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Le politiche economiche del centro sinistra negli anni 60/70


In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"

Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.

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14. Le politiche economiche del centro sinistra negli anni 60/70
Appena varato il governo di centro-sinistra, i socialisti chiedono una politica di investimenti e di maggiori interventi dello stato nelle grandi imprese. Quando il ministro socialista del bilancio, Antonio Giolitti (uscito dal Pci dopo i fatti d'Ungheria), mette mano a un progetto impostato su questi orientamenti si apre lo scontro con il ministro del tesoro Emilio Colombo. Questi, infatti, vagliate le proiezioni economiche dello stato, informa il governo che non è possibile dare il via, insieme, alle riforme di struttura e al risanamento dei conti. A fianco di Colombo si schiera Guido Carli, governatore della Banca d'Italia. Lo scontro tra Dc e Psi si fa duro, la riforma urbanistica per la promozione dell'edilizia popolare finisce sulle secche della battaglia per l'espropriazione dei suoli e i socialisti ricambiano la Dc bloccando la legge sul finanziamento della scuola privata.
Negli anni sessanta-settanta l'impresa pubblica conosce il massimo sviluppo in termini quantitativi e di legittimazione. L'Iri, che già svolgeva un ruolo da protagonista nella siderurgia, nei trasporti (linee aeree e autostrade), nella telefonia, nel settore bancario, espande la propria attività nei settori minerario, della metallurgia primaria, del cemento, dell'elettronica. L'Eni, superata la crisi conseguente alla morte di Mattei, impone al Paese un modello di sviluppo basato sugli idrocarburi. Nel periodo '53-'54 avviene un episodio che dà l'avvio ad una nuova missione all'Eni; la Snia Viscosa mette in licenziamento un migliaio di lavoratori del Pignone, ne nasce un caso nazionale, si muove il governo, si muove il sindacato e si muove il sindaco di Firenze, La Pira, che convince Mattei a comprare il Pignone. Da quel momento inizia l'era degli interventi dell'Eni, nel salvataggio di aziende private in crisi, compito, che, eventualmente, avrebbe dovuto assolvere l'Iri. Nel 1962 toccherà alla Lanerossi, poi, al Mineralmetallurgico, al Meccano tessile, alla Savio, alla Samin.
L'Efim si lancia in progetti industriali sempre più rischiosi, mentre viene istituito un quarto ente l'Egam (Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie), che si rivelerà un pozzo di perdite senza fondo, per non parlare degli enti per la gestione delle acque termali e per il cinema. Nel 1971 viene costituita, la Gepi (Gestione esercizio partecipazioni industriali) allo scopo di razionalizzare le azioni di salvataggio di aziende destinate al fallimento; l'ente interviene con fondi provenienti dal bilancio dello stato, ma, formalmente, è solo un altro carrozzone, essendo, infatti, di proprietà dei soci Iri, Eni ed Imi.
Nella gestione delle imprese pubbliche la logica imprenditoriale viene accantonata per privilegiare la logica spartitoria; gli enti di stato sono vere e proprie sinecure dei partiti che vi traggono i finanziamenti necessari per mantenere strutture ridondanti e costose. Le imprese pubbliche si trovano ad essere gravate da "oneri impropri" e a dover dipendere in maniera consistente dai trasferimenti pubblici. Le politiche economiche condotte negli anni settanta innescano, per di più, una vertiginosa spirale inflazionistica; il deficit pubblico, di fatto, finanzia i consumi, mantenendo artificiosamente alta la domanda interna, cosicché l'inflazione passa dal minimo storico dell'1,8%, del 1968, al massimo storico del 21,1%, del 1980.
