Dante Inferno Canto IV. Questo canto si apre con Dante che, risvegliatosi sulla riva opposta dell'Acheronte, vede Virgilio pallido in viso e impaurito. Dante, infatti, accertatosi, per prima cosa, di essere ancora nel mondo dell’aldilà, vede attorno a se un abisso di cui è impossibile osservare il fondo per la fitta nebbia e ode dei lamenti provenire da questo. “…de la valle d’abisso dolorosa che ‘ntrono accoglie d’infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa… ”. Così Virgilio invita Dante a continuare il viaggio “nel cieco mondo” affermando, per giustificare il suo pallore, che la sua è solo pena perché stanno per entrare nel limbo, il luogo in cui il poeta stesso è destinato a restare per l'eternità; qui, infatti, si trovano le anime di coloro che vissero prima della nascita di Cristo e che non poterono perciò seguirne la parola (in particolare gli Spiriti Magni, cioè i grandi letterati pagani), ma che al contempo non commisero peccati, così come i bambini che morirono prima di essere battezzati. Non vi sono però gli spiriti degli antichi ebrei che furono prelevati da Cristo e portati in Paradiso pur essendo vissuti prima della sua nascita. Nel limbo non si odono lamenti ma solo i sospiri di anime, sospese tra il desiderio di contemplare Dio e la consapevolezza di non poterlo ottenere. È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
Giova ricordare che il sonno porofondo che assale Dante è un escamotage letterario per far sì che Dante dalla riva dell'Acheronte si ritrovi sulla proda dela valle d'abisso dolorosa.
Testo
Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
"Or discendiam qua giù nel cieco mondo",
cominciò il poeta tutto smorto.
"Io sarò primo, e tu sarai secondo".
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: "Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?".
Ed elli a me: "L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne".
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.
Un cupo (greve) boato (truono) mi interruppe (ruppemi) nella mente il sonno profondo (alto), così che io mi risvegliai (riscossi) come chi (persona) viene destato bruscamente (per forza);
e alzatomi in piedi (dritto levato), rivolsi (mossi) intorno gli occhi riposati e guardai intensamente (fiso) per cercare di capire (conoscer) dove mi trovavo.
Sta di fatto che mi ritrovai (Vero è che… mi trovai) sull’orlo della profonda voragine infernale (valle d’abisso dolorosa) che raccoglie il frastuono (’ntrono) di infiniti lamenti (guai).
Era talmente oscura e profonda e piena di caligine (nebulosa) che, per quanto aguzzassi la vista (per ficcar lo viso a fondo), non riuscivo a distinguervi (non vi discernea) nulla.
«Ora scendiamo giù nel mondo tenebroso (cieco)», cominciò a dire il poeta molto pallido (tutto smorto). «Io starò davanti (sarò primo) e tu mi seguirai (sarai secondo)».
E io, che mi ero accorto del suo pallore (color), dissi: «Come potrò seguirti (verrò), se hai paura (paventi) tu stesso, che sei solito (suoli) confortare i miei timori (dubbiare)?».
Ed egli a me: «La sofferenza (angoscia) degli abitanti del Limbo (genti che son qua giù) mi dipinge sul volto quel turbamento (pietà) che tu interpreti (senti) come (per) timore (tema).
Andiamo, poiché il lungo cammino ci incalza (sospigne)». Così si incamminò (si mise) e mi fece entrare nel primo cerchio che circonda (cigne) la voragine (abisso). L'inferno è immaginato da Dante come un abisso profondo a forma di imbuto che va restringendosi fino al centro della terra, dove è confitto Lucifero.
IL LIMBO
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: "Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio".
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
"Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore",
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
"uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?".
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: "Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati".
Là (Quivi), almeno per quanto si poteva udire (secondo che per ascoltare), non vi era (non avea) altra manifestazione di dolore (pianto) se non (mai che) in forma di sospiri, che facevano tremare l’aria (aura) eterna; in quel sospiro che fa tremare l'aura etterna è racchiusa una profonda tragedia. Qui è legata la sorte del mondo antico, di tanti nobili spiriti per sempre esclusi dalla suprema visione di Dio, unica meta dell'uomo. Questo è il luogo di Virgilio. Qui l'animo e la poesia di Dante configurano per sempre il destino, sospeso in un desiderio eterno senza speranza, di quel mondo che egli ama e di cui si sente il continatore. In questo canto altissimo e triste passa di fatto il confine tra le due grandi epoche storiche dell'uomo. In quei nobili spiriti ci fu il presagio di una realtà trascendente, intravista e pur irraggiungibile: è il sospiro che domina e caratterizza il canto. Brillò nelle loro opere un barlume di quella verità che doveva rivelarsi all'uomo. Ed è il fuoco che resta acceso anche tra le tenebre dell'inferno.
Ciò accadeva (avvenia) a causa del dolore (duol) non provocato da pene materiali (sanza martìri) che avevano le schiere (turbe) numerose (molte) e folte (grandi) di neonati (infanti), di donne e di uomini (viri).
Il maestro disse: «Non chiedi chi sono gli spiriti che vedi? Ora voglio (vo’) che tu sappia, prima (innanzi) che tu vada (andi) oltre (più),
che essi non peccarono; e se hanno dei meriti (mercedi), non sono sufficienti (non basta), perché non ricevettero il battesimo, che è il necessario tramite (porta) per accedere alla religione in cui tu credi;
e se vissero (s’e’ furon) prima (dinanzi) del cristianesimo, non adorarono Dio come si doveva (debitamente): e tra questi pagani (cotai) vi sono io stesso (medesmo).
Per tali mancanze (difetti) e per nessun’altra colpa (rio) siamo dannati in eterno (perduti), puniti (offesi) solo da questo, viviamo nel desiderio (disio) senza speranza di vedere Dio (sanza speme).
Quando l’ebbi udito (’ntesi), mi prese al cuore (cor) un grande dolore (duol), poiché (però) compresi (conobbi) che nel Limbo erano posti (sospesi) individui di grande valore.
«Dimmi maestro, dimmi signore», cominciai io per aver conferma (esser certo) di quella fede che supera (vince) ogni errore:
«mai nessuno, per merito (merto) suo o d’altri, è uscito di qui (uscicci) per divenire beato?».
