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La nascita dell'industria farmaceutica italiana.


Io lavoro sempre con la convinzione che non esista, in fondo, nessun problema irrisolvibile.
Jung


INVENTORI E GRANDI IMPRENDITORI

In questa corposa sottosezione illustro la vita di quei capitani d'industria e/o inventori che hanno sostanzialmente contribuito al progresso industriale del mondo occidentale con particolare riguardo dell'Italia e del made in Italy. Anche con riferimento alle piccole e medie imprese che hanno contribuito al progresso del Paese.

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S - Angelo Salmoiraghi - Isaac Merrit Singer - Alfred Sloan - Luisa Spagnoli - Otto Sundbäck
T - Franco Tosi
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Z - Lino Zanussi

La farmacopea italiana Solo alla fine dell’Ottocento la preparazione di farmaci è diventata una vera e propria industria, decollata poi nei primi decenni del ventesimo secolo; quattro nomi emergono come i pionieri dell'industria farmaceutica italiana: Schiapparelli, Erba, Zambeletti e Lepetit. Prima di allora, la preparazione dei farmaci era affidata soprattutto alle singole farmacie, in continuità con la lunga tradizione degli speziali. In alcune farmacie, già dal 16° sec., si preparavano composti da vendere e spedire anche oltre i confini dei diversi Stati della penisola (e financo in Europa. Forzando un po’ la mano, il farmacista Giulio Conci scriveva: «Si può dunque ammettere che già nel Cinquecento esisteva in Italia una forma rudimentale di industria farmaceutica, che assunse espressione più sicura nel Settecento» (Pagine di storia della farmacia, 1934, p. 320).
I rimedi erano costituiti principalmente da sostanze organiche estratte con diversi procedimenti e mescolate secondo i consigli dei medici o la sapienza del farmacista stesso. Soprattutto, prima dell’avvento delle molecole terapeutiche ottenute per sintesi chimica, vi era la difficoltà di mantenere standard di qualità uniformi. Basti pensare che, almeno fino ai primi due decenni del Novecento, in molte farmacopee non erano presenti norme chimicamente affidabili per saggiare la qualità di un determinato estratto: più che reazioni chimiche, ci si basava su prove di tipo empirico come la risposta di un organismo (per es., una rana) a un determinato farmaco ottenuto per estrazione da materie prime vegetali. Ciò non toglie che la farmacia, tra Sette e Ottocento, abbia vissuto una rivoluzione importante, in cui finalmente la chimica, per il tramite della farmacia, ha iniziato un fruttuoso rapporto con la medicina per identificare le migliori opzioni terapeutiche. Così esortava gli studenti Salvatore Mandruzzato (1758-1837), professore di chimica farmaceutica, nella prolusione al primo corso tenutosi all’Università di Padova: "Giovani Farmacisti; la vostra officina ha cessato di essere la cucina medicamentaria: Voi quindi innanzi non sarete più de’ meccanici lavoratori; l’Arte che imparerete vi assicurerà un posto luminoso tra i dotti delle scienze naturali: Voi non sarete più dei servili e ciechi ministri della Medicina e del Medico, ma degli operatori sensati e capaci di perfezionar l’Arte vostra, e d’ingrandire la scienza" (Prolusione alla cattedra di chimica farmaceutica nella R. Università di Padova, letta lì 12. Marzo 1807, 1807, p. 36).
Tuttavia, come sempre, la diffusione dell’innovazione non è stata né graduale, né uniforme. La situazione sociale e culturale italiana nell’ottocento ha contribuito in maniera decisiva a quest’assenza di standardizzazione e, di conseguenza, al ritardo della trasformazione in senso industriale della farmaceutica. Da un lato, la tarda unificazione del Paese ha fatto sì che per gran parte del 19° sec. non ci fosse una legislazione unitaria in fatto di produzione e distribuzione dei farmaci, e i tanti confini hanno impedito anche la costituzione di un mercato di dimensioni sufficienti perché uno degli attori potesse pensare di espandersi e quindi intraprendere il percorso imprenditoriale necessario a diventare un’industria vera e propria, capace di uscire dalla dimensione artigianale. Basti pensare che spesso le farmacopee avevano dimensione estremamente locale. Scriveva Antonio Campana (1753-1832), professore di chimica farmaceutica all’Università di Ferrara: "Nell’abbondanza di Farmacopee antiche e recenti, questa Provincia mancava di una, che servisse di norma comune agli Speziali, e ai Medici. Libero ognuno di essi di servirsi di qualunque più gli piaceva, ne veniva per conseguenza che la stessa preparazione fosse fatta con metodi diversi; il che non solo recava grande incertezza nell’arte, ma pericolo eziandio" (Farmacopea ferrarese, 182510, p. V).
L’esistenza di diverse entità statali ha costituito però anche un paradossale vantaggio, moltiplicando le scuole universitarie di farmacia, che si diffondono a cavallo tra Sette e Ottocento (nel 1783 nella Repubblica di Venezia, nel 1785 nel Regno delle Due Sicilie, in Piemonte nel 1800, a Bologna nel 1802; a Padova la cattedra di chimica farmaceutica viene creata nel 1807).
Un ulteriore fattore che va preso in considerazione nello sviluppo dell’industria farmaceutica è la stratificazione sociale: la ritardata industrializzazione di larga parte del Paese e, di conseguenza, anche la minore urbanizzazione rispetto ad altre nazioni hanno rallentato la nascita di grandi imprese nel settore farmaceutico, anche quando la disponibilità di molecole di sintesi aveva consentito la sostituzione delle materie prodotte artigianalmente. Ciò non solo spiega il ritardo dell’industria farmaceutica, ma anche il modello di sviluppo successivo di questo settore, cresciuto principalmente come allargamento delle botteghe di farmacia piuttosto che come espansione dell’industria chimica. È la divisione che Vittorio Sironi (1992), nell’unico saggio organico disponibile sulla storia dell’industria farmaceutica italiana, stabilisce tra ‘modello latino’ e ‘modello tedesco’. Il primo basato sulla professione dei farmacisti, il secondo implicante maggiori rapporti con la ricerca di base (e quindi con l’accademia), e quindi con una maggiore attenzione all’innovazione tecnologica non solo nel campo della farmaceutica, ma anche in quello dell’ingegneria industriale.
