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Il primo canto dell'inferno dantesco

Dante Inferno Canto I. Qualche giorno fa durante una riunione conviviale un giovane un po' narcisista iniziò a recitare il primo canto della Divina Commedia tra le adulazioni dei presenti. Io che mi diverto, a volte, a fare il rompiscatole gli chiesi che cosa rappresentava la selva oscura e cosa il colle. Con mia sorpresa capii che per tutti la selva era un bosco e il colle un colle. Considerando che Inpresa Oggi vuole essere, anche, uno strumento di cultura ritengo interessante descrivere questo primo canto e ricordare che tutta la Commedia è un insiene di allegorie. I commenti che farò di tutti i canti saranno un po' fuori degli schemi classici.

Il Canto I fa da prologo a tutto il poema, non al solo inferno. Poichè infatti a ogni cantica sono assegnati 33 canti, questo iniziale resta fuori dal computo, e porta così il numero complessivo a 100 compiendo quella perfetta armonia fondata sul numero 3 più uno, che è alla base della struttura compositiva della Commedia. In questo primo canto siamo ancora fuori dell'oltremondo, e si estende ai nostri occhi un paesaggio, una selva, una piaggia, un colle, che è figura della vicenda dell'uomo espressa con simboli tradizionali e subito riconoscibili: dalla tenebra alla luce, dal male al bene, dal dolore alla felicità. Ma in questo paesaggio simbolico cammina un uomo reale e concreto, con un'età definita, in un'età definita, che si spaventa e trema e chiede aiuto, e che incontra un altro un personaggio storico descritto da luoghi geografici e nomi storici. E' questa la novità della Commedia che porta la presenza storica in tutta la sua concretezza e ci racconta la vicenda umana non per figure astratte, ma per singole, reali persone, con tutte le sfumature, gli accadimenti e le grandezze e le debolezze che di esse sono proprie.

La selva "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita."
Nel primo verso della Divina Commedia, Dante pone l'accento su come la sua sia un'esperienza universale ed epica usando l'aggettivo nostra invece di mia. Per Dante la metà della vita di un individuo sono i trentacinque anni, poiché riteneva l'età media di un uomo essere di 70 anni (lo scrisse nel Convivio). La data di questo viaggio è storica, come si deduce da più luoghi della Commedia che fissano al 1300 (Dante era nato nel 1265) e precisamente il venerdì santo di quell'anno è l'inizio del cammino. Egli "parte" infatti nel 1300, anno altamente simbolico, nel quale si svolse il primo giubileo; anno certo non scelto a caso per il viaggio di conversione e di salvezza. Inoltre la parola cammin introduce già il tema del viaggio che il poema tratta.
Il primo verso riecheggia un passo biblico del profeta Isaia (38,10): “Io pensavo: nel mezzo dei miei giorni me ne andrò, alle porte degli inferi sarò trattenuto per il resto dei miei anni, non vedrò più il signore nella terra dei vivi”. L'idea della vita come cammino (che ha quindi un suo fine) riempie questo primo verso. Il concetto era già stato sviluppato in un passo del Convivio, dove si ritrova una parte del primo verso "così l'anima nostra, incontanente che nel novo e non mai fatto cammino di questa entra ..." è questo il cammino verso il bene, che l'uomo "perde per errore come le strade della terra " (Conv IV, XII 15-8).
L'azione inizia in medias res. Ciò permette a Dante di evitare alcuni punti "scomodi" della narrazione, durante i quali finge di non ricordare le cose, sviene o è comunque assente a livello intellettivo, anche se fisicamente c'è sempre. Il poeta si è smarrito in una selva oscura, secondo il senso allegorico in un momento difficile della sua vita e più in generale nella selva del peccato o dell'errore. Dante indica nella selva un reale periodo di traviamento della sua vita, ma, allo stesso tempo vuole che essa raffiguri il generale sbandamento dell'umanità. Infatti, la selva oscura rappresenta la perdizione e l'errore così come recita la favolistica popolare. Dante la usa anche nel Convivio "la selva erronea di questa vita". D'altra parte, nell'ambito letterario, la selva si ritrova nell'Eneide all'entrata dell'Averno virgiliano e all'inizio del Tesoretto di Brunetto Latini. Essa significa uno stato di peccato; la selva è infatti oscura perchè non vi splende il Sole, segno del bene e di Dio.
La diritta via invece rappresenta chiaramente la rettitudine: Pietro di Dante ha interpretato questa espressione osservando che; "l'origine dell'anima è il cielo, e l'anima desidera tornare alla sua origine, cioè a Dio; altrimenti devia dalla diritta via , cosa che l'uomo può fare grazie al libero arbitrio".Ma la retta via è solo smarrita e non perduta perchè può essere ritrovata "questa via si smarrisce ... perchè chi vuole la può ritrovare, mentre nella presente vita stiamo" (Boccaccio).
E che dolore, che paura, è per il Dante-narratore ricordare la "durezza" delle selva selvaggia, intricata e ostile. Questa selva (ovvero il peccato) era così amara che la morte (intesa come la dannazione) è solo di poco peggiore; ma per poter parlare del bene che il poeta vi incontrò (e cioè la salvezza, che giunge con Virgilio) e così poter indicare a tutti la via di tale salvezza egli si appresta di buon grado a rivivere quell'esperienza.
Dante non ricorda bene come ha fatto a smarrirsi, a causa di un torpore dei sensi che gli fece perdere la verace via (anche qui è chiaro il senso allegorico; dice il Boccaccio "è il sonno mentale dell'anima", ma anche nella Bibbia il sonno è usato spesso come figura del peccato).

Come già detto, anche nell'Eneide, Enea, all'ingresso del Tartaro, deve attraversare un luogo solitario e tenebroso sede di tutti i mali dell'uomo: "Andavano oscuri nella notte solitaria attraverso le tenebre e le vuote case di Dite e i regni delle ombre vane come è il cammino nelle selve al debole lume dell'incerta luna quando Giove nasconde il cielo nell'ombra e la nera notte toglie il colore alle cose. Proprio davanti al vestibolo e sul primo ingresso dell'Orco, hanno il loro giaciglio il Lutto e gli Affanni vendicatori e vi abitano le pallide Malattie, la triste Vecchiaia, la Paura e la Fame cattiva consigliera, la turpe Miseria, fantasmi terribili a vedersi, la Morte e il Dolore; quindi il Sonno, fratello della Morte, e i malvagi Piaceri dell'animo e sull'opposta soglia la Guerra portatrice di morte, i letti di ferro delle Eumenidi, la pazza Discordia coi capelli di vipere cinti con bende sanguinanti".

