e il prefetto all'Urbe Tito Aurelio Fulvo, nonno di Antonino Pio.
Si circondò di segretari – i procuratores – tanto aristocratici quanto cavalieri o di più oscura origine, che così accumulavano ingenti fortune, come il liberto Claudio procurator fisci, cioè alle finanze; il procurator ab epistulis Ottavio Titinio Capitone, lodato da Plinio, era il vero e proprio segretario particolare del principe, che esaminava la corrispondenza intrattenuta con i maggiori funzionari e disponeva le risposte; vi era anche il segretario a cognitionibus, preposto a istruire i processi giudicati dall'imperatore; Entello fu il suo segretario a libellis, che si occupava delle petizioni rivolte all'imperatore, mentre un segretario a studiis si occupava degli archivi.
Tuttavia il suo regno rimase ancora una diarchia perché, se Domiziano ostentò indifferenza o disprezzo riguardo alle prerogative del Senato, non osò nemmeno diminuirne i poteri, conoscendo la forza e il prestigio di cui quell'istituzione ancora godeva; della carica di censore si avvalse solo per escludervi per indegnità un unico senatore, un certo Cecilio Rufo, e fece consoli personaggi aristocratici come Lucio Antonio Saturnino nell'82, Lucio Volusio Saturnino nell'87, Quinto Volusio Saturnino nel 92 e Tito Sestio Magio Laterano nel 94.
Come tutti gli imperatori, rivestendo la carica di pontefice massimo, Domiziano dovette occuparsi del culto, della costruzione e del restauro dei templi. Nella tradizione di Augusto e del padre Vespasiano, egli si mostrò seguace dell'antica religione romana, da lui privilegiata rispetto ai culti orientali che, incentrati sulla dea Iside, conoscevano una crescente diffusione a Roma. Fece restaurare il Tempio di Giove Capitolino che, già danneggiato nel 70 al tempo della guerre contro Vitellio, bruciò ancora nell'80: senza mutare la pianta di questo tempio, Domiziano lo fece decorare con particolare magnificenza, con porte e tetto di bronzo dorato: «neppure il patrimonio del maggiore contribuente romano sarebbe bastato a pagare il costo della sola doratura, che ascese a più di 12.000 talenti».
Il frontone, sormontato da una quadriga, vedeva al centro Giove tra Giunone e Minerva; a destra Mercurio, Esculapio, Vesta, il Sole su una biga, altre tre figure e il Tevere; a sinistra, un eguale numero di figure in corrispondenza.
Domiziano edificò in Campo Marzio – dove ora sorge la basilica di Santa Maria sopra Minerva - il tempio di Iside e Serapide, affiancandovi un tempio dedicato a Minerva, la dea alla quale egli fu particolarmente devoto, la cui statua, la cosiddetta Minerva Giustiniani, si è conservata. Un altro santuario dedicato alla dea fu costruito accanto al restaurato tempio di Castore, sotto il Palatino e, soprattutto, fu edificato un grande tempio dedicato a Minerva nel cosiddetto Foro transitorio o Foro di Nerva, del quale sono visibili ancora resti dell'elegante portico e un rilievo con l'immagine della dea. Ad Albano, con l'inizio della primavera, venivano celebrate le feste, istituite dall'imperatore in onore di Minerva, presiedute dai sacerdoti della dea, durante le quali si svolgevano rappresentazioni teatrali, concorsi poetici e musicali, e giochi del circo. Stazio vi fu premiato celebrando le guerre di Germania e di Dacia.
Anche nella statua equestre in bronzo eretta nel Foro in suo onore dal Senato nell'89 vi era un omaggio a Minerva: Domiziano teneva nella mano sinistra l'immagine della dea che a sua volta sosteneva una testa di Medusa. La sua devozione a Minerva si espresse anche con la creazione della Legio I Minervia e la rappresentazione della dea in molte monete coniate sotto il suo regno. Presso porta Flaminia eresse un tempio alla Fortuna Reduce e un arco di trionfo per celebrare la spedizione contro i Sarmati, nel quale erano riprodotte due coppie di elefanti condotte dallo stesso Domiziano in veste di auriga.
