L'abbiamo chiamata quasi tutti "la prima foto di un buco nero", la "foto del secolo" raccontando l'ultimo risultato scientifico che ha portato, per la prima volta, a vedere cosa c'è in prossimità dell'orizzonte degli eventi, fino a disegnarne il confine. Come accade per quasi tutti i grandi annunci che trovano grande eco, risonanza viene data anche allo scetticismo che li accompagna. C'è chi prova a smontare la "truffa mediatica" con la quale è stato gonfiato l'evento, arrivando a definirlo una "pagliacciata", o addirittura arrivando a mettere in dubbio il valore del risultato in sé. Cerchiamo di fare un po' di chiarezza.
È o non è una foto?
Non nel senso stretto del termine. Se per fotografia si intende quella che si scatta con una macchina fotografica, con una pellicola o un sensore che raccolgono luce visibile ai nostri occhi, secondo la definizione che ne dà, per esempio, il dizionario Treccani: "I termini 'foto', 'immagine', 'vediamo', 'vedere', rendono l'idea ma non sono proprio corretti - spiega Daria Guidetti dell'Inaf, radioastronoma all'Istituto di Radioastronomia di Bologna nonché autrice e conduttrice del programma TV "Destinazione Spazio", che non ha preso parte al progetto Event Horizon Telescope - le onde radio che gli otto radiotelescopi hanno raccolto non sono visibili all'occhio umano perché, all'interno dello spettro delle onde elettromagnetiche, cadono al di fuori della luce che possiamo percepire con gli occhi, cioè i colori dell'arcobaleno. Se andassimo lì vicino (a distanza di sicurezza) non vedremmo quell'immagine lì con i nostri occhi".
Quella che ci hanno mostrato, in sostanza, è una mappa delle emissioni di onde radio da parte di un disco di gas che sta precipitando dentro l'orizzonte degli eventi di un buco nero. Per disegnarla, però, un colore è necessario assegnarlo: "Quello che hanno fatto è trasformare qualcosa di invisibile (le onde radio) in visibile. Hanno usato i colori dal rosso al giallo, avrebbero potuto usare i toni del verde o del fucsia. È una trasposizione in falsi colori, come fotografare il calore di un caffettiera, lo possiamo rilevare e produrre una immagine".
Ma non si tratta di un "fake", non è una immagine falsa, una simulazione o inventata: "Se fossi lì e al posto degli occhi avessi due radiotelescopi, che poi sono antenne - continua Guidetti - sintonizzati sul canale usato (230 Ghz) vedrei più o meno quello. Per capirci, se i nostri occhi 'vedessero' solo le onde radio, per esempio sotto un cielo notturno come quello che si può ammirare dalle Alpi, non potremmo apprezzare quello spettacolo splendido ricco di stelle. Perché le stelle, in generale, emettono poche onde radio. Un buco nero ne emette molte e queste hanno il vantaggio di attraversare le abbondanti polveri che lo circondano, mentre le altre radiazioni, comprese quelle visibili, vengono bloccate, assorbite". Se fossimo lì vicino a guardarlo in prima persona, vedremmo dunque un altro tipo di emissione, più debole in quanto attenuata dalle polveri, altri colori (quelli visibili all'occhio umano), ma la sostanza resta quella che ci hanno svelato gli scienziati.
La foto nbon è stata scattata con un metodo "tradizionale", ma mettendo insieme migliaia di terabyte di dati con la tecnica dell'interferometria a lunghissima base: "Otto radiotelescopi hanno puntato in quella zona, ognuno in un momento diverso perché si trovano sparsi in tutta la Terra - aggiunge la radioastronoma - e ognuno in condizioni climatiche, di umidità e con strumenti differenti: una quantità di fattori pazzesca. Combinare tutti i dati in maniera coerente è stato un lavoro enorme", portato avanti da un team di cui fa parte anche Katie Bouman, 30 anni, celebrata come la giovane ricercatrice che ha "sviluppato" la foto del secolo ed è stata accusata di essersi presa meriti non suoi e bersagliata (come accade spesso) con insulti sessisti. Il lavoro ha impiegato circa due anni per essere portato a termine, grazie a un algoritmo scritto apposta per ricavare l'immagine dai dati prodotti. Un processo molto più complesso rispetto allo sviluppo di un negativo o al lavoro di un sensore Cmos.
