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La nascita dell'industria meccanica in Italia


Io lavoro sempre con la convinzione che non esista, in fondo, nessun problema irrisolvibile.
Jung


INVENTORI E GRANDI IMPRENDITORI

In questa corposa sottosezione illustro la vita di quei capitani d'industria e/o inventori che hanno sostanzialmente contribuito al progresso industriale del mondo occidentale con particolare riguardo dell'Italia e del made in Italy. Anche con riferimento alle piccole e medie imprese che hanno contribuito al progresso del Paese.

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T - Franco Tosi
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Z - Zambeletti - Lino Zanussi

In ogni paese l'industria meccanica riveste un ruolo primario, in quanto è alla base di tutti i processi produttivi, attraverso la fornitura di macchine e/o di semilavorati alle altre industrie trasformatrici e manifatturiere. Pertanto, molto spesso il suo sviluppo s'identifica con il progresso industriale del paese.
La nascita dell'industria meccanica italiana, così come quella degli altri paesi industrializzati, può essere fatta risalire all'inizio del 1800, allorché fu scoperta e si diffuse la macchina a vapore per la produzione di forza motrice. Fino a quella data in Italia si poteva parlare unicamente di artigianato meccanico; gli unici esempi di realtà industriali erano rappresentati dai cantieri navali della Liguria e della Toscana. L'invenzione della macchina a vapore, e successivamente, del motore a scoppio e del motore a gas innescarono il processo di crescita dell'industria meccanica. Il comune denominatore di queste macchine era quello di fornire sempre maggiore potenza.
Nonostante gli sviluppi di queste nuove macchine, la prima fase dell'industrializzazione italiana fu realizzata grazie all'energia prodotta dalle cadute dei corsi d'acqua. Con la costruzione di pompe e turbine divenne possibile utilizzare in modo sistematico l'energia idraulica; tuttavia, questo tipo di energia rendeva problematica la localizzazione delle imprese nascenti, che erano costrette a sorgere in prossimità dei corsi d'acqua o dei salti. Giova ricordare, ad esempio, che nel 1904 Crespi con parziale contributo della Banca commerciale italiana, aveva creato la Società anonima Benigno Crespi proprio per lo sfruttamento dell'energia idraulica dell'Adda a Trezzo per lo stabilimento di Capriate. Nè si può dimenticare il ruolo dell'ing. Carlo Esterle nella realizzazione di centrali idrolelettriche in ambito Edison, per facilitare lo sviluppo delol'industria lombarda, in particolare proprio di quella tessile.
Successivamente, grazie ai contributi di A. Pacinotti e di G. Ferraris (inventori della dinamo e del motore elwettrico a corrente alternata) fu possibile trasportare l'energia elettrica prodotta nelle centrali idrauliche e alimentare in un secondo momento il motore elettrico. In questo periodo, a cavallo tra Otto e Novecento, l'industria meccanica italiana ebbe un grande sviluppo. Notevoli miglioramenti furono ottenuti nella costruzione dei motori di ogni genere, nelle macchine agricole, in quelle per l'industria tessile e per il trasporto ferroviario e automobilistico.
Le condizioni nel 1886 dell'industria metalmeccanica italiana, specie per la costruzione di locomotive, furono così riassunte in un memoriale della Società di Ernesto Breda, nel 1895: "L'industria meccanica in Italia, si può dire non dati da oltre una decina d'anni, giacché quantunque in quell'epoca già esistessero stabilimenti, anche di qualche importanza, che s'occupavano di costruzioni meccaniche, essi erano tuttavia insufficienti e per mezzi e per mancanza di giusti criteri organici, a dare all'industria quell'ordinamento che i bisogni del nostro paese ed in confronto coi notevoli progressi fattisi fuori d'Italia reclamavano". Si aggiungano le difficoltà che la legislazione italiana creava imponendo dazi elevatissimi all'importazione sia di macchine sia di parti di macchine. Nel 1885 però la convenzione ferroviaria aveva fatto obbligo alle società esercenti linee ferroviarie di acquistare prodotti dell'industria italiana fino alla differenza del 5% in più rispetto al prezzo straniero, offrendo così un primo incentivo alla metalmeccanica specie delle locomotive. Tuttavia, più che nell'appoggio di simili misure legislative, le ragioni per cui Breda avviò la sua fabbrica di locomotive proprio alla vigilia della nuova gravosa tariffa del 1887 consistono nella previsione che un'industria di locomotive in Italia avrebbe avuto un mercato interno sufficientemente vasto per i primi anni di avvio e che gli alti costi iniziali non avrebbero inciso sui prodotti nazionali più di quanto incidessero gli altissimi costi di trasporto delle locomotive straniere.