Tuttavia, il ‘modello’ non è – com’è ovvio – perfettamente corrispondente alla realtà. Da un lato, gran parte delle imprese italiane nascono effettivamente dall’evoluzione della ‘bottega’, in molti casi con tradizioni secolari, e conquistano la fiducia del pubblico con le specialità medicinali prodotte con intuizione spesso più commerciale che chimico-farmaceutica: pasticche, unguenti portentosi, amari, elisir, confetti a base di materie che oggi sappiamo inefficaci, ma che riscuotevano un tale successo da permettere lo stabilirsi di imprese che superavano la mera dimensione locale. È questa la base dell’affermazione delle tante aziende che compiono il salto dal galenico, preparato nell’officina su indicazione del medico o secondo le formule classiche, alla specialità farmaceutica venduta anche agli altri colleghi, con nome e marchio originali e ben riconoscibili. È un fenomeno che inizia già in epoca preunitaria nel Nord più vocato al commercio e all’industria. In ordine cronologico, segnaliamo le date di inizio attività delle tre maggiori imprese italiane nate da farmacie preesistenti: la Schiapparelli, a Torino (1824); la Carlo Erba, a Milano (1837); la Zambeletti, ancora a Milano (1866).
La carriera del farmacista piemontese inizia nel 1824, quando Giovanni Battista Schiapparelli (1795-1863) acquista la sua prima farmacia, ed è caratterizzata inizialmente dalla produzione di solfato di chinino secondo il metodo inventato dai francesi Pierre-Joseph Pelletier e Joseph-Bienaimé Caventou, e poi dalla fabbricazione di acido solforico e altre sostanze inorganiche (l’intestazione dell’impresa, a metà del 19° sec. recava: Manifattura di prodotti chimici, drogherie ed oggetti di gomma elastica). Parallelamente a questa attività si sviluppò un fiorente commercio di farmaci con il centro della produzione e della ricerca che si spostò nello storico stabilimento di Settimo Torinese, divenuto poi di proprietà della Farmitalia.
La Carlo Erba nacque invece dalla gestione di una farmacia milanese, a Brera, dove Carlo Erba sperimentò anche medicamenti a base di estratti di Cannabis indica, sulla base di studi da lui stesso effettuati nel 1848 e in pochissimi decenni diventò probabilmente la più grande impresa italiana, con affari che, secondo il produttore, raggiunsero il 10% del consumo italiano di farmaci e affini (sui listini compare la magnesia accanto alle bevande al tamarindo), e soprattutto oltrepassarono i confini lombardi prima (nel dicembre del 1859 è tra i fondatori dell’Associazione farmaceutica lombarda, ricoprendo la carica di direttore aggiunto e cassiere provvisorio; cfr. Associazione farmaceutica, «Farmacia», agosto 1860, 2, pp. 121-28), nazionali poi (i documenti sono consultabili nell’Archivio storico Carlo Erba presso il Centro per la cultura d’impresa, Milano; in particolare, si veda il manoscritto Cronistoria della Ditta Carlo Erba scritta dal sig. Carlo Erba, 1871, fasc. B4).
«Il chimico Lodovico Zambeletti, un bravo farmacista» (lo scrive il recensore – probabilmente Romolo Griffini – nel breve articolo dedicato al testo di Zambeletti Manuale teorico-pratico dei medicamenti moderni recentemente scoperti, «Annali universali di medicina», aprile 1870, 212, p. 225) è all’origine del terzo marchio e, prima di mettersi in proprio, lavorò anche con Erba. Come quest’ultimo era convinto dell’assoluta necessità di superare la farmacologia empirica per rivolgersi alla chimica così da ottenere prodotti standardizzati, di alta qualità, garanzia sia per il medico sia per il paziente. Il successo porterà il figlio (diventato amministratore dell’impresa dopo la scomparsa del fondatore a soli 50 anni) a creare il nuovo stabilimento che sarà per molti decenni la sede principale dell’impresa. Parallelamente, la farmacia faceva comunque da punto commerciale non solo per i prodotti aziendali, ma anche per specialità provenienti dall’estero, così come la bottega di Erba. La nuova dimensione rappresentava d’altra parte un passaggio obbligato e reso possibile non solo dall’avanzare della ricerca biochimica, ma anche dall’introduzione a livello europeo dei nuovi macchinari per la creazione di pillole, indispensabili per la competizione sul mercato quanto gli strumenti di laboratorio, nonché delle nuove strategie di marketing: dall’uso degli annunci pubblicitari sui quotidiani, alla creazione di riviste scientifiche e collane editoriali di settore che facessero conoscere, più che i singoli farmaci, il marchio dell’impresa, sia presso il pubblico sia presso i medici.
Un’eccezione, in questo modello latino è l’impresa fondata da Robert Lepetit (1842-1907) e Albert Dollfuss (1846-1909) a Milano nel 1870 (Un secolo di lavoro del Gruppo farmaceutico Lepetit, 1961; Zerilli-Marimò 1998). Mentre il secondo lascerà la chimica poco dopo, Lepetit continuò a guidare l’impresa, facendola evolvere verso il campo farmaceutico. Lepetit iniziò la sua carriera in Francia come chimico, nel campo dei coloranti, per poi lavorare a Basilea nell’impresa della famiglia di Dollfuss. Dollfuss e Lepetit aprirono a Milano prima un’impresa di importazione di coloranti, e iniziarono poi, dal 1872, a produrre in proprio insieme al nuovo socio Augusto Gansser. Nacque così la Lepetit-Dollfuss-Gansser, o Ledoga, che diventerà una delle principali concorrenti delle industrie chimiche svizzere e tedesche, allora predominanti in Italia. Dopo aver impiantato innovativi stabilimenti in Val di Susa e a Garessio (al confine tra Piemonte e Liguria, in provincia di Cuneo) per la produzione di sostanze chimiche legate all’industria della tintura e delle pelli, prenderà il via nell’ultimo decennio del secolo anche la manifattura farmaceutica. Questo ramo dell’impresa prese corpo grazie al figlio del fondatore, Roberto Lepetit (1865-1928), laureato in chimica all’École polytechnique di Zurigo e con diverse esperienze in laboratori industriali europei (tra i quali la Bayer, di cui la Ledoga sarà per decenni rappresentante in Italia). Sotto la sua guida, la Lepetit prodotti farmaceutici (la branca della Ledoga nel settore) divenne la principale impresa italiana nel campo dei farmaci ottenuti per sintesi, partendo soprattutto da materie prime vegetali e seguendo i metodi già utilizzati nella produzione dei coloranti. Il primo prodotto di questo sforzo di ricerca e sviluppo fu l’almateina, ‘antisettico’ e ‘disinfettante intestinale’, indicato come antidiarroico. L’almateina (tetrametilenematossilina), il cui marchio venne registrato nell’agosto del 1903 (nr. 5888, 56.17, «Gazzetta ufficiale», 1 dic. 1903, nr. 283; il brevetto fu ottenuto anche negli Stati Uniti), era prodotta dal legno sudamericano di quebracho, già usato dalla Lepetit per le produzioni di coloranti. Era disponibile sia in polvere per uso esterno (se ne suggeriva l’uso anche in chirurgia, per la pulizia delle ferite e delle ulcere: si veda La almateina y su uso en cirugía, «Revista de sanidad militar y la medicina militar española», 1908, 2, 13, p. 318) sia in compresse, e diventò rapidamente un successo anche fuori dai confini italiani. Il vero blockbuster per l’impresa milanese fu però il chinofene, un antireumatico di origine tedesca prodotto dalla Lepetit a partire dal 1916.
