In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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23. Il paese negli anni ottanta
Negli anni '80, la Dc, preoccupata di difendere il suo ruolo di partito-padrone, e la sinistra ancorata a teorie economiche superate, ampliano a dismisura la sfera pubblica dell'economia, riversando in essa, inefficienza, improduttività, assistenzialismo e garantismo, con la conseguenza di rendere asfittici importanti settori industriali in mano pubblica e di porli nelle condizioni di non poter competere sul libero mercato; il risparmio privato viene drenato dai titoli di stato, l'esosità e l'iniquità del prelievo fiscale e l'evasione sono ai limiti della tolleranza.
Nel 1986, Antonio Martino e altri liberisti, con lo slogan profetico «siamo prossimi a una situazione in cui l'unica alternativa alla riforma fiscale è la rivolta», organizzano il movimento di liberazione fiscale, che riesce a portare in piazza decine di migliaia di manifestanti. La reazione dell'establishment è quella di tacciare il movimento di poujadismo ; ancora una volta viene messa la sordina alla protesta delle classi moderate. Secondo le stime dell'Ocse, l'Italia è l'unico dei paesi industrializzati in cui lo stipendio netto del lavoratore dipendente è meno della metà del costo complessivo del lavoro. D'altra parte, dal 1980 al 1990 le spese del settore pubblico sono andate aumentando più di quanto sia cresciuto il Pil.
Gli strumenti della gestione partitocratica sono, la ricerca del consenso, la tecnica del mostrare i muscoli ai deboli e rispetto ai forti e il travaso nel debito pubblico di qualsiasi problema. Ogni manovra economica di una certa rilevanza viene approvata dopo infiniti patteggiamenti, tra le correnti della Dc, tra i partiti di governo e l'opposizione, rispettando le "regole della concertazione con le parti sociali": Confindustria, Intersind, Confcommercio, sindacati dei lavoratori e dei pensionati. La responsabilità delle decisioni viene così diluita tra più soggetti, con il risultato che, dopo aver mediato, stemperato e annacquato, gli obiettivi originari, che avevano suggerito la manovra, si perdono per strada. «Intervenendo direttamente e de-responsabilizzando la società, lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» cita l'enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus annus.
Negli anni ottanta dilagano la corruzione, elevata a sistema, l'uso della politica a scopo di business, l'arte dello schieramento con relativa perdita delle categorie del libero pensiero e della libertà di espressione, il clientelismo, l'arroganza, la furbizia, il ricatto, lo sperpero del danaro pubblico, l'esosità e l'ingiustizia fiscale, la paralisi della magistratura, il silenzio e la correità degli organi di informazione, l'ossequioso conformismo degli intellettuali la cui principale apprensione è la collocazione "politicamente corretta".
Il Paese viene gestito con l'approvazione di leggi disordinate e aggrovigliate, ma ricche di spiragli che paralizzano il cittadino comune, mentre avvantaggiano potenti e intrallazzatori che possono trovare scorciatoie ed eccezioni ricorrendo all'aiuto di quegli stessi professionisti che hanno contribuito a stilare le norme. Nell'amministrazione dello stato vale a piene mani il principio di Peter, secondo cui ognuno arriva al proprio livello di incompetenza e viene rovesciata la conclusione di Rousseau sull'ineguaglianza: «è contro le leggi della natura che un imbecille conduca un uomo saggio». In campo socioeconomico, quella che viene definita in tutto il mondo una trasformazione epocale - che vede affermarsi la rivoluzione schumpeteriana delle aspettative crescenti nel consumo di massa e quella sociale dei diritti crescenti, fondata sull'egualitarismo - è vissuta con la costruzione di scenari utopistici che non permettono di trovare un giusto equilibrio tra aspettative e diritti, da una parte, e realtà economica ed efficienza produttiva, dall'altra.
La povertà del nostro sistema industriale è evidenziata, all'inizio degli anni '90, dalla classifica delle prime cento società industriali della comunità europea: solo sei sono italiane, contro le trentaquattro tedesche, le ventotto francesi, le venti inglesi, le cinque olandesi e due anglo-olandesi. Delle sei italiane, due sono private e quattro sono pubbliche, a dimostrazione che la mano pubblica non solo non ha saputo creare in Italia un importante comparto industriale, ma ha strangolato anche le possibilità di crescita della grande industria privata.