Allora perché tutti, i ricercatori per primi, parlano di "foto"? Per prima cosa: si tratta comunque di radiazione elettromagnetica catturata e trasformata in colore attraverso l'elaborazione di un software, come accade nelle nostre più semplici macchine fotografiche. E poi perché "rende", è la trasposizione visiva di informazioni invisibili, giunte a noi, di qualcosa che esiste. Non del buco nero, perché dal buco nero non possono venire informazioni (luce o qualsiasi altra cosa), ma dei gas del disco di accrescimento che stanno per precipitare oltre quel confine, tracciato e reso visibile per la prima volta in quel preciso angolo di cosmo. Si tratta di una sintesi, di fare divulgazione, senza stravolgere nessun concetto, semplicemente rendere conto a tutti (anche a chi paga le tasse) nella maniera più efficace possibile, di un lavoro straordinario con la speranza che il racconto faccia innamorare ancora tanti giovani della scienza. È anche questa una spinta per il progresso. Per dirla con le parole che Roberto Cingolani, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia, ha affidato a Repubblica per raccontare l'emozione dell'evento: "Il fatto di poterlo vedere, rende anche i sogni della fantascienza meno arditi. E questo è il miglior propulsore della curiosità scientifica".
In qualche mail c'è chi la definisce la foto addirittura una "pagliacciata cosmica", sostenendo che basterebbero i dati scientifici a dar prova della presenza di un buco nero e della conferma della Relatività di Einstein. Le cose non stanno proprio così: "L'immagine è qualcosa che ci serve, è una matrice di numeri - riprende Guidetti - è importante perché ci ha permesso di rilevare l'orizzonte degli eventi. È un lavoro che noi radioastronomi facciamo regolarmente, facendo misure anche direttamente su di essa. Quando si deve presentare un'immagine al grande pubblico, come fa la Nasa, spesso si lavora per renderle belle dal punto di vista estetico. Ma non ci si inventa niente".
Il celebre fisico Antonio Zichichi, intervenuto a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, si è espresso in questi termini: "Il progresso nasce dagli esperimenti che possiamo fare nei nostri laboratori. Dei buchi neri non sappiamo cosa farcene. Perché è ovvio che doveva esser così, non è affatto una scoperta. È la foto di una cosa che doveva esistere". Sul concetto di "scoperta" vale la pena di chiarire: i risultati dell'Event horizon telescope hanno di fatto confermato quello che i calcoli teorici, derivati dalle formule della Relatività di Einstein, predicevano. Anche le onde gravitazionali erano predette dalla teoria, ma questo non ha sminuito la portata dei risultati quando sono state rilevate per la prima volta, che hanno significato il Nobel per chi li ha confermati.
È la prima volta che "vediamo" l'orizzonte degli eventi, cioè quello che possiamo osservare di un buco nero. Non erano mai state fatte prima misure in un ambiente così estremo per verificare la teoria di Einstein. Addirittura, fino a quando non siamo riusciti a sbirciare fino a quel confine, non avevamo una prova diretta così "intima" della sua esistenza: "Il buco nero è un modello matematico - conclude Guidetti - e ora finalmente abbiamo confermato con delle misure quello che, al momento, conosciamo con la teoria. Verranno misure più precise e magari si andrà oltre". Potremmo scoprire, aumentando la sensibilità e la risoluzione delle osservazioni, che la Relatività in effetti dopo un po' si ferma, che non riesce a spiegare tutto e servirà una piccola o grande rivoluzione, una nuova Fisica, per spiegare le nuove misure. Ma ancora le formule del caro vecchio Albert ci bastano. In sostanza, questa "foto" ci dice che Einstein aveva di nuovo ragione.
La foto appena rilasciata ritrae l'orizzonte degli eventi del buco nero M87, che ha una massa di 6,5 miliardi di volte quella del Sole e si trova nel centro dell’omonima galassia, a 55 milioni di anni luce da noi nella costellazione della Vergine. Questo gigante è particolarmente attivo, perché ingurgita un’enorme quantità di materia. «Con questa esperimento abbiamo dimostrato che i buchi neri esistono, e che possono essere studiati con osservazioni astronomiche», spiega Ciriaco Goddi, astronomo delle Università di Nijmegen e di Leiden (nei Paesi Bassi) e segretario del consiglio scientifico di EHT. «Provare l’esistenza di questi corpi celesti riveste un’importanza fondamentale nella nostra concezione dell’universo. Infatti, i buchi neri sono una delle previsioni principali della teoria della Relatività generale di Einstein».
www.repubblica.it - 03/05/19
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