Un filo comune tra le grandi imprese farmaceutiche dell’Italia settentrionale è la vocazione alla modernizzazione culturale e la partecipazione alla vita pubblica, tipiche dell’imprenditoria lombardo-piemontese. Tutte le imprese, e molte altre dopo di loro seguendone l’esempio, diedero vita a iniziative editoriali dirette ai medici e al grande pubblico. Non solo letteratura pubblicitaria per i propri prodotti, ma anche testi orientati a creare nei lettori una fiducia nel progresso tecnico-scientifico, in maniera che i nuovi farmaci fossero prescritti dai medici e accolti da un pubblico di consumatori all’inseguimento della modernità materializzata in una compressa, in una pomata, in uno sciroppo.
Tuttavia, nell’osservare l’evoluzione della farmaceutica in Italia dopo l’Unità, non si può non sottolineare il ruolo avuto dallo Stato nel mercato farmaceutico. Da un lato come regolatore, tramite le varie edizioni delle farmacopee; dall’altro, come attore in prima persona.
Per il primo aspetto, è utile ricordare che la prima edizione della Farmacopea ufficiale, che sostituì tutte le normative locali (già parzialmente inglobate nel Codice farmaceutico per gli Stati parmensi, nel Codice farmaceutico romano e nella Farmacopea degli Stati Sardi), risale al 1892 e fece seguito alla legge per la tutela dell’igiene e della sanità pubblica (la cosiddetta legge Crispi-Pagliani, 22 dic. 1888 nr. 5849, «Gazzetta ufficiale», 24 dic. 1888, nr. 301). Jacob Moleschott, medico e fisiologo materialista molto noto a livello internazionale, docente in diversi atenei italiani, era a capo della commissione che licenziava il documento in cui erano elencate tutte le sostanze che potevano essere preparate dai farmacisti, nonché i modi di preparazione. Nel 1902, la seconda edizione evidenzia una sterzata verso la chimica: i membri della commissione erano due chimici (Emanuele Paternò e Luigi Balbiano) e un farmacologo (Vincenzo Cervello), tutti e tre appartenenti ad atenei siciliani (Paternò e Cervello erano a Palermo, Balbiano a Messina). Inoltre, nella seconda edizione vi sono altri due indizi che evidenziano la nascita di un’industria che si allontanava sempre di più dalla tradizione della spezieria. Il primo è l’eliminazione, rispetto all’edizione precedente, dell’enumerazione dei «metodi di preparazione dei composti chimici definiti, considerando che essi non sono preparati da nessun farmacista nel proprio laboratorio, ma sono direttamente ritirati dalle fabbriche» (Farmacopea ufficiale del Regno d’Italia, 19022, p. IX). Il secondo è la presenza del nome commerciale accanto a quello scientifico per alcune specialità, a indicare un’ormai raggiunta notorietà (anche presso i farmacisti) delle confezioni industriali per alcuni medicamenti: quest’uso verrà comunque abbandonato già nella quarta edizione, del 1920.
Il ruolo di regolamentazione e controllo farmaceutico dello Stato non si limitò in questi anni alla mera certificazione delle specialità medicinali. Le leggi sanitarie approvate nel periodo postunitario divennero un modo per espandere la copertura farmaceutica del territorio, in particolare per le classi più povere, dopo aver preso atto, con le inchieste svolte negli anni Ottanta dell’Ottocento (Carta della malaria dell’Italia illustrata da Luigi Torelli, 1882; Direzione generale della statistica, Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei Comuni del Regno, 1886), della terribile situazione igienico-sanitaria della popolazione. Così, negli anni successivi vennero promulgati atti orientati a raggiungere i luoghi sprovvisti di farmacie, dove il prefetto «potrà rendere obbligatorio l’impianto di un ‘armadio farmaceutico’ da custodirsi ed esercitarsi dal medico condotto» a spese del comune e a «somministrare ai poveri anche i medicinali, se ed in quanto a tale somministrazione non sia già provveduto o non si debba provvedere da opere pie, o con altri mezzi o in virtù di altre leggi» (l. 21 dic. 1899 nr. 474).
Parte importante di questo sforzo per il miglioramento della sanità pubblica fu la lotta alla malaria, da millenni uno degli elementi più importanti della patocenosi mediterranea e in particolare dell’area poi divenuta nazione italiana. All’interno di questo specifico programma di contrasto alla malattia, grande rilevanza ebbe il chinino, l’alcaloide estratto dalla corteccia di china (nome di varie specie di piante appartenenti al genere Cinchona, originarie delle Ande occidentali) e isolato nel 1820 da Pelletier e Caventou. Grazie a questo risultato è stato sostituito l’uso della corteccia polverizzata con quello della molecola estratta chimicamente. Ciò ha consentito di tenere meglio sotto controllo la preparazione del farmaco, la cui materia prima, comunque, rimane quella ottenuta dall’albero, poiché la sintesi completamente chimica del chinino è, infatti, poco economica.