Infine, sul luogo della sua nascita fece costruire un tempio-mausoleo dedicato ai Flavi, nel quale furono poste le ceneri di Vespasiano, di Tito e dello stesso Domiziano. Il mausoleo è scomparso ma doveva sorgere tra i giardini di Sallustio e le terme di Diocleziano, probabilmente all'altezza dell'attuale quadrivio delle Quattro Fontane. Nella sua funzione di pontefice massimo Domiziano fu responsabile, verso l'83, della condanna a morte di tre vestali, per violazione del voto di castità, mentre i loro seduttori furono esiliati: la grande sacerdotessa Cornelia, già assolta, fu nuovamente giudicata e condannata nell'89 a essere sepolta viva, malgrado le sue proteste d'innocenza.
Come censore, egli aveva il dovere di vigilare sulla moralità dei cittadini. Espulse dal Senato l'ex-questore Cecilio Rufino a causa della sua eccessiva passione per la danza, vietò agli attori di pantomime, considerate gli spettacoli teatrali più immorali fra tutti, di mostrarsi in pubblico, permettendo le recite solo in locali privati. Si conosce qualche nome di questi attori, alcuni dei quali furono del resto apprezzati dallo stesso Domiziano, come Latino, la sua amante Thymele, Pannicolo, Paride, amante della stessa imperatrice Domizia, per il quale Stazio compose l'opera Agave. Domiziano fece distruggere i numerosi libelli che circolavano contro i personaggi più in vista della città, proibì alle prostitute l'uso della lettiga e il diritto di ereditare, vietò la castrazione degli schiavi, applicò con rigore la lex Scantinia contro l'omosessualità e la lex Julia contro l'adulterio e il concubinato.
« Ridi, Cesare, delle reali meraviglie delle piramidi;
la barbara Menfi già tace sull'opere d'Oriente:
cos'è la gloria Mareotica di fronte alla reggia Palatina?
Mai niente di più bello vide il mondo.
Crederesti i sette colli innalzarsi l'un sull'altro,
il Pelio di Tessaglia sull'Ossa è meno alto;
il tuo palazzo entra fra i pianeti rilucenti,
il tuono rimbomba nelle nubi sottostanti
e il Sole l'illumina ancor prima
che Circe veda il volto di suo padre.
La tua dimora, Augusto, che sfiora le stelle,
vale il cielo ma non vale il suo signore. »
(Marziale, VIII, 36)
L'intensa attività edilizia di Domiziano non si spiega soltanto con una presunta mania di grandezza dell'imperatore, ma anche per la necessità di completare costruzioni già avviate dai suoi predecessori e di porre rimedio al grande incendio che, dopo quello avvenuto sotto Nerone, devastò ancora Roma nell'anno 80. Quando non abitava a Roma, Domiziano amava risiedere sia nella monumentale villa che si fece costruire sui Colli Albani, dalla quale poteva ammirare il panorama della campagna romana e dei laghi di Albano e di Nemi, sia in ville site a Tuscolo, a Gaeta e sul mare, ad Anzio, sulla penisola del Circeo e a Baia. Il grande palazzo sul colle Palatino fu progettato dall'architetto Rabirio e venne terminato intorno al 92.
La sua imponenza diede occasione ai cortigiani di esprimere grandi lodi così come ai detrattori di squalificare l'imperatore. Oltre ai numerosi templi, fu eretta nella II regione – il Celio - la Mica Aurea, un padiglione privato che non è chiaro dove esattamente sorgesse, l'arco di Tito sulla via Sacra, e furono terminate le costruzioni del Colosseo, della Meta sudante e delle terme che poi presero il nome di Traiano. Fece costruire la via che porta il suo nome, la via Domiziana, che si raccordava alla via Appia a Sinuessa, dove un arco trionfale indicava l'inizio della strada che giungeva fino a Cuma - unendo così Roma con il golfo di Napoli - e fece anche restaurare l'antica via Latina.
Di molti lavori pubblici eseguiti nelle province non si hanno notizie probabilmente a causa della damnatio memoriae decretata dal Senato dopo la sua morte, che portò alla distruzione delle iscrizioni che lo riguardavano. Si sa tuttavia di costruzioni di strade nella Betica, in Galazia, Cappadocia, nel Ponto, in Licaonia, in Paflagonia, di opere non precisate ad Antiochia e della fondazione della città di Domizianopoli in Isauria. Diede incarico all'architetto Apollodoro di costruire a Roma un teatro musicale le cui tracce sono ancora visibili accanto al palazzo Massimo alle Colonne, edificato nel Cinquecento da Baldassarre Peruzzi, che Polemio Silvio arrivò a considerare una delle sette meraviglie del mondo, e uno stadio la cui forma è conservata dalla celebre piazza Navona.
