Oggi, 17 maggio, in 130 Paesi si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Si tratta di una ricorrenza creata nel 2004 al fine di commemorare il giorno in cui l’Organizzazione mondiale della sanità ha derubricato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.
Era il 17 maggio del 1990. La finalità di celebrare questa data è quella di promuovere iniziative di sensibilizzazione per l’inclusione delle persone Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) nei vari contesti sociali e istituzionali. La giornata è celebrata anche in Paesi dove i rapporti tra persone dello stesso sesso sono considerati illegali, ognuno interpretando a proprio modo il concetto di inclusione. Per quanto concerne l’Italia, nel 2018 nella misurazione del livello di inclusività sociale e istituzionale, con un indice che va da 0 a 100 (dove 100 indica la massima inclusività), raggiunge il punteggio di 27, vicino a quello di Stati dell’Europa dell’Est, come per esempio la Bulgaria (24) e la Repubblica Ceca (29), e molto lontano invece dalla dirimpettaia Francia (73) (l’indagine è condotta annualmente dall’associazione internazionale Ilga).
Il fatto che l’omosessualità non sia da considerarsi una patologia è condiviso dalla maggior parte delle persone nel nostro Paese. Come ci segnala la ricerca condotta dall’Istat (2012), per la maggior parte dei cittadini italiani infatti l’omosessualità non è una malattia (75%), né è immorale (73%). Eppure, se da una parte i pregiudizi antigay originati dalla medicalizzazione e dalla morale religiosa hanno perso terreno, dall’altra le persone gay e lesbiche non vengono equiparate a quelle eterosessuali.
Ad esempio, crea ancora difficoltà a una parte significativa della popolazione il fatto che le persone omosessuali rivestano alcuni ruoli sociali: per il 41% degli italiani, per esempio, non è accettabile che un insegnante di scuola elementare sia omosessuale e per il 28% che lo sia un medico. Anche il linguaggio usato per identificare le persone omosessuali può rimandare a pregiudizi nei loro confronti e rientrare tra gli atteggiamenti discriminatori verso questo gruppo sociale. Molte parole, infatti, sono utilizzate con una connotazione negativa, se non come vero e proprio insulto.
Rispetto a ciò, la stragrande maggioranza degli intervistati (47% spesso; 33% qualche volta) riferisce di avere sentito conoscenti o amici usare termini offensivi nei confronti delle persone omosessuali. È dunque ancora molto diffuso il linguaggio dispregiativo che rimanda a rappresentazioni negative delle identità, dei comportamenti e delle comunità non eterosessuali.
L’omonegatività contemporanea si caratterizza quindi non più per mettere in dubbio la liceità di essere gay e lesbiche, bensì per l’impossibilità di vivere le relazioni al pari delle persone eterosessuali, in termini di visibilità sociale e di riconoscimento istituzionale. Il percorso che ha condotto all’approvazione della legge sulle unioni civili ben testimonia questo aspetto: da un lato si è preso atto dell’esistenza delle coppie dello stesso sesso, inserendole nella norma legislativa e allineandosi in qualche modo agli altri paesi europei, dall’altro vi è stato lo stralcio della step-child adoption con la creazione di un istituto giuridico a parte (le unioni civili, che sanciscono la creazione di una “formazione sociale specifica”, e non di una “famiglia”, che può solo essere eterosessuale).
L’omonegatività contemporanea è dunque più indiretta e concilia posizioni di apertura, tolleranza, inclusione con altre di chiusura, discriminazione ed esclusione: una sorta di ambivalenza che suona come “omosessuale va bene, ma fino a un certo punto, non troppo”. Esempi paradigmatici sono costituiti dalla pressione sociale all’invisibilità: si ritengono poco accettabili le dimostrazioni pubbliche di affetto delle coppie dello stesso sesso e si è contrari all’omogenitorialità – solo il 20% degli italiani intervistati è molto o abbastanza d’accordo con la possibilità per una coppia omosessuale di adottare un bambino (Istat, 2012). L’omogenitorialità rimane infatti la questione che più di tutte raccoglie pareri contrari, poiché infrange la prescrizione sociale a vivere il proprio orientamento con discrezione e va oltre, battendo, con pratiche socialmente impreviste, una strada nuova, inserendosi in un paesaggio culturale in cui permangono valori tradizionali e pregiudizi moderni.
Sappiamo che l’avversione nei confronti delle persone omosessuali origina non da una variabile intrapsichica, bensì da un pregiudizio socialmente costruito e da pratiche sociali e istituzionali diseguali. Ed è su questo fronte che occorre agire, creando occasioni sociali di incontro e confronto per ridurre i pregiudizi e decostruire gli stereotipi. Le persone possono cambiare opinioni e atteggiamenti nel momento in cui hanno l’opportunità di conoscere chi appartiene al target delle loro credenze negative. A questo fine, le istituzioni svolgono un ruolo chiave per promuovere e agevolare questo incontro, per unire i diversi gruppi sociali e per superare lo stigma e le discriminazioni che invece li separano.
www.rivistailmulino.it - 17 maggio 2018
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