La china da cui trae origine il farmaco fu oggetto di una sorta di monopolio sudamericano fino a quando agenti olandesi non riuscirono a stabilire piantagioni di china a Java, con semi con un’alta concentrazione dell’alcaloide. Tuttavia, la sua natura esotica ne rendeva comunque relativamente difficile l’approvvigionamento su larga scala, quale quella richiesta per la chininizzazione di massa prevista dalle diverse leggi per l’azione antimalarica. Lo Stato diventò quindi fornitore e produttore di chinino (in forma di solfato) a prezzo calmierato: prima vi fu la proposta di legge Garlanda (4 luglio 1895, «Gazzetta ufficiale», 5 luglio 1895, nr. 3278, p. 157), che però non ebbe seguito, poi con la legge Celli (23 dic. 1900 nr. 505), il ministero delle Finanze fu autorizzato «a vendere al pubblico l’idroclorato, il solfato e il bisolfato di chinino col mezzo dei farmacisti e delle rivendite di privative; e, a tale scopo, ad acquistare direttamente dai produttori o far acquistare la materia prima […] e far fabbricare il chinino stesso» («Gazzetta ufficiale», 15 febbr. 1901, nr. 39, p. 641). La legislazione venne in seguito integrata dalla decisione di distribuire gratuitamente il chinino «ai coloni e agli operai» nelle zone malariche (l. 2 nov. 1901 nr. 460, «Gazzetta ufficiale», 14 nov. 1901, nr. 270, p. 5306), nonché ai poveri (l. 21 febbr. 1907 nr. 61, «Gazzetta ufficiale», 20 marzo 1967, nr. 67).
Nelle varie leggi, veniva ovviamente decretato anche il ruolo delle farmacie e delle «rivendite di privative», cioè i tabaccai, nella distribuzione, con questi ultimi più numerosi e quindi più capillari nel raggiungere la popolazione. «Gli acquisti del solfato di chinina, la lavorazione, il condizionamento e la somministrazione per conto dello Stato» erano demandati alla Farmacia centrale militare di Torino, «in rapporto diretto con il Ministero delle finanze (Direzione centrale delle privative)» (Regio decreto 230 21 maggio 1903, «Gazzetta ufficiale», 20 giugno 1903, nr. 143, p. 2629), che periodicamente effettuava commesse a quello che sarebbe diventato il Laboratorio del chinino di Stato, distaccatosi dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare (creato nel 1853 e tuttora attivo) cui inizialmente faceva capo.
I farmacisti riuscirono comunque a ottenere, nel 1904 (l. 19 maggio 1904 nr. 209, «Gazzetta ufficiale», 6 giugno 1904, nr. 132), che i tabaccai autorizzati alla vendita del chinino di Stato fossero a una distanza di almeno 500 metri dalla farmacia più vicina e che i prezzi in farmacia potessero avere ricarichi maggiori. L’applicazione della legge del 1904 provocò lo scontento di Angelo Celli (1857-1914), il medico che più si stava spendendo – anche come deputato del Regno – per la lotta alla malaria, il quale avanzò una dura critica contro quella che oggi definiremmo ‘lobby dell’industria farmaceutica’. Secondo Celli, che già nel 1902 aveva denunciato la lentezza con cui l’amministrazione pubblica stava procedendo all’applicazione della legge («Gazzetta ufficiale», 18 marzo 1902, nr. 64, pp. 1125-26; si veda anche «La Stampa», 15 luglio 1903, che annuncia l’inizio della distribuzione del chinino di Stato), «un industrialismo diffamatorio» stava facendo di tutto per screditare il chinino di Stato, con pubblicità di prodotti i quali, «pur essendo nient’altro che chinino di sostanze di poco o nessun valore», cercano spazi «con la diffamazione del chinino di Stato» (Come Procede la esecuzione delle leggi contro la malaria. Rapporto a S.E. il Ministro dell’interno, Dattiloscritto del 1907, Roma, Archivio della Società per gli studi della malaria, Biblioteca di Storia della medicina, Sapienza, Fondo Casini, fasc. 1).
Il Laboratorio del chinino di Stato, che rimase a Torino nonostante il trasferimento a Firenze dello Stabilimento chimico farmaceutico militare negli anni Trenta, fu comunque di fondamentale importanza per la profilassi e la terapia antimalarica, producendo oltre 20.000 t di chinino annue che contribuirono alla limitazione dell’endemia malarica nonostante l’assenza di un piano organico di bonifica idraulica e la lentezza della diffusione delle misure di protezione meccanica, le altre due strategie antimalariche necessarie per incidere radicalmente sull’infezione da plasmodio. Siamo dunque di fronte a uno sforzo molto grande prodotto dallo Stato nell’industrializzare un farmaco, laddove erano evidenti i limiti dell’industria privata e del mercato farmaceutico italiano.