Istituì nell'86 una serie di giochi, come il Quinquennale certamen Capitolinum che prevedeva gare musicali, ginniche ed equestri, in cui il premio era una corona di quercia. Esso era presenziato dallo stesso imperatore, rivestito della toga bordata di porpora e incoronato con le immagini di Giove, Giunone e Minerva. Ripropose le Quinquatria Minervae, ossia una festa di cinque giorni (19 - 23 marzo) nella sua villa sui colli Albani in cui si tenevano cacce, spettacoli teatrali, gare di oratori e poeti, in cui il premio era una corona aurea d'ulivo.
Come il padre e il fratello – e come, anni prima, Nerone - Domiziano comprendeva che le feste e i giochi erano un mezzo per ingraziarsi il popolo e sembra, del resto, che egli stesso ne fosse appassionato, tanto da far costruire uno stadio ad Albano e uno sul Palatino. Nel Colosseo, che fu terminato sotto il suo regno, si tennero numerosi i combattimenti di gladiatori, cacce, un combattimento navale e le più diverse invenzioni. Fece distribuire regalie in occasione della festa del Septimontium, e nel corso delle celebrazione dei trionfi militari. Durante il suo regno, continuarono le distribuzioni gratuite di grano alla popolazione romana, unitamente a un donativo particolare di 300 sesterzi a ciascuno dei 200.000 aventi diritto. Giova ricordare che si deve alla dinastia Flavia la costruzione del Colosseo il più importante anfiteatro romano, nonché il più imponente monumento dell'antica Roma che sia giunto fino a noi, conosciuto in tutto il mondo come simbolo della città di Roma e uno dei simboli d'Italia.
Tra le iniziative di carattere sociale ed economico, va ricordato che Domiziano intervenne per risolvere la questione delle terre d'Italia rimaste di proprietà del demanio ma occupate dai contadini dopo la loro divisione tra i veterani di Augusto alla fine delle guerre civili, riconoscendone l'usucapione o il pieno diritto di proprietà, se questi ne erano da tempo usufruttuari, attraverso un apposito editto. La gestione della spesa pubblica sembra essere stata equilibrata: all'inizio del regno rivalutò la moneta del 12% salvo doverla svalutare nell'85 riportandone il valore al livello stabilito da Nerone nel 65. Si è stimato che le entrate fiscali raggiungessero i 1.200 milioni di sesterzi, un terzo delle quali destinate al mantenimento dell'esercito.
Durante le guerre di Dacia, negli anni 86-89, la Mesia fu divisa nelle due province della Mesia Superiore e Inferiore: Lucio Funisulano Vettoniano è il primo a essere citato come legato delle province di Dalmazia, Pannonia e Mesia Superiore, mentre occorre attendere l'anno 100 per conoscere il nome di un governatore della Mesia Inferiore, Quinto Pomponio Rufo. Alla fine del regno di Domiziano furono invece unite le province di Galazia e Cappadocia, governate da Tito Pomponio Basso.
Domiziano rese ufficiale l'istituzione delle due province della Germania superiore e inferiore, territori già così chiamati e amministrati anche civilmente da due comandanti militari, i legati pro praetore dell'esercito della Germania inferiore e superiore. Nel 90 è attestato Lucio Giavoleno Prisco come legatus consularis della provincia della Germania superiore: forse l'istituzione ufficiale di queste due province fu la conseguenza della guerra cattica dell'83, nella quale i romani acquisirono territori oltre il Reno che furono incorporati nella Germania superiore. Dopo la vittoria sui Catti, Domiziano ottenne il trionfo a Roma nell'autunno dell'83 ricevendo il titolo di Germanicus, con il diritto di comparire in Senato con la stola triumphalis e di mostrarsi in pubblico accompagnato da ventiquattro littori.