Se, negli anni '50, l'impresa pubblica aveva conseguito buoni risultati, il quadro cambia negli anni '60. Priva di strategie, nel decennio '63-'72, l'impresa pubblica perde, di fatto, la capacità di produrre profitti: i bilanci dell'Iri iniziano a segnare rosso nel '63, quelli dell'Eni nel '69. La siderurgia dell'Iri è fonte di perdite vertiginose; in un periodo in cui altri paesi industrializzati giudicano prudente contrarre le attività siderurgiche da lasciare ai paesi in via di sviluppo, l'Italia diventa uno dei maggiori produttori d'acciaio (con le relative perdite). Negli anni sessanta viene costruito a Taranto un gigantesco stabilimento, partendo dalla falsa supposizione che esso sarebbe stato il punto di cristallizzazione della crescita economica del Sud-Est del Paese. Dieci anni dopo, un altro imponente complesso siderurgico viene progettato per lo sviluppo del Sud-Ovest, a Gioia Tauro. Viene costruito il porto che frutta immensi profitti alle famiglie mafiose della zona e ad alcuni uomini politici calabresi, e che porta alla devastazione di una ricca e splendida area agricola (Bocca, 1992). Fortunatamente il progetto dello stabilimento siderurgico non verrà mai attuato, sostituito da un progetto di centrale termoelettrica, anch'esso, successivamente, abbandonato.
La necessità di coprire quelli che surrettiziamente furono chiamati “i costi della democrazia” è la causa principale della condotta irresponsabile avviata dalle imprese pubbliche negli anni settanta con i relativi scandali finanziari e fallimento delle strategie industriali che ne seguiranno.
Il legame di stretta interdipendenza tra la "borghesia di stato" e il potere politico ha avuto come effetto quello di far perdere competitività ed efficienza all'impresa di stato. I dirigenti dei ministeri che dovrebbero operare come cinghia di trasmissione tra lo stato azionista e i manager delle imprese pubbliche si trovano in una posizione molto disagevole. Dall’alto sono stimolati dalle forze politiche, dai partiti o da notabili locali a perseguire scopi diversi da quelli cui le analisi economiche li orienterebbero, dall’altra sono contestati dai manager delle società pubbliche i quali o cercano di opporre le competenze che hanno acquisito in decenni di attività nel settore, oppure devono seguire le indicazioni del partito o del notabile che ha facilitato la loro carriera. Il risultato è la mancanza di una linea programmatoria e la fuga dalle responsabilità. Le gravi crisi degli anni novanta trovano evidenti prodromi proprio negli anni settanta.
Di converso, gli anni sessanta vedono un forte incremento della ricchezza prodotta dal settore produttivo privato, specie della piccola e media impresa, che, grazie agli elevati profitti e alla ridotta tassazione, dispone di mezzi propri per l'autofinanziamento; ne conseguono sensibili aumenti dei redditi.
Alla fine degli anni sessanta l'economia ha compiuto numerosi e duraturi progressi, nonostante permangano alcune isole di povertà. In vent'anni il reddito è cresciuto più che in tutti i precedenti cento, a Milano c'è la stessa densità di telefoni di Londra, la lira è una delle monete più forti del mondo, la bilancia commerciale registra un consistente avanzo, il numero di lavoratori agricoli è sceso a meno di quattro milioni. Zanussi, Ignis e Indesit primeggiano, in Europa, nel settore degli elettrodomestici, Olivetti è leader europeo per la fornitura di macchine d'ufficio, il settore turistico ha, probabilmente, il maggior giro d'affari del mondo, l'industria automobilistica produce, nel 1967, un milione e mezzo di autovetture, l'Urss, nel 1966, affida alla Fiat la costruzione della prima fabbrica di automobili per una produzione di massa, la Montedison è una delle maggiori imprese chimiche d'Europa e, nel 1969, l'Italia dispone della maggior industria di raffinazione a livello europeo ed è uno dei maggiori produttori di energia elettrica da fonte nucleare. Anche nel Mezzogiorno le condizioni di vita sono migliorate sensibilmente, anche se il divario con il Nord rimane immutato. Nel Sud si concentra l'offerta di lavoro pubblico e questa situazione crea fenomeni paradossali: la posta imbucata a Milano e indirizzata a Milano viene mandata in aereo a Palermo, dove una pletora di impiegati la suddivide in tanti pacchetti che ritornano a Milano in aereo (Amato, 2000).