Tra l'88 e l'89 era maturata l'operazione di costituzione di Enimont; alla joint venture erano state conferite, dai privati la Mentedison e dall'Eni, l’EniChem, un raggruppamento di aziende superindebitate (in cambio il governo avrebbe dovuto concedere alla joint venture 1.200 miliardi di agevolazioni fiscali). "L'accordo tra gentiluomini" stipulato tra Gardini e il presidente dell'Eni, Franco Reviglio, in base al quale i due soci avrebbero dovuto mantenere solo il 40 % delle azioni ciascuno, consentendo un controllo paritetico della società, viene rotto da Gardini che fa rastrellare in borsa, da amici, l'11% di azioni Enimont, azioni, che sommandosi alle sue, gli dànno il controllo della società. Purtroppo per lui, il 2 agosto '90, scoppia la guerra del golfo, il prezzo del petrolio sale da 15 a 30 dollari il barile. Le società chimiche entrano in crisi e più di tutte Enimont, che perde tra i 60 e gli 80 miliardi al mese, mentre l'Eni ha visto, repentinamente, aumentare il valore delle sue concessioni in Africa. Per di più la privatizzazione di Enimont è duramente osteggiata da Andreotti. I tempi sono quindi maturi perché Gardini, dopo un duro braccio di ferro, ma sostenuto da Cuccia, venda la quota Montedison di Enimont all'Eni, che, oltre ai 2805 miliardi versati a Montedison, spenderà 1400 miliardi per un'opa verso gli azionisti di minoranza. Per spuntare la bella cifra di 2805 miliardi Gardini deve passarne 150 ai cinque partiti di governo; la più colossale mazzetta nella storia della corruzione italiana.
Fortunatamente per il nostro Paese, l'inesauribile e vitale "mano invisibile dell'iniziativa privata", teorizzata da Adam Smith, riesce a mantenere in piedi il tessuto delle piccole e medie imprese, che costituisce una realtà del nostro sistema produttivo, citata a esempio anche dagli economisti di altri paesi. Il premio Nobel per l'economia, Douglas North, afferma che il successo del mondo occidentale poggia su due principi, una grande flessibilità, che crea adattabilità e quindi efficienza, e il decentramento, grande eredità delle città-stato, che valorizza le responsabilità individuali e la competitività. Questi principi, in Italia, restano patrimonio, quasi esclusivo, dei «produttori d'innovazione», secondo Schumpeter, e cioè di quegli imprenditori, che guidano la propria impresa basandosi su pochi e chiari concetti: tenere il passo della concorrenza, utilizzare strutture snelle, contenere i costi e produrre utili. Questi soggetti economici, agli inizi degli anni '80, si rendono conto che i fattori propulsivi dello sviluppo industriale sono l'innovazione, la qualità e il capitale umano, cosicché, ancora oggi, le loro imprese, gestite facendo riferimento a questi principi, ed estranee al fenomeno della lottizzazione, sono il volano di tutto il sistema industriale italiano.
La fantasia, la cultura e il gusto dei nostri imprenditori riesce inoltre a imporre in tutto il mondo la moda e il design italiani, cosicché settori, come quelli tessile e dell'abbigliamento, nonostante la concorrenza dei paesi a basso costo della manodopera, mettono a segno risultati di rilievo. Ma, come afferma sempre Douglass North, in una società governata da un sistema che genera inefficienza e nella quale l'instabilità politica è la norma, la corruzione diventa il surrogato delle regole, essa diventa cioè l'elemento equilibratore, che produce efficienza; così la piccola, come la grande impresa, riescono a sopravvivere all'esosità del fisco e all'inefficienza dei servizi e delle amministrazioni ricorrendo alla corruzione di militari della guardia di finanza e di amministratori a livello locale e nazionale.
Lo stato, che pure riesce a sconfiggere il terrorismo politico, continua a trascurare due altri gravi fenomeni eversivi, il "governo invisibile" che, con i servizi "deviati", le logge segrete, banchieri malavitosi e affaristi senza scrupoli, attenta alla sicurezza della democrazia e la mafia, che radicata in Sicilia e in Calabria, ove esercita un vero e proprio "controllo del territorio", ha ampliato il suo raggio d'azione a tutto il Paese. Afferma Falcone che all'inizio degli anni settanta lo scenario mafioso e i suoi protagonisti erano ben identificati; eppure, nelle stesse istituzioni si dissertava tra mafia buona e mafia cattiva, di preconcetti del Nord, di fenomeno criminale orizzontale, c'erano gli scettici e gli agnostici. Nel disinteresse della politica, negli anni settanta, «Tutti i migliori magistrati, o quasi, il grosso delle forze dell'ordine, sono impegnati nella lotta contro le Brigate Rosse e altre organizzazioni terroristiche. Pochi si interessano di mafia. Proprio allora prende il via il traffico di stupefacenti e la mafia si trasforma nella potenza che era diventata. Grave quindi l'errore commesso in un momento in cui si disponeva di tutte le informazioni e condizioni per capirla e combatterla. Il passaggio da una mafia poco attiva in campo economico a una mafia sempre più aggressiva si consuma tra il 1974 e il 1977» (Falcone, 1991).