Il colle illuminato dal sole
A un certo punto Dante arriva ai piedi di un colle, dove termina la selva, dietro il quale sta sorgendo il sole, che calma un po' la sua inquietudine. La luce simboleggia la Grazia divina, che illumina il cammino umano, quindi il colle è una via di salvezza, da alcuni interpretato come la felicità terrena alla quale ogni uomo tende naturalmente. Dante crede di poter raggiungere il colle con le sue forze e inizia a passargli quella paura che aveva colmato il suo cuore nella notte passata con tanta piéta, con tanto dolore. I versi danteschi (...al piè di un colle giunto....guardai in alto....Allor fu la paura un poco queta che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta piéta.) richiamano quelli di un salmo biblico (CXX, 1). "Alzai i miei occhi verso un monte dal quale mi verrà il soccorso". La prima similitudine del poema è proprio dedicata a questo senso di sollievo: come colui che, scampato da annegamento arriva con fatica alla riva marina e si guarda indietro per rivedere quell'acqua perigliosa (anche qui l'allegoria tra l'acqua perigliosa e il mare del peccato), così Dante si gira per vedere lo passo che non lasciò già mai persona viva. Quest'ultimo passaggio è un po' oscuro perché è ambiguo; i primi commentatori intesero che nessuno è immune dal peccato e che nessuno può uscirne senza la luce della Grazia divina, oppure che la vita peccaminosa (la selva) finisce sempre per uccidere chi vi s'indugia. Non è raro trovare nella Commedia passi di difficile interpretazione, come vedremo in seguito.
Dante si riposa un po' e riparte sì che'l pié fermo sempre era 'l più basso; un'interpretazione di questo verso è che il piede perno fosse più in basso rispetto a quello che avanza, perchè impegnato in una salita. Questa interpretazione è a mio avviso sbagliata; dal punto di vista fisico il piede di appoggio può essere anche quello più alto, specie se si sale. Come sembra errato qualsiasi legame con la camminata, veloce oppure lenta. Pietro da Dante dà un'altra spiegazione a questo verso; egli sostiene "Come il corpo ha due piedi, così anche l'anima, con i quali essa va verso il bene o verso il male. Il piede più basso, e più saldo, rappresenterebbe il legame con le cose terrene che ancora aggrava Dante, mentre quello che avanzava è ancora incerto ed esitante". L'ipotesi che Dante fosse ancora legato alle cose terrene è avvalorato dal fatto che subito dopo incontra le tre fiere simboli di attaccamento a stimoli terreni; all'inizio della terzina Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, quel ed ecco sembra proprio significare che il discorso riprende dove era stato lasciato nella terzina precedente; inoltre Dante ci dice che solo ora inizia la salita.
La salita è appena iniziata, quando appare una lonza leggera e molto veloce, coperta da una pelliccia maculata, che non si vuole togliere davanti a Dante, anzi lo ricaccia indietro, Dante spaventato, con bisticcio di parole tramite balbettamento mostra esitazione (e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto). La lonza, così come gli altri animali che seguiranno, sono simboli di virtù o debolezze specifici, secondo le indicazioni dei bestiari medievali, e in questo caso gli antichi commentatori sono tutti concordi nell'indicarla come simbolo di lussuria.
Dante non dice se questa lonza si avvicini o scappi, ma inserisce uno stacco sull'ora: è il tempo del mattino nel quale il sole sale con quelle stelle (quella costellazione) che erano con Dio al momento della Creazione: la prima costellazione dello zodiaco è l'ariete, quindi è il periodo dell'equinozio di primavera, momento propizio dell'anno che fa sperare a Dante di poter evitare quella fiera a la gaetta pelle, cioè maculata.
Ma la speranza è subito cancellata dall'apparizione di un leone, che pare andare incontro a Dante con la testa alta e con rabbiosa fame, di tale impeto che pareva che l'aere ne tremesse. Il leone viene indicato come simbolo di superbia.
Subito appare anche una lupa, carica nei segni del corpo e nella magrezza di tutta la sua bramosia. Essa avrebbe secondo Dante reso infelice la vita di molte altre genti e gli si avvicina con aspetto talmente spaventoso che Dante perde tutta la speranza di raggiungere il colle, mi dette tanta gravezza (pesantezza) da non riuscire più a salire. Che il peso del corpo e del peccato aggravi e tragga verso il basso l'anima, è immagine comune nella tradizione cristiana. La lupa è la bestia più pericolosa ed è indicata come simbolo di avidità (la Chiesa, che vuole sempre di più) - e non, come è erronea credenza, di avarizia; infatti, l'avarizia indica la tendenza a tenere per sé ciò che già si possiede; l'avidità indica la volontà di possedere un bene in quantità sempre maggiore. L'attaccamento ai beni mondani è il peccato più radicato nell'uomo e il più difficile da superare. Dante, come un commerciante che acquista finché non perde tutto, si sente adesso triste e sconfortato . La lupa si avvicina a poco a poco e respinge Dante dove 'l sol tace, cioè nella selva del peccato. La forza del peccato di avidità è tale che può spingere, facilmente, l'essere umano a tornare nelle tenebre del peccato.

canto 1
Dante spaventato dalle tre fiere

Evidentemente Dante ha attinto l'idea delle fiere da un passo biblico del profeta Geremia (V, 6): "Per questo li azzanna il leone della foresta, il lupo delle steppe ne fa scempio, il leopardo sta in agguato vicino alle loro città: quanti escono saranno sbranati, perché si sono moltiplicati i loro peccati, sono aumentate le loro ribellioni."
Riassumendo, nel primo canto lo spazio è presentato secondo la contrapposizione basso-alto (valle-colle), a cui corrisponde l'antitesi buio-luce di origine biblica: essa indica l'eterna lotta fra il bene e il male, tra il peccato e la grazia, infatti rimanda alle parole evangeliche di Gesù: "Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre". (Giovanni, 12). L'opposizione spaziale è anche indicatrice della gerarchia morale peccato-salvezza: la selva oscura è collocata in basso loco, rispetto al colle che è posto in alto ed è illuminato; è priva di luce in quanto non è illuminata dal sole che mena dritto altrui per ogni calle.

Apparizione di Virgilio
Mentre Dante non solo torna indietro, ma rovina, cioè precipita ripiombando nella selva del peccato, improvvisa ecco un'apparizione: qualcuno, che sembra fioco per essere stato a lungo in silenzio, chi per lungo silenzio parea fioco, la lettura è comprensibile solo in funzione dell'allegoria; in realtà che un uomo emerso da secoli di silenzio sembri non aver fiato per parlare è una figurazione che ha una sua comprensibilità, così come si può interpretare che la voce della ragione, rappresentata da Virgilio, sia rimasta a lungo muta nell'uomo smarrito nel peccato; questo verso è oscuro anche perchè Dante non sa, ancora, che quell'apparizione è Virgilio.
Dante impaurito gli chiede misericordia, che sia ombra, cioè anima trapassata, oppure omo certo, cioè vivo.
La figura risponde: "Non sono un uomo, ma uomo fui"; e, come per presentare un biglietto da visita, specifica che i suoi genitori furono lombardi, anzi mantovani entrambi; e che nacque al tempo di Giulio Cesare, anche se non lo vide (ancor che fosse tardi), e visse sotto il buon Augusto al tempo del paganesimo (degli dei falsi e bugiardi - questi aggettivi danno una natura antropomorfica alle divinità pagane e ritengo che sia un errore). La Lombardia indicava nel Medioevo tutta l'Italia settentrionale in genere; al tempo di Virgilio tale denominazione non esisteva ma Dante gli fa usare questo termine senza preoccuparsi dell'anacronismo, oppure commette un errore storico. E' interessante notare che per citare Enea lo definisce " quel giusto figliuol d’Anchise", come all'inizio del secondo canto lo chiamerà "di Silvio il parente"; sembra un atteggiamento di ritrosia nel nominare il nome del grande eroe troiano.
"Poeta fui e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise (per Virgilio Enea è il più giusto tra gli uomini) che venne da Troia dopo che la superba Ilion (che rappresenta la rocca della città) venne incendiata". Poi Virgilio fa una domanda direttamente a Dante: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? (inteso come dolore, angoscia, peccato) / perché non sali il dilettoso monte / ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
In questa parte il Canto assume un tono colloquiale come se ne incontreranno parecchi; ("tu sei quel Virgilio che ha fatto da faro per molti poeti, io stesso ti ho scelto come guida. Ho letto attentamente tutta la tua opera e ti considero mio maestro e la massima autorità in fatto di saggezza. Vedi qulla lupa che mi spaventa, ti prego aiutami". Virgilio: " Se vuoi salvarti a te conviene seguire un'altra strada perchè quella lupa non lascia passare nessuno di qui e chi lo tenta viene ucciso. La bestia ha sempre fame e dopo aver mangiato ha più fame di prima e ha molti seguaci. Solo quando arriverà il veltro questi la ricaccerà nell'inferno dal quale Lucifero l'ha fatta uscire. Il veltro sarà la salvezza dell'Italia per la quale si sono gia sacrificati, tra gli altri, Camilla, Eurialo, Niso e Turno; egli sarà esempio di sapienza, amore e virtù. Se vorrai salvarti potrai seguirmi e ti condurrò nell'Inferno e nel Purgatorio e poi, un'anima più degna di me ti accompagnerà nel Paradiso perchè a me non è consentito entrare in questo luogo destinato alle genti beate e felici ». Dante "Poeta, per salvarmi da quella fiera ti prego accompagnami attraverso l'Inferno e il Purgatorio fino alla porta del Paradiso".).
Dante ha riconosciuto il suo maestro e lo chiama per nome, vergognandosi un po': (parafrasi) "Sei tu quel Virgilio e quella la fonte di tanto parlare che è come un fiume in piena? Tu che sei l'onore e il lume degli altri poeti, fa' che mi faccia premio il lungo studio e il grande amore che ho avuto per la tua opera: tu sei il mio maestro e il mio autore (autorità), sei l'unico dal quale presi quel bello stile (poetico) che mi ha reso onore."
Dopo essersi raccomandato così animatamente, Dante chiede al famoso saggio se può aiutarlo con quella bestia che lo ha fatto tornare indietro e che gli fa tremare le vene e i polsi. (questa espressione come altre che vedremo in seguito sono entrate nel linguaggio comune. "questa avventura mi fa tremare le vene e i polsi"). Virgilio allora indica a Dante, che ha iniziato a piangere, come a lui convenga iniziare un altro viaggio per uscire da questo luogo, perché la lupa non lascia passare nessuno ma anzi arriva a uccidere chi tenta di passare a causa della sua natura malvagia: essa non soddisfa mai la sua bramosa fame e, anzi, dopo aver mangiato è più affamata di prima; molti sono gli uomini (molti son gli animali a cui s'ammoglia) che si fanno vincere dalla cupidigia (che la cupidigia lega a sé) e saranno ancora molti, fino alla venuta di un salvatore (il veltro) che ucciderà la lupa con dolore.
Il fatto che Dante chiami quest'animale lupa e non lupo potrebbe essere indice di come egli volesse forse alludere anche alla lupa capitolina, cioè a Roma, sede del papato corrotto. Dante sceglie come sua guida Virgilio per diversi motivi:
- nella quarta bucolica Virgilio aveva cantato la nascita di un puer che avrebbe riportato nel mondo l'età dell'oro (secondo l'interpretazione in chiave allegorica della classicità vigente nel Medioevo, Virgilio era ritenuto uno spirito profetico per aver preannunciato la nascita di Cristo);
- Virgilio nel Medioevo è considerato il simbolo della ragione che non ha ancora conosciuto la pienezza della rivelazione cristiana. Egli è pertanto in grado di condurre Dante per l'Inferno e per il Purgatorio, ma non per il Paradiso (sarà necessaria Beatrice-teologia);
- Virgilio aveva celebrato l'impero di Augusto, archetipo e realizzazione provvidenziale dell'ideale di impero universale che Dante aveva esaltato nel De Monarchia come la soluzione al degrado morale e politico dell'Italia e dell'Europa (Dante deplorava infatti il fatto che, dopo Federico II, fosse assente una figura imperiale);
- Virgilio aveva narrato la discesa di Enea negli Inferi, e sarebbe quindi stato un ottimo maestro nel viaggio nei regni ultraterreni (lo stesso Dante nel secondo canto dell'Inferno si inserirà tra la schiera di personaggi illustri scesi secondo la tradizione agli Inferi, cioè Enea e San Paolo).

