In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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17. Sequestro e uccisione di Aldo Moro
Il 16 marzo 1978, Aldo Moro, che sta recandosi in Parlamento per l'investitura di Andreotti , è rapito dalle Brigate rosse. Un commando costituito da Mario Moretti (che, dopo aver sostituito Curcio nelle Br, avvia una stagione di sangue), Prospero Gallinari, Germano Maccari, Anna Laura Braghetti, Bruno Seghetti, ha programmato per mesi ogni fase del rapimento. In via Fani, un gruppo di brigatisti, sulla cui reale consistenza non si è mai arrivati a un chiarimento, tende un'imboscata alle due auto, uccidono la scorta e l'autista di Moro e trascinano l'uomo politico in una cella di via Montalcini.
Il gruppo non è particolarmente addestrato ad azioni di terrorismo, né all'uso delle armi, ma la cura nella programmazione dell'assalto, la sorpresa e la mancanza di una reazione efficace durante l'agguato rendono tutta l'operazione facile e priva di intoppi; nessuno dei brigatisti viene ferito o colpito dalla reazione della scorta.
Perché Moro? La versione "ufficiale dei brigatisti" recita: «l'uomo politico era considerato il responsabile dei governi di solidarietà nazionale, la trappola che la Dc aveva teso ai comunisti per indebolire il partito e con esso, in generale, tutta la classe operaia».
Per cinquantacinque giorni, Braghetti, Gallinari e Maccari, sotto la direzione di Moretti, tengono Moro prigioniero, mentre il Paese è tormentato dal dilemma se trattare o no con i terroristi per salvare l'uomo. Moro subisce interrogatori da parte di Moretti, e la summa dei 55 giorni di interrogatori è trascritta dallo stesso Moro in un memoriale, del quale non si è mai conosciuta la versione integrale. A Moro è consentito di inviare lettere a parenti, amici e colleghi di partito. Nei confronti dei democristiani si mostra particolarmente duro: Andreotti è il principale oggetto dei suoi attacchi, Zaccagnini viene rimproverato di essere inerte e succubo di fronte a una disumana ragion di stato e insultato come il peggior segretario che la Dc abbia mai avuto. I comunisti, vengono definiti traditori, perché l'uomo sta pagando per la sua politica di apertura verso il Pci, e la loro fermezza viene considerata un fatto di mero cinismo. Cossiga viene accusato di essere plagiato da Berlinguer per motivi di sardità.
Durante una seduta mediatica, cui partecipano Prodi e Clò, "uno spirito evoca il nome Gradoli"; le forze di sicurezza si recano nel paesino di Gradoli, ma a nessuno viene in mente di andare in via Gradoli a Roma. Che un futuro presidente del consiglio e un futuro ministro si mettano a invocare gli spiriti con il bicchierino è a dir poco ridicolo; l'ipotesi più verosimile è che qualcuno dell'area dell'autonomia abbia detto a un professore del giro di Prodi che in via Gradoli a Roma c'era un covo dei brigatisti e che si sia usato l'espediente della seduta spiritica per non mettere nei guai la fonte della "soffiata" (Fasanella, 2000). Poi in via Gradoli la polizia ci arriva davvero a causa di una perdita d'acqua che stava allagando l'appartamento sottostante. Secondo il brigatista Franceschini, e come intuisce lo stesso Moro, quello sarebbe stato un messaggio ai brigatisti: vi siamo addosso uccidetelo.
Nello stesso giorno, un comunicato avvisa che il corpo di Moro è stato lasciato presso il lago della Duchessa; l'informazione si rivelerà falsa e gli stessi brigatisti, una volta arrestati non sapranno darne una spiegazione. Successivamente si viene a sapere che l'idea era stata di Claudio Vitalone, magistrato della procura di Roma, «per tentare di sparigliare il gioco dei brigatisti», come spiegherà lui stesso, ma non è mai stato chiarito chi sia stato a confezionare materialmente il comunicato. Secondo il br Franceschini, quel comunicato poteva essere un ulteriore messaggio lanciato alle Br: affrettatevi ad uccidere Moro. Comunque, in una lettera scritta dopo l'episodio del falso comunicato, lo statista afferma «Desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà …»; un fatto è certo, Moro era sicuro della sua liberazione. Eppure dopo qualche giorno, in una lettera alla moglie scrive «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibile l'ordine di esecuzione …». Che cosa era accaduto nel periodo tra i due scritti?