Si celebrarono giochi, furono coniate monete e Domiziano fu celebrato dai poeti. Gli storici a lui ostili misero in ridicolo quella campagna militare e il trionfo che gli fu concesso. Ma Domiziano aveva ottenuto di allontanare i Catti dalle frontiere e le nuove annessioni favorirono i collegamenti delle legioni tra il corso medio del Reno e il Danubio. Quando Domiziano divenne imperatore nell'81, il generale Agricola, dal 77 governatore della Britannia, aveva già iniziato l'invasione della Caledonia, l'attuale Scozia, e progettato la conquista dell'Hibernia, l'Irlanda. Nell'83 colse l'importante vittoria di Monte Graupio ma non la sfruttò, contando di riprendere le operazioni dopo la fine dell'inverno.
In quel frangente si trovò però richiamato a Roma da Domiziano, senza aver potuto completare la conquista dell'intera isola. Tacito sostiene che l'imperatore fosse mosso da sentimenti d'invidia e di timore, causati dalla coscienza del valore di Agricola, suo possibile rivale, e della propria pochezza. Quali che fossero i suoi sentimenti nei confronti di Agricola, Domiziano gli aveva però concesso di rimanere legato imperiale in Britannia per sette anni anziché per i tre canonici, considerava un errore l'occupazione di quei territori privi di ricchezze e difficilmente difendibili in caso di rivolte, e aveva bisogno di garantire con nuove campagne in Germania e in Dacia la sicurezza dei confini orientali dell'Impero.
Alla fine dell'85 i Daci varcarono il Danubio e invasero la Mesia: vinto e ucciso il legato Gaio Oppio Sabino, saccheggiarono la regione. Domiziano accorse e, dopo aver respinto i Daci oltre il fiume, preparò una spedizione in Dacia, affidandola a Cornelio Fusco. Fatto questo, tornò a Roma. Nell'86 Fusco, dipinto da Tacito come uomo amante del pericolo, alla testa d'ingenti truppe attraversò il Danubio invadendo la Dacia. Il comandante dei Daci, Decebalo, lasciò avanzare l'esercito nemico fino alla stretta valle alla confluenza del fiume Timi con l'affluente Bistra, tra Tapae e Sarmizegetusa, e lo attaccò dopo averlo circondato. Cornelio Fusco cadde ucciso e l'esercito romano fu quasi interamente massacrato.
Dopo una sospensione delle ostilità per due anni, durante la quale Domiziano divise la Mesia in due parti, ciascuna presidiata da due legioni, la guerra riprese nell'89. L'esercito fu affidato a Tettio Giuliano, che nel 69 aveva già combattuto vittoriosamente in Mesia contro i Roxolani. Raggiunta Tapae, vi sconfisse i Daci, senza però ottenere una vittoria decisiva, mentre Domiziano conduceva una campagna in Germania contro i Quadi e i Marcomanni, che lo sconfissero, costringendolo alla ritirata. Tenuto conto delle difficoltà incontrate da Giuliano a continuare l'avanzata verso la capitale Sarmizegetusa, Domiziano dovette accettare le offerte di pace di Decebalo. Benché la campagna militare si fosse conclusa con un nulla di fatto, Domiziano ottenne a Roma il trionfo, il titolo di Dacicus e l'erezione di una statua equestre nel Foro. Solo con Traiano i romani avranno ragione dei daci.
Anche la guerra condotta nel 92 contro i Sarmati e i Suebi, portata per soccorrere i Lugi, si concluse senza risultati e al suo ritorno a Roma, nel gennaio 93, Domiziano non ottenne il trionfo, depose una corona d'alloro nel tempio di Giove Capitolino, offrì sacrifici solenni e fece celebrare grandi feste. Si racconta, infine, che il popolo tributario di Roma dei Nasamoni, che si trovava a sud della costa africana tra la Cirenaica e Leptis Magna, si ribellò attorno all'85-86, portando distruzione e sconfiggendo lo stesso legatus legionis della III Augusta Gneo Suellio Flacco. Avendo però trovato tra il bottino stesso della legione anche molto vino, si ubriacarono compromettendo il successo iniziale, poiché Flacco li assalì e li annientò tutti, tanto che Domiziano poté dire davanti al Senato: «Ho impedito ai Nasamoni di esistere».
