Dopo aver commentato il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone e l'Apologia di Socrate, mi dedico ora al Fedone.
INTRODUZIONE
Il Fedone è uno dei più celebri dialoghi di Platone. Ultimo dialogo della prima tetralogia di Trasillo, sembrerebbe un dialogo giovanile del filosofo, anche in considerazione del contesto in cui si svolge (la morte di Socrate). Lo studio stilistico dell'opera, tuttavia, più narrativa che dialogica, motiva alcuni studiosi ad assegnare l'opera al periodo della maturità. L'accordo sulla datazione (386-385 a.C.) dipenderebbe principalmente da due elementi: il forte condizionamento pitagorico della discussione, che fa pensare a una composizione prossima al primo viaggio siciliano e ai contatti con la comunità pitagorica di Archita da Taranto, ma anche l'assenza di esplicite intenzioni pedagogiche che spinge a ritenere il dialogo precedente alla fondazione dell'Accademia. Ma già Diogene Laerzio cita un aneddoto (inventato ma significativo) secondo cui, durante la prima lettura del Fedone, l'uditorio composto da concittadini ateniesi, abituati ai dialoghi socratici, genere letterario sorto dopo la morte di Socrate ad opera dei tanti discepoli) avrebbe abbandonato il luogo della lettura (non riconoscendo il personaggio), finché ad ascoltare fino al termine non sarebbe rimasto che Aristotele.
Argomento centrale è l'immortalità dell'anima, in sostegno della quale Platone porta quattro diverse argomentazioni: la palingenesi, la dottrina della reminiscenza (più dettagliatamente esposta nel Menone), la differenza sostanziale fra l'anima e il corpo e la constatazione che l'idea della morte non può risiedere nell'anima, che è partecipe invece dell'idea della vita. Platone, durante la discussione circa l'immortalità dell'anima attribuisce a Socrate una frase che contraddice le teorie del suo maestro: Socrate, infatti, secondo la maggior parte delle fonti, attribuisce al logos la capacità di raggiungere ogni verità; nel dialogo invece ammette che, la via verso la verità ha dei limiti nel campo dell'immortalità dell'anima, annullando di fatto tutte le sue precedenti concezioni filosofiche: «Quando voi le avrete analizzate a fondo, solo allora, credo, potrete cogliere il problema nei suoi sviluppi, per quanto sia possibile a un uomo; e quando ve ne sarete resi ben conto, non proseguirete più oltre nella vostra ricerca.» Celeberrimo è il finale, dove Socrate, morente per avere ingerito un pharmakon (secondo una discussa tradizione la cicuta) e circondato dai suoi allievi piangenti, chiede al suo fidato amico Critone di ricordarsi di offrire un gallo ad Asclepio (dio della medicina), in segno di ringraziamento, sostengono alcuni studiosi, per la liberazione dalla vita. In realtà sembrano esserci interpretazioni più convincenti dal momento che tutto il pensiero socratico mal s'accosta a un'immagine buddista di Socrate. Georges Dumézil per esempio suggerisce questa: Critone e Socrate erano scampati da una malattia della mente. Entrambi, infatti, avevano carezzato l'idea della fuga. Ma erano presto rinsaviti e non si erano sottratti alle leggi. Questo è il debito che Socrate e Critone (ecco il perché di quel noi nell'invocazione) hanno nei confronti di Asclepio.
RIASSUNTO
Fedone, uno dei più giovani amici di Socrate, è di passaggio a Fliunte pochi mesi dopo la morte del maestro.
Trovandosi tra persone che avevano conosciuto Socrate e altri personaggi interessati a questioni filosofiche, Fedone si incarica di offrire un racconto del processo, della carcerazione e della morte di Socrate. Fedone rammenta che, andato in carcere di buon ora, aveva trovato il maestro libero dai ceppi e in compagnia della moglie, Xantippe, insieme al più giovane tra i suoi figli, attorniato da diversi amici. Dopo la partenza della moglie e del figlioletto, Socrate, che era seduto sul letto, si stropicciò una gamba indolenzita, traendone piacere. E, subito, trasse spunto da questa sensazione, per avviare un ragionamento: " che strana cosa, amici, par che sia quello che che la gente chiama piacere, e che meraviglioso rapporto per natura con quello che sembra il suo contrario, il dolore! E pensare che entrambi insieme non vogliono mai trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua uno, e lo prenda, costui si trova in certo modo costretto a prendere sempre anche l'altro, quasi che sebbene siano due, pure si trovino legati allo stesso capo." Se Esopo, il grande scrittore di favole, ne avesse avuto sentore, certamente avrebbe composto una nuova.
