In copertina: Annibale Carracci "il vizio e la virtù"
Italia: vizi e virtù
Eugenio Caruso
Impresa Oggi Ed.
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39. L'assetto politico dal 1994 al 1998
39.6 Scontri e imboscate tra vecchi democristiani
Il 30 gennaio 1995, pochi giorni dopo la frugale cena in casa di Bossi, durante la quale era stato deciso il siluramento del governo Berlusconi, Rocco Buttiglione, effettua una capriola politica degna della più nobile tradizione trasformistica. Il segretario del Ppi, che per settimane è andato affermando che avrebbe aspettato al centro la convergenza di Fi, considerando ora rischioso difendere una posizione centrista in una dialettica bipolare, annuncia di voler prendere in considerazione l'ipotesi che il Ppi si allei con Forza Italia e che «i popolari potrebbero valutare il ragionevole rischio» di allearsi anche con Fini; la sinistra del partito insorge e annuncia battaglia.
Il tre febbraio '95, Romano Prodi annuncia la decisione di mettersi, sotto il simbolo dell'Ulivo, alla testa di uno schieramento di centro-sinistra che si rifaccia alla tradizione dossettiana. Buttiglione è furioso per la decisione di Prodi. «E' un'iniziativa inaccettabile» afferma, «il segretario non è stato neanche informato»; i preannunciati venti di guerra stanno portando verso la scissione. Osserva Antonio Polito su Repubblica «In una compiuta democrazia dell'alternanza il centro è come un seme: per germinare deve morire...deve morire come luogo geometrico...deve germinare come patrimonio di personalità e di ideali, di moderazione e di senso dello Stato». Il 10 febbraio, il consiglio nazionale del Ppi approva di non schierarsi con Prodi; la sinistra si astiene accontentandosi della dichiarazione di Buttiglione di non presentare liste comuni con An.
L'otto marzo, Buttiglione, dimenticando il pericolo della "deriva plebiscitaria", concetto coniato proprio da lui per definire il fenomeno Berlusconi, e con la benedizione dei suoi cardinali, si accorda per presentare, alle elezioni regionali, liste comuni con Fi e l'apparentamento con An, nei ballottaggi. Quasi tutti i commentatori politici riconoscono, nella mossa di Buttiglione, un atto di chiarezza per il dibattito politico. Buttiglione spiega che l'elettorato della Dc si è spostato a destra, cosicché il serbatoio vuoto del suo partito