Profezia del veltro
Stava dicendo Virgilio quindi che la lupa vivrà indisturbata finché 'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. Il veltro, nel linguaggio dell'attività venatoria, è il cane da caccia (si confronti l'uso per esempio in Inferno, XIII v. 126): quindi Dante resta nell'allegoria animalesca e spiega che un cane farà finalmente morire dolorosamente questa lupa dell'avidità, cacciandola di città in città (villa qui è un francesismo), finché non l'avrà rimessa ne lo 'nferno da dove il primo invidioso (Lucifero, l'angelo ribelle) la fece uscire; là onde 'nvidia prima dipartilla. Secondo un'altra interpretazione filologica "prima" sta a significare: la prima volta, quindi il momento del peccato originale di Eva. L'assenza dell'articolo rende questa ipotesi più realistica rispetto a quella che identifica Lucifero come: 'nvidia prima'.
Su chi o cosa simboleggiasse questo veltro nessuno ha potuto ancora dare una spiegazione sicura e univoca e di fatto ciò resta uno dei celeberrimi enigmi del poema. Due terzine descrivono questo veltro come salvatore che non sarà cibato né dalle terre né dal denaro (peltro, inteso come metallo), ma da sapienza, amore e virtù; la sua nazione sarà tra feltro e feltro; e sarà la salvezza di quell'umile Italia per la quale morirono la vergine Camilla, Turno, Eurialo e Niso.
A parte gli ultimi due versi che citano l'Eneide, il significato degli attributi del veltro non è chiaro: il cibo del veltro sono le virtù spirituali che richiamano la Trinità e che potrebbero riferirsi o a un personaggio in particolare sia laico che religioso, o a un'entità presente o futura; la sua nascita sarà tra feltro e feltro cioè tra panni umili o tra tonache monastiche, o tra il feltro che si usava per foderare le urne per le elezioni dei magistrati? Oppure in senso geografico tra Feltre e Montefeltro, alludendo magari a Cangrande della Scala i cui territori si estendevano pressappoco tra quelle due località? O Arrigo VII? O Uguccione della Faggiuola? O il ritorno di Cristo?
La questione probabilmente non verrà mai svelata perché Dante qui usa un linguaggio particolarmente sibillino anche perché tra le tante profezie della Commedia questa è l'unica profezia "vera", che non consiste cioè in un fatto già avveratosi all'epoca in cui Dante scrisse il poema. Le dottrine profetiche al tempo di Dante si andavano diffondendo. In particolare si ricordano quelle del frate calabrese Gioacchino da Fiore. A mio avviso il veltro è una pura invenzione; Dante è ottimista e spera che venga in "Italia qualcuno a "sistemare le cose".

Il viaggio nell'oltretomba
Continuando nella risposta di Virgilio alle questioni di Dante, il poeta latino a questo punto consiglia Dante di seguirlo in un viaggio da lui guidato, attraverso il loco etterno (il regno dell'oltretomba, dove tutto è eterno, a differenza della fugacità del mondo dei vivi): nell'Inferno udirà le disperate grida e vedrà gli antichi spiriti dolenti che invocano la seconda morte (la morte dell'anima, l'annichilimento totale per fermare le loro sofferenze); nel Purgatorio vedrà coloro che sono contenti nei loro supplizi perché hanno la speranza di ascendere alle beate genti; nel Paradiso, se ci vorrà salire, ci sarà un'anima più degna di lui ad accompagnarlo, poiché l'imperatore dei cieli (Dio) non vuole che Virgilio vada per la sua città perché egli non è cristiano quindi fu ribelle alla sua legge. Dio infatti, prosegue Virgilio, impera dappertutto (nel linguaggio giuridico "ha giurisdizione") ma regge ("regna direttamente") in Paradiso e beato chi è eletto ad andarvi (Oh felice colui cu' ivi elegge!). Dante risponde che è d'accordo (io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch'io fugga questo male e peggio); per sfuggire al male della selva o al peggio della dannazione egli accetta di compiere il viaggio, in modo che possa vedere la porta di San Pietro e coloro che Virgilio dipinge così mestamente, cioè i dannati. Allora Virgilio parte e Dante gli "tiene dietro".

e 'l sol montava 'n su con quele stelle .... (suggerisco la lettura di questa nota ai soli appassionati di astronomia)