Ed egli (quei), che aveva compreso (’ntese) la mia allusione (parlar coverto),
rispose: «Io ero appena arrivato (nuovo) nel Limbo (in questo stato), quando vidi giungere qui Cristo (un possente), coronato dal segno di vittoria. Nell'iconografia medievale il Cristo era spesso rappresentato con un'aureola attraversata da una croce; il segno di vittoria è indubbiamente la croce.
Trasse fuori di qui (trasseci) lo spirito di Adamo (primo genitore), di suo figlio Abele e quello di Noè, di Mosè legislatore (legista) e rispettoso della volontà divina (ubidente);
il patriarca Abramo e re David, Giacobbe (Israèl) col padre Isacco e i suoi figli e con Rachele, per la quale Giacobbe tanto dovette adoperarsi per averla (per cui tanto fé),
e molti altri ancora, e li rese (feceli) beati. E voglio (vo’) che tu sappia che, prima di loro, non furono mai salvati altri spiriti umani».
Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.
"O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?".
E quelli a me: "L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza".
Non avevamo smesso di camminare (non lasciavam l’andar) per il fatto che egli parlasse (perch’ei dicessi), ma continuavamo ad attraversare (passavam… tuttavia) la folla (selva): intendo dire (dico) la folla numerosa degli spiriti (spiriti spessi).
Non avevamo fatto ancora molta strada dal punto in cui mi ero svegliato (di qua dal sonno), quando vidi un fuoco che illuminava (vincia) un emisfero (emisperio) di tenebre.
Eravamo ancora un po’ lontani (Di lungi) di lì (n’), ma non tanto da impedirmi di vedere (discernessi), almeno in parte, che gente degna d’onore (orrevol) occupava (possedea) quel luogo.
«Tu che onori dottrina e arte, chi sono costoro che hanno tanta dignità (onranza), che li distingue (diparte) dalla condizione (modo) di tutti gli altri?». Giova ricordare che nel medioevo Virgilio era ammirato, oltre che per la sua arte, anche per la sua saggezza.
Ed egli: «La fama (nominanza) onorata che di loro ancora risuona in terra (sù ne la tua vita) acquista in cielo un favore (grazïa) che li privilegia (avanza) in tal modo (sì)».
Intanto voce fu per me udita:
"Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita".
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
"Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene".
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’era ’l parlar colà dov’era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Nel frattempo udii una voce: «Onorate l’altissimo poeta: ritorna il suo spirito, che si era allontanato (dipartita)». Onorate ... il grande e semplice verso è il tributo di Dante a Virgilio preso a emblema di quella virtù che la poesia esprimeva.
Dopo che la voce si interruppe (fu restata) e si acquietò (queta), vidi quattro grandi spiriti venire verso di noi: avevano un aspetto (sembianz’) né triste né lieto.
Il maestro cominciò a dire: «Guarda (Mira) quello che, con la spada in mano, precede (vien dinanzi) gli altri tre come loro signore (sire): è il sommo (sovrano) poeta Omero; Omero porta la spada perchè cantore delle armi, e avanza come il re tra i poeti, quale era considerato dagli antichi. Dante non potè leggerlo interamente se non nei frammenti citati da Cicerone, Orazio e Aristotele.
Quello che segue (vene) è Orazio autore di satire (satiro); il terzo è Ovidio (il poeta latino famoso dopo Virgilio) e l’ultimo Lucano (autore della Pharsalia è, dopo Virgilio il grande modello epico di Dante).
Poiché ciascuno di essi condivide (si convene) con me (meco) il nome di poeta che la voce di prima fece risuonare (sonò) da sola, mi rendono (fannomi) onore, e da questo punto di vista (di ciò) fanno bene».
Così vidi radunarsi (adunar) i nobili seguaci (la bella scola) del massimo cultore (segnor) dello stile tragico (altissimo canto), che si eleva (vola) sugli altri poeti come un’aquila.
Dopo che ebbero conversato (ragionato) un po’ tra loro, si rivolsero (volsersi) a me con un cenno di saluto (salutevol), e di ciò (di tanto) Virgilio si compiacque (sorrise);
mi fecero (fenno) inoltre ancora più onore in quanto mi ammisero (mi fecer) nel loro gruppo (schiera), così che io fui sesto tra poeti tanto grandi (tra cotanto senno).
Così andammo fino al fuoco (lumera), parlando di cose di cui ora è opportuno (è bello) tacere, così come allora in quel luogo (colà dov’era) era opportuno parlare.
IL NOBILE CASTELLO
Giungemmo ai piedi di un nobile castello, cerchiato da sette alte cinte murarie e difeso da un bel fiumicello; non è stata compresa l'allegoria delle sette porte, forse non c'è o forse è questa: se i poeti passano vuol dire che le porte sono aperte a tutti coloro che hanno percorso tutta la scala del sapere.
Attraversammo questo come se fosse terra asciutta (dura); entrai insieme ai poeti attraverso sette porte: giungemmo in un prato di fresca vegetazione (verdura).
Vi erano persone dallo sguardo tranquillo e dignitoso (tardi e gravi), dall’atteggiamento (sembianti) che esprimeva grande autorità: parlavano poco e lentamente (rado), con voci nobili e dolci (soavi).
Andammo a collocarci (traemmoci) così in uno dei lati (canti), in un luogo aperto, luminoso e sopraelevato (alto), da dove si potevano (potien) vedere tutti. Corrisponde al colle dell'Eneide dove Anchise conduce Enea perchè possa vedere tutti i suoi discendenti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
Lì, di fronte (Colà diritto), sul prato splendente (verde smalto), mi furono (fuor) indicati i magnanimi (spiriti magni), della cui vista mi esalto intimamente (in me stesso). Gli abitanti del castello sono i magnanimi, secondo il concetto aristotelico dell'Etica Nicomachea, concetto profondamente studiato da Dante: coloro che furono stimati degni di fatti grandi e che li compirono praticando in modo eccelso le umane virtù e acquisendo "grandi onori e fama". (Vedi Convivio). L'elenco dei nomi è una forma tipica del serventese medioevale, ma che segue la metodologia dei campi elisi virgiliani. Il primo gruppo comprende tutti personaggi della storia di Roma, nella quale entra quella di Troia. Il secondo, quello di filosofi e poeti, grandi della vita contemplativa, si raccoglie attorno ad Aristotele che rappresenta l'umana saggeza. I due gruppi rappresentano le virtù morali e intellettuali proprie dell'uomo.