Al che Cebete, uno dei presenti, si rammentò che il poeta Eueno gli aveva chiesto con quale intento Socrate avesse cominciato a scrivere versi e comporre musica sulle favole d'Esopo e in onore al dio Apollo. "E tu digli la verità, Cebete rispose Socrate - che li ho fatti non certo per competere con lui e con i suoi poemi - sapendo bene che non era facile - ma solo per rendermi conto del significato di taluni miei sogni, e mettere in pace la mia coscienza, se mai fosse questa appunto la musica a cui spesso questi sogni m'ordinavano di attendere. Ed ecco quali erano. Spesso nella mia vita passata m'era apparso il medesimo sogno, ora in una forma, ora in un'altra; ma per ripetermi sempre la stessa cosa: « Socrate - mi diceva - fa e coltiva musica.» Ed io allora quello che facevo, questo precisamente credevo: ch'esso mi esortasse e m'incitasse a fare, come si suole in quelli che gareggiano nella corsa; e così il sogno m'incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivare musica, convinto, com'ero, che la filosofia fosse la più alta musica e io non coltivassi che musica. Ora, però, dopo il giudizio, poichè la festa del dio ritardava la mia morte, mi parve che, se dunque il sogno insisteva ancora sull'impormi di fare questa specie popolare di musica, io non dovessi disobbedirgli, ma farla, e fosse più sicuro per me di non andarmene da questo mondo prima d'aver messo a posto la mia coscienza col comporre dei versi, in obbedienza al sogno."
A questo punto Socrate se ne uscì con qualcosa di molto strano e sconcertante, ovvero di mandare a dire a Eueno che non mancasse di seguirlo al più presto nell'altro mondo. La stranezza colpì non poco Simmia, un altro dei presenti, il quale si disse convinto che Eueno non aveva alcun desiderio di morire. Al che Socrate chiese se Eueno fosse o meno da considerarsi filosofo. Quando Simmia rispose affermativamente, egli dichiarò che non solo Eueno, ma tutti i filosofi non avrebbero accolto male il suo consiglio, giacchè il vero filosofo desidera di morire, quantunque nessuno abbia il diritto di suicidarsi. Al che Cebete osservò: ma se la morte è un bene, perchè mai uno non dovrebbe suicidarsi? Socrate ammise che a prima vista il divieto di procurarsi la morte pare assurdo; eppure non è irragionevole. "Quella massima che a questo riguardo s'ode in certi misteri: che noi uomini siamo qui come in una prigione, e non ci sia perciò lecito di liberarcene da noi stessi e tanto meno scapparcene, è qualcosa di troppo alto ed insieme non chiaro. Ma, a buon conto, ciò che a me almeno, pare ben detto, Cebete, è questo: che sono dei quelli che hanno cura di noi, e noi, gli uomini, siamo una delle cose di proprietà degli dei. O a te non pare?" "A me sì" rispose Cebete. "Orbene - riprese Socrate - anche tu, se qualcuno dei tuoi servi s'uccidesse, senza che tu gli avessi dato segno di volere che morisse, non ti adireresti con lui e non lo puniresti, se ne avessi il modo?" Cebete ne convenne.
Ma questo consenso evidenziava che c'era una contraddizione nel comportamento di Socrate, e anche nel ragionamento. Se siamo proprietà degli dei, perchè mai un filosofo dovrebbe desiderare di morire, sottraendosi ai migliori padroni che si possano trovare? Simmia aggiunse che le parole di Cebete suonavano come un rimprovero allo stesso Socrate. A questo punto il maestro dovette rispondere. Affermò di credere che non tutto finisse con la vita, che anche per i morti ci fosse qualcosa, e di meglio, sia per i buoni che per i cattivi. Aveva la certezza di trovarsi nell'al di là in presenza di divinità non meno buone e nutriva la speranza di incontrare uomini eccellenti. Simmia lo invitò a spiegare le ragioni della sua fiducia.