La mafia, corrompendo e minacciando il potere politico, terrorizzando e ricattando gli operatori economici, effettuando un efficace "controllo del territorio" inaridisce le fonti della produzione e strangola l'economia del Sud. I progetti dei primi meridionalisti, che pensavano alla California dell'Europa, affondano nelle sabbie mobili dell'omertà, della corruzione, dell'incapacità di ricreare quel distillato di creatività e mercantilismo della polis greca. Falcone affermava che la mafia rappresenta in Sicilia uno stato nello stato, con le sue regole, leggi, codici e punizioni e che per i siciliani lo "stato della mafia" funziona meglio dello stato italiano. «Non può destare quindi meraviglia la scoperta di uomini politici che accettano di venire discretamente a patti con Cosa Nostra, dal momento che il controllo del territorio significa anche condizionamento del potere politico; con tutte le conseguenze elettorali immaginabili. La mafia controlla gran parte dei voti in Sicilia» (Falcone, 1991). D'altra parte, osserva sempre Falcone, l'ipotesi del "grande vecchio", del "burattinaio", che dall'alto della sfera politica, tira le fila della mafia è una pura invenzione giornalistica. «Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l'ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche»; prove e indagini indicano che è la mafia a servirsi del potere politico e non viceversa.
Allorché qualche magistrato coraggioso riesce a spuntare una condanna esemplare e a colpire la famiglia o la cosca mafiose, ci pensa la corte di cassazione, a rimettere tutto a posto, grazie a qualche difetto di forma individuato nella sentenza di condanna.
La mafia, negli anni settanta-ottanta, fa un gran salto di qualità, estende i suoi tentacoli al mondo dei grandi appalti e della speculazione finanziaria, approfittando del fiume di danaro che da Roma arriva nel Sud; gli "uomini d'onore" non si accontentano più di estorcere la tangente, ma diventano essi stessi imprenditori.
Nel luglio del 1984, esattamente un anno dopo che un'autobomba aveva fatto strazio di Rocco Chinnisi, giudice che non aveva mai smesso di braccare la mafia, viene arrestato, in Brasile, Tommaso Buscetta. Il pentito di mafia, durante il primo incontro con il giudice Falcone afferma «L'avverto signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. … Non dimentichi che il conto che ha aperto con cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?» (Falcone, 1991). Da quell'interrogatorio nasce il maxiprocesso del 1986.
Falcone è estraneo ai magistrati "militanti" ed estraneo ai magistrati corporativi, è fuori del branco; è critico nei confronti dell'associazione nazionale magistrati che ricambia l'avversione. Quando si tratta di nominare il procuratore generale antimafia sembra ovvio che Falcone sia il candidato naturale; magistratura democratica e il Pci gli scatenano contro una violenta campagna denigratoria. Il Csm gli preferisce Agostino Cordova. D’altra parte Falcone esprime questo parere, nel 1990 «Il Csm è diventato, anziché organo di autogoverno e garante dell’autonomia della magistratura, una struttura di cui il magistrato si deve guardare … con le correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica». Falcone, come Dalla Chiesa, contestati, da vivi, saranno santificati solo da morti. Confiderà Falcone a un giudice amico, qualche giorno prima della strage di Capaci, «Mi stanno delegittimando. È il primo passo. Cosa Nostra fa sempre così: prima insozza la sua vittima e poi la fa fuori. Questa volta mi ammazzano sul serio».
Giova ricordare che la mattina del 21 giugno 1989 gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono 58 cartucce di esplosivo all'interno di un borsone sportivo accanto a una muta subacquea e delle pinne, nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato, che aspettava i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann con cui doveva discutere sul filone dell'inchiesta "pizza connection" che riguardava il riciclaggio di denaro sporco. L'esplosivo era stipato in una cassetta metallica, ed era innescato da due detonatori. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: ciò fu attribuito a un fortunato caso (si parlò di un malfunzionamento del detonatore). Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, riporterà, in riferimento al fallito attentato, quanto veniva fatto circolare nei giorni successivi negli ambienti della DC e del PCI a Palermo: «I seguaci di Orlando sostengono che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». Nel corso degli anni furono individuati gli artefici e i mandati mafiosi.
Lo stato, che è sempre più centralista e autoritario, creando le premesse di conflittualità tra cittadino e istituzioni, non si accorge di aver perso ogni credibilità anche all'estero; l'incapacità di mantenere gli impegni presi con il fondo monetario internazionale e con la comunità europea, il velleitarismo e il moralismo, ci alienano la fiducia dei paesi industrializzati; la confusione, la corruzione, l'inadempienza, che caratterizzano le attività di cooperazione allo sviluppo del nostro ministero degli esteri, ci pongono in cattiva luce agli occhi dei paesi del terzo mondo.