Quella dello Stato non fu comunque l’unica azione in campo farmaceutico alternativa rispetto alle industrie. Come in ogni ambito della società, a cavallo tra Otto e Novecento emersero iniziative di stampo cooperativo e filantropico. La Cooperativa farmaceutica venne fondata a Milano nel 1890, espressione di un ceto impiegatizio sempre più numeroso e probabilmente più libero da preoccupazioni pressanti come la casa e l’alimentazione, e desiderosa anche di esercitare una funzione sociale importante calmierando i prezzi delle specialità medicinali. La Cooperativa farmaceutica, approfittando anche della già citata legge Crispi-Pagliani del 1888, che di fatto liberalizzava la proprietà e l’esercizio delle farmacie, ne acquistò in breve un buon numero, fino a raggiungere negli anni Venti la cifra di dodici rivendite, a cui si sommarono, sin dall’inizio, un deposito, un laboratorio di controllo delle sostanze e naturalmente un’attività di produzione industriale destinata a divenire parte fondamentale dell’impresa. Espressione di un certo modo di interpretare il ruolo della ricca borghesia nella società fu anche la fondazione di alcuni istituti che oggi diremmo senza scopo di lucro come l’Istituto sieroterapico milanese (ISM), nato nel 1896 e diretto sin dall’inizio da Serafino Belfanti. Anche in questo ambito, l’Italia si trovò a colmare un certo ritardo rispetto ad altri Paesi: il modello fu l’Institut Pasteur di Parigi sia per il fatto che risultava anch’esso frutto dell’iniziativa privata e della filantropia, sia in quanto in entrambi la produzione si accompagnava alla ricerca. Come si evince dal nome, l’ISM produceva quasi esclusivamente farmaci biologici: preparati terapeutici e diagnostici che facevano da contraltare all’innovazione farmacologica della chimica di sintesi. Mentre quest’ultima, con qualche eccezione, aveva ancora poche frecce al suo arco – quello che viene considerato il primo chemioterapico, il Salvarsan, un composto arsenicato attivo contro la sifilide, venne scoperto nel 1909 –, sieri e vaccini avevano già contribuito in maniera importante alla salute pubblica con i prodotti contro la rabbia, il tifo, il tetano, il vaiolo, la difterite, la dissenteria, la peste e il colera. Una vera esplosione produttiva si avrà naturalmente con le esigenze belliche della prima guerra mondiale che oscureranno per diversi anni le necessità ‘sociali’ della produzione dell’ISM, cui si affiancheranno nei primi anni del 20° sec. anche le iniziative di Achille Sclavo (Istituto sieroterapico e vaccinogeno toscano a Siena) e di Edoardo Maragliano a Genova (che si unirà poi a un produttore locale, la Vecchi e C. Piam), che avevano in comune l’origine accademica. Soprattutto Sclavo e Belfanti diedero molta importanza alla ricerca ad ampio spettro, tanto che a Milano ebbero spazio scienziati di livello internazionale impegnati in ricerche di base che poco ritorno potevano avere sull’attività farmaceutica dell’Istituto.
Il lasso di tempo che va dalla fine dell’Ottocento ai primi tre decenni del Novecento fu un periodo d’oro per la farmaceutica italiana, che aveva visto nascere ed espandersi le principali imprese e crescere l’importanza dei farmaci, sia come merce, con la graduale espansione del mercato, sia come strumento per la salute pubblica. Lo sviluppo dell’industria chimica legava progressivamente il Paese alle reti europee e internazionali sotto il profilo della liberalizzazione dell’economia nonché per l’innovazione tecnologica e scientifica. Tuttavia, ancora dopo la Prima guerra mondiale, erano evidenti i difetti dell’industria farmaceutica italiana, con scarsa attitudine alla ricerca e quindi allo sviluppo di nuovi medicamenti, le cui formule erano quasi esclusivamente di origine estera. Le imprese, pur numerose, erano piccole e incapaci di rivaleggiare con le grandi industrie europee, e la tradizionale impostazione che legava la produzione farmaceutica a singole iniziative imprenditoriali di dimensione familiare rimase dominante.
Le principali linee in cui si svilupperà la chimica farmaceutica italiana nel primo dopoguerra sono comunque legate a tradizioni scientifiche locali: da un lato vi fu lo sviluppo di farmaci basati sull’uso di erbe, una sorta di riscoperta in chiave moderna della spezieria, rivisitata alla luce delle nuove conoscenze chimiche; dall’altro vi fu il progresso delle terapie a base di estratti ottenuti da organi e tessuti animali (soprattutto ghiandole endocrine), i cosiddetti biologici e opoterapici, il cui utilizzo si fondava anche sugli studi endocrinologici che in Italia vantavano un’importante tradizione, esemplificata, per es., dalla scuola di Nicola Pende (1880-1970), uno dei più influenti medici italiani nella prima metà del secolo (cfr. la voce Endocrinologia dell’Enciclopedia italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., 1932, scritta dallo stesso Pende).
A questo filone possiamo ascrivere anche i successi di Cesare Serono (1871-1952), un pioniere del campo, che da medico universitario a Torino compì studi sull’azione terapeutica dei lipoidi, e in particolare della lecitina. Dopo aver fondato una prima società a Torino, nel 1906 creò a Roma l’Istituto farmaceutico Serono, destinato a divenire un importante attore nella farmaceutica internazionale. Il primo grande successo fu la Bioplastina, un medicamento a base di lecitina e luteina ottenute dalle uova utilizzato come ricostituente in via parenterale, che ebbe una grandissima diffusione a livello continentale. La fiducia in questa medicina ‘italiana’ era tale che Serono stesso dichiarava che l’opoterapia «tende a sostituire l’antica terapia galenica a base di estratti vegetali, di alcaloidi e di prodotti chimici».
Nondimeno, queste tradizioni originali non riuscirono a emancipare la farmaceutica italiana che, almeno fino agli anni Trenta, rimase costituzionalmente dipendente dall’importazione delle materie prime dall’estero, a tutto vantaggio dei grandi conglomerati chimici dell’area svizzero-tedesca. I periodi in cui le frontiere rimasero parzialmente chiuse verso l’area tedesca – per es., durante la Grande guerra – consentirono però alle imprese italiane di aumentare la loro porzione di mercato nazionale, usufruendo di barriere fiscali o di un embargo vero e proprio. Abbiamo già ricordato che la Lepetit, per es., mise in commercio nel 1916 il suo chinofene (acido fenilchinolincarbonico), un rimedio molto venduto per la gotta: prima di allora prodotto e commercializzato quasi in monopolio da imprese tedesche.
La competizione, squilibrata, con l’estero divenne sempre più acuta negli anni del regime fascista. Le politiche autarchiche, accentuatesi dopo gli anni Trenta, fecero emergere le farmaceutiche italiane, attraverso apposite mosse protezionistiche e industriali indirizzate a diminuire l’importazione di prodotti farmaceutici finiti a fronte dell’incremento di materie prime da trasformare negli italici stabilimenti. Ogni mezzo divenne lecito per ridurre la presenza straniera sul mercato, e così propaganda del regime e interesse delle case farmaceutiche italiane conversero verso un uso sempre più pervasivo della pubblicità delle specialità medicinali prodotte nelle officine industriali. La forte pressione per diminuire la dipendenza dall’estero dovette successivamente fare i conti con le sanzioni internazionali erogate nel 1936 in seguito all’aggressione coloniale in Africa orientale.