Io vidi Elettra (madre di Dardano, il mitico fondatore di Troia) con molti suoi discendenti (compagni), tra i quali riconobbi Ettore ed Enea, Cesare (come discendente di Enea) in armi e con gli occhi minacciosi (grifagni).
Vidi Camilla (madre di Lavinia sposa di Enea) e Pantasilea (regina delle amazzoni morta sotto Troia per mano di Achille); dalla parte opposta vidi il re Latino seduto insieme a sua figlia Lavinia.
Vidi quel Bruto (Lucio Giunio Bruto primo console di Roma) che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia (si suicidò per aver perso l'onore), Giulia (figlia di Cesare), Marzia (moglie di Catone Uticense) e Cornelia (madre dei Gracchi, tutte donne della storia repubblicana, celebri per la loro virtù); e da solo, in disparte (in parte), il Saladino (sultano d'Egitto nel XII secolo e celebrato nel Medioevo come sovrano cavalleresco e liberale).
Innalzando un poco lo sguardo (ciglia), vidi il principe (maestro) dei filosofi (di color che sanno) sedere in mezzo a un gruppo di sapienti (filosofica famiglia). E' Aristotele considerato nel basso Medioevo come supremo maestro di filosofia
Tutti lo ammirano (miran), tutti gli fanno onore: là io vidi Socrate e Platone, che gli stanno più vicino (più presso) davanti agli altri;
Democrito che sostiene la teoria del mondo come aggregazione casuale di atomi (che ’l mondo a caso pone);
Diogene, Anassagora e Talete (Tale), Empedocle, Eraclito e Zenone;
e vidi il valente (buono) classificatore (accoglitor) delle qualità delle piante (del quale), vale a dire (dico) Diascoride;
e vidi Orfeo, Cicerone (Tulïo), Lino e Seneca il filosofo (morale);
il matematico (geomètra) Euclide e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Averroè (Averoìs) autore (che… feo) del grande commento ad Aristotele.
Io non posso riferire (ritrar) di tutti esaurientemente (a pieno), poiché la materia del poema (il lungo tema) mi incalza (caccia), così (sì) che molte volte la narrazione (il dir) deve trascurare (vien meno) i fatti accaduti (al fatto).
La compagnia dei sei poeti (sesta compagnia) diminuisce dividendosi in due (in due si scema): Virgilio (savio duca) mi condusse (mi mena) in altra direzione (via), fuori dall’atmosfera quieta (fuor de la queta), nell’aria (aura) che trema; ciò significa che nel castello l'aria è quieta non vi sono i sospiri che fanno tremare l'aura come all'ingresso del limbo.
E mi ritrovai (vegno) in un luogo (parte) dove non vi è nulla che abbia luce (ove non è che luca).
PARAFRASI COMPLETA
Un forte tuono interruppe il sonno nella mia testa, così che io mi scossi come qualcuno che è svegliato bruscamente;
e mossi intorno lo sguardo riposato, fissandolo dritto, e osservai con attenzione per capire dove mi trovassi.
In effetti mi ritrovai sull'orlo estremo della valle dolorosa dell'Inferno, che accoglie in sé un rimbombo di infiniti lamenti.
Era a tal punto oscura, profonda e nebulosa che pur figgendo lo sguardo al fondo, non riuscivo a vedere nulla.
«Ora iniziamo a scendere nel mondo cieco,» cominciò Virgilio pallido in volto. «Io andrò per primo, tu mi seguirai».
E io, accortomi del suo pallore, dissi: «Come potrò venire, se tu, che solitamente conforti ogni mio dubbio, sei spaventato?»
Lui mi rispose: «L'angoscia delle anime che sono relegate qui dipinge sul mio volto quel tormento che tu credi paura.
Andiamo, poiché il viaggio è lungo e non abbiamo tempo da perdere.» Così procedette e mi introdusse nel primo cerchio che attornia la voragine infernale.
Qui, stando ad ascoltare, si sentivano solo dei sospiri, che facevano tremare l'aria eterna;
ciò era dovuto al dolore senza tormenti subìto dalle schiere di anime, che erano molto numerose, di bambini, donne e uomini.
Il buon maestro mi disse: «Non mi chiedi chi sono questi spiriti che vedi? Prima di procedere oltre, voglio che tu sappia che essi non peccarono; e se essi hanno meriti ciò non è sufficiente, perché non hanno ricevuto il battesimo che ammette alla fede in cui tu credi;
e se essi sono vissuti prima del Cristianesimo, non adorarono Dio nel modo dovuto: io stesso faccio parte di questa categoria.
Siamo perduti per questa colpa e non per altri peccati, e la nostra unica pena è di vivere in un desiderio senza speranza».
Quando sentii questo provai un grande dolore al cuore, poiché compresi che in quel Limbo erano sospese anime di personaggi molto eminenti.
«Dimmi, o mio maestro e signore,» cominciai per accertarmi di quella fede che toglie ogni dubbio:
«è mai successo che qualcuno uscisse da questo luogo, per merito proprio o di altri, che poi diventasse beato?» E Virgilio, che comprese le mie velate parole, rispose: «Io ero da poco in questa condizione, quando vidi entrare qui un possente (Cristo), che portava i segni della vittoria.
Fece uscire da qui l'ombra del primo padre (Adamo), di suo figlio Abele e di Noè, di Mosè legislatore ubbidiente;
quella del patriarca Abramo e del re David, Israele (Giacobbe) coi suoi figli e con la moglie Rachele, per la quale fece così tanto;
e molti altri, e li rese tutti beati. E voglio che tu sappia che, prima di loro, nessuno spirito si era potuto salvare».
Mentre Virgilio parlava non cessavamo di camminare, ma superavamo quella fitta folla di spiriti.
Non avevamo percorso una lunga strada dal momento in cui mi ero risvegliato, quando io vidi una luce che superava un emisfero di tenebre.
Eravamo ancora a una certa distanza da essa, ma non tanto che io non potessi capire che quel luogo era occupato da spiriti onorevoli.
«O tu che fai onore alla scienza e all'arte, chi sono costoro che hanno tanta considerazione da avere una condizione diversa dalle altre anime?»