L'Italia gode, negli anni ottanta, di un periodo di benessere, ma sono pochi coloro che avvertono che esso ha deboli fondamenta, perché in gran parte frutto dell'indebitamenton pubblico e che il tenore di vita degli italiani è superiore alle reali disponibilità economiche del Paese. Il cattivo esempio, offerto dallo stato, genera negli italiani una predisposizione al consumismo, basato sulla soddisfazione dei bisogni secondari, che ha pochi riscontri nel mondo. L'ubriacatura di beni di consumo produce l'illusione di potenza, di libertà, di autodeterminazione, crea la convinzione della superiorità dell'apparire sull'essere, dell'individuo sulla società, esalta la futilità e le doti negative del cinismo e dell'opportunismo, la cultura, che dovrebbe mettere in guardia gli italiani, venera gli dei audience e televisione; le librerie sono tappezzate di libri di personaggi dello spettacolo e della politica. Prima della sua drammatica morte, Pier Paolo Pasolini sarà uno dei pochi a denunciare la nuova divinità pagana, il consumismo, del quale Herbert Marcuse aveva denunciato il carattere alienante.
Dopo decenni di vacatio legis del comparto televisivo e di un'anarchia, che ha visto trionfare la legge del più forte, nel luglio '90, nonostante la resistenza della sinistra Dc, che esce compatta dal governo, due partiti trasversali, quello Rai e quello Fininvest, si accordano e viene approvata, a larghissima maggioranza, la legge Mammì, che sancisce il duopolio televisivo, caso unico al mondo e fonte di rischi per una corretta informazione televisiva. Il Parlamento italiano dimentica, in quest'occasione, che la libertà di informazione è il presupposto per ogni altra libertà e che essa può trovare un'effettiva attuazione solo nel caso in cui non vengano create barriere all'accesso.
Karl Popper afferma «La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i principi della democrazia», quando poi questo potere è un oligopolio, esso contraddice non solo i principi della democrazia ma anche quelli dell'economia (Popper, 1994). Umberto Eco osserva che «La televisione può diventare lo strumento efficace per un'azione di pacificazione e di controllo, la garanzia di conservazione dell'ordine, stabilito attraverso la riproposta continua di quelle opinioni e di quei gusti medi, che la classe dominante giudica più adatti a mantenere lo status quo» e quindi un mezzo potente e pervasivo, in grado di ridurre la riflessione critica del pubblico a vantaggio dell'ipnosi collettiva.
23.1 Il duopolio televisivo
Con la legge Mammì, Silvio Berlusconi, che ha creato il suo impero televisivo grazie al sostegno del mondo politico, in primo luogo di Craxi, deve soggiacere al "sacrificio" di vendere Il Giornale al fratello Paolo e le pay-tv ad alcuni amici. Craxi non dovrà più correre in aiuto dell'amico, come, a metà degli anni ottanta, quando alcuni pretori ordinarono l'oscuramento di programmi delle reti di Berlusconi. La riconoscenza della Fininvest si manifesterà con un ampio appoggio alla linea politica del caf, che a sua volta ricambierà con docili ministri delle poste.
Il duopolio televisivo spinge i responsabili dei palinsesti a inseguire gli indici di ascolto di massa, sia conformandosi alla cultura dell'ovvio e al gusto degli spettatori meno esigenti, sia condendo i programmi, come dice Popper, "con i sapori forti, le spezie dell'audience: sesso, volgarità, violenza e sensazionalismo. Non mancano dosi massicce di populismo con interviste volanti, a persone che insultano o inveiscono contro qualcosa o qualcuno, fatte passare per ascolto dell'opinione pubblica" (Popper, 1994); l'informazione viene somministrata in pillole. Farà osservare Eco, che il degrado culturale della tv trascina, con sé, anche i giornali, che, costretti a inseguire i modelli della televisione, perdono in qualità, senza guadagnare in quantità. La stampa scimmiotta la tv, introduce un linguaggio più violento, ricorre allo scoop, al sensazionalismo, alla titolazione ammiccante o forzata (il titolo a nove colonne che non corrisponde al contenuto delle notizie riportate), rifugge l'approfondimento, fa ampio ricorso alle interviste all'uomo della strada, rappresentato, per lo più, dall'attricetta famosa per cosce o seno, dal cantante, dal personaggio televisivo del giorno. La volgarità e l'insulto si trasferiscono sui social media e crescono in ampiezza e fantasia con il crescere di questi mezzi di comunicazione; Beppe Grillo ne trarrà enormi benefici catturando il consenso della gente.
Eugenio Caruso - 15 gennaio 2019
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