I versi di Inf. 1.37-40 pongono un interessante problema all'astronomo. Dicendo al lettore che il sole si trova con quelle stelle con cui già si trovò congiunto al momento della Creazione, Dante situa l'inizio del suo viaggio ultraterreno in un contesto cosmologico preciso, in cui il suo viaggio si riallaccia all'istante iniziale della vicenda umana. Quali sono dunque quelle stelle? Dovremmo poterlo indovinare ragionando come segue. La tradizione a cui Dante si collega vuole che il sole sia stato creato all'equinozio di Primavera: esso si trovava dunque all'inizio della costellazione e del segno, che in quel primo istante coincidevano, dell'Ariete. Al tempo di Dante, il fenomeno che noi chiamiamo precessione degli equinozi, e che il Poeta e i suoi contemporanei chiamavano moto dell'ottava sfera, aveva già separato costellazioni e segni, di modo che all'equinozio il sole non si sarebbe più trovato in compagnia delle stelle dell'Ariete. Sappiamo dal Convivio 2.5 che Dante attribuisce al movimento da occidente a oriente della sfera delle stelle fisse la velocità di un grado ogni cento anni. Se addizioniamo le informazioni che Dante stesso, per bocca del diavolo Malacoda prima (Inf. 21.112-114), e del padre Adamo poi (Par. 26.118-123), ci fornisce, scopriamo che il mondo fu creato 1266+5232=6498 anni prima del suo Viaggio; ne segue che il punto d'inizio dalla costellazione e quello del segno dell'Ariete si dovevano trovare ai suoi tempi separati di circa 6500/100=65 gradi sull'eclittica, di modo che il sole si sarebbe trovato in compagnia di quelle stelle all'incirca due mesi dopo l'equinozio, ossia attorno al 15 maggio, quando il Sole si trova nella costellazione del Toro. Ma la dichiarazione di Malacoda, che situa il viaggio all'anniversario della Passione, rende questa conclusione impossibile. Dobbiamo quindi ritenere che Dante abbia solo usato un'elaborata perifrasi per indicare genericamente la Primavera? Forse no. Secondo Adamo, Creazione e Crocifissione sono separate da 5232 anni. Poiché Cristo fu crocifisso a circa 33 anni, Creazione e Incarnazione sono separate da 5199 anni, come Eusebio insegna. Il numero 5200 è interessante per due motivi: è divisibile per 1300, e lo è un numero pari di volte. Dante immagina il Viaggio 1300 anni dopo l'Annunciazione, e 6500 è la metà di 13.000. Se ammettiamo che, come già sostenuto da Hollander, quel mezzo del cammin che apre la Commedia sia la metà di un Grande Anno di 13.000 anni solari, si può immaginare l'esistenza di 10 “periodi” di 1300 anni ciascuna. Leggiamo ora la Nuova Cronica di Giovanni Villani (Lib. 2 Cap.13): E la cagione perché oggi sono quelle terre della marina quasi disabitate e inferme, e eziandio Roma peggiorata, dicono gli grandi maestri di stronomia che ciò è per lo moto dell'ottava spera del cielo, che in ogni cento anni si muta uno grado verso il polo di settentrione, cioè tramontana, e così farà infino a XV gradi in MD anni, e poi tornerà adietro per simile modo, se fia piacere a Dio che 'l mondo duri tanto. Villani si riferisce qui a una particolare teoria sul movimento dell'ottava sfera, nota come la teoria dell'accesso e del recesso. Oggi noi sappiamo che la precessione degli equinozi è causata dal moto dell'asse terrestre durante la rotazione della terra, e che lo spostamento del punto equinoziale che ne consegue avviene sempre nello stesso senso rispetto alle costellazioni. Ma all'epoca di Dante, di questo spostamento se ne era osservata solo una frazione; e secondo le osservazioni, la velocità dell'ottava spera sembrava variare nel tempo. Da qui venne l'idea che il moto in questione potesse in realtà essere la composizione di un moto continuo e di uno oscillante (detto di accesso e recesso.), o ancora, che il punto equinoziale non facesse che oscillare, avanti e indietro. Il Villani sembra sottoscrivere a questa opinione, e descrivere un'oscillazione di 15 gradi in 1500 anni. Non è facile dire da dove il Villani derivi i suoi 15 gradi, o i 1500 anni. Si può però notare che Macrobio nel Commento al sogno di Scipione parla di un Grande Anno di 15.000 anni solari (Lib. II, Ch. 11). Se esista una relazione tra quest'ultimo e i 1500 anni del Villani, non è chiaro. Ma supponiamo che il Villani associasse una precessione oscillante a un Grande Anno di 15000 anni. Dante conosce la stima di Eusebio che valuta a 5199 anni il periodo tra Adamo e Cristo. Ecco che un'oscillazione di 13 gradi ogni 1300 anni, avrebbe riportato il sole all'equinozio all'epoca della nascita del Salvatore, e avrebbe situato il Viaggio proprio nel mezzo del cammin di un Grande Anno di 13.000 anni. Difatti, partiti in coincidenza, il segno dell'Ariete e la costellazione dello stesso nome si ritroverebbero a coincidere ad ogni oscillazione che avvenga dopo un multiplo pari di 1300 anni. La Creazione e l'Annunciazione, a 5200 anni di distanza, sarebbero dunque avvenute all'equinozio, con il sole che occupava la stessa posizione sull'eclittica. Se seguiamo questa logica, all'equinozio del 1300 il sole si troverebbe separato dalla distanza massima, 13 gradi, da quelle stelle con cui si trovò congiunto al momento della Creazione. Però, una fortuita coincidenza, che probabilmente non doveva apparire tale agli occhi di un uomo del XIV secolo, dovuta della deriva del calendario Giuliano, fa sì che l'equinozio di primavera cadesse nel '300 attorno al 12-13 marzo, cosicché il sole si veniva a trovare in compagnia delle stelle fatidiche precisamente al 25 di marzo, giorno anniversario della Creazione, dell'Annunciazione e della Crocifissione: e questa è proprio la data del viaggio dantesco, secondo Malacoda. Ma c'è di più. Dante potrebbe persino aver fatto menzione della precessione oscillante nella Commedia. Si confronti il seguito del brano succitato della Cronica: e per la detta mutazione del cielo è mutata la qualità della terra e dell'aria, e dov'era abitata e sana è oggi disabitata e inferma, et e converso, con le terzine di Par. 27.144-148: raggeran sì questi cerchi superni / che la fortuna che tanto s'aspetta / le poppe volgerà u' son le prore, / sì che la classe correrà diretta; / e vero frutto verrà dopo il fiore. Come non pensare che il “fortunale/fortunato evento” che invertirà la rotta della flotta (delle stelle?) e che è legato al “raggiare” delle sfere celesti, sia proprio l'inversione dell'oscillazione dell'ottava sfera, che riporterà un mondo “infermo” alla condizione primitiva in cui il fiore produce il vero frutto? Tanto più che “poppa” e “prora”, della Nave Argo, sono delle costellazioni, e che le terzine sono pronunciate da Beatrice nel cielo Empireo, che determina il moto dell'ottava sfera. A rinforzare questa interpretazione, si noti che il raggeran iniziale del verso 144 è una correzione, introdotta dal Petrocchi, di ruggeran, versione che si trova nei manoscritti, e che fu trovata normalissima dai commentatori per più di cinque secoli. Questa correzione, che tra l'altro viola la regola della lectio difficilior, dovette sembrare necessaria per rendere più comprensibile il testo. Rugit è però un termine comune a molti luoghi biblici in cui si evoca l'ira divina—a titolo d'esempio, basti Gioele 3:16: Dominus de Sion rugiet, et de Hierusalem dabit vocem suam, et movebuntur Coeli et Terra. Inoltre, e in maniera ancora più pertinente al testo dantesco, si osservi che Cicerone e il suo commentatore Macrobio, parlando dell'armonia delle sfere, riferiscono che il suono delle sfere celesti è così intenso e continuo che gli uomini ne sono assordati, proprio come gli abitanti della regione limitrofa a certe cataratte del Nilo che non fanno più caso al boato che ne proviene. Molti traduttori moderni utilizzano “ruggito” per tradurre l'espressione ciceroniana relativa al suono assordante. E Boccaccio, nel suo Commento alla Prima Cantica della Commedia (Lib.2 Cap.7) dice testualmente:" Ed acciò che voi intendiate che vuole dire questo canto del mondo, dovete sapere che fu oppinione di Pittagora e di altri filosafi che ciascun cielo di questi otto, cioè l'ottava spera e i sette de' sette pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire, qual più aguto e qual più grave, sì per divino artificio di debiti tempi misurati che, insieme concordando, facevano una soavissima melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual noi, per l'udirla continuo, non ci curiamo né vi riguardiamo.". Non solo correggere ruggeran in raggeran parrebbe a questo punto inutile e scorretto, ma il verbo dantesco, riferendosi chiaramente al fragore delle sfere celesti, descriverebbe perfettamente l'inversione di marcia, che separa le due fasi dell'oscillazione precessionale, l'accesso e il recesso. L'ipotesi che Dante si ispiri alla teoria dell'accesso e del recesso, insieme al restituito ruggeran sì questi cerchi superni, farebbe allora di Par. 27.144-148 una potentissima immagine dell'inversione di rotta dell'ottava sfera, e legherebbe in maniera naturale queste terzine alle numerose profezie di mutamento dei tempi che Dante associava agli anni attorno al 1300, 6500esimo anniversario della Creazione, e punto di mezzo dei 13 millenni del cammino dell'umanità.



Testo

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva
si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Iliòn fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perch‚ non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno,

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

PARAFRASI COMPLETA

A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi ritrovai in una oscura foresta, poiché avevo smarrito la giusta strada.

Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo pensiero fa tornare la paura.

(Rappresenta la foresta del peccato, dell'errore e, forse della depressione che aveva colpito il poeta)

È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per descrivere il bene che vi trovai (Virgilio) , dirò quali altre cose ho visto in essa.

Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta strada.

Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva riempito il cuore di paura, alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta strada.

(Seondo l'astronomia tolemaica il Sole era uno dei sette pianeti).

(La luce simboleggia la Grazia divina, che illumina il cammino umano, quindi il colle è una via di salvezza).

Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta angoscia.

E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da cui è scampato, così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò mai passar vivo nessun uomo.

Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale che il piede più saldo era sempre quello più basso.

(Come il corpo ha due piedi, così anche l'anima, con i quali essa va verso il bene o verso il male. Il piede più basso, e più saldo, rappresenterebbe il legame con le cose terrene che ancora aggrava Dante, mentre quello che avanzava è ancora incerto ed esitante.)