Tagliata fuori dai capitali stranieri, con un deficit di personale scientifico qualificato, l’industria italiana ebbe poche punte di eccellenza a partire dagli anni Venti. Sul versante strettamente privato, va menzionata la Recordati (originariamente Laboratorio farmacologico reggiano), nata nel 1926 e dedicatasi subito alla ricerca, riuscendo a immettere sul mercato prodotti innovativi in un panorama complessivamente incapace di decollare. La consapevolezza, espressa dagli stessi chimici chiamati a celebrare il primo decennio fascista della disciplina (Associazione italiana di chimica, cit.), dell’assenza di un soggetto produttore di grandi dimensioni portò alla nascita della Farmitalia: la Montecatini (tramite l’ACNA, Aziende Colori Nazionali e Affini) si appropriò della Schiapparelli (e del suo grande stabilimento di Settimo Torinese) e, con la collaborazione della Rhône-Poulenc francese, creò nel 1935 il primo polo farmaceutico multinazionale. Autarchia, quindi, ma messa in atto con la consulenza straniera, così come estera era la provenienza di parte dei capitali.
Capitali esteri furono anche alla base della fondazione di quello che è divenuto nel tempo il più importante centro di ricerca biomedica italiana, e che nel campo della biochimica terapeutica ha rappresentato un’eccellenza internazionale: l’Istituto di sanità pubblica (ISP), poi, dal 1941, Istituto superiore di sanità (ISS). La creazione dell’ISP è infatti legata allo stanziamento della Rockefeller Foundation, che trasformò il finanziamento per la lotta alla malaria in una cospicua donazione volta più generalmente alla salute della nazione. Il regime mussoliniano volle mettere in piedi quindi un istituto che avesse il compito di gestire la standardizzazione chimico-farmaceutica e alimentare della nazione, ma che comprendesse anche molta ricerca di base.
La direzione, a pochi mesi dall’inaugurazione avvenuta il 21 aprile del 1934, fu affidata a colui che ne era di fatto l’ideatore e ne resse le sorti per più di cinque lustri: Domenico Marotta (1886-1974), chimico di formazione e allievo di Paternò, influentissimo membro della comunità scientifica durante il regime (a lui fu affidata la cura del volume sulla chimica nel primo decennio dell’era fascista) e già direttore dei Laboratori di chimica della Direzione di sanità pubblica. In quanto direttore dell’ISP, Marotta rappresentò per anni un punto di riferimento – nel bene e nel male – per l’industria farmaceutica italiana: faceva parte della commissione per la revisione periodica della farmacopea e, all’interno dell’Istituto, venivano esaminate le richieste di registrazione per i farmaci e i processi di produzione chimico-farmaceutici. Inoltre, la ricca dotazione di finanziamenti e di attrezzature che riuscì a procurare negli anni all’Istituto ne fece un importante centro di ricerca, capace anche, come vedremo, di produrre non solo nuove conoscenze scientificamente importanti, ma anche di influenzare positivamente l’industria privata – su cui avrebbe comunque dovuto mantenere anche funzioni di controllo.
Tuttavia, la visione di Marotta tardò a manifestarsi appieno, prima a causa delle guerre coloniali, poi per lo scoppio della seconda guerra mondiale, drammatici eventi che spinsero l’istituto ad agire principalmente a fini bellici, con la massiccia fornitura di sieri e vaccini studiati e preparati dall’ISS per le forze armate, l’organizzazione di corsi di formazione per le professioni sanitarie e, in generale, con attività relative alla sanità pubblica basate sugli obiettivi del regime (in particolare in connessione con le iniziative coloniali e le bonifiche nazionali).
Con la creazione dell’Istituto, si definiva un nuovo quadro di controllo sulle industrie farmaceutiche: sotto il regime era stato infatti promulgato il primo provvedimento di regolamentazione «per la produzione e il commercio delle specialità medicinali» che prevedeva l’autorizzazione del ministero dell’Interno per ogni «officina di prodotti terapeutici», distinta quindi dalle farmacie. Si stabiliva inoltre che il direttore di una farmacia non poteva dirigere anche un impianto di produzione, a meno che questo non fosse «di proprietà del farmacista e in diretta comunicazione con la farmacia». Anche ogni farmaco doveva essere ufficialmente registrato, ma per sapere le modalità di registrazione si dovette attendere l’approvazione del regolamento attuativo, nel marzo 1927 che comunque non fu definitivo. Infatti, la scadenza per la registrazione delle officine farmaceutiche fu ripetutamente prorogata, almeno fino al 1931.
In questo clima, la farmaceutica italiana visse a traino degli orientamenti dettati dalla dittatura fascista e delle vicende belliche. Il grande progresso della chemioterapia, con la scoperta dei sulfamidici nel 1932 da parte di Gerhard Domagk della Bayer-IG Farben, sarà sfruttato in Italia senza innovazioni particolari, anche se va sottolineata la rapidità con cui il Prontosil rosso, il primo prodotto di questa nuova categoria di farmaci in vendita dal 1935, si diffuse in Italia, insieme ai suoi derivati, grazie non solo alla prontezza di alcuni imprenditori (in particolare dell’Istituto farmacologico De Angeli di Milano), ma anche per effetto degli stretti legami politici tra Italia e Germania.
Le vicende politiche e sociali furono fondamentali anche per la diffusione delle nuove medicine miracolose, gli antibiotici, a partire dalla comparsa sulla scena delle penicillina. L’attività antibiotica della muffa di Penicillium venne fortunosamente scoperta nel 1929 da Sir Alexander Fleming, ma solo tra 1939 e 1940 i chimici Sir Howard Walter Florey e Sir Ernst Boris Chain a Oxford ne isolarono il principio attivo e ne sperimentarono il potenziale terapeutico.