Ma prima, Socrate disse di voler ascoltare quello che aveva da dire Critone. Ed è qualcosa che rende ancora più drammatico il dialogo. "E che altro, Socrate - fece Critone - se non che quest'uomo incaricato di darti il farmaco (cioè la cicuta) insiste da un pezzo perchè io ti raccomandi di parlare il meno possibile? Costui dice che chi parla troppo, si riscalda, e questo non va bene; chi fa così sarà poi costretto a prendere una doppia o tripla dose." "E tu lascialo dire - rispose Socrate - ... ma a voi, miei giudici, desidero subito rendere conto delle ragioni per le quali ritengo credibile che un uomo, il quale abbia realmente speso la vita intera nello studio della filosofia, debba sentirsi di buon animo dinnanzi alla morte, ed avere fiducia di trovare lì, dopo che sia finito, i maggiori beni. E che sia
così, come lo dico, Simmia e Cebete, proverò ad esporlo."
"Tutti quelli che sul serio attendono alla filosofia - proseguì Socrate - corrono il rischio che agli altri sfugga com'essi non tendano ad altro se non a morire e ad essere morti.
Se dunque è così, sarebbe davvero assurdo che uno in tutta la vita non pensasse se non a questo, e poi, proprio quando giunga il momento, s'affliggesse di ciò a cui aveva pensato e s'era preparato da tanto tempo." Simmia disse ridente: "Per Zeus, Socrate, m'hai fatto ridere senza che ne avessi alcuna voglia. E credo che a sentirti parlare così dei filosofi la gente troverebbe che si ha ben ragione dire - e ti farebbero coro i miei compaesani, e con che gusto! che realmente quelli che fanno professione di filosofia sono come persone che aspettano di morire; e del resto essa, quanto a sé, ha già mostrato di non ignorare che i filosofi sono degni d'una morte siffatta." Che cos'è la morte se non la separazione dell'anima dal corpo? - proseguì Socrate.
Il filosofo disprezza i paiceri del corpo e sa che i sensi sono fallaci. Sa che non deve e non può fidarsi se non della sola anima, quando si proponga di conoscere ed indagare l'essere. Desidera la morte perchè spera che soltanto allora la sua anima, purificata e sciolta da ogni contatto materiale potrà godere della piena conoscenza del vero, che era stata lo scopo di tutta la sua vita. Chi non è sorretto da tale speranza, non è filosofo, ma un semplice amante del corpo. Qui abbiamo l'obiezione di Cebete. Il ragionamento sarebbe giusto a patto che si potesse dimostrare che l'anima sopravvive al corpo, conservando potere ed intelligenza. Ma questo è proprio ciò di cui tanti dubitano e che necessita di dimostrazione.
Socrate risponde partendo da lontano, in particolare dagli insegnamenti di Pitagora. L'antica credenza nella metempsicosi, ovvero la trasmigrazione delle anime, presuppone l'esistenza precedente dell'anima nella dimensione ultraterrena. Il principio di questa credenza è universalmente osservabile in natura, dove ogni contrario si genera dal suo contrario: vita e morte sono contrari; il trapasso dalla prima alla seconda è evidente; ora, se non si vuole essere manchevole da un lato, bisogna anche ammettere il ritorno da morte a vita, per quanto sfugga ai nostri sensi. E non può mancare, perchè altrimenti la vita finirebbe per estinguersi del tutto. Se dunque le anime, dopo la morte, si rigenerano in nuovi esseri, bisogna ammettere che esse continuano ad esistere in qualche luogo. Cebete suggerì allora che la preesistenza dell'anima risultava anche dalla dottrina cara a Socrate, ovvero che la vera scienza non fosse altro che reminiscenza. Ma Simmia dichiarò di non rammentarsene, e Cebete fu stimolato a darne un riassunto. Poi Socrate la espose. Muovendo dalla natura della memoria, e ricavandone la conseguenza che, se dalla osservazione degli oggetti sensibili noi possiamo sollevarci alla cognizione delle idee, è chiaro che queste idee dobbiamo averle conosciute tutte prima di nascere.
Secondo Socrate, dunque, la medesima necessità logica legava la preesistenza delle idee e quella delle anime. Ma, Simmia e Cebete avanzarono un'obiezione: pur concedendo la preesistenza dell'anima, non abbiamo alcuna prova che essa non si dissolva con la morte. Cebete disse che c'era in loro un bambino che aveva tuttora paura della morte. Socrate risponde che solo ciò che è composto si può dissolvere, e l'anima è certamente una sostanza semplice che rimane sempre identica a se stessa. Solo il composto può divenire. L'anima è come le idee, specie d'essere incorruttibile. Si può conoscere solo con l'intelletto e non con i sensi. Come tutti gli immutabili non appartiene alla sfera del visibile e del tangibile ma all'invisibile e all'intangibile. E quanto più si rifletta sul fatto che l'anima è fatta per comandare e il corpo per servire, non si può non credere alla sua natura eterna in quanto partecipa del divino.