Ed ecco che apparve, quasi all'inizio della salita, una lonza snella e molto agile, ricoperta di pelo maculato; e non si allontanava di fronte a me, anzi, impediva a tal punto il mio cammino che io pensai più volte di tornare indietro.

Erano le prime ore del mattino, e il sole stava sorgendo insieme a quella costellazione (l'Ariete) che era con lui il giorno della Creazione; così l'ora del giorno e la stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata; ma non al punto che non mi desse paura la vista di un leone, che apparve subito dopo.

Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, al punto che persino l'aria sembrava tremare.

Ed ecco apparire una lupa, che nella sua magrezza sembra piena di tutti i desideri e spinse molte persone a vivere miseramente; questa mi procurò un tale sensoi di pensantezza, col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi la speranza di raggiungere la sommità del colle.

(La lupa è la bestia più pericolosa ed è indicata come simbolo di avidità e non, come è erronea credenza, di avarizia; infatti, l'avarizia indica la tendenza a tenere per sé ciò che già si possiede; l'avidità indica la volontà di possedere un bene in quantità sempre maggiore)

E come colui che acquista volentieri, e poi arriva il tempo in cui perde ogni cosa, per cui piange e si rattrista in ogni pensiero, così mi rese la belva senza pace, che venendo contro di me mi sospingeva poco a poco verso il basso, dove non c'era il sole e scemava la potenza della grazia.

Mentre io scivolavo a valle, apparve davanti ai miei occhi qualcuno che non riuscivo a vedere bene per la penombra.

Quando vidi costui in quel luogo deserto, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, anima o uomo in carne e ossa!»

Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di Mantova.

(Qui, il poeta commette l'errore di mettere in bocca a Virgilio un'espressioone -lombardi o italiani del nord- tipica dell'epoca di Dante)

(Anche la parola parenti per indicare i genitori è un latinismo che stona detta da Virgilio che parla latino)

Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani.

Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea) che fuggì da Troia dopo che Ilio (Troia) fu bruciato.

Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni felicità?»

«Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi.

«O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno spinto a leggere la tua opera!

Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui io trassi lo stile letterario che mi ha reso celebre.

Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei, famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue».

«Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo selvaggio.

Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo.

E ha un'indole così malvagia e malefica che non può mai soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame di prima.

Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la farà morire con dolore.

Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.

(A livello delle conoscenze attuali il veltro è figura allegorica e profetica, a mio avviso, puramente inventata.)

Sarà la salvezza di quell'umile Italia, per cui morirono in battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla.

Costui le darà la caccia per ogni città, finché l'avrà rimessa nell'Inferno da dove l'invidia (del demonio) la fece uscire per la prima volta.

Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per guidarti in un luogo dell'Oltretomba, dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali invoca la morte definitiva.

E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i penitenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di raggiungere i beati del Paradiso.

E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci sarà un'anima più degna di me per farti da guida: quando me ne andrò, ti lascerò con lei.

Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua legge (fui pagano).

Dio ha autorità in tutto l'Universo e in Paradiso governa; qui c'è la sua città e il suo altro trono; oh, felice colui che sceglie per risiedere in quel luogo!»

E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai conosciuto e affinché io fugga questo male e altri peggiori, ti chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto miseri».

Allora si mise in cammino, e io lo seguii.

VIRGILIO

Publio Virgilio Marone, noto semplicemente come Virgilio (Andes (Mantova), 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.), è stato un poeta romano, autore di tre opere, tra le più famose della letteratura latina: le Bucoliche (Bucolica), le Georgiche (Georgica), e l'Eneide (Aeneis). Al poeta vengono attribuiti anche una serie di componimenti giovanili, la cui autenticità è oggetto di dubbi e di complicate controversie, che si è soliti indicare in un'unica raccolta, nota col titolo di Appendix Vergiliana. Virgilio, per il senso sublime dell'arte e per l'influenza che esercitò nei secoli, fu il massimo poeta di Roma, nonché l'interprete più completo del grandioso momento storico che, dalla morte di Giulio Cesare, conduce alla fondazione del Principato e dell'Impero ad opera di Augusto. L'opera di Virgilio, presa a modello e studiata fin dall'antichità, ha avuto una profondissima influenza sulla letteratura e sugli autori occidentali, in particolare su Dante Alighieri e la sua Divina Commedia, nella quale Virgilio funge da guida dell'Inferno e del Purgatorio. Giova notare che la fama di Virgilio si dipanò non solo per le sue qualità artistiche, ma anche per le sue capacità divinatorie e magiche; basti pensare che a Napoli era considerato un dio. Pertanto Dante avrebbe dovuto escluderlo dal ruolo di guida nella Divina Commedia. Ma, l'ammirazione per l'opera di Virgilio ebbe il sopravvento sulle indubitabili caratteristiche magiche, profetiche e neopitagoriche del poeta latino.
Virgilio frequenta la scuola di grammatica a Cremona, poi la scuola di filosofia a Napoli e infine la scuola di retorica a Roma. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere. Inoltre nella capitale portò a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di Epidio, un maestro importante di quell'epoca. Lo studio dell'eloquenza doveva fare di lui un avvocato e aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L'oratoria di Epidio non era certo congeniale alla natura del mite Virgilio, riservato e timido, e dunque quantomai inadatto a parlare in pubblico. Infatti, nella sua prima causa come avvocato non riuscì nemmeno a parlare. In seguito a ciò Virgilio entrò in una crisi esistenziale che lo portò, non ancora trentenne, a spostarsi dopo il 42 a.C. a Napoli, per recarsi alla scuola dei filosofi Filodemo di Gadara e Sirone per apprendere i precetti di Epicuro.
Gli anni in cui Virgilio si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta di quest'ultimo a Farsalo (48 a.C.), poi l'uccisione di Cesare (44 a.C.) in una congiura, e la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall'altra, culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.) e infine lo scontro tra Ottaviano e Antonio, con le vittorie di Azio e Alessandria da parte di Ottaviano. Egli fu toccato direttamente da queste tragedie: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel mantovano ma sembra che, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo, Alfeno e lo stesso Augusto), Virgilio sia riuscito (almeno in un primo tempo) a evitare la confisca. Si spostò poi a Napoli.
Dopo il successo delle Bucoliche venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte del suo circolo, che raccoglieva molti letterati famosi dell'epoca. Il poeta frequentava le tenute che Mecenate possedeva in Campania nei pressi di Atella e in Sicilia. Grazie a Mecenate, Virgilio conobbe Augusto e collaborò alla diffusione della sua ideologia politica. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell'Impero e le sue opere poetiche furono introdotte nell'insegnamento scolastico da Quinto Cecilio Epirota ancor prima della sua morte, verso il 26 a.C. Virgilio morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un viaggio in Grecia, secondo i biografi per le conseguenze di un colpo di sole. Prima di morire, Virgilio raccomandò ai suoi compagni di studio Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto dell’Eneide, perché, per quanto l'avesse quasi terminata, non aveva fatto in tempo a rivederla: i due però consegnarono i manoscritti all'imperatore, e l'Eneide, anche se reca tuttora evidenti tracce di incompiutezza, divenne in breve il poema nazionale romano. I resti del grande poeta furono poi trasportati a Napoli, dove sono custoditi in un tumulo tuttora visibile, nel quartiere di Piedigrotta. L'urna che conteneva i suoi resti andò dispersa nel Medioevo. Sulla tomba fu posto il celebre epitaffio:
«Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces»
«Mi ha generato Mantova, il Salento mi rapì la vita, ora Napoli mi conserva; cantai pascoli [le Bucoliche], campagne [le Georgiche], comandanti [l'Eneide]»
Un primo gruppo di opere (noto dal Cinquecento come Appendix Vergiliana) sarebbe stato composto tra il 44 a.C. e il 38 a.C., tra Roma e Napoli, ma buona parte della critica moderna tende ad escludere la paternità virgiliana:
Alla spicciolata (Catalepton);
La focaccia (Moretum);
Epigrammi (Epigrammata): che comprendono le Rose (Rosae), Sì e no (Est et non), Uomo buono (Vir bonus), Elegiae in Maecenatis obitu, Hortulus, Il vino e Venere (De vino et Venere), Il livore (De livore), Il canto delle Sirene (De cantu Sirenarum), Il compleanno (De die natali), La fortuna (De fortuna), Orfeo (De Orpheo), Su sé stesso (De se ipso), Le età degli animali (De aetatibus animalium), Il gioco (De ludo), De Musarum inventis, Lo specchio (De speculo), Mira Vergilii experientia, Le quattro stagioni (De quattuor temporibus anni), La nascita del sole (De ortu solis), Le fatiche di Ercole (De Herculis laboribus), La lettera Y (De littera Y), ed I segni celesti (De signis caelestibus). L'ostessa (Copa) (solo secondo il biografo Servio);
Maledizioni (Dirae);
L'airone (Ciris);
La zanzara (Culex);
L'Etna (Aetna);
Storia romana (Res romanae), opera solo progettata e poi abbandonata.