E Virgilio mi rispose: «La fama eccellente che nel mondo terreno ancora sopravvive di loro, acquista loro una grazia in Cielo che li distingue dagli altri spiriti».
Intanto io udii una voce: «Rendete onore all'altissimo poeta: la sua anima, che se n'era andata, ritorna».
Dopo che la voce cessò e si acquietò, vidi quattro grandi anime venirci incontro: non avevano aspetto triste, né lieto.
Il buon maestro cominciò a dire: «Osserva colui che ha quella spada in mano, che precede gli altri come il loro signore:
quello è Omero, il più grande di tutti i poeti; l'altro che lo segue è Orazio, autore delle Satire; il terzo è Ovidio e l'ultimo è Lucano.
Poiché ognuno di essi ha in comune con me il nome che pronunciò quella sola voce (il nome di poeta), mi rendono onore e in questo fanno bene».
Così vidi radunarsi la bella scuola poetica di quel signore che scrisse altissimi versi, che vola sopra gli altri come un'aquila.
Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me facendomi cenni di saluto e il mio maestro sorrise di questo;
e mi resero un onore ancora maggiore, poiché mi accolsero nella loro schiera, così che fui il sesto membro di quel gruppo così assennato.
In questo modo procedemmo fino alla luce, dicendo cose che è bello tacere, proprio come era bello parlarne in quel luogo.
Giungemmo ai piedi di un nobile castello, circondato da sette ordini di mura e protetto intorno da un bel fiumicello.
Lo oltrepassammo come fosse di terra; entrai con questi saggi attraverso sette porte e giungemmo in un prato di fresca erba verde.
Vi erano delle anime con sguardi tranquilli e austeri, dall'aspetto molto autorevole: parlavano poco, con voci dolci.
Ci portammo in un angolo, in un punto aperto, luminoso e posto in alto, così che li potessimo vedere tutti quanti.
Lì di fronte, sopra l'erba verde come smalto, mi furono mostrati gli «spiriti magni» (le grandi anime), e in me stesso mi esalto di averli visti.
Io vidi Elettra con molti compagni, tra cui riconobbi Ettore ed Enea, Cesare armato con gli occhi minacciosi.
Vidi Camilla e Pentesilea; dalla parte opposta vidi il re Latino, che sedeva con sua figlia Lavinia.
Vidi Lucio Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia; e tutto solo, in un angolo, vidi il Saladino.
Dopo aver alzato un poco più lo sguardo, vidi il maestro di tutti i sapienti (Aristotele) che sedeva in mezzo ad altri filosofi.
Tutti lo ammirano, tutti gli rendono onore: qui io vidi Socrate e Platone, che gli stanno più vicini degli altri;
(vidi) Democrito, che dice che il mondo è governato dal caso, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone;
e vidi il saggio che descrisse le qualità delle piante, ovvero Dioscoride; e vidi Orfeo, Cicerone, Lino e il filosofo Seneca;
(vidi) Euclide, fondatore della geometria, e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, e Averroè che scrisse il grande commento (ad Aristotele).
Io non posso parlare dettagliatamente di tutti, poiché la vastità della materia mi incalza a tal punto che, spesso, devo omettere dei particolari.
Il gruppo di sei poeti si divide in due: il saggio maestro mi conduce per un'altra strada, fuori dell'aria quieta e in quella che è burrascosa. E giungo in una parte dove non c'è nulla che sia illuminato.
IL LIMBO
Uno dei passi della Commedia, che si discosta sensibilmente dalla dottrina e dal dibattito teologico del tempo, riguarda la descrizione del Limbo. L’argomento si prestava a diverse ipotesi concettuali non essendo stata definita la questione dalla dottrina ufficiale della chiesa, né lo sarà mai malgrado 1600 anni di dibattito. Solo nel 2007 Benedetto XVI ha creduto di chiudere la controversia approvando la pubblicazione del rapporto della Commissione teologica internazionale su: “La speranza di salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo”. Il limbo viene declassato a “l’ipotesi teologica” da accantonare: essendovi “ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione” .
L’argomento non è di poco conto, perché riguarda il fondamento stesso del credo cristiano e il significato della venuta di Cristo sulla terra. A partire da S. Agostino i teologi si erano mostrati incapaci di chiarire come la misericordia divina potesse essere in accordo con la giustizia divina, ove un innocente morto improvvisamente o non battezzato, magari senza aver avuto nessuna nozione di Cristo, dovesse essere condannato all’inferno senza colpa, perché macchiato dal peccato di Adamo. La condanna aveva anche risvolti sociali che minavano la stessa unità della famiglia nella fede, dovendosi procedere anche a sepolture separate, non accettandosi i non battezzati nei sepolcreti cristiani.
Dante dà del limbo una descrizione ardita che pur inattaccabile dal punto di vista della dottrina, interrogava la coscienza dell’uomo sulla giustizia divina e sui limiti concettuali del dibattito teologico del suo tempo .
Esaminiamo la sua descrizione. Coerentemente con le ipotesi del suo tempo pone il Limbo nell’inferno, in un luogo separato, ma nell’inferno, al di là della terribile porta con la oscura scritta: “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore… lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. Un luogo dunque di condanna, di reclusione senza appello e speranza di perdono o di miglior sorte; per l’eternità. In una oscura caligine turbe di infanti, di donne, di uomini maturi si aggirano sospirando, in cerca di un Dio irrangiungibile, desiderio senza speranza. È lo stesso Virgilio, che ne fa parte, a dire:“senza speme vivemo in disio”.
Dopo un passo enigmatico, che dà adito a qualche dubbio sulla eternità della condanna , quando accenna ad una condizione di attesa di quelle anime: “però che gente di molto valore conobbi che in quel limbo eran sospesi”, rivolge a Virgilio una domanda diretta: “uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?”
Le parole adoperate da Virgilio in risposta al quesito di Dante: “vidi venire un possente con segno di vittoria coronato”, sembrano riprese dal Vangelo di Nicodemo: “Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia. Questi è il re della gloria”. È il Cristo possente in battaglia che infrange le porte dell’inferno, libera la stirpe di Adamo, e pianta nel mezzo la sua croce affinché nessun innocente vi possa più essere trattenuto: “Il Signore pose la sua croce in mezzo all’inferno quale segno di vittoria, e vi rimarrà in eterno.”