Agli sgoccioli del 1800 si apre in Italia un altro importante fronte quello delle macchine termoelettriche. La consacrazione definitiva di Franco Tosi e delle sue macchine arriva con l’Esposizione industriale svoltasi a Torino nel 1884, dove la Franco Tosi presenta una macchina a vapore da 200 cavalli. All’inizio degli anni Novanta la Franco Tosi è una grande impresa: lo stabilimento di Legnano impiega oltre 700 operai ed è in grado di produrre annualmente circa 120 macchine motrici e 150 caldaie a vapore. La crescita dimensionale impone notevoli cambiamenti anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro. Tosi, al pari di altri imprenditori della sua generazione, deve affrontare il problema di formare una nuova generazione di operai specializzati adatti alla “disciplina di fabbrica”, imperniata sul rispetto di orari fissi e sull’accettazione della monotonia e della ripetitività delle mansioni lavorative. Nel suo caso, l’incentivo offerto per vincere le resistenze degli operai, oltre a salari più alti, prevede una serie di misure assistenziali: una scuola serale per gli operai, una mensa e uno spaccio aziendali, la costruzione di abitazioni per impiegati e operai, tra le altre. Nel maggio del 1894 Tosi rileva le quote della società in possesso degli eredi di Eugenio Cantoni. Rimasto l’unico proprietario della Franco Tosi, l'imprenditore può indirizzarne lo sviluppo verso l’elettromeccanica, in cui l’azienda era entrata con tempestività già dal 1888: allora era stata avviata la commercializzazione di una speciale motrice a vapore, progettata dallo stesso Tosi per attrezzare le centrali termoelettriche in costruzione in diverse città italiane e in un numero crescente di stabilimenti industriali. Le motrici Tosi diventano in poco tempo uno dei prodotti più apprezzati dalle imprese elettriche a livello internazionale e vengono esportate con successo in Europa e in Sud America. La scelta vincente in questo caso è il rapporto di collaborazione creato da Tosi con le imprese elettrotecniche tedesche, fra cui spiccano la Siemens, la AEG e la Schuckert, che fino alla prima guerra mondiale godranno di una posizione di egemonia sul mercato italiano. Già nel 1895 il fatturato dell’azienda raggiunge così i 3,8 milioni di lire, una cifra pari a più del doppio di quella dell’anno precedente, e aumenta ancora in maniera significativa negli anni seguenti.
Nel 1914 la Franco Tosi impiantò dei cantieri navali a Taranto. I sommergibili costruiti in questo arsenale furono i primi al mondo a raggiungere una profondità di immersione di 75 m. Negli anni trenta la Franco Tosi fornì i macchinari necessari (turbine, motori Diesel, caldaie, ecc.) all'attivazione della Centrale Montemartini di Roma. Questa centrale fu il primo impianto pubblico di produzione elettrica della Capitale. Dopo la seconda guerra mondiale, per commercializzare a livello mondiale le turbine nel campo nucleare e i generatori di vapore, la Franco Tosi iniziò a collaborare, rispettivamente, con le aziende americane "Westinghouse Electric Corporation" e "Combustion Engineering Company". In particolare la Franco Tosi divenne licenziataria per l'Italia delle centrali nucleari PWR (Pressurized Water Reactor) e delle turbine Westinghouse. Negli anni settanta, nel periodo di maggior sviluppo, l'azienda metalmeccanica legnanese impiegava circa 6.000 lavoratori. La crisi iniziò nella seconda parte degli anni ottanta a causa del referendum sulla localizzazione delle centrali nucleari in Italia, che portò a un vistoso calo degli ordini dei componenti per questo tipi di impianti. Negli anni novanta il controllo della società passerà all'Ansaldo.