Nel mondo politico i socialisti sono per la trattativa, i comunisti sono contrari per rimarcare l'assenza di continuità tra partito e terrorismo, anche i democristiani, sia pur riluttanti, scelgono la strada della fermezza. Intervistato, anni dopo, da Sergio Zavoli, De Mita affermerà «Vede, uno stato può trattare, se però è forte. Allora lo stato non era forte», inoltre ammetterà, un po' cinicamente, che molta parte della Dc non si sarebbe poi tanto dispiaciuta per la morte prematura dello statista lucano. Gallinari confesserà a Sergio Zavoli che i carcerieri di Moro compresero che non vi sarebbe stato nessun accordo per la liberazione del prigioniero quando Berlinguer si dichiarò contrario a qualsiasi trattativa, condizionando pertanto le altre forze politiche. Corrado Guerzoni, un collaboratore stretto di Moro, affermerà «Io non parto dalla convinzione che Moro potesse essere salvato. Io sapevo che Moro doveva morire».
Sollecitato da Fanfani il consiglio nazionale della Dc decide di riunirsi per valutare la possibilità di concedere la grazia alla terrorista Paola Besuschio, che non aveva compiuto delitti di sangue, in cambio della liberazione di Moro; anche il presidente Leone è d'accordo.
Il 9 maggio, il corpo di Moro viene trovato, in via Caetani, a pochi passi dalle sedi di Dc e Pci, nel portabagagli di una Renault rossa.
Intervistato da Sergio Zavoli sulla ricostruzione fatta dai media su tutta la vicenda dichiarerà Gallinari «Voglio dirle una cosa: se non fosse perché quella è la storia di una grande rivolta politica nel Paese, una storia nella quale ci sono vittime da una parte e dall'altra, ci sono morti, c'è sangue, se non fosse per tutto questo, direi che la ricostruzione, il modo in cui sono stati letti gli avvenimenti, sarebbero molto più adatti per i fumetti che per un serio giornalismo».
Indipendentemente dalle varie affermazioni fatte dai brigatisti restano alcuni fatti che nessuno ha ancora spiegato.
Dalle analisi balistiche risulta che due persone che hanno sparato contro la scorta di Moro dovevano avere una grande dimestichezza con le armi e un elevato grado di addestramento; nessuno dei brigatisti arrestati per l'omicidio Moro ha queste caratteristiche. Il blackout telefonico della zona nei minuti precedenti l'agguato. L'annuncio del sequestro, dato da Renzo Rossellini, attraverso l'emittente degli autonomi romani, pochi minuti prima dell'agguato. La libertà di cui godono i postini delle Br per consegnare i loro comunicati e le lettere di Moro. Il falso comunicato del lago della Duchessa e la quasi contemporanea scoperta del covo di via Gradoli, avvenuta grazie a una fuga d'acqua. L'appello alle Br di papa Paolo VI «liberatelo senza condizioni», che equivale ad una condanna a morte. La concomitanza dell'omicidio Moro con la decisione della Dc di riunire il consiglio nazionale per valutare un'ipotesi di scambio tra Moro e una terrorista in prigione. Il memoriale di Moro, mai trovato nella sua forma integrale. La considerazione che, dopo l'omicidio di Moro, le brigate rosse vengano in breve tempo debellate . Le acquisizioni dall'archivio Mitrokhin, secondo cui il Kgb diffuse i sospetti che il sequestro fosse stato commissionato alle Br dalla Nato, per distogliere i sospetti di collegamenti tra Br e apparati cecoslovacchi. L'ipotesi, avanzata dal generale Dalla Chiesa, dell'esistenza di una cordata parallela di carabinieri, che riesce a mettere le mani sul materiale originale prodotto durante il sequestro (cassette, dattiloscritti, lettere di Moro). L'evidenza che alcune domande fatte a Moro non potevano essere state elaborate da nessuno dei brigatisti noti. Il ruolo avuto nel sequestro dalla colonna toscana di Giovanni Senzani, il cervello politico delle Br, e quello del musicista Igor Markevitch, alla famiglia della cui moglie appartiene il palazzo Caetani, in via Caetani, nelle cui vicinanze, secondo Pellegrino potrebbe essere stato materialmente ucciso Moro (Fasanella, 2000).
Craxi, intervistato da Zavoli affermerà «Io ho il sospetto che da qualche parte, più o meno, si sia sempre saputo dove era Moro. Si è sempre saputo che non c'è stato solo lo spiritello a fare il nome di Gradoli. Come ha detto Gradoli lo spiritello probabilmente ha detto, anche, Montalcini. Ci sono state da parte di qualcuno delle omissioni nella ricerca del covo».
Affermerà Rossana Rossanda «Bisogna dire con molta franchezza che la morte di Moro fu una decisione politica. E i protagonisti in quei giorni erano due: democristiani e comunisti. Ma i comunisti non avevano interesse a lasciar uccidere Moro. E la Dc? Se c'è un mistero, nella storia delle Br, viene da quella parte». Secondo Occhetto, Moro aveva in mente una strategia di breve-medio periodo che prevedeva l'ingresso del Pci nel governo, «È quello che cercava di fare, è quello che gli hanno impedito di fare».