L'opposizione interna contro Domiziano si manifestò a Roma soprattutto nelle forme dei conciliaboli privati e degli epigrammi anonimi. Pubblicamente, si potevano recitare orazioni che, secondo un tema retorico collaudato e tollerato, esaltavano genericamente la libertà e maledicevano la tirannide, e nei teatri andavano in scena personaggi i cui discorsi potevano contenere allusioni ben comprese da più di un ascoltatore. Una prima cospirazione contro l'imperatore sarebbe stata concepita nell'anno 83, e Domiziano avrebbe reagito mandando in esilio parecchi senatori e facendo giustiziare altri patrizi. Un'altra fu scoperta nell'87, e Domiziano fece condannare parte dei congiurati dallo stesso Senato.
Tito Flavio Sabino, marito di Giulia, sarebbe stato messo a morte in questo periodo, col pretesto - riferisce Svetonio - di essere stato chiamato dall'araldo imperatore anziché console, durante i comizi consolari. Verso la fine dell'anno successivo scoppiò al confine della Germania una pericolosa rivolta. Lucio Antonio Saturnino, legato della Germania superiore, si assicurò l'appoggio delle due legioni di stanza a Mogontiacum, la XIV Gemina e la XXI Rapax, e di tribù germaniche stanziate oltre il Reno, e si fece proclamare imperatore. Lucio Antonio era probabilmente in intelligenza con senatori romani. Discendente, sembra, del triumviro Marco Antonio, i suoi costumi erano poco onorevoli, ed era disprezzato dallo stesso Domiziano.
Domiziano reagì immediatamente partendo da Roma con la guardia pretoriana e ordinando a Traiano di trasferire le sue due legioni, la VII Gemina e la I Adiutrix, dalla Spagna sul fronte del Reno. Ma non ci fu bisogno del loro intervento, perché nel gennaio dell'89 Norbano Appio Massimo, allora governatore dell'Aquitania o della Germania inferiore, si portò rapidamente sui rivoltosi, rimasti privi dell'appoggio dei Germani che non avevano potuto superare il Reno per il mancato congelamento delle acque. La battaglia, combattura a Castellum, vide la completa vittoria di Norbano e la morte di Antonio Saturnino. Il Senato si affrettò a offrire sacrifici di ringraziamento, mentre Domiziano, giunto sul posto, ordinò di torturare e giustiziare un gran numero di ribelli sopravvissuti. La testa mozzata di Antonio fu inviata a Roma ed esposta nel Foro.
Con la vittoria sui rivoltosi, che aveva dimostrato la sostanziale fedeltà dell'esercito all'imperatore, e una repressione nei confronti di elementi patrizi nella capitale, sulla quale mancano particolari, l'aristocrazia, sapendo di non essere in grado di rovesciare Domiziano né con un sollevamento militare, né tanto meno con un movimento popolare, mantenne la speranza di eliminare Domiziano attraverso una cospirazione di palazzo. A sua volta l'imperatore, consapevole che i suoi nemici agivano nell'ombra, raddoppiò la sua diffidenza e il suo odio nei confronti del Senato. Domiziano continuò la politica dei donativi al popolo e degli alti salari all'esercito, finanziandola anche con le spoliazioni dei suoi avversari. Otteneva così il duplice risultato di mantenere la fedeltà degli uni e di conseguire l'indebolimento degli altri.
Stabilì una rete di spie che raccoglievano confidenze compromettenti: «nessuno era al sicuro. La libertà di parlare e di ascoltare era tolta», e il ricco signore poteva essere tradito dal proprio servo, dal cliente e perfino dall'amico, che ricevevano in cambio libertà o denaro.[ Vi furono anche professionisti della delazione e abili sostenitori delle accuse, come Aulo Didio Gallo Fabricio, più volte console, e soprattutto come Marco Aquilio Regolo, attivo già sotto Nerone, un oratore la cui eloquenza, lontana da ogni canone stabilito, «prendeva l'avversario alla gola e lo strangolava». Si fece una fortuna, comprò terreni in Toscana e nel Lazio, e la sua villa lungo la Tiburtina era popolata di statue. Valerio Catullo Messalino, nipote del poeta, cugino della terza moglie di Nerone Statilia Messalina e console nel 73, era un ascoltato consigliere di Domiziano nel palazzo di Albano e gli suggeriva quali persone colpire.