Era quello un vangelo che si prestava a una diversa interpretazione del messaggio di salvezza, era l’intera umanità dei giusti ad essere liberata dalle catene infernali: “il re della gloria stese la sua mano, afferrò e drizzò il primo padre Adamo; si rivolse poi a tutti gli altri e disse: “Dietro di me voi tutti che siete morti a causa del legno toccato da costui! Ecco, infatti, che io vi faccio risorgere tutti per mezzo del legno della croce”. È una umanità risorta, festante, di ogni popolo, che prima di recarsi a celebrare la pasqua di resurrezione si reca al Giordano per il battesimo.
Il punto di rottura della Commedia con le dottrine correnti è dato dalla invenzione, a somiglianza dei virgiliani campi elisi, di un giardino terrestre posto nell’inferno, all’interno del Limbo, per accogliere le anime dei grandi poeti e pensatori della umanità. Un nobile castello circondato da sette mura e da un “bel fiumicello” , dove su un “prato di fresca verzura” passeggiano i sapienti in luogo aperto, luminoso ed alto. E chi erano questi sapienti che godevano di questa attenzione divina? Omero, ovviamente, lo stesso Virgilio, Platone, un ateo come Democrito, e cosa enorme a leggere, anche i musulmani. Avicenna il grande medico, Averroè commentatore di Aristotele, e udite, udite, Il Saladino, Salah ad Din sultano d’Epiro che aveva strappato ai Cristiani la città di Gerusalemme conquistata con il sangue crociato.
COMMENTO
Il canto inizia con Dante che viene risvegliato dal sonno. Così come i suoi sensi erano stati spenti da un prodigio alla fine del canto III, un nuovo miracolo, per l'esattezza un tuono, lo riporta in sé. Il poeta si guarda intorno e si rende conto di aver passato l'Acheronte e di trovarsi sulla riva "de la valle d'abisso dolorosa / che 'ntrono accoglie d'infiniti guai". Tanto è fitta l'oscurità in cui si trova immerso il poeta da impedirgli di distinguere alcuna cosa. Ovviamente l'oscurità di cui parla Dante è la mancanza della luce divina che penetra tutto l'inferno, non c'è grazia di Dio nel luogo dove lui si trova. La mancanza di luce causa smarrimento, ecco intervenire Virgilio, che invita Dante a seguirlo, assumendo nuovamente il ruolo di guida spirituale con le parole "Io sarò primo, e tu sarai secondo". Virgilio però è pallido, Dante pensa che ciò sia dovuto alla paura del viaggio imminente, dubita quindi nella validità di quella guida e manifesta la sua perplessità "dissi: "Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto?". Virgilio a questo punto lo rassicura, spiegandogli che il suo pallore non nasce dalla paura, bensì dalla pietà per le anime che patiscono le loro pene nell'Inferno, e lo esorta a non perdere più tempo.
Dante, seguendo il suo maestro, si ritrova nel primo cerchio dell'Inferno. Qui si trova nel Limbo, il luogo dove sono puniti coloro che non conobbero la Parola di Dio perché nati prima dell'avvento del Cristianesimo, coloro che non credettero nell'avvento futuro di Cristo, e i bambini non battezzati. Essendo queste anime non colpevoli di uno specifico peccato, pagano semplicemente la mancanza di fede, non subiscono una pena fisica, semplicemente vivono in eterno nella consapevolezza di non giungere mai alla beatitudine. Non essendo tormentati e straziati come le altre anime dell'Inferno, le anime qui non piangono, semplicemente sospirano: "Quivi, secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di sospiri / che l'aura etterna facevan tremare;". Virgilio spiega a Dante quali anime abitano il primo cerchio, facendogli capire con l'espressione "semo perduti" che anche lui paga lì la sua pena. La consapevolezza che il suo maestro sia un'anima perduta nelle tenebre mette tristezza al poeta, che nei suoi versi constata come "gente di molto valore / conobbi che 'n quel limbo eran sospesi". Quest'ultima considerazione apre un confronto tra la ragione e la giustizia divina. Il poeta trova tra i dannati personaggi che egli considera valorosi, quindi Dio ha punito persone che per il metro di giudizio umano sarebbero da premiare. Vediamo quindi l'incapacità della ragione di comprendere appieno la giustizia divina, nei versi il poeta sembra quasi non capacitarsi che personaggi come Virgilio possano essere puniti, eppure è così. Il Limbo inteso come luogo di pena eterna per le anime che non hanno vissuto nella fede in Cristo apre la strada a una questione spinosa. I patriarchi dell'Ebraismo, come ad esempio re David, nacquero prima dell'avvento del Figlio di Dio, furono quindi destinati al Limbo? Essi sono anche patriarchi del Cristianesimo. L'ambiguità viene subito risolta da Dante che chiede al maestro se mai alcun'anima sia uscita dal Limbo. Virgilio gli spiega che, poco tempo dopo la sua discesa nel primo cerchio, vide "venire un possente, / con segno di vittoria coronato.", si trattava di Gesù Cristo, che portò via dall'Inferno l'anima di Adamo, quella di Abele, quella di Noè, quella di Mosè, quella di Abramo, quella di re David e in generale quelle di tutti i patriarchi di Israele. Essi infatti non avevano assistito alla venuta di Cristo, però ci avevano creduto e l'avevano desiderato per millenni nel Limbo, quindi erano ormai meritevoli della beatitudine. Virgilio spiega poi che nessuno prima di loro fu mai salvato. Giova notare che la descrizione del Limbo è una forzatura del poeta che, contro ogni autorevole opinione teologica vi assegna gli spiriti magni. E' un'invenzione volta ad assegnare un luogo emblematico, che come tale esce dagli schemi, a quei grandi del mondo antico, e in generale a quei giusti vissuti fuori dalla fede, della cui sorte Dante si è sempre ansiosamente e dolorosamente posto il problema. Questa invenzione accoglie qui - seguendo la figura dei campi elisi virgiliani - gli adulti giusti del mondo pagano e anche gli infedeli del tempo cristiano.