Nel primo cinquantennio del 1900 l'industria meccanica italiana è stata attraversata da due importanti cicli economici, entrambi legati alle vicissitudini dei due conflitti mondiali. Agli inizi del Novecento si registrò un rapido incremento della produzione, determinato in modo particolare dalla corsa agli armamenti e sfociato nella prima guerra mondiale. Questo periodo di relativa crescita, condiviso anche dal settore dei trasporti per ferrovia e delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche, si esaurì con la fine della guerra. In molti casi apparve evidente che lo sviluppo della nuova industria, soprattutto quella bellica, era stato ottenuto in parte senza badare alla struttura dei costi. Esisteva inoltre il problema della riconversione dell'industria bellica in industria di pace, il tutto aggravato dalle non favorevoli condizioni congiunturali in cui si trovava il paese in quel periodo. La chiusura di grosse industrie, così come lo scandalo della Banca Italiana di Sconto nel 1921, segnarono uno dei periodi peggiori attraversati dal settore. Tuttavia, durante gli anni Venti l'industria meccanica italiana seppe riorganizzarsi, riuscendo a soddisfare i bisogni della nazione.
La leggera ripresa di questo periodo fu decisamente ribaltata con la crisi mondiale del 1929. Negli anni 1929-33 l'i. m. italiana fece segnare una contrazione del volume di produzione di circa il 33%, seguita da una ancor più drastica contrazione delle esportazioni (-71%). Negli anni 1929-34 i valori delle importazioni di manufatti e semilavorati scesero rispettivamente del 57% e del 65%. È in questo periodo (1933) che viene creato l'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Esauritasi la fase della grande crisi, l'industria meccanica italiana dovette affrontare il problema delle sanzioni economiche e dell'autarchia imposta dal regime fascista. Negli stessi anni il settore fu impegnato su due diversi fronti. Da un lato fu necessario produrre i beni non più importabili, dall'altro far fronte alla nuova corsa agli armamenti che si era scatenata nei paesi europei. Il periodo di crescita si ebbe dal 1934 al 1937, anno in cui potevano considerarsi concluse, sul fronte della produzione bellica, la corsa agli armamenti, e su quello della produzione civile, la valorizzazione dei territori conquistati dall'Impero.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l'industria meccanica aliana aveva raggiunto un grado di sviluppo tale da sopperire ampiamente al fabbisogno interno di prodotti meccanici e da alimentare un apprezzabile flusso di esportazioni. Dal lato qualitativo la situazione non sempre poteva definirsi positiva: gli anni delle sanzioni (dal 1935) e la successiva politica dell'autarchia avevano tagliato fuori per lungo tempo alcuni settori dalla competizione con gli altri paesi. Se da un lato ciò aveva in parte assicurato ''rendite di posizione'', dall'altro aveva comportato un veloce processo d'invecchiamento del patrimonio tecnologico e del know how.
Nel periodo 1939-43 si ebbe un rapido incremento della produzione dell'industria meccanica, mentre la produzione industriale complessiva diminuì sensibilmente. Gli anni 1944-48 videro, invece, un rapido declino di tutte le produzioni, dovuto all'impossibilità di ottenere rifornimenti di materie prime e semilavorati, alla situazione di grave prostrazione in cui la guerra aveva gettato il paese e alla necessità di riconvertire a scopi civili molte industrie belliche. Dopo il 1948, la produzione dell'industria meccanica italiana cominciò a risalire, facendo anche segnare un discreto livello delle esportazioni nei settori delle macchine per ufficio, della ferramenta e dei derivati da vergella.
La produzione totale nel 1948 era pari a 550 miliardi di lire del 1950 e rappresentava circa il 15% della produzione totale dell'industria italiana. Sempre con riferimento ai valori del 1950, nel 1948 le esportazioni erano pari a 125 miliardi, segnando un incremento del 290% rispetto al 1938. Le esportazioni meccaniche rappresentavano oltre il 21% del valore totale delle esportazioni italiane. La maggior parte degli stabilimenti era concentrata al Nord (88%), mentre al Centro e al Sud era localizzato, rispettivamente, solo il 7 e il 5%. In particolare, le industrie del Nord erano concentrate nel Piemonte, nella Liguria e nella Lombardia. Nel 1948 l'IRI costituì la Finmeccanica, che riuniva tutte le partecipazioni statali nel settore dell'industria meccanica.
A partire dal 1950 l'andamento dell'economia italiana fu caratterizzato da fasi cicliche della produzione e degli investimenti particolarmente marcate. In questi ultimi 40 anni è possibile individuare due periodi ben distinti: nel primo periodo, durato fino al 1970, la produzione dei settori meccanici ha seguito sostanzialmente la tendenza della produzione del settore industriale nel suo complesso, accentuandone il comportamento congiunturale con tassi d'incremento più alti nelle fasi di ripresa e più bassi in quelle di recessione. Nel corso dell'ultimo ventennio, invece, non si sono riscontrate fasi cicliche altrettanto marcate e inoltre l'andamento del settore meccanico si è meno discostato da quello dell'intero settore industriale.