14.1 La fine del miracolo economico
La storiografia economica fissa al 1964 la fine del miracolo economico. Esso, peraltro, non si esaurisce per morte naturale, ma alla sua conclusione contribuisce, in modo determinante, la stretta messa in atto, proprio nel 1964, per allentare la tensione sui prezzi manifestatasi tra la fine del '62 e il '64. Nella realtà il pericolo dell'inflazione viene drammatizzato per ragioni politiche; Guido Carli, infatti, ha posto in essere adeguate restrizioni al credito, ma Moro, timoroso che l'inflazione possa allarmare i ceti moderati e rafforzare il Pli, vuole dimostrare che centro sinistra e lotta all'inflazione sono compatibili, cosicchè, lacci e lacciuoli al credito vengono inaspriti e la dinamica salariale bloccata. L'inflazione è stroncata, ma la "cura da cavallo" cui è stata sottoposta l'economia del Paese interrompe bruscamente un'espansione che ha avvicinato l'Italia alle economie dell'Europa occidentale. Una concausa della fine del grande periodo espansivo potrebbe essere la nazionalizzazione dell'energia elettrica; questa, infatti, si abbatte come un ciclone su un'economia ancora debole e in fase di strutturazione. La nazionalizzazione viene effettuata con il trasferimento allo stato degli impianti elettrici in cambio di congrui indennizzi. Le società ex elettriche si trovano a disporre di notevole liquidità che sono costrette a investire in settori nei quali non hanno competenze; esse diventano facile preda di finanzieri più interessati alla liquidità che a progetti industriali.
Di converso, tra il '62 e il '74, l'incidenza delle esportazioni sul prodotto interno lordo passa dal 12 al 20%. Le imprese italiane, che devono fronteggiare il rallentamento della domanda interna, per il colpo d'arresto della dinamica salariale del '64 e per la diminuzione dell'occupazione, riescono ad aumentare le esportazioni sfruttando la competitività, assicurata da livelli salariali inferiori di quelli dei concorrenti. Questo periodo sarà il più lungo in cui il saldo delle partite correnti con l'estero resta positivo; sarà la crisi petrolifera del '73 ad invertire la tendenza. È degno di nota che questo balzo delle esportazioni non è realizzato dalle grandi imprese ma dalle piccole e medie, che hanno avviato la politica della flessibilizzazione degli impianti e della specializzazione in nicchie di mercato, e che sanno sfruttare una congiuntura mondiale che continua a essere sostenuta. Dopo gli aumenti salariali degli anni '69 - '70, va maturando una crisi economica che il primo shock petrolifero del '73 rende manifesta. Tra l'autunno caldo e il 1973 il sistema di protezione sociale consente di alimentare la domanda interna e sostenere l'occupazione attraverso il trasferimento di reddito da parte dello stato; la produzione riesce a seguire l'andamento della domanda e si evitano strappi inflazionistici. Ma, gradualmente, si evidenziano le prime incrinature; con il rallentamento della domanda di alcuni beni, la rigidità delle grandi imprese rivela di non poter ridurre i costi di produzione in modo da rilanciare, in modo significativo, la domanda. Con la riduzione delle entrate fiscali aumentano i trasferimenti dello stato per coprire il disavanzo di bilancio e l'inflazione inizia a radicarsi. In questo quadro, la crisi petrolifera è particolarmente dura e colpisce maggiormente l'Italia, per l'acerbità del sistema produttivo e il Regno Unito per la sua obsolescenza. La crisi si abbatte sulle imprese pubbliche con effetti catastrofici. La flessione della domanda provoca perdite nei bilanci che diventano strutturali quando il management di stato e i politici che li proteggono teorizzano che è possibile produrre in perdita purchè vengano coperti i costi fissi (in gran parte oneri finanziari); l'aumento dei tassi di interesse non fa che peggiorare la situazione. Proseguire nella politica di espansione della produzione attraverso l'indebitamento, con il miraggio di una riduzione dei costi che stimoli la domanda, diventa un suicidio per gran parte dell'industria pubblica italiana.
