La ragione è condannata a porsi degli interrogativi ai quali sa di non poter rispondere.
Immanuel Kant
Il modello di economia
che ha dominato il secolo
scorso – un’economia basata su alti
consumi di energia fossile e di risorse
naturali – è incompatibile con un’effettiva
globalizzazione, con la sua estensione alla
gran parte della popolazione mondiale.
È, infatti, un modello nato in un gruppo
ristretto di paesi che avevano possibilità
di accesso a enormi risorse naturali
in varie parti del mondo, di generare
emissioni senza produrre impatti
climatici ed ecologici globali e con
sbocchi di mercato molto vasti.
La globalizzazione di questo modello di
economia non funziona, non può durare
a lungo. Lo dicono alcuni numeri. Nella
prima parte del Novecento il mondo
consumava una quantità di energia pari
a circa 2 miliardi di Tep (tonnellate
equivalenti di petrolio); negli ultimi
settanta anni siamo arrivati a superare i
13 miliardi di Tep – con una crescita di
oltre 6 volte – per oltre l’80% costituiti
da combustibili fossili. Le emissioni di
gas serra hanno così superato 53 miliardi
di tonnellate equivalenti di CO2 e la
concentrazione di gas serra in atmosfera
ha superato 403 parti per milione in
volume: la più alta degli ultimi 800 mila
anni.
Per evitare esiti catastrofici della
crisi climatica, secondo un Accordo
internazionale vigente – quello di Parigi
– e contenere l’aumento medio globale
della temperatura al di sotto dei 2 °C,
occorrerebbe tagliare le emissioni di gas
serra dell’80/90%, rispetto a quelle del
1990, entro il 2050.
Per avere un’idea della
dimensione del cambiamento richiesto
del sistema energetico mondiale basta
avere presente che le emissioni globali di
gas serra del 1990, che dovrebbero essere
drasticamente ridotte, sono invece, a oggi,
aumentate di oltre il 44%.
Il secondo dato che documenta la
non estendibilità durevole dell’attuale
economia è quello del suo elevato
consumo di risorse naturali (biomasse,
minerali e combustibili fossili) che
è cresciuto da circa 7 miliardi di
tonnellate all’inizio del secolo scorso,
a 84,5 miliardi di tonnellate nel 2015
– una crescita di ben 12 volte – e che,
proseguendo di questo passo, arriverebbe
a 170-184 miliardi di tonnellate entro
il 2050 (The circularity gap report, Davos
2018).
L’elevato livello di consumo di
risorse ha già reso rari alcuni materiali,
contribuisce a rendere volatili i prezzi
delle commodity, ad aumentare i rischi per
l’approvvigionamento di alcuni minerali e
a generare forti impatti sulla biodiversità
e sugli ecosistemi.
Il primo Rapporto internazionale sullo
stato di salute degli ecosistemi della Terra
(Mea, 2005) lancia un vero e proprio
allarme ecologico globale. La popolazione
mondiale ha ormai superato i 7,6 miliardi:
in poco più di un secolo è aumentata di
4,5 volte. L’aumento della popolazione
mondiale è rallentato, ma resta pur sempre
pari a circa 75 milioni in più ogni anno,
che richiedono la loro parte aggiuntiva di
energia e di risorse naturali.
Sono questi numeri a indicare che il
modello di economia oggi prevalente non
può continuare a essere effettivamente
globale. Come viene affrontata questa
nuova situazione mondiale?
La nuova
amministrazione Trump è uscita
dall’Accordo di Parigi e sta attuando una
politica protezionista dei suoi interessi
economici nazionali. La tendenza a tirarsi
fuori e arroccarsi in difesa e protezione
del proprio benessere da parte di chi lo ha
raggiunto, sta diventando più forte anche
in Europa. I timori che lo sviluppo non
possa più essere intensificato ed esteso,
insieme alle paure delle conseguenze
della crisi climatica ed ecologica, possono
incoraggiare taluni a non occuparsi
affatto di come va e come andrà il mondo,
ma a ripiegarsi ancora di più nella tutela
dei propri privilegi: quando il Titanic
comincia ad affondare, quelli della prima
classe si precipitano sulle scialuppe di
salvataggio, che non bastano per tutti.
Si può affrontare in modo diverso
l’insostenibilità ecologica della
globalizzazione dell’attuale modello
di economia?
Alcuni hanno indicato
la decrescita economica come scelta
di sostenibilità ecologica. Per generare
effetti ecologici significativi, la decrescita
dovrebbe essere globalizzata e duratura.
Come scelta prevalente, dei governi della
maggior parte dei paesi del mondo, la
decrescita non è nemmeno immaginabile.
Se si applicasse solo in alcuni paesi,
avrebbe scarso impatto sulla crisi
climatica ed ecologica globale, avrebbe un
costo sociale prevedibilmente elevato e
durerebbe comunque poco come politica
di governo.
Come ho cercato di argomentare nel
mio ultimo libro (La transizione alla
green economy, 2018), si potrebbe invece
cambiare il tipo di economia, puntando
sulla green economy: l’economia dello
sviluppo sostenibile, a basse o nulle
emissioni di carbonio, basata sull’uso
efficiente di energia rinnovabile,
sull’elevata qualità ecologica e sull’uso
circolare delle risorse.
Una simile
economia deve abbandonare anche i
modelli consumisti e puntare su un
benessere sobrio e di migliore qualità, più
esteso e inclusivo.
La buona notizia è che questo
cambiamento dell’economia in direzione
green è in corso e che l’economia circolare,
suo pilastro fondamentale, è ormai un
tema centrale, oggetto di recenti direttive
europee.
Quella cattiva è che il cambiamento è
ancora troppo lento e non abbastanza
esteso e che quelli che vi si oppongono
sono ancora in molti e, soprattutto,
quelli che stanno tirando i remi in barca,
pensando di salvarsi badando solo ai fatti
propri, stanno aumentando.
Edo Ronchi • Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile - www.arpae.it 11-09-2018
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