Nel 1941, l’entrata in guerra degli Stati Uniti imprimerà una drammatica accelerazione alla produzione di penicillina. La collaborazione tra enti militari, mondo accademico e industrie portò in pochi anni alla produzione su larga scala, sufficiente a soddisfare la domanda delle forze armate americane e alleate, e poco più avanti, anche quelle del pubblico. Un successo dovuto alla capacità organizzativa del governo statunitense che riuscì, pur con qualche difficoltà, a mettere insieme ricercatori universitari, laboratori delle grandi imprese private e la macchina dell’esercito: la microbiologia doveva infatti trovare il ceppo migliore di Penicillium che producesse una maggiore quantità di penicillina, ma i biochimici e gli ingegneri dovevano escogitare il modo di mantenere le condizioni giuste per la fermentazione in grandi serbatoi (con diverse migliaia di litri di capacità, conservando costanti l’ossigenazione e la concentrazione di nutrienti) e riuscire a estrarre efficacemente l’antibiotico dalla miscela risultante; ai medici e ai farmacologi era affidato il compito di trovare il miglior uso possibile per il farmaco, valutandone pregi e difetti. Non è un caso che, mentre negli Stati Uniti la penicillina veniva prodotta in grandi stabilimenti, con fermentatori di grande volume, nella patria della scoperta gli inglesi usavano ancora le bottiglie del latte per far crescere la muffa.
L’origine ‘bellica’ del farmaco ebbe importanti effetti sulla sua circolazione, poiché da un lato le forze armate ne propiziarono la diffusione, che avvenne al seguito dei medici militari, mentre dall’altro venne operato da parte statunitense uno strettissimo embargo sulle tecnologie e il know-how necessari per la produzione su larga scala del farmaco.
In Italia, la penicillina arrivò con gli Alleati nel 1944. Gli stessi tedeschi, nonostante lo sviluppo della loro industria chimica, solo in ritardo compresero l’importanza della nuova molecola e infatti il ritardo venne scontato maggiormente nella più periferica Italia. Alcune notizie nell’Italia del Nord ancora occupata giunsero nei primi mesi del 1944 attraverso la Svizzera neutrale, secondo la testimonianza di un farmacologo della Farmitalia raccolta in un documentario del 2008 (Farmitalia. La chimica della terra, di Mario Piavoli) e si tentò subito la produzione industriale. Nel Sud, invece, l’avanzata degli Alleati fornì informazioni sempre più precise, almeno sull’uso terapeutico. Articoli sulle riviste mediche vennero pubblicati tra il 1944 e il 1945, in base alla letteratura fatta arrivare dagli ufficiali medici americani, gli stessi che importarono le prime dosi dell’antibiotico. Nella Roma liberata nel giugno del 1944, arrivarono anche due colture di Penicillium notatum, provenienti da Londra e donate all’Istituto superiore di sanità. Grazie a queste colture, nell’ISS si poterono intraprendere i primi studi specifici non clinici.
Fu il batteriologo Franco Scanga, che già aveva studiato i sulfamidici prima della guerra, a scrivere due lunghe rassegne sulla rivista dell’ISS, dedicate alla standardizzazione dei metodi di misurazione della concentrazione di penicillina nell’organismo e della sensibilità all’antibiotico di diversi microrganismi patogeni. La coltura venne effettuata nel modo più semplice, in superficie, e non negli impianti più complessi necessari per la fermentazione profonda, quella alla base della tecnologia industriale statunitense.
Una prima svolta avvenne con la donazione, da parte dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), di un impianto per la produzione della penicillina con la fermentazione profonda come parte di uno sforzo umanitario per risollevare la situazione postbellica dei Paesi europei. L’ISS venne scelto dall’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica come luogo per erigere la fabbrica che avrebbe dovuto produrre «sotto diretto controllo governativo, senza affiliazione commerciale […] e con produzione limitata ai bisogni del Paese e non per l’esportazione».
In realtà, l’impianto UNRRA non verrà mai costruito come progettato originariamente: diverse vicende portarono l’ISS ad accordarsi con il governo italiano e gli emissari statunitensi per la costruzione di un laboratorio di ricerca biochimica prima, e successivamente per la creazione di una fabbrica più moderna, essendo quella donata risalente alla prima generazione di impianti e quindi rapidamente obsoleta. La produzione dell’antibiotico iniziò, tuttavia, soltanto nel 1952, ma nel frattempo Marotta era riuscito a fare dell’ISS un centro di ricerca importante a livello internazionale, poiché attirò a Roma prima Daniel Bovet (nel 1947), uno dei chimici che aveva lavorato alla scoperta del nucleo attivo dei sulfamidici a Parigi e che nel 1957 fu insignito del premio Nobel per la medicina o la fisiologia per gli studi sull’istamina, e successivamente uno dei tre uomini della penicillina: Chain.
Arrivato nel 1948, Chain diresse prima la costruzione e poi la ricerca all’interno del centro di chimica microbiologica, dove era stato creato un impianto pilota, cioè industriale ma su piccola scala, per le fermentazioni. L’ISS diventava quindi un punto di riferimento per tutta l’industria farmaceutica italiana, che negli anni Quaranta e Cinquanta a esso si rivolse per ottenere risposte a quesiti scientifico-tecnologici importanti, che i centri di ricerca interni non potevano affrontare. Una collaborazione rara in Italia tra pubblico e privato che ha sicuramente aiutato il decollo dell’industria farmaceutica nel secondo dopoguerra.
A partire dagli anni Cinquanta, infatti, il comparto farmaceutico italiano mostrò una nuova vitalità, finalmente libera dalle ristrettezze dell’autarchia e di nuovo collegata alle reti di innovazione internazionale. Tuttavia, negli anni Quaranta la situazione non era rosea. La penicillina praticamente non veniva prodotta sul territorio nazionale: diverse imprese a capitale straniero avevano aperto nuove sedi o riaperto i vecchi centri (Cyanamid, Glaxo, Squibb), ma tutte si basavano sull’importazione, necessaria ma non sufficiente per coprire i bisogni della popolazione. La fabbrica dell’ISS avrebbe dovuto alleviare questa situazione, ma si preferì sfruttare gli aiuti per la ricerca, e inoltre non si vollero toccare gli interessi proprio delle industrie farmaceutiche. Infatti, le imprese straniere e italiane che stavano entrando nel campo degli antibiotici volevano rassicurazione dal governo italiano per evitare la concorrenza da parte dell’istituto pubblico, così che alla fine Marotta non scontentò né l’industria, inizialmente preoccupata, né gli emissari americani che volevano liberalizzare il mercato.