In particolare, a partire dal 1970, l'industria metalmeccanica ha rafforzato in Italia il suo ruolo di asse portante di tutto il settore industriale, anche se si è trovata a dover affrontare i problemi causati dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1978. Il problema principale dell'industria è stato quello della riconversione delle tecniche di produzione e degli impianti. Infatti i vecchi impianti erano stati progettati per lavorare con ampie disponibilità di energia a basso prezzo. Esistevano, poi, altri fattori che rendevano ancor più difficile il problema della riconversione: l'incertezza dell'evoluzione dei prezzi dell'energia, la mancanza di tecnologie adeguate e la necessità di cambiare la combinazione tra i fattori della produzione.
In questo clima, la tendenza generalizzata è stata quella di ridurre drasticamente gli investimenti: in particolare, nel periodo 1970-76, in presenza di un tasso di crescita del prodotto lordo del 5,3% annuo per il settore dei "minerali e metalli ferrosi e non", gli investimenti totali hanno registrato un decremento di -1,4% all'anno. Analogamente, il settore delle "macchine di precisione e per ufficio" ha registrato una crescita della produzione media annua dell'11,3% e una caduta degli investimenti totali di -6,8% all'anno. Gli unici settori nei quali si è riscontrata una dinamica positiva degli investimenti sono stati quello delle "macchine e forniture elettriche" con il 2,2% all'anno e quello dei "prodotti in metallo escluse macchine e mezzi di trasporto" con il 2,6% all'anno.
Le aziende meccaniche che meglio hanno superato questo periodo di crisi e hanno saputo ristrutturarsi sono state quelle che hanno richiesto bassi investimenti, spesso finanziabili direttamente attraverso capitale proprio. Purtroppo, però, in queste condizioni il riaggiustamento ha avuto un contenuto tecnologico molto limitato. Nel lungo periodo ciò ha determinato un'accresciuta specializzazione internazionale del paese nelle produzioni a basso contenuto tecnologico, e una più elevata dipendenza dalle importazioni di prodotti con maggiore tecnologia.
Tra il 1978 e il 1981 l'industria meccanica è stata caratterizzata dal fenomeno della deverticalizzazione, attraverso la quale molte imprese sono riuscite a ridurre i fabbisogni per investimenti, che le avevano costrette a rimanere su produzioni a bassa intensità tecnologica. Il trasferimento di quote di produzione verso imprese esterne ha raggiunto valori medi del settore oscillanti intorno al 15% negli anni 1979-84. Tuttavia, all'interno del comparto "meccanica" singoli settori hanno assunto comportamenti molto diversi: si è passati dal 31% circa del settore "mezzi di trasporto" al 3% circa del settore "impianti".
La deverticalizzazione ha reso il processo di produzione delle imprese del comparto "meccanica" molto più flessibile e potenzialmente più efficiente, permettendogli di fornire, al tempo stesso, una vasta gamma di prodotti più qualificati e innovativi. Tuttavia, essa ha generato un maggior ricorso all'importazione di beni intermedi e componenti, oltre che di taluni beni finali d'investimento. Un tale risultato farebbe propendere per l'ipotesi secondo cui il comparto meccanico italiano si sarebbe ricollocato in segmenti del ciclo produttivo che richiedono una maggiore manodopera specializzata ritirandosi allo stesso tempo da quelle produzioni di base, quali i componenti elettronici, in cui l'innovazione tecnologica richiede grossi sforzi, che non possono essere sopportati da una miriade di piccole e medie imprese. Tale processo di ricomposizione dell'industria meccanica italiana si è concluso verso la fine dei primi anni Ottanta, periodo in cui gli investimenti effettuati dalle grandi imprese si sono ridotti ancora di più di quanto non si era registrato nel ciclo di ristrutturazione. Al contrario, per le piccole e medie imprese gli investimenti sono cresciuti.