Opere successive:
Bucoliche (Bucolica): composte tra il 42 e il 39 a.C. a Napoli, sono una raccolta di dieci componimenti detti "ecloghe" o "egloghe" di stile perlopiù bucolico. Le Bucoliche, che significa canti dei bovari, sono dunque costituite da dieci egloghe: la prima è un dialogo tra due contadini, Titiro e Melibeo. Melibeo è costretto ad abbandonare la sua casa e i campi, che diverranno la ricompensa di un soldato romano. Titiro invece può restare grazie all'influenza di un potente (forse Ottaviano, o un nobile della sua cerchia, come Asinio Pollione); la seconda egloga contiene il lamento d'amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovane Alessi; la terza egloga è una tenzone poetica fra due pastori, svolta in canti alternati detti amebèi; la quarta egloga è dedicata a Pollione ed è la celebre profezia circa la nascita di un puer il cui avvento rigenererà l'umanità; la quinta è il lamento per la morte di Dafni, il "principe dei pastori"; nella sesta il vecchio Sileno canta l'origine del mondo; nella settima Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori; l'ottava egloga contiene due canti d'amore ed è dedicata ad Asinio Pollione; la nona egloga è molto simile alla prima, ma vi si canta un esproprio di terre definitivo (i due protagonisti sono Lìcida e Meri) e la decima è dedicata a Gallo e ne celebra gli amori infelici. Varo, Gallo e Pollione furono tre potenti governatori della provincia Cisalpina presso cui il poeta aveva forse sperato di trovare favore per rientrare in possesso delle proprie terre perdute durante l'esproprio.
Georgiche (Georgica): composte a Napoli in sette anni (tra il 37 a.C. e il 30 a.C.) e suddivise in quattro libri. È un poema didascalico sul lavoro dei campi, sull'arboricoltura (in particolare della vite e dell'olivo), sull'allevamento e sull'apicoltura come metafora di un'ideale società umana. Ciascun libro presenta una digressione: il primo le guerre civili, il secondo la lode della vita agreste, il terzo la peste degli animali nel Norico, il quarto libro si conclude con la storia di Aristeo e delle sue api (questa digressione contiene la famosa favola di Orfeo e Euridice). Secondo il grammatico tardoantico Servio, nella prima stesura delle Georgiche, la conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto questi in disgrazia presso Augusto, Virgilio avrebbe concluso l'opera in modo diverso. L'opera fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi capolavori della letteratura latina e l'espressione più alta dell'autentica e vera poesia virgiliana.
Eneide (Aeneis): poema epico composto forse fra Napoli e Roma, in dieci anni (tra il 29 a.C. e il 19 a.C.) e suddiviso in dodici libri. Opera monumentale, considerata dai contemporanei alla stregua di un'Iliade latina, fu il libro ufficiale sacro all'ideologia del regime di Augusto sancendo l'origine e la natura divina del potere imperiale. Naturalmente il modello fu Omero. Essa narra la storia di Enea, esule da Ilio e fondatore della divina gens Iulia. Il poema rimase privo di revisione, e nonostante Virgilio prima di partire per l'Oriente ne avesse chiesto la distruzione e ne avesse vietato la diffusione in caso di sua morte, esso fu pubblicato per volere dell'imperatore.
La fama del poeta dopo la morte fu tale che egli fu considerato una divinità degna di ricevere onori, lodi, preghiere, e riti sacri. Già Silio Italico (appena un secolo dopo), che acquistò la villa e la tomba di Virgilio, istituì una celebrazione in memoria del mantovano nel suo giorno di nascita (le Idi di ottobre). In tal modo questa celebrazione si tramandò anno per anno nei primi secoli dell'era volgare, diventando un punto di riferimento importante soprattutto per il popolo napoletano che vide in Virgilio il suo secondo patrono e spirito protettore della città di Napoli, dopo la vergine Partenope. Ai suoi resti (cenere e ossa), conservati nel sepolcro da lui stesso concepito secondo forme e proporzioni pitagoriche, fu attribuito il potere di proteggere la città dalle invasioni e dalle calamità. Nonostante le divinità pagane venissero dimenticate, di Virgilio si mantenne comunque intatto il ricordo, e le sue opere furono interpretate cristianamente.
Egli divenne in particolare un simbolo dell'identità e della libertà politica di Napoli: fu per questo che nel XII secolo i conquistatori normanni, col consenso interessato della Chiesa di Roma, consentirono a un filosofo e negromante inglese di nome Ludowicus di profanare il sepolcro di Virgilio con lo scopo di rimuovere e asportare il vaso con le sue ossa, al fine di indebolire e sottomettere Napoli al potere normanno distruggendo l'oggetto di culto che era la base simbolica della sua autonomia. I resti di Virgilio furono salvati dalla popolazione che li trasferì all'interno di Castel dell'Ovo, ma in seguito vennero qui sotterrati e nascosti per sempre a opera dei Normanni. Da allora i napoletani ritennero che il potere protettivo del Poeta verso la città fosse vanificato.
Il ricordo di Virgilio però, soprattutto nel popolo napoletano, rimase sempre vivo. Alla fama di sapiente per la tradizione colta, con il tempo si affiancò quella di mago nella tradizione popolare, inteso come uomo che conosce i segreti della natura e ne fa uso a fin di bene. Di tale interpretazione ci resta un corpus basso-medievale di leggende che hanno come sfondo soprattutto le città di Roma e Napoli: ad esempio, tanto per citarne una, quella che lo vede costruttore del Castel dell'Ovo magicamente edificato sopra il guscio di un uovo magico di struzzo che si sarebbe rotto solo quando la fortezza fosse stata definitivamente espugnata, oppure quella che riguarda la creazione e l'occultamento sotterraneo di una specie di palladio (una riproduzione in miniatura della città di Napoli contenuta in una bottiglia vitrea dal collo finissimo) che per magia protesse la città dalle sciagure e dalle invasioni finché non fu trovato e distrutto da Corrado di Querfurt, cancelliere dell'imperatore Enrico VI inviato nel XII secolo a conquistare il Regno di Sicilia (che allora comprendeva anche la città di Napoli). La realizzazione del cunicolo di Fuorigrotta che la tradizione popolare asserisce essere stata realizzatra da Virgilio in una nottata. Fuorigrotta deve il suo nome alla sua posizione "al di fuori della grotta" in riferimento al fatto che, sin dall'epoca romana, è collegata da una o più grotte al rione di Mergellina. La prima grotta, realizzata in epoca romana, è la Crypta Neapolitana, ancora visitabile nei tratti più esterni, ma non più percorribile per motivi di sicurezza, che collega Fuorigrotta con Piedigrotta, nei pressi della tomba di Virgilio. Era parte di un asse viario che collegava Napoli a Pozzuoli e l'area dei Campi Flegrei.