I due poeti non hanno percorso ancora molta strada tra le anime del Limbo, quando Dante vede un fuoco che parzialmente vince le tenebre del luogo. Questo modesto fuoco, che pure riesce a spezzare in qualche modo le tenebre infernali, raffigura la luce della mente umana (qui abitano infatti i grandi filosofi e poeti antichi) nei suoi limiti e pure nella sua analogia con la luce divina. Grazie a quella debole luce giungeranno a un castello in cui vivono le anime magne. Incontrano intanto i primi grandi personaggi che, pur non credendo in Cristo, si distinsero in vita nelle arti. La loro grandezza ha disposto Dio a loro favore, così che gli è stata assegnata una posizione favorevole nel Limbo stesso ("L'onorata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazia acquista in ciel che sì li avanza"). Queste anime accolgono tra gli elogi Virgilio. Dante vede queste anime dalla sembianza "né trista né lieta", infatti esse non patiscono alcuna pena e allo stesso tempo non hanno speranza di vivere la grazia eterna. Virgilio indica al suo protetto quattro anime: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Il discorso di Virgilio col quale indica i quattro grandi della poesia si conclude con un verso che, a una lettura superficiale, può farci vedere della presunzione. "fannomi onore, e di ciò fanno bene" dice infatti la guida. Nonostante Dante ammiri Virgilio al punto di eleggerlo come rappresentante della ragione, riesce difficile pensare che gli attribuisca una tale presunzione nella sua opera. Ritengo molto più plausibile che Dante, per bocca del suo maestro, voglia indicare come giusto il rendere onore all'arte, di cui in quel frangente Virgilio è un rappresentante. La frase assume quindi un significato più profondo e indica forse anche una speranza, Dante è infatti un poeta e si augura di ricevere gli onori dovuti alla sua arte nella propria patria. Nei versi che seguono infatti le grandi anime della poesia, dopo aver parlato un po', lo invitano tra loro "sì ch'io fui sesto tra cotanto senno". I sei poeti camminano fino al castello parlando di argomenti non attinenti ai temi del poema ("cose che 'l tacere è bello"). Per i critici il castello rappresenta la filosofia. Questo, ci dice Dante, è circondato da sette fila di mura e da un piccolo fiume. Per entrare nel Castello il poeta deve passare sette porte. Sul significato di queste mura e queste porte i critici non sono concordi. Per alcuni le sette mura rappresentano le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica), mentre le sette porte indicano le sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria, astronomia); altri vedono nelle sette mura le quattro virtù morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e le tre intellettuali (intelligenza, scienza, sapienza). Anche sulla simbologia riguardante il fiume ci sono diverse interpretazioni, Boccaccio per esempio vi vide il simbolo delle ricchezze e delle gioie materiali, che a vedersi sono invitanti ma possono portare alla perdizione. Una volta dentro al castello, Dante vede queste anime sagge il cui aspetto rappresenta l'idea stessa del sapiente ("Genti v'eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne' lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi"). A questo punto il poeta ci elenca le anime che riconosce nel castello, indicando numerosi personaggi celebri nella storia e nella leggenda di Roma (a partire dai troiani), filosofi e scienziati greci, e tre importanti personaggi musulmani (Saladino, Avicenna e Averroè). Può incuriosire in un'opera permeata di teologia cristiana la presenza di personaggi musulmani, ma non dobbiamo dimenticare che nel castello del Limbo vi sono grandi uomini di cultura che non conobbero la fede in Cristo. Saladino quindi è inserito tra i grandi perché fu liberale nei confronti dei cristiani, Avicenna e Averroè furono invece due grandi filosofi molto noti nel Medioevo. Alla fine del canto, terminato l'elenco, Dante ci dice di non poter citare tutte le anime perché son troppe, il gruppo di sapienti si scioglie e lui resta di nuovo solo con Virgilio ("La sesta compagnia in due si scema"). Insieme escono dal castello e tornano tra le tenebre, riprendendo il cammino.
I FILOSOFI ANTICHI, NELL'ORDINE DEL CANTO DANTESCO
Aristotele (in greco antico: Aristotéles; Stagira, 384 a.C. o 383 a.C.[2] – Calcide, 322 a.C.). Con Platone, suo maestro, e Socrate è considerato uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, che soprattutto da Aristotele ha ereditato problemi, termini, concetti e metodi. È ritenuto una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del mondo occidentale, sia per la vastità che per la profondità dei suoi campi di conoscenza, compresa quella scientifica.
Aristotele, il cui nome deriva dall'unione di aristos "migliore" e telos "fine", alla lettera può intendersi con il significato di "il fine migliore", oppure, in senso più ampio, «che giungerà ottimamente alla fine». Un interprete di Aristotele, Alessandro di Afrodisia (II sec.-III sec.) in un passo della sua opera De anima cita un "Aristoteles" che alcuni hanno inteso come l'Aristotele maestro di Alessandro Magno. A partire dal XVI secolo il nome è stato emendato in Aristocles e la modifica è stata accettata soprattutto sull'autorità di Eduard Zeller, Die philosophie der Griechen, Vol. III, tomo I, p. 814, nota 1 e p. 815, nota 3. Nel 1967 P. Moraux l'ha identificato con Aristotele di Mitilene, da lui ritenuto uno dei maestri di Alessandro d'Afrodisia.
Socrate, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (in greco antico: Sokrátes; Atene, 470 a.C./469 a.C.[2] – Atene, 399 a.C.), è uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos "confutazione" applicandolo prevalentemente all'esame in comune di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d'investigazione». «...dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo.» Già il martire cristiano san Giustino, nell'Apologia prima (XLVI, 3), sosteneva che «coloro che vissero con il Logos sono cristiani, anche se furono ritenuti atei, come tra gli Elleni, Socrate, Eraclito e quelli simili a loro». «L'Umanesimo e il Rinascimento videro in Socrate uno dei modelli più alti di quella umanità ideale che era stata riscoperta nel mondo antico. L'umanista Erasmo da Rotterdam, profondo conoscitore dei testi platonici, era solito dire: «Santo Socrate, prega per noi» (Sancte Socrates, ora pro nobis). Anche l'età dell'Illuminismo ha visto in Socrate un suo precursore: il XVIII secolo fu detto il "secolo socratico", giacché in quel periodo egli rappresentò l'eroe della tolleranza e della libertà di pensiero.»