Con l'inizio degli anni Ottanta è ripreso il processo di crescita degli investimenti che è tornato a essere in favore delle grandi imprese. D'altra parte, il nuovo flusso di investimenti non è finalizzato solo all'aumento della capacità produttiva, ma tende soprattutto a migliorare la produttività del capitale e del lavoro. In tal senso, le imprese che sono riuscite a crescere in questo periodo sono quelle che hanno guardato all'innovazione, sia di prodotto che di processo.
Nel primo caso si è conseguito l'aumento della redditività attraverso un aumento del prezzo unitario del prodotto piuttosto che mediante una riduzione dei costi; nel secondo la redditività è aumentata attraverso la riduzione della forza lavoro. Il settore meccanico si qualifica per il buon livello della propria redditività che, sia come margine di profitto unitario lordo, sia in termini di redditività globale del capitale investito, si pone sistematicamente sui livelli più elevati dell'industria manifatturiera. Nel 1984 la redditività del capitale nel settore meccanico è stata del 7,1% contro il 5,5% dell'industria manifatturiera.
Anche il grado di autofinanziamento delle imprese meccaniche è risultato buono durante gli anni ottanta, pari a circa il 10% contro il 5,4 dell'intero settore manifatturiero. Tuttavia, l'elevata incidenza del capitale circolante ha costretto le imprese del settore a indebitarsi in misura cospicua soprattutto a breve termine. Tale fattore, unitamente alla lunghezza del ciclo produttivo, alla presenza preponderante di lavorazioni su commessa e all'elevato valore unitario dei prodotti, ha costituito un vincolo strutturale alla possibilità di contenimento del capitale di esercizio, rendendo delicata la gestione della liquidità, soprattutto in periodi di forte dinamica inflazionistica.
Segnali ancora più netti di difficoltà si sono riscontrati all'avvio del nuovo decennio. Il rallentamento dell'attività economica italiana che, manifestatosi sul finire del 1990, si è andato via via consolidando, non poteva non riflettersi anche sul comparto della meccanica complessivamente considerata. Nel 1992, infatti, il settore ha presentato un calo dei livelli produttivi, dovuto in parte alla debole domanda interna, e ciò a causa della riduzione degli investimenti nella maggioranza dei settori utilizzatori. Il minor grado di utilizzo degli impianti dev'essere ascritto, quindi, alle flessioni produttive, anche perché non sono stati operati adeguati investimenti volti ad aumentare la capacità produttiva.
Sul fronte dei prezzi e dei costi la peculiarità del prodotto offerto ha comunque permesso ai prezzi di recuperare integralmente la dinamica dei costi: il settore meccanico ha realizzato pertanto nel 1992 margini lordi unitari crescenti. Il concorso di tali andamenti spiega anche la flessione (avviatasi già nel 1991) della forza lavoro occupata (-4% circa). La riduzione dei livelli occupazionali è stata realizzata attraverso licenziamenti, prepensionamenti e aumento del numero di ore di CIG (Cassa Integrazione Guadagni).
L'aspetto di maggiore evidenza risiede, in sostanza, nella maggiore difficoltà per il settore di mantenere le posizioni sui mercati esteri, causando con ciò un significativo peggioramento del quadro degli scambi con l'estero, nell'ambito del quale, nel 1991, si osserva una maggiore propensione delle imprese meccaniche a investire in prodotti esteri rispetto a quelli nazionali (le importazioni, infatti, sono cresciute a un ritmo più sostenuto rispetto a quello delle esportazioni): il saldo commerciale attivo è così sceso a 8.329 miliardi di lire rispetto agli 11.516 dell'anno precedente. Pesa su questa situazione il gap di competitività rispetto ai nostri più diretti concorrenti - Germania, Stati Uniti e Giappone - nonché la particolare natura della fascia di collocazione dei nostri prodotti, stretta com'è tra prodotti di elevata qualità e prodotti meno redditizi, ma con basso costo del lavoro.
Non va tralasciato, però, che attraverso imponenti processi di riconversione e di ristrutturazione l'industria meccanica italiana, soprattutto nei suoi segmenti più avanzati (robotica e automazione), ha saputo acquisire, nel tempo, un'eccellente posizione nella qualità dell'offerta. Auspicabilmente, tale situazione dovrà essere sfruttata al massimo nell'immediato futuro, e ciò soprattutto per conquistare ampi spazi di presenza nelle nascenti economie di mercato dei paesi dell'Est europeo e nellle produzioni di nicchia ad alto valore di innovazione e di crreatività.

Eugenio Caruso - 3 aprile 2018

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www.impresaoggi.com