Accusati di lesa maestà per i loro atti o soltanto per le loro parole, gli indiziati erano giudicati dal Senato che, per viltà e paura, li condannava regolarmente alla morte o all'esilio, confiscandone i beni: «quell'assemblea era tremante e muta. Senza pericolo non si poteva dire quel che si pensava». Alle sedute Domiziano assisteva regolarmente: «La peggiore delle nostre sventure era vederlo ed essere guardati da lui [...] il suo volto sinistro, coperto di quel rossore col quale si difendeva dalla vergogna, spiegava l'evidente pallore di tanti uomini». Non era quello l'unico mezzo per impossessarsi dei beni dei cittadini facoltosi. A volte questi facevano coerede l'imperatore, per timore che, diversamente, il loro testamento fosse dichiarato nullo. Per questo motivo Agricola nominò suoi eredi la moglie, la figlia e Domiziano. Si poteva infatti fabbricare un falso testamento o era anche sufficiente che un testimone prezzolato dichiarasse che il defunto aveva intenzione di nominare erede il principe per annullare il testamento autentico.
Già sotto Vespasiano i maestri della filosofia stoica e scettica attivi in Roma erano stati perseguitati per la loro opposizione al regime. Ostilio e Demetrio erano stati mandati in esilio ed Elvidio Prisco, che si era rifiutato di riconoscere Vespasiano quale imperatore, fu messo a morte. Il potere imperiale considerava intollerabile la loro indipendenza di giudizio e se essi generalmente non erano politicamente attivi, erano però moralmente autorevoli e le loro critiche erano tanto più pericolose in quanto venivano diffuse pubblicamente tra i loro allievi. Ignorati o incompresi o disprezzati dal popolo, questi maestri erano però seguiti dagli aristocratici che ascoltavano le loro lezioni, sollecitavano i loro consigli e gli affidavano i loro figli perché li istruissero e li educassero. In tal modo, agli occhi di Domiziano, i filosofi divennero istigatori e complici dei suoi peggiori nemici.
Il processo, tenuto nel 93 contro un favorito di Domiziano, Baebio Massa, accusato di malversazione durante il suo proconsolato in Betica, favorì la reazione imperiale. L'accusa fu tenuta da Plinio il Giovane e da Erennio Senecione che ottennero dal Senato la sentenza di colpevolezza di Baebio Massa e il sequestro dei suoi beni. Il puntiglio particolare messo nell'accusa da Senecione, senatore e filosofo stoico decisamente ostile a Domiziano, e l'elogio che nello stesso tempo egli fece dello scomparso Elvidio Prisco, gli procurò l'avversione di Domiziano. La sua biografia di Elvidio Prisco fu considerata un delitto di lesa maestà: accusato in Senato da Mezio Caro, alla fine del 93 fu condannato a morte e il libro fu pubblicamente bruciato.
Il processo contro Senecione coinvolse Fannia, la vedova di Elvidio Prisco, nipote di Caecinia Arria e Caecina Peto, e figlia di Trasea Peto, che fu esiliata con la madre Arria per aver collaborato alla stesura del libro. Anche il figlio suo e di Elvidio, l'omonimo e già console Elvidio Prisco, autore di una pantomima satirica contro Domiziano, fu condannato a morte in quell'anno. Anche un elogio di Trasea Peto, scritto da Giunio Aruleno Rustico, fu bruciato e il suo autore giustiziato. Tribuno nel 66 e pretore nel 69, stoico, Aruleno Rustico aveva già rischiato la vita sotto Nerone a causa della sua amicizia con Trasea. Il suo libro doveva contenere giudizi particolarmente severi contro l'imperatore, se gli costò l'accusa di lesa maestà. La moglie Gratilla e il fratello Giunio Maurico furono esiliati. Subito dopo questi processi, un decreto del Senato stabilì l'espulsione dei filosofi e degli astrologi. Il pitagorico Apollonio di Tiana se ne andò a Pozzuoli, Epitteto si ritirò a Nicopoli, Dione Crisostomo in Asia Minore.