La crisi non colpisce solo l'impresa pubblica ma anche quella privata; i capitalisti italiani, senza capitali, e i capitali che non amano il rischio, si affidano alle cure di Mediobanca che, con l'abilità che le è propria nel costruire impalcature finanziarie, si pone l'obiettivo della salvaguardia della grande impresa: Fiat, Pirelli, Snia, Montedison.
14.2 Il problema energetico
Gli anni sessanta rappresentano un importante snodo della politica dei governi in campo energetico; i socialisti, infatti, impongono la nazionalizzazione del settore, con la costituzione dell'ente nazionale per l'energia elettrica (Enel). Il punto è che, nonostante le tariffe elettriche siano fissate dal Comitato interministeriale dei prezzi (Cip) e che, nel 1961, sia stata completata l'unificazione delle tariffe elettriche su tutto il territorio nazionale, le società elettriche private fanno utili che distribuiscono agli azionisti e la cosa è ritenuta peccaminosa nella chiesa socialista. È interessante notare che il massimo teorizzatore della programmazione nazionale, Pasquale Saraceno, è contrario a questa nazionalizzazione; egli sostiene, infatti, che due grandi società elettriche la meridionale Sme e la piemontese Sip, sono già pubbliche, essendo di proprietà dell'Iri, e che queste società potrebbero fare una politica di investimenti e di prezzi, costringendo i privati a seguirle (Toniolo, 1998).
I nazionalizzatori affermano che un produttore unico sarebbe in grado di realizzare tali economie di scala da consentire vistose riduzioni delle tariffe. Nella cruda realtà dei fatti questo calo tariffario non si vedrà mai; infatti, appena costituito l'ente, i lavoratori chiedono che i loro stipendi siano adeguati agli stipendi dei lavoratori delle altre aziende statali. Il costo del lavoro pro capite, a lira corrente, aumenta, rapidamente, portandosi, all'inizio degli anni settanta, su tassi di crescita superiori al 10% l'anno. Il numero degli addetti sale vertiginosamente. L'ente è costretto ad acquistare impianti e componenti sul mercato nazionale da altre imprese pubbliche, spesso inefficienti e fuori mercato, perdendo la possibilità di acquistare il meglio al minor costo. L'opzione nucleare viene bloccata, prima per l'opposizione dello stato all'iniziativa privata, successivamente per il "caso Ippolito" (il segretario generale del Cnen viene processato per irregolarità amministrative), poi per le indecisioni sul tipo di reattore e per i problemi finanziari dell'Enel, impegnata a indennizzare gli azionisti delle società nazionalizzate e, infine, per le opposizioni delle comunità locali. L'unica centrale che verrà realizzata dall'Enel sarà quella da 840 megawatt di Caorso, che avviata nel 1968 e terminata, dopo enormi ritardi, nel 1981, andrà soggetta a una serie innumerevole di inconvenienti tecnici fino al fermo definitivo.
Una delle motivazioni per la creazione delle aziende pubbliche era l'affermazione che il settore privato non sarebbe stato in grado di creare una cultura manageriale, cultura che sarebbe, invece, cresciuta nell'industria di stato.
Se analizziamo la storia dell'Enel possiamo affermare che essa è caratterizzata da una serie interminabile di errori commessi proprio dai suoi manager. La legge istitutiva dell'ente assegna all'Enel il compito di sviluppare il proprio potenziale produttivo per soddisfare le future richieste del mercato, cosicché i grandi programmatori dell'ente si mettono al lavoro. Una grossa centrale elettrica richiede un decina d'anni per essere completata, pertanto la programmazione deve essere fatta con proiezioni di almeno quindici anni. Nel 1975 i grandi manager di stato dell'Enel prevedono che nel 1990 la richiesta di energia elettrica sarà tra i 420 e i 520 terawattore , i dati a consuntivo del 1995 daranno poco più di 200 terawattore, molto meno della metà; la previsione del 1980, sempre per il 1990, si attesta tra 330 e 380 terawattore. Le ragioni di questi enormi scarti tra previsioni e consuntivi possono essere tante, ma il dato di fatto è che vengono commessi clamorosi errori.