Platone, figlio di Aristone del demo di Collito e di Perictione (in greco antico: Pláton; Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.), e il suo maestro Socrate e il suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale. Della vita di Platone le fonti non offrono un quadro univoco. Una biografia che, secondo la testimonianza del neoplatonico Simplicio, sarebbe stata redatta dal discepolo Senocrate non ci è pervenuta. Molte notizie ci giungono dallo storico greco Diogene Laerzio (vissuto tra il II e III secolo d.C.), autore di una serie di biografie di filosofi greci (Vite dei filosofi), che si rifà a numerosi testimoni, tra cui Speusippo, Aristotele, Ermodoro, Aristippo, Dicearco, Aristosseno e altri. Altri biografi di Platone, come Olimpiodoro il Giovane (VI secolo d.C.) e una biografia anonima non citano alcuna fonte. Apuleio, nel suo De habitudine doctrinarum Platonis trattando di Platone menziona Speusippo il quale, come dice in un unico riferimento anche Diogene Laerzio (III, 1, 2; IV, 1-11), avrebbe scritto un elogio funebre del maestro. Delle autorità citate da Diogene Laerzio, non è possibile dire se alcune tra esse si siano specificatamente dedicate a biografare il maestro. Altre fonti sulla vita di Platone sono i suoi dialoghi filosofici, gli scritti di Aristotele, una raccolta di tredici lettere di Platone (probabilmente spurie, tranne forse la VII e l'VIII), un frammento dalla Storia dei filosofi (Syntaxis ton philosophon) dell'epicureo Filodemo di Gadara (I secolo a.C.), gli anonimi Prolegomena alla filosofia platonica (tradizionalmente attribuiti ad Olimpiodoro), la voce della Suda (X secolo) su Platone e la Vita di Dione di Plutarco (I-II secolo d.C.), che comunque si rifà alle Lettere.
Democrito (in greco antico: Demókritos, "giudice del popolo"; Abdera, 460 a.C. – 370 a.C. circa). Allievo di Leucippo, fu cofondatore dell'atomismo. È praticamente impossibile distinguere le idee attribuibili a Democrito da quelle del suo maestro. Democrito fu il più prolifico scrittore tra i presocratici, considerato uno di loro anche se, effettivamente, nacque dopo Socrate, per morire, forse centenario, durante la vita di Platone e Aristotele. Tra gli allievi di Democrito vi fu Nausifane, maestro di Epicuro. Il nome di Democrito è rimasto legato alla sua celebre teoria atomista considerata, anche a distanza di secoli, una delle visioni più "scientifiche" dell'antichità: l'atomismo democriteo infatti fu ripreso non solo da altri pensatori greci, come Epicuro, ma anche da filosofi e poeti romani (Lucrezio) nonché da filosofi del tardo medioevo, dell'età rinascimentale e del mondo moderno (come ad esempio Pierre Gassendi). Come è stato rilevato da Theodor Gomperz e da altri studiosi, Democrito può essere considerato il "padre della fisica", così come Empedocle lo era stato per la chimica. Ludovico Geymonat afferma che «l'atomismo di Democrito […] ebbe una funzione determinante, nel XVI e XVII secolo, per la formazione della scienza moderna».
Diogene di Sinope, detto il Cinico o il Socrate pazzo (in greco antico: Dioghénes; Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.), è considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, morì nel medesimo giorno nel quale Alessandro Magno spirò a Babilonia. La principale fonte di informazioni sulla sua vita è fornita dall'opera di Diogene Laerzio. Secondo lo storico il padre di Diogene, Icesio, un cambiavalute, fu imprigionato oppure esiliato perché accusato di contraffare le monete. Diogene si trovò anch'egli sotto accusa, e si spostò ad Atene con un servo che poi abbandonò, dicendo: «Se Mane può vivere senza Diogene, perché non Diogene senza Mane?». Attratto dagli insegnamenti ascetici di Antistene, divenne presto suo discepolo, a dispetto della rudezza con la quale era trattato e del fatto che costui non lo voleva come allievo, ma ben presto superò il maestro sia in reputazione che nel livello di austerità della vita. Le storie che si raccontano di lui sono probabilmente vere; ad ogni modo, sono utili per illustrare la coerenza logica del suo carattere e la sua irriverenza. Si espose alle vicissitudini del tempo vivendo in una piccola botte aperta che apparteneva al tempio di Cibele. Distrusse l'unica sua proprietà terrena, una ciotola di legno, vedendo un ragazzo bere dall'incavo delle mani.
Anassàgora (in greco antico: Anaxagóras; in latino: Anaxagoras; Clazomene, 496 a.C. – Lampsaco, 428 a.C. circa) è un filosofo presocratico, annoverato tra i fisici pluralisti insieme con Empedocle e Democrito. Fu il primo filosofo a "importare" la filosofia nella penisola greca, più precisamente ad Atene (prima di lui la filosofia era diffusa solamente nelle colonie greche dell'Anatolia e della Magna Grecia).
Nel 462 a.C. si stabilì nell'Atene governata da Pericle. Questa città era un importante centro culturale per l'epoca. Anassagora formulò nuove ipotesi, in cui giunse alla conclusione che esistono, sparse in tutto l'universo, sostanze semplici, in continuo movimento. Sono particelle piccolissime che si raggruppano e si separano dando origine alle cose e agli esseri. Il movimento continuo è impresso alle particelle da una sostanza leggera e sottile, diffusa in tutto l'universo. Anassagora formulò inoltre ipotesi anche sul moto dei corpi celesti. Per le sue affermazioni fu considerato empio e fu allontanato da Atene.
Talete di Mileto (in greco antico: Thalês; Mileto, 640 a.C./625 a.C. circa – 548 a.C./545 a.C. circa) è stato filosofo, astronomo e matematico.
Da Aristotele in poi, Talete viene indicato come il primo filosofo della storia del pensiero occidentale che iniziò la ricerca del «principio», identificato empiricamente nell'acqua, da cui tutte le cose si sarebbero generate. In questa tradizione quindi egli è considerato come uno dei sette savi dell'antica Grecia e come primo «filosofo», intendendo con questo termine colui che per primo si occupò delle scienze naturali, matematiche, astronomiche. Il suo metodo di analisi della realtà lo rende una delle figure più importanti della conoscenza scientifica: deviando dai discorsi esplicativi forniti dalla mitologia, anche se ancora lontano dal metodo sperimentale, Talete, pur ancora legato a un ragionamento astratto sulla realtà, favorì l'ancora generica concezione naturalistica dei filosofi della scuola di Mileto caratterizzata da osservazione dei fenomeni e dimostrazione puramente logica.