Particolarmente significativo il giudizio di un giornalista, Sergio Zavoli, che ha seguito con particolare impegno l'affare Moro. «È accaduto che, a vent'anni dall'assassinio di Moro e della sua scorta, una certa politica si è sentita in obbligo di dare al pubblico una sorta di ingrandimento di tutto l'opinabile e di riduzione di tutto l'acquisito. È successo, e forse non era possibile evitarlo, che alla memoria e all'analisi si accompagnassero l'affabulazione e la fantasticheria, queste invece fuorvianti e quindi perniciose: hanno, infatti, riproposto una sequela di sospetti, dubbi, ipotesi, scenari e piste che non portano da nessuna parte».
Giovanni Pellegrino (presidente della commissione stragi), andando contro il parere di molti, afferma che la storia delle Br non è completamente conosciuta; in particolare non sarebbe stata fatta chiarezza sull'area di contiguità che sosteneva i brigatisti. Maccari ha dichiarato, a esempio, alla Commissione stragi «Voi non mi crederete se vi dicessi in quante case di persone che oggi hanno un ruolo molto importante nell'informazione, o comunque un ruolo importante nella società, si faceva a gara per avere a cena uno come me». Affermazioni analoghe sono state fatte da Piperno. La Commissione stragi è arrivata alla conclusione che esista tuttora un patto di omertà che lega brigatisti, ceto dirigente e istituzioni. Pellegrino sostiene, inoltre, che ogni qual volta la Commissione stragi faceva riferimento all'esistenza di un'area di contiguità con le Br veniva aperto, dai media, un fuoco di sbarramento, da parti politiche diverse, dando alla Commissione la sensazione di aver toccato qualcosa che non andava toccato. D'altra parte gli stessi brigatisti hanno sempre sostenuto di non aver raccontato tutta la loro storia perché, una volta sconfitta la lotta armata, la scelta che essi avevano compiuto era quella di non nominare nessuno che non fosse già in carcere o incriminato.
Sicuramente, una svolta nel sequestro Moro si ha quando il "sistema" comprende che i brigatisti hanno in mano due ostaggi Moro e le sue rivelazioni; da quel momento, probabilmente, la contrapposizione non è più tra lo stato e i brigatisti, ma tra lo stato e i brigatisti in possesso delle rivelazioni di Moro. «A quel punto ci fu una svolta, un momento di torsione nella vicenda sotterranea del caso Moro. Probabilmente perché si tentò di mettere in campo una strategia con l'obiettivo di salvare l'ostaggio e di neutralizzare tutto ciò che egli aveva potuto dire alle Br» (Fasanella, 2000). Anzi è presumibile che, parallelamente alle trattative umanitarie tese alla liberazione di Moro, siano state avviate trattative più "profonde" mirate a salvaguardare i segreti di stato (basta pensare alla reazione che susciterà la scoperta di Gladio). L'ostaggio non viene salvato, il memoriale completo dell'uomo politico non verrà mai trovato e i brigatisti non saranno mai molto loquaci sulle rivelazioni avute da Moro.
De Mita ha affermato che uno stato debole come il nostro ha dovuto mostrare fermezza. Sembra piuttosto più corretto affermare che in uno stato sgangherato, nel quale centri di potere occulti potevano gestire la politica, l'economia e l'informazione, nel quale i servizi segreti potevano influenzare la scelta dei governi, nel quale era difficile distinguere l'alleato dall'avversario, in questo stato la storia bollerà la via della fermezza, tenuta nel caso Moro, come vile e disumana.
L'affare Moro è il sintomo del male oscuro che ha devastato la politica del Paese in quegli anni, è la dimostrazione che indecisione, impotenza, inconfessabilità e incapacità di decisioni responsabili sono i vizi di una classe politica abituata a ragionare in termini di interessi di bottega e di "servile encomio", piuttosto che in termini di lealtà, trasparenza, coraggio, visione illuminata e spirito di servizio.
Voglio ricordare che in questa vicenda ci sono state vittime di serie A, di serie B. Quel 16 marzo 1978 i cinque uomini della scorta di Aldo Moro furono massacrati senza pietà dai terroristi delle Brigate Rosse, ma nelle commemorazioni, nei ricordi del rapimento dello statista democristiano, rischiano di passare inosservati, quasi fossero una nota a margine. Gli stessi terroristi, oggi liberi di parlare, di rilasciare interviste dalle loro case, non fanno menzione di quei cinque uomini trucidati, come se si fosse trattato non di esseri umani, ma di oggetti da eliminare sul percorso della ‘rivoluzione’.
Eugenio Caruso - 28 ottobre 2018
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