Conseguentemente, la storia dell'Enel è costellata di mastodontici piani di investimento. Nel 1967 il direttore generale dell'ente pronostica che entro il 1980 l'Enel avrebbe avuto installati 6.500 megawatt nucleari. Nel 1975 si prevede la costruzione di 20.000 megawatt nucleari da realizzarsi entro il 1985. Il primo Piano energetico nazionale (Pen), sempre nel 1975, prevede addirittura, entro il 1990, l'entrata in funzione tra 46.000 e 62.000 megawatt nucleari. Il secondo Pen, nel 1977, prevede "solo" 12.000 megawatt nucleari entro il 1985. Nel 1979, i piani dell'Enel prevedono la costruzione di quattordici impianti a carbone da 640 megawatt ciascuno. Il Pen del 1981, approva la scelta nucleare più carbone, con la trasformazione a carbone di centrali termoelettriche per 3.700 megawatt e la costruzione ex novo di impianti a carbone per 17.000 megawatt. Il Pen del 1985 conferma i 12.000 megawatt nucleari e riduce a 12.000 megawatt gli impianti a carbone.
Fortunatamente, questi giganteschi piani non vengono realizzati perché il management dell'Enel, ancora una volta, non mette in conto le difficoltà riguardanti la scelta dei combustibili (si alternano, via via le ipotesi olio, nucleare, nucleare più carbone, carbone, policombustibili, gas), le difficoltà finanziarie e autorizzative, i tempi di realizzazione. Questo elenco di problemi rallenta lo sviluppo di una produzione che sarebbe stata enormemente in eccesso rispetto alla domanda (Toniolo, 1998). L'Enel, con il passare degli anni, perde credibilità e potere contrattuale, tanto che qualunque amministrazione locale è in grado di porre il veto alla costruzioni di qualsiasi tipo di nuova centrale. Questa situazione conduce l'Enel, negli anni ottanta, dai faraonici piani di produzione endogena, alla necessità di ingenti acquisti di energia elettrica dall'estero.
Se i programmi di costruzione sono sempre stati al di sopra degli effettivi fabbisogni, gli ordinativi effettivamente emessi, grazie all'inefficienza dell'ente, sono stati largamente al di sotto dei programmi, compensando quindi gli errori di previsione. Gli investimenti hanno avuto un andamento di forte irregolarità con periodi di investimenti e periodi di calma piatta; di converso, fortunatamente, più regolare è stato l'andamento dell'entrata in servizio degli impianti a causa di una cattiva programmazione e di un cattivo controllo dei tempi di realizzazione. Ancora una volta due inefficienze di segno opposto si sono sommate salvando il sistema elettrico.
Nel frattempo il settore evolve spensieratamente verso una completa dipendenza dagli idrocarburi. Contestualmente, la lunga fase espansiva delle economie industrializzate ha determinato una richiesta enorme di materie prime e quindi anche di petrolio e gas, i produttori di petrolio si associano in un cartello l'Opec (Organization of petroleum exporting countries), cosicché il potere di mercato passa dalla domanda all'offerta. Nel 1973, quando scoppia la guerra del Kippur tra Egitto e Israele, si assiste alla prima grave crisi petrolifera. Il petrolio viene usato come arma economica dai paesi arabi che ne riducono la produzione. I continui rincari del greggio costringono i paesi consumatori a varare misure di emergenza.
In Italia iniziano le "domeniche a piedi" e viene aumentato il prezzo di benzina e gasolio. Per ridurre i consumi elettrici, viene ridotto l'orario di apertura dei negozi, l'illuminazione pubblica viene pressoché dimezzata, le trasmissioni televisive terminano alle 22,45. L'Italia, energeticamente dipendente dall'estero, viene colpita duramente dal punto di vista economico. L'inflazione supera le due cifre e nel 1975, per la prima volta dalla fine della guerra, si ha una caduta del reddito (Nardozzi, 1980).

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Eugenio Caruso - 24 settembre 2018


Tratto da

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www.impresaoggi.com