Durante l'Alto Medioevo Virgilio fu letto con ammirazione, il che permise alle sue opere di essere tramandate completamente. L'interpretazione dell'opera virgiliana utilizzò largamente lo strumento dell'allegoria: al poeta fu infatti attribuito un ruolo di profeta di Cristo, sulla base di un brano delle Bucoliche (la IV ecloga) annunciante la venuta di un bambino che avrebbe riportato l'età dell'oro e identificato per questo con Gesù. Virgilio venne quindi rappresentato come vate, maestro e profeta nella Divina Commedia, Dante ne fa la propria guida attraverso i gironi dell'Inferno e del Purgatorio. La presenza di Virgilio è costante nello svolgimento della letteratura italiana. L'eco della sua poesia risuona sovente nelle opere dei nostri più grandi scrittori. Per Dante Alighieri, l'Eneide diviene modello di alta poesia, fonte di ispirazione di tanti suoi versi. È vero, egli avverte il fascino anche di altri grandi autori del passato, di "Omero, poeta sovrano" di " Orazio satiro", "Ovidio", "Lucano", e poi "Tullio e Lino e Seneca morale", ma è Virgilio la sua guida, Virgilio "l'altissimo poeta". Dante riconosce la grandezza morale, il peso del pensiero antico e nella sua opera fa confluire insieme i valori dell'umanesimo classico e quelli cristiani. Si può considerare pertanto il primo umanista della nostra letteratura: un discepolo di Virgilio, al di là del pensiero medievale. Dalla lettura delle sue opere apprese il senso di partecipazione al dolore universale, la pietas, intesa quest'ultima nel senso morale di adesione al cielo sì, ma anche di attenzione ai valori della terra. Egli si accosta al mantovano non solo per capire "come l'uom s'eterna", ma anche per perfezionare lingua e stile.
Con diversa e più moderna sensibilità si avvicina a Virgilio un cultore degli studia humanitatis come Francesco Petrarca. Il dolore umano alla scuola del poeta antico trova innumerevoli rivoli per elevarsi in una poesia soavemente malinconica. Da lui deriva l'amore per le belle lettere, la nobiltà dei sentimenti e del pensiero, da lui l'arte della perfezione stilistica. La lingua italiana diviene, come vuole de Sanctis, "la dolcissima delle lingue". Intuisce e tramanda ai posteri i più alti segreti della poesia del mantovano. Virgiliano nell'anima, vive a lui unito nello spirito, gli dedica epistole. Petrarca venne salutato come il nuovo Virgilio, modello di poeta, elegante, raffinato: si colloca tra i più grandi lirici di tutti i tempi. Nell'Umanesimo è ancora Virgilio, unitamente a Cicerone, l'autore più amato, più ricercato come guida di maestria linguistica. Con il ritorno al mondo classico nasce la nuova civiltà in cui confluisce l'antica e, nel contempo, una nuova visione della vita e del mondo.
La lingua latina per tutta la prima metà del Quattrocento domina incontrastata nella nostra letteratura, ed è una letteratura elegante, che raggiunge come per miracolo forme umanissime. Si pensi alle Neniae, le celebri ninne-nanne che il Pontano scrive per il suo bambino; alle Sylvae del Poliziano, ben due dedicate a Virgilio: Manto, carica di suggestioni e risonanze dell'antica bucolica in cui si celebra la poesia pastorale, e il Rusticus, che si ispira invece alle Georgiche, ricolma di immagini e di echi virgiliani. Il Poliziano, complice Virgilio, viene ritenuto il lirico più elegante che abbia scritto in latino. Della riscoperta del mondo antico non solo la lingua latina viene a giovarsi, ma anche la lingua volgare quando si torna a prediligerla. Jacopo Sannazaro, considerato il "Virgilio cristiano" per il suo De Partu Virginis, nell'Arcadia riproduce la classica bucolica in una lingua armoniosa, piena di fluidità e di malinconia. Non si può non parlare della Fabula di Orfeo del Poliziano: Orfeo ed Euridice come nelle Georgiche rivivono il loro dramma d'amore in un canto accorato, di estrema eleganza. Riporta altresì a Virgilio quella sorta di immersione nell'universo e nella natura presente nella favola del giovane Julio nelle Stanze, così come la Giostra richiama la mente al senso di vaga malinconia delle ombre virgiliane della sera. Ancor più determinante è l'influsso di Virgilio nel Rinascimento. Il volgare, assurto a piena dignità letteraria, affronta temi alti, impegnativi e viene adottato dai grandi scrittori del tempo. Il riferimento è all'Ariosto e al Tasso. L’Eneide non poco contribuisce a portare l'Orlando Furioso alle più alte vette della poesia rinascimentale e l'Ariosto tra i più grandi artisti del tempo. Qui Cloridano e Medoro ritrovano il fascino, l'umanità di Eurialo e Niso a rappresentare un sentimento alto come l'amicizia, nobile come la fedeltà; e molte analogie si possono trovare nella caratterizzazione dei guerrieri uccisi nel sonno dalle due coppie. Angelica vive all'unisono con la natura che la circonda, ama le cose semplici e umili, effonde intorno un sentimento virgiliano di pace, di serenità, appena velato di malinconia. Per non riferire di altri temi comuni ai due poeti: l'amore, la giovinezza, l'eroismo, la religione della vita, la rappresentazione dell'animo umano in tutte le sue variazioni.
E si arriva a Torquato Tasso, che da Virgilio eredita finezza e musicalità del dire. Le ingenue parole di Aminta, allorché descrive il primo sbocciare di un amore nuovo nella favola pastorale che da lui prende il nome (atto I, scena II), riportano insistentemente al mondo idillico popolato di prati, ninfe, pastori, boschi, nel quale regna una lieve, sospesa virgiliana malinconia. Il candore di Galatea torna a risplendere nella delicata figura di Erminia, che si desta al "garrir" degli uccelli tra alberi e fiori mentre "scherzan" con l'onda al suon di "pastorali accenti" (Gerusalemme liberata, VII, 5 e 6, passim). Al pari di Didone, Armida, creatura piena di mistero riscopre l'umanità nel dolore e nell'amore. Come l'eroica Camilla, desta commozione la fiera Clorinda. Nell'opera tutta aleggia quel senso di tristezza per il quale molti hanno ritenuto la Liberata il poema italiano forse più vicino all'Eneide, già a partire dall'incipit (il verso canto l'armi pietose e il capitano richiama immediatamente il virgiliano arma virumque cano).
Come stretto amico di personaggi di potere e di grandissima influenza come l'imperatore Augusto, del governatore provinciale Gaio Asinio Pollione e del ricco Gaio Cilnio Mecenate, secondo leggende medioevali di scarsa o nessuna attendibilità, il poeta avrebbe potuto beneficiare in molti modi la città di Napoli in cui tanto amava risiedere. I suoi biografi medioevali infatti ci narrano che fu Virgilio a proporre all'imperatore di costruire un acquedotto (proveniente dalle sorgenti nei pressi di Serino nell'avellinese) che servisse questa e anche altre città, come Nola, Avella, Pozzuoli e Baia. Inoltre avrebbe esortato Augusto a creare per Napoli una rete di pozzi e fontane per l'approvvigionamento idrico, un sistema fognario di cloache e complessi termali terapeutici a Baia e Pozzuoli, per cui fu anche necessario scavare un traforo nella collina di Posillipo, l'odierna "Grotta di Posillipo", nota per tale motivo fino al XIV secolo come "Grotta di Virgilio". Infine, Virgilio, essendo grandemente appassionato di divinazione e del mondo della religione in generale, avrebbe fatto installare due sculture di teste umane in marmo, una maschile e allegra, l'altra femminile e triste, sulle mura della città e precisamente ai lati della porta di Forcella al fine di fornire un presagio casuale fausto o infausto per i cittadini di passaggio. Con le modifiche fatte in epoca aragonese, le teste furono trasferite nella lussuosa villa reale di Poggioreale, ma andarono poi perdute a causa della distruzione del complesso. Come riportano i suoi più antichi biografi, Virgilio aderì al neopitagorismo, corrente filosofica e magica allora molto diffusa nella Magna Grecia, e in particolare a Neapolis, una delle poche città del Meridione che dopo la conquista romana aveva conservato la sua vita culturale genuinamente ellenica. In quanto filosofo neopitagorico e mago gli sono attribuite diverse immagini magiche e talismani volti alla protezione della città di Napoli che tanto amò, secondo alcuni biografi medievali e rinascimentali.