Distrutto il tempio di Gerusalemme e dispersa la popolazione, gli ebrei non furono perseguitati sotto Vespasiano e Tito. Lo stesso re Agrippa II e le sorelle Berenice e Drusilla vivevano a Roma, intimi dei Flavi, e una colonia di ebrei viveva nella capitale libera di praticare la propria religione, salvo essere tenuti a dichiararsi alle autorità per pagare il fiscus iudaicus, una tassa annua di due dracme. Vi furono conversioni al giudaismo, per quanto i nuovi adepti non praticassero scrupolosamente gli obblighi della legge mosaica e rifuggissero dalla circoncisione: piuttosto, essi potevano essere attratti dalla religione del dio unico e dalla sua morale. Quanto ai cristiani, oltre a essere ancora generalmente giudaizzanti, essi erano considerati dall'opinione pubblica soltanto una setta ebraica alla quale poteva essere egualmente indirizzata l'accusa di «ateismo» - cioè di non credere nella religione romana e di rifiutarsi di sacrificare - e di seguire «costumi ebraici». Questa circostanza rende difficile, se non impossibile, distinguere le conversioni al giudaismo dalle conversioni al cristianesimo.
Nel 95 furono condannati a morte per ateismo il console Flavio Clemente, cugino di Domiziano e Acilio Glabrione, già console con Traiano, mentre furono esiliati «molti altri cittadini che avevano adottato costumi ebraici». Tra questi ultimi, la moglie di Clemente, Flavia Domitilla, nipote dell'imperatore, fu relegata nell'isola di Ponza o di Ventotene. Lo storico della Chiesa Eusebio riferisce invece dell'esilio di una Flavia Domitilla, «figlia della sorella di Flavio Clemente», a suo giudizio una cristiana, affermando che Domiziano sarebbe stato il secondo imperatore, dopo Nerone, a scatenare una persecuzione contro i cristiani, mentre secondo Tertulliano Domiziano «tentò di comportarsi» come Nerone, ma «si tirò subito indietro, richiamando anche coloro che aveva condannato all'esilio».
Non è chiaro se queste condanne fossero realmente motivate dalla necessità di combattere religioni che potevano rappresentare un pericolo per lo Stato romano, se invece fossero solo il capriccio di un tiranno, o se fossero un pretesto per colpire nemici personali di Domiziano. In particolare, può anche darsi che, colpendo Flavio Clemente e la sua famiglia, Domiziano volesse sbarazzarsi di pericolosi concorrenti al proprio potere. C'è chi ritiene probabile che anche i sette figli di Clemente fossero fatti morire, anche se non è certa la sorte di due di loro che erano stati adottati dall'imperatore stesso, i giovani Vespasiano e Domiziano.
La sorte di Domiziano fu segnata quando gli uomini a lui più vicini lo tradirono. Un complotto di senatori, che garantirono a Nerva la successione all'impero, coinvolse la moglie Domizia e il procuratore Stefano, i cortigiani Partenio e Sigerio, il segretario Entello e i prefetti del pretorio Norbano e Petronio. Il 18 settembre 96 Partenio annunciò all'imperatore che Stefano era latore di un importante messaggio. Fingendosi ferito a un braccio, questi nascondeva nelle bende un pugnale. Il falso messaggio rivelava a Domiziano l'esistenza di una congiura ai suoi danni. Mentre l'imperatore leggeva, Stefano lo colpì all'inguine: malgrado la ferita, Domiziano reagì con grande energia, gettandosi su Stefano, ma intervennero altri congiurati, che lo finirono con altre sette pugnalate.
Richiamati dal tumulto, intervennero dei pretoriani ignari della congiura, che uccisero Stefano. Il cadavere di Domiziano fu consegnato alla nutrice Fillide, che gli rese gli estremi onori in una sua proprietà sulla via Latina e mescolò poi le sue ceneri con quelle dell'amata Giulia, facendole custodire nel tempio della famiglia dei Flavi al Malum Punicum, affinché non potessero essere disperse. Il senato proclamò Nerva imperatore e decretò la damnatio memoriae di Domiziano, ordinando la distruzione delle sue statue e la cancellazione del suo nome da ogni iscrizione. Furono richiamati gli esiliati, riabilitate le vittime, puniti i delatori e proibiti i processi di lesa maestà. La popolazione non reagì, ma ci furono tumulti tra i pretoriani,[187] e alcune sollevazioni tra le legioni del Danubio[188] e in Siria.
Eugenio Caruso - 21 marzo 2018
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