Il risultato, tuttavia, fu la totale dipendenza dall’importazione fino al 1950, e il sostanziale monopolio per i due anni successivi dell’unica azienda interamente italiana, la Leo Industrie chimiche farmaceutiche di Giovanni Armenise (1897-1953, imprenditore minerario, fascista, proprietario del «Giornale d’Italia» e della Banca dell’Agricoltura) che sfruttava un brevetto della danese Lovens kemiske fabrik, l’unico al di fuori dei Paesi anglosassoni. Il brevetto era stato comprato nel 1946 dalla Cisitalia, azienda torinese con diversi interessi (tra cui l’industria automobilistica) che tuttavia non riuscì nel suo intento. La licenza, su interessamento del governo e dello stesso ISS, fu rilevata da Armenise, che, alla fine del 1947, iniziò la creazione di uno stabilimento a Roma sulla via Tiburtina, inaugurato da Fleming nel 1950. Fino al 1952 nessun’altra impresa produsse in Italia la penicillina (che veniva solo confezionata). Ciò ebbe due importanti effetti. Da un lato, un dazio pesante sulle importazioni, perché il produttore italiano riuscì a ottenere una sorta di protezionismo, applicando una tassa del 75% sul costo della merce calcolato sulla manifattura italiana, ancora molto più costosa di quella ormai rodata statunitense. Come scritto da Angelo Costa, presidente di Confindustria, nel giugno del 1950 al presidente del consiglio Alcide De Gasperi: «L’industria di produzione della penicillina, essendo un’industria all’inizio dei suoi sviluppi, può giustificare una protezione più accentuata che per la generalità delle altre industrie» (29 giugno 1950, in Roma, Archivio centrale dello Stato/Presidenza del Consiglio dei ministri, 55-58 39792.23 1.1.2.).
Dall’altro, significò l’impossibilità per l’Italia di far fronte a improvvisi squilibri internazionali, come avvenne a cavallo tra il 1950 e il 1951 con l’inizio della guerra di Corea. La penicillina, ancora considerata strategica (come confermato anche dalle carte della CIA, Central Intelligence Agency, che ne controllava la circolazione nei Paesi dell’Europa dell’Est) fu sottoposta a un regime ristretto che ne limitava l’esportazione. In Italia, nonostante la produzione potenziale della Leo fosse di 6 miliardi di Unità internazionali (U.I.) al giorno, a fronte di un bisogno stimato tra i 500 e i 900 miliardi di U.I. annui, si avvertì una decisa mancanza di prodotto.
La politica protezionista, grazie anche alla collaborazione dell’ISS, produsse un altro effetto: le principali ditte italiane (Farmitalia, Lepetit, Palma Squibb) si affrettarono a iniziare la produzione, aprendo nuovi stabilimenti che videro la luce nei primi anni Cinquanta. La Laboratori Palma-Squibb, per es., creò a Roma (sulla via Salaria) la prima sussidiaria della multinazionale americana, con capitale non statunitense, fondata da Franco Palma (1912-1990), imprenditore italiano con cittadinanza statunitense, mentre negli stessi anni la Lepetit stabilì a Torre Annunziata parte della sua produzione. L’azienda milanese però mantenne i laboratori principali a Garessio, dove nel 1949 venne messa a punto la sintesi del cloramfenicolo, un antibiotico già noto, ma la cui produzione per via completamente industriale fu un primato della Lepetit. La farmaceutica italiana entrava quindi in una nuova era. I laboratori di queste imprese, sostenute anche da una nuova consapevolezza dell’importanza della ricerca, acquisirono rilievo a livello internazionale, in competizione con le grandi imprese europee e statunitensi.
La modernizzazione industriale italiana negli anni Cinquanta era quindi avviata anche per il settore farmaceutico, nonostante evidenti squilibri tra Nord e Sud e peculiarità normative che rendevano l’Italia un Paese particolare. Il protezionismo, più o meno evidente, difendeva l’industria nazionale, mentre ancor più distintiva fu l’assenza di protezione brevettuale per i farmaci e i processi chimico-farmaceutici, una particolarità perdurata fino al 1978 e che risaliva alla legislazione del Regno di Sardegna. La legge 30 ott. 1859 nr. 3731 all’art. 6 sanciva infatti che «Non possono costituire argomento di privativa […] i medicamenti di qualunque specie». Di fatto, questa legge è rimasta in vigore per oltre un secolo.
Ciò ha portato naturalmente allo sviluppo di un’industria le cui dimensioni medie sono state sicuramente minori rispetto a quelle delle industrie di altri Paesi, ma che non per questo è risultata meno vitale anche nella seconda metà del Novecento. Il dibattito sui brevetti ha posto infatti in luce l’esistenza di un comparto ritenuto poco creativo, costituito da imprese di origine familiare, basate sulla produzione di generici che poteva funzionare in un contesto nazionale protetto: l’assenza di brevetto causava infatti un cortocircuito portando le imprese italiane a copiare dall’estero per poi esportare i loro prodotti verso gli stessi Paesi dove il medicamento originale era stato inventato. All’opposto, le grandi imprese italiane che aspiravano a un ruolo internazionale richiedevano l’istituzione della proprietà intellettuale per difendere i loro investimenti in ricerca. Un’argomentazione, questa, che verrà spesso ripetuta nel corso del Novecento e sarà alla base anche della fondazione di Pharmindustria nel 1961, nata come associazione delle quattro grandi imprese che più investivano nello sviluppo di nuovi farmaci. Tuttavia, studi più recenti hanno evidenziato come non sia del tutto fondato collegare la protezione della proprietà intellettuale e la capacità innovativa. D’altra parte, le case farmaceutiche tedesche e svizzere raggiunsero la loro posizione di dominio sul mercato in assenza di brevetto, e la stessa industria farmaceutica italiana ha mostrato una capacità di innovazione molto simile sia prima sia dopo l’introduzione della protezione della proprietà intellettuale.
La questione brevettuale nell’industria farmaceutica è dunque un altro aspetto della formazione di una ‘cultura terapeutica’, in un Paese che dal 1800 al 1950 è profondamente cambiato. L’industria dei farmaci è stata uno dei molti attori in questo cambiamento, riflettendone la natura e al tempo stesso influenzandone l’orientamento: agente di modernizzazione, non solo terapeutica, ma anche culturale.

Eugenio Caruso - 23 marzo 2018

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