Richiamandosi ancora alla dottrina pitagorica della metempsicosi, Socrate accenna al destino dell'anima. Quelle che avranno vissuto in temperanza e coltivato le virtù civili potrebbero reincarnarsi a livelli dell'essere più vicini al divino, quelle possedute dai desideri carnali non potrebbero che rinascere nei corpi di animali selvaggi e feroci. A queste affermazioni segue il silenzio. Simmia e Cebete si scambiano commenti a bassa voce. Indovinando che erano ancora in dubbio, Socrate li invita a vincere qualsiasi scrupolo. Così Simmia si decide: non potendo avere il conforto di una divina parola capace di portare la certezza definitiva, bisogna accontentarsi di un ragionamento umano. Osserva allora che anche l'armonia prodotta da una lira può definirsi qualcosa d'incorporeo, mentre la lira che la produce ha statuto fisico, caduco e visibile. L'armonia non sopravvive al logorio dello strumento. Pertanto, anche l'anima potrebbe essere il risultato di una miscela degli elementi corporei (dottrine in qualche modo riconducibili a Democrito e ad Anassagora) e cessare di esistere con il suo spegnimento. Cebete, dal canto suo, avanza un'obiezione ancora più radicale: nulla vieta di credere che l'anima preesista e sopravviva, ma, ancora nulla vieta di credere che, dopo molteplici reincarnazioni, l'anima finisca con l'estinguersi. Evidentemente non crede all'eternità dell'essere. Molti dei presenti sono turbati da queste osservazioni.
Ma non Socrate. Fedone ricorda, innanzitutto, che Socrate ammonì a guardarsi dal perdere la fiducia nei ragionamenti, dopo aver perso quella negli uomini. Perchè si diventa misantropi? Perchè si ripone la propria fede nei primi che si incontrano, e quando ci si avvede che costoro sono tutt'altro da come li abbiamo immaginati, si finisce per credere che tutto il genere umano è cattivo. La stessa cosa avviene per i ragionamenti. Chi se ne serve con leggerezza, finisce col rigettarli tutti. In realtà, come nel caso del misantropo, anche il misologo generalizza troppo velocemente. Andando al cuore del problema, Socrate chiede a Simmia e Cebete, se rigettino tutti i ragionamenti o solo alcuni. Avuta conferma che entrambi continuano ad accettare la dottrina della reminiscenza, Socrate dice a Simmia che essa non s'accorda per nulla con la considerazione dell'anima come armonia. Se essa
fosse armonia, sarebbe un composto di elementi corporei, e non una realtà spirituale.
Simmia riconosce l'errore. Ma Socrate non è soddisfatto. Se l'anima - continua - fosse armonia, non potrebbe avere natura diversa dagli elementi che la compongono. Non potrebbe guidarli, ma seguirli. E poi: visto che è innegabile che esistano anime viziose, mentre altre sono virtuose, e considerato che anche la virtù andrebbe considerata come accordo, ed il vizio come disaccordo, avremmo che chi pensa che l'anima sia armonia, dovrebbe ammettere che l'anima sia un'armonia che accoglie in se un'altra armonia, e dovremmo anche ammettere che l'anima viziosa sia un'armonia disarmonica, il che è assurdo. Tornando al concetto iniziale, Socrate conclude che l'anima come armonia non potrebbe contrastare i desideri del corpo, perchè così si troverebbe in disarmonia con esso.
L'esperienza di ogni giorno, pertanto, smentisce questa dottrina. L'obiezione di Cebete è più grave. Per fare i conti con essa, Socrate la ricapitola, poi, per far vedere come fosse giunto alle sue convinzioni, riassume la storia del suo sviluppo intellettuale e spirituale. Da giovane fu ammiratore della filosofia della natura e come gli ionici confidò di trovare in essa la spiegazione di tutti i fenomeni. Ma, presto vennero anche i dubbi. Dopo la lettura del libro di Anassagora che poneva il Nous, cioè la mente, come sovrano dell'universo, egli ritrovò alcune speranze. Gli sembrò ovvio, insomma, che se la mente divina ordinava tutto nel miglior modo possibile, tutte le cose avrebbero dovuto essere disposte per il meglio. Però Anassagora, deluse Socrate perchè, invece di riportare tutto alla mente, cercava di spiegare le cause dei fenomeni ricorrendo a principi meccanici e materiali, gli stessi, grosso modo, dei filosofi ionici.