Di Talete, fondatore della scuola, non rimane nessun libro, se mai ne scrisse, ma sono a noi giunte varie testimonianze sul suo pensiero e su alcuni episodi della sua vita, non tutti accettati come storici o verosimili. Le fonti letterarie antiche lo ritraggono come una figura di saggezza proverbiale e di grande versatilità, perciò associato a molti campi di attività: oltre che alle scienze naturali, all'ingegneria, alla politica, all'economia applicata.
Empedocle (Empedoklês;) è stato un filosofo e politico siceliota, vissuto nel V secolo a.C. ad Akragas (oggi Agrigento). Stabilire con sufficiente precisione il periodo in cui è vissuto Empedocle è di importanza fondamentale per cogliere l'originalità di questo filosofo rispetto ai suoi predecessori, Parmenide e Anassagora.
Secondo Platone Socrate da giovane incontrò Parmenide che aveva circa sessantacinque anni. Poiché Socrate morì all'età di settanta o più anni nel 399 a.C., l'incontro tra Socrate e Parmenide dovrebbe aver avuto luogo prima del 450 a.C., e, siccome secondo il testo di Platone «Socrate era molto giovane», Denis O'Brien ritiene che questi non poteva aver superato i vent'anni: quindi Parmenide dovrebbe essere nato intorno al 515 a.C..
Trasillo, l'astrologo vicino all'imperatore Tiberio, nonché editore degli scritti di Democrito, indica la nascita di quest'ultimo filosofo cinquant'anni dopo quella di Parmenide, quindi nel 470/469 a.C.; Diogene Laerzio sostiene che Democrito fosse «giovane ai tempi in cui Anassagora era vecchio»: se la differenza di età era intorno ai trent'anni si può verosimilmente ritenere che Anassagora nacque ai primi del secolo così come testimoniato dall'erudito Apollodoro di Atene (II secolo a.C.) mentre Simplicio / Teofrasto sostiene che Empedocle fosse nato «qualche tempo» dopo Anassagora.
Aristotele sostiene che Anassagora fosse hýsteros rispetto a Empedocle, ma tale termine può significare sia "successivo" che "inferiore" quindi molti esegeti hanno letto come se Anassagora fosse "successivo" a Empedocle; tuttavia lo Stagirita attribuendo ad ambedue i filosofi la nozione di "forza motrice" sostiene che fu scoperta per primo da Anassagora. O'Brien conclude quindi che hýsteros vada letto come "inferiore" e non come "posteriore", ovvero: Anassagora più vecchio di Empedocle, secondo Aristotele, gli fu "inferiore".
«Approdiamo così a una cronologia i cui tratti essenziali sono ben attestati dai documenti antichi. Parmenide è di una quindicina di anni più anziano di Anassagora, nato tra il VI e il V secolo. Empedocle, di qualche anno soltanto più giovane di Anassagora, è dunque più vecchio di Democrito, nato una trentina di anni dopo Anassagora nel 470/469.»
(Denis O'Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario critico, vol. 2 (a cura di Jacques Brunschwig e E.R. Lloyd). Torino, Einaudi, 2007, pp. 81-82)
Si sarebbero quindi succeduti per la nascita: Parmenide, Anassagora, Empedocle e Democrito.
Eràclito di Efeso ( Herákleitos, "gloria di Era""; Efeso, 535 a.C. – Efeso, 475 a.C.) è stato uno dei maggiori pensatori presocratici.
Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e della frammentarietà nella quale ci è giunta la sua opera. Eraclito aveva comunque fama di cripticità già nella sua epoca. Ad esempio Aristotele, che si suppone ne abbia letto integralmente l'opera, lo definisce «l'oscuro»; persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'«oscuro», sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo. Eraclito influenzò in vario modo i pensatori successivi: da Platone allo stoicismo, la cui fisica ripropone in gran parte la teoria eraclitea del logos.
Zenone di Elea (in greco antico Zénon; 489 a.C. – 431 a.C.) è stato un filosofo presocratico della Magna Grecia e un membro della Scuola eleatica fondata da Parmenide. Aristotele lo definisce inventore della dialettica. È conosciuto soprattutto per i suoi paradossi, che Bertrand Russell definì come «smisuratamente sottili e profondi». Vi sono poche notizie certe sulla vita di Zenone. Anche se composta quasi un secolo dopo la morte di Zenone, la principale fonte di informazioni biografiche sul filosofo è il dialogo Parmenide di Platone.
Di Zenone, Platone ci dice che era "alto e di bell'aspetto" e che "venne identificato in gioventù come l'amante di Parmenide". Zenone fu discepolo prediletto di Parmenide e, nel citato dialogo platonico, Pitodoro racconta ad Antifonte che i due "una volta vennero alle Grandi Panatenee" (Parmenide, 127 A-B) e che in tale occasione avrebbero conosciuto Socrate. Platone descrive la visita di Zenone e Parmenide ad Atene, in modo da salire alla data di nascita del primo: la visita avrebbe avuto luogo nel periodo in cui Parmenide ha "circa 65 anni", Zenone "quasi 40" e Socrate è "un uomo molto giovane"; grazie a queste indicazioni, attribuendo a Socrate un'età di 20 anni e assumendo come data di nascita di quest'ultimo il 469 a.C., è possibile stimare la nascita di Zenone nel 490 a.C..
La notizia del viaggio non è però confermata da Diogene Laerzio che, al contrario, sostiene che egli non si sia mai recato ad Atene; nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio sono contenuti altri dettagli, forse meno affidabili: si riporta che Zenone era figlio di Teleutagora, ma figlio adottivo di Parmenide, e che inoltre era "abile a sostenere entrambi i lati di ogni discorso" e che venne arrestato e forse ucciso dal tiranno di Elea.
Secondo Plutarco, Zenone tentò di uccidere il tiranno Demilo e, avendo fallito, per non rivelare l'identità dei suoi complici, "con i suoi stessi denti si strappò la lingua e la sputò in faccia al tiranno".
Video HD https://www.youtube.com/watch?v=DOxMVdF2CCw
Gassman https://www.youtube.com/watch?v=3808-CPnW5U
Eugenio Caruso - 16 maggio 2018
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