Legami con Eneide Libro VI

Enea sbarca in Italia a Cuma, antichissima colonia greca, presso la quale si trova, posto in un antro, l’oracolo della profetessa Sibilla. Accanto sorge un tempio di Apollo, costruito da Dedalo; sulla porta egli aveva scolpito la sua storia: la costruzione del labirinto di Creta, l’imprigionamento e la fuga in volo con il figlio Icaro, ma non la morte di quest’ultimo. La Sibilla, già invasata da Apollo, ordina a Enea di rivolgere una preghiera al dio. L’eroe troiano prega il dio di difendere i troiani dalla sventura e chiede alla Sibilla di predire il futuro con le sue parole, senza ricorrere alle ingannevoli foglie. La profetessa preannuncia guerre sanguinose in Italia, ma lo incoraggia e prevede un aiuto finale. Enea, pronto ad affrontare i nuovi pericoli, chiede alla Sibilla di accompagnarlo nel regno dei morti, fino a raggiungere suo padre Anchise. La profetessa lo informa che sarà un’impresa molto difficile e rischiosa; Enea riuscirà a compierla se troverà nella vicina foresta un ramo d’oro, da offrire alla regina dei morti, Proserpina. Prima, però, dovrà seppellire uno dei suoi compagni che giace ancora insepolto sulla spiaggia. Enea torna presso le navi e vi trova, morto, il trombettiere Miseno, che ha osato sfidare anche gli dèi nel suonare la tromba, ma è stato punito e affogato da Tritone, divinità del mare, figlio di Poseidone. Si innalza la pira funeraria di Miseno; mentre si taglia il legno nel bosco vicino, Enea riesce a trovare il ramo d’oro con l’aiuto di Venere, che manda due colombe a indicarglielo; lo strappa e lo porta nell’antro della Sibilla. Intanto si completano i riti funebri per Miseno. (da cui prende il nome dell'attuale località)
L’ingresso nel regno dei morti è una caverna profonda e terribile, nella quale si respira un gran fetore; relativamente facile è entrarvi; quasi impossibile, se non a rari privilegiati, riuscire a tornare tra i vivi. Enea vi compie un sacrificio e invoca gli dèi dgli inferi. Al mattino seguente, una scossa di terremoto e un ululare di cani rivelano l’arrivo di Ecate, dea degli Inferi; Enea e la Sibilla s’inoltrano nell’oltretomba. Il poeta Virgilio descrive gli esseri mostruosi che si trovano nella parte iniziale dell’oltretomba: le rappresentazioni di tutti i mali del mondo, i Sogni ingannevoli, i Centauri, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie e tutti gli altri. Enea vuole con la spada affrontarli, ma la Sibilla gli conferma che si tratta solo di ombre incorporee.
Enea e la Sibilla raggiungono il fiume Acheronte, oltre il quale inizia l’Averno vero e proprio. Una folla di anime si accalca sulle rive. Lì Caronte, nocchiero infernale, accetta di trasportare sulla sua barca solo le anime dei sepolti; le altre devono attendere cento anni. Enea riconosce tra le anime degli insepolti i suoi due compagni Leucaspi e Oronte, travolti dalla tempesta, e Palinuro, che gli narra la vera storia della sua morte: scampato all’annegamento, era stato ucciso sulla spiaggia da un gruppo di abitanti di Velia. Egli prega Enea di portarlo con sé, ma la Sibilla lo proibisce; gli promette tuttavia che presto verrà sepolto dai suoi stessi uccisori, spaventati da misteriosi prodigi, e che il luogo prenderà il suo nome. Caronte, persuaso dalla Sibilla che gli mostra il ramo d’oro, acconsente a traghettare Enea.
Subito dopo compare Cerbero, mostruoso cane a tre teste; la Sibilla lo placa con una focaccia di miele e farina soporifera. Superato Cerbero raggiungono l’Antinferno, dove si trovano le anime dei bambini, degli adulti uccisi ingiustamente, dei suicidi e di quanti sono morti per amore. In mezzo a loro Enea scorge con dolore l’anima di Didone e tenta di parlarle, ma essa resta chiusa in un silenzio pieno di disprezzo e si rifugia accanto all’anima del marito Sicheo (il modello dell’episodio dell’incontro tra Didone ed Enea è l’incontro di Odisseo, nel libro XI dell’Odissea, con l’anima di Aiace, anch’egli chiuso in uno sdegnoso silenzio e sordo alle offerte di chiarimento e di colloquio). Enea e la Sibilla giungono poi ai campi in cui stanno gli eroi famosi, morti in guerra; intorno a loro si affollano le anime dei guerrieri troiani, mentre i greci sono presi dal terrore e fuggono.
Tra le altre anime c’è anche Deifobo figlio di Priamo; egli tenta invano di nascondere a Enea le orribili mutilazioni che gli sfregiano il viso, ma Enea lo riconosce e gli chiede notizie della sua morte. Elena, diventata sua moglie dopo la morte di Paride, si era accordata a tradimento coi Greci e lo aveva consegnato a Menelao, mentre era ancora immerso nel sonno; l’Atride lo aveva ucciso e sfregiato, tagliandogli le orecchie e il naso. La Sibilla sollecita Enea a proseguire il cammino; Deifobo si congeda augurando a Enea una grande gloria, che compensi le sconfitte subite e il disonore. I due proseguono il cammino. A sinistra sotto una rupe, Enea vede una triplice cinta muraria, possente e circondata da un impetuoso fiume di fiamme, il Flegetonte. La porta immensa e la torre altissima sono sorvegliate da Tisifone, una delle Furie infernali, che punisce gli omicidi. Dalle mura, si leva un rumore di catene, sferzate e lamenti: è il Tartaro, sede delle anime colpevoli. Esse vengono giudicate dal giusto Radamante, poi entrano nell’immensa porta e dentro al Tartaro vengono assegnate al luogo dove si sconta la pena per le loro colpe. Anche eroi famosi vi scontano la punizione per delitti gravi.
Su sollecitazione della Sibilla, Enea raggiunge le mura forgiate dai Ciclopi, sede di Proserpina, e dopo essersi purificato con le acque sacre affigge sulla soglia il ramo d’oro, dono per Proserpina. L’eroe prosegue poi con la sacerdotessa per il cammino che conduce ai Campi Elisi. Enea e la Sibilla raggiungono i Campi Elisi, luogo luminoso di beatitudine, sede di uomini illustri, tra cui i fondatori dei riti misterici e della poesia (Orfeo e Museo) e gli antenati di Troia. Lì si trova Anchise, che contempla le anime destinate a reincarnarsi come gloriosi personaggi della storia di Roma. Tra padre e figlio si svolge un incontro commovente. Poi Anchise parla a Enea delle varie fasi della purificazione e reicarnazione delle anime: un unico spirito dà vita all’Universo e, combinandosi con la materia, dà origine a tutti gli esseri viventi. Lo spirito però viene contaminato dalle impurità del corpo che permangono anche dopo la morte. L’anima nell’Oltretomba deve quindi purificarsi nel fuoco, nell’aria o nell’acqua per mille anni, finchè ritrova la purezza originaria. Allora è chiamata a bere l’acqua del Lete che le fa dimenticare il passato che ha già vissuto; a questo punto è desiderosa di incarnarsi di nuovo ed è pronta a risalire alla luce.
Anchise mostra ad Enea i grandi personaggi destinati a essere i re di Alba Longa e di Roma e gli uomini più famosi, condottieri e politici, della fase repubblicana, fino a Cesare e Pompeo – di cui prevede le lotte, e che invita a pacificarsi – e poi Cesare Augusto, il grande discendente di Ascanio/Iulo e fondatore dell’Impero di Roma. Anchise esalta la missione storica di Roma, destinata a dominare e pacificare il mondo. Infine, Anchise prevede e commemora con commozione la sorte del giovane Marcello, nipote ed erede designato di Augusto, morto prematuramente a soli diciannove anni dopo aver suscitato grandi speranze. Anchise infiamma di gloria l’animo di Enea e gli enumera le guerre future in cui dovrà combattere, dandogli consigli su come comportarsi verso le popolazioni indigene. Anchise accompagna poi Enea e la Sibilla verso l’uscita. Enea e la Sibilla passano attraverso una delle due porte del Sonno, di cui Penelope aveva parlato nel Libro XIX dell’Odissea: non quella di corno ma quella d’avorio, da cui escono i sogni ingannevoli.

COMMENTO GENERALE

E' impressionante l'organicità, la circoloarità (umano, divino) e la maestosità di tutta l'opera, Dante, il narratore dell'oltretomba risulta uno dei piùà abili descrittori del mondo reale; eppure ritengo che alcune terzine, alcune gemme di pura poesia (Ora dell'inferno) non possano essere dimenticate.

«Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
si drizzan tutti aperti in loro stelo,

tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse... »
(Inferno, Canto II)

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
(Inferno, Canto III)

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa
(Inferno, Canto III)

"Caron, non ti crucciare:
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole,
e più non dimandare…”
(Inferno, Canto III)

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
(Inferno, Canto III)

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
(Inferno, Canto V)

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.”
(Inferno, Canto V)

Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?
(Inferno, Canto VIII)

Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
(Inferno, Canto XIII)

io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi.
(Inferno, Canto XIII)

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge...
(Inferno, Canto XVIII)

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.

(Inferno, Canto XXVI)

E volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
(Inferno, Canto XXVI)

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.
(Inferno, Canto XXX)

Salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Inferno, Canto XXXIV)

Struttura dell'inferno

inferno


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17 aprile 2018 - Revisione 5 agosto 2021

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