Socrate decise così di battere un sentiero del tutto nuovo. Non guardare più le cose in modo immediato, nel loro aspetto sensibile, ma ad esse nel modo della vera realtà, quella sovrasensibile, nella loro ragione d'essere, quindi nella loro idea originaria. Così facendo, pervenne ad alcune acquisizioni: una cosa è bella perchè partecipa all'idea del bello. Un'altra è grande perchè partecipa all'idea del grande, e così via. Ma, così - proseguì Socrate può sembrare che in un medesimo oggetto coesistano idee contrarie. Un uomo può dirsi sia grande che piccolo, in rapporto dipendente dalla cosa con la quale lo si confronta. Trattasi, insomma di giudizi relativi, non assoluti. Questo significa che noi possiamo trovare tracce delle idee nella realtà, ma sarà assai difficile poter trovare traccia dell'imperfezione della realtà nelle idee. L'idea - dice Socrate non può accogliere in sè il suo contrario. La grandezza non accoglie la piccolezza, e mai l'accoglierà. «Al che uno dei presenti - non ricordo bene quale (disse): " Oh! In nome degli dei, nei nostri discorsi precedenti non s'era ammesso proprio il contrario di ciò che sento ora: che cioè dal più piccolo si genera il più grande, e dal più grande il più piccolo, e che, insomma, i contrari si generano dai contrari? Ed ora mi si dice, mi pare, che questo non può mai avvenire." Socrate, che aveva sporto un po' il busto per sentire (rispose): " Bravo, hai fatto bene a ricordarlo. Però non rifletti sulla differenza tra ciò che stiamo dicendo ora, e quel che si diceva prima. Allora si diceva che da cosa contraria si genera cosa contraria; ora, invece, si dice che il contrario in sé non può mai divenire contrario a sé stesso, né quello che è in noi, né quello che è in natura. Allora noi parlavamo delle cose che hanno in sé i contrari, e le indicavamo col nome di questi; ora (parliamo) di questi in sé..."» Così, non solo il caldo non può accogliere il freddo, né il dispari il pari; ma neppure il fuoco, di cui il caldo è predicato essenziale, potrà mai accogliere il freddo, né il tre che è dispari, diventare pari, rimanendo tre.
Da qui, il dialogo si avvia alla conclusione. Che cosa rende un corpo vivo? Invece di rispondere la vita, rispondo: l'anima. Poichè il predicato essenziale dell'anima è l'essere viva, essa non può accogliere in sè il suo contrario, che è la morte. Dunque l'anima è immortale, pertanto indistruttibile. La conclusione è accettata da Cebete, ma non da Simmia, che avanza qualche riserva: "In verità neppure io - disse Simmia - so come confutare le ragioni addotte.Tuttavia, il problema di cui ci stiamo occupando è così arduo, e la nostra natura mi ispira così poca fiducia, che io mi sento di diffidare ancora delle cose dette." "Non solo - commenta Socrate - è giusto quel che hai detto, ma anche le ipotesi da cui siamo partiti, per sicure che possano sembrare, meritano di essere meglio esaminate. Allorchè le avrete analizzate a fondo, credo che terrete dietro al ragionamento quanto più è possibile a un uomo, e se esso vi parrà chiaro, non cercherete più in là."
Nel finale, Socrate, su sollecitazione di Simmia, espone come potrebbero stare le cose nell'al di là. Nel racconto paiono fondersi persuasioni personali di Socrate e comuni credenze derivanti da Omero e dalla mitologia greca. Da questo racconto si comprende come molte delle credenze comuni alle religioni derivino da questa ripresa del pitagorismo. Socrate disegna un purgatorio, un paradiso e un inferno. I più puri vanno in questo paradiso, e i filosofi veri avranno persino dimore più belle e soavi. Tuttavia, conclude Socrate, nessun uomo di senno potrebbe giurare che le cose stiano davvero così. Epperò è meglio incantare sé medesimi con queste convinzioni.
Eugenio Caruso - 12 giugno 2019
Impresa Oggi
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