In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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31. L'IRI, tra conservazione e privatizzazioni. Parte I
Nel corso degli anni sono apparsi molti saggi che hanno descritto la storia dell'Iri, il più gigantesco dei dinosauri di stato, non per nulla chiamato dagli addetti ai lavori Apatosauro. Indubbiamente, però, il periodo che appare più oscuro e interessante insieme è quello che va dalla prima gestione Prodi, fino alle privatizzazioni.
Saggi, chiaramente agiografici, tendono a mostrarci la gestione di Prodi come efficace per le sorti dell'istituto, altri dimostrano invece una gestione disinvolta e orientata alla furbizia nel nascondere perdite e debiti, giocando tra l'istituto, le finanziarie e le controllate dalle finanziarie.
Interessanti sono le rivelazioni di Massimo Pini, membro del comitato di presidenza dell'Iri dal 1986 al 1992 (Pini, 2000).
Prodi, uomo di De Mita e dalle giuste frequentazioni, nel 1980 fonda un istituto di studi e ricerche economiche, Nomisma, finanziata quasi completamente dalla Bnl, all'epoca presieduta dal socialista di sinistra Mario Nesi. Nominato presidente dell'Iri, Prodi resta presidente del comitato scientifico dell'istituto. Dal 1983 si trova, però, a essere indagato per commesse stipulate da Nomisma con imprese del gruppo Iri e assolto, nel 1988, in quanto «l'idea che le commesse siano state affidate perché a richiederle erano il presidente dell'Iri, e il suo assistente (Ponzellini, segretario del comitato scientifico di Nomisma N.d.A.), alle società collegate, è verosimile, ma non assume gli estremi di reato». Sempre nel 1983, Nomisma firma un'importante commessa con il dipartimento della cooperazione del ministero degli esteri. Anche in questo caso si arriva a un procedimento penale contro Nomisma; sono rinviati a giudizio due esponenti del ministero, mentre Prodi e il fido Ponzellini sono assolti in istruttoria. Il giudice istruttore afferma, però, «Nomisma non vanta alcuna competenza specifica nel settore di ricerche affidatole, anzi ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti». Secondo il giudice Casavola, Nomisma «è una società che permette l'affermarsi di studiosi provenienti, prevalentemente, dall'ambiente universitario, e non è infrequente costatare il loro passaggio, dopo un'esperienza in Nomisma, all'Iri o alle società collegate, allo scopo di ricoprire cariche di presidenti o di amministratori delegati». Non per nulla nell'ambiente delle partecipazioni statali Nomisma era chiamata "Nomine".
Secondo i padri della programmazione, l'Ufficio Studi e Strategie dell'Iri sarebbe diventata la fucina dei cervelli, la «centrale di management a disposizione dello stato», secondo la definizione di Saraceno, una delle ragion d'essere dell'Iri in quanto i privati non sarebbero stati in grado di creare una classe manageriale moderna. Come mai, allora, Prodi svuota di importanza quest'ufficio cooptando dall'esterno, specie da Nomisma, consulenti con incarichi a carattere continuativo? (Pini, 2000).
Insediatosi ai vertici dell'Iri, nel novembre 1982, Prodi annuncia propositi di riforma: nomine professionali, accordi internazionali, sviluppo dei settori avanzati, dismissioni, quotazioni in borsa.
Secondo i calcoli di Franco Bechis su Milano Finanza, «Prodi, all'Iri, lottizzò come un democristiano». Nel suo periodo di presidenza fa approvare 170 nomine delle quali, 93 riguardano democristiani di sinistra, 23 socialisti, e 20 di aria laica. Le 34 nomine di natura tecnica riguardano le banche per le quali valevano criteri diversi di cooptazione. D'altra parte, Prodi deve dare conto delle proprie decisioni ai boiardi dell'Iri, che sono più potenti dello stesso presidente (Ettore Bernabei, Fabiano Fabiani, Umberto Nordio, i grandi banchieri pubblici), a Misasi, plenipotenziario di De Mita, a Fracanzani ministro delle ppss, a Cirino Pomicino, potente presidente della commissione bilancio della Camera.
Ettore Bernabei, in particolare, già direttore generale della Rai, dal '61 al '74, e quindi amministratore delegato di Italstat, dal '74 al '98, era una specie di superministro occulto della repubblica; quando c'era da compiere una missione delicata, spesso, i capi della Dc ricorrevano a lui e anche i rappresentanti degli altri partiti non disdegnavano il suo aiuto. In Rai la sua azione era stata fondamentale per consegnare la gestione dell'ente alle sinistre (Dc in particolare). In Italstat il suo potere era aumentato; il mandato politico era quello di fare di Italstat, attraverso le controllate, il volano di nuovi investimenti per le grandi costruzioni infrastrutturali, in collaborazione con i costruttori privati. L'Italstat era la controllante di una decina di società, tra le quali, le più importanti erano Italstrade (che costruiva strade) e Condotte (che costruiva porti, dighe, grandi infrastrutture); entrambe erano fonti di finanziamento per partiti o correnti di partito. Italstrade era l'impresa che aveva salvato il partito socialista di Nenni dalla bancarotta, finanziandolo fino al '64, quando, entrati al governo, i socialisti avevano trovato altre pingui fonti di finanziamento. Dopo il '74 Bernabei impone agli amministratori delle società controllate da Italstat il rispetto della legge sul finanziamento. Ma Bernabei trova una situazione particolarmente grave: il doroteo Corbi, amministratore delegato di Condotte, è presidente di Italstat, il socialista Orlandi, amministratore di Italstrade, è vicepresidente di Italstat, i due figurano quindi nella duplice veste di controllori e controllati. Tra i tre boiradi s'instaura un clima di forti attriti; Corbi, che ha vinto la commessa del porto di Bander Abbas (grazie alla mediazione di Vittorio Emanuele di Savoia presso lo scià di Persia), è definito dall'Espresso "uomo dell'anno" e lo stesso settimanale attacca Bernabei. In quegli anni, negli ambienti finanziari, la Persia è considerata Paese ad alto rischio e quella commessa è un'enorme imprudenza; infatti, di lì a poco, trionfa la rivoluzione khomeinista, scoppia la guerra tra Iran e Irak, e il colpo dell'anno del grande manager di stato si trasforma in una debacle (alla fine le perdite ammonteranno a circa 1.000 miliardi). Nello stesso periodo, Italstat individua altre perdite per 400 miliardi della controllata Condotte e Bernabei scopre un finanziamento illecito a politici per 30 miliardi. Intanto il nome di Corbi figura nella lista degli appartenenti alla P2, cosicché Bernabei coglie l'occasione per sbarazzarsi dello scomodo amministratore di Condotte. Nel suo diario, Bernabei racconta che nel 1983, il senatore Petrilli, ex presidente dell'Iri, lo informa di avere la disponibilità di un fondo di circa 200 miliardi, sotto forma di certificati del tesoro, messi a suo tempo a disposizione da Italstrade per operazioni di "lubrificazione" e per il finanziamento dei partiti e del quale Petrilli vuole sbarazzarsi. Bernabei riesce a far rientrare i 200 miliardi; la magistratura farà una serie di indagini su questi fondi neri, ma tutto finirà in una bolla di sapone.
Quando Prodi annuncia trionfalmente che l'Iri, nel 1985, è in utile di 12,4 miliardi si riferisce solo al conto economico, ma la corte dei conti mette in chiaro che la realtà è ben diversa. «Il complessivo risultato di gestione dell'Istituto, per il 1985, cui concorrono … sia il saldo del conto profitti e perdite sia gli utili e le perdite di natura patrimoniale, corrisponde a una perdita di 980,2 miliardi, che si raffronta a quella di 2.347 miliardi del 1984». Lo statuto dell'Iri prevede, infatti, che utili e perdite di natura patrimoniale non vadano inserite nel conto economico; uno dei trucchetti che consentono ai presidenti dell'Istituto di giocare alle tre tavolette con i conti e gettare fumo negli occhi agli inesperti. Nota, inoltre, la corte dei conti che le perdite nette del bilancio consolidato sono di 1.203 miliardi nel 1985 e di 2.737 miliardi nel 1984.
A fine aprile '95, Prodi, tenta di vendere, con trattativa privata, la finanziaria Sme, nella quale erano confluite, Motta, Alemagna, Star, Cirio e altre società alimentari, alla Buitoni di Carlo De Benedetti. L'Iri, per il 64% del pacchetto azionario, avrebbe incassato poco più di 497 miliardi, da pagarsi a rate. All'annuncio della trattativa si solleva un putiferio di contestazioni, in particolare da parte di Craxi, che promuove, da parte sua, una cordata per la Sme e l'operazione viene bloccata. Nel 2003, Andreotti in un'intervista affermerà: «… ancora oggi non capisco perché Bettino Craxi, anzicchè limitarsi a bocciare il contratto Iri-De Benedetti, , avesse brigato per far entrare in lizza Sivio Berlusconi e Pietro Barilla». Tra il 1993 e il 1996 le imprese del gruppo Sme saranno vendute a diversi acquirenti, per un incasso complessivo di circa 2.400 miliardi; pur considerando l'inflazione, il valore attribuito dal mercato alla Sme è stato ben superiore al prezzo concordato tra Prodi e De Benedetti. Tra l'altro la Sme, lungi dall'essere solo un peso finanziario per l'Iri, come affermava Prodi, era in grado di produrre utili tra i 70 e i 120 miliardi l'anno. Qualcuno pensò che si era trattato di un favore del professore di Bologna all'amico che con le corazzate Repubblica ed Espresso lo aveva sempre appoggiato. Un'indagine istruttoria, condotta sull'episodio dall'allora ministro di grazia e giustizia, Mino Martinazzoli, afferma «Gli accertamenti hanno evidenziato gravi e profonde perplessità di ordine economico e giuridico …. È evidente una notevole e ingiustificata sottovalutazione del pacchetto azionario della Sme». La condotta di Prodi viene censurata per «l'assoluta mancanza di consultazioni con il comitato direttivo dell'Iri o con possibili acquirenti qualificati». Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Giuliano Amato, dichiara all'Economist «Craxi ha espresso il suo dissenso sulla correttezza dell'intesa … chiedendo che le privatizzazioni avvengano sul mercato aperto e non a porte chiuse».
Eugenio Caruso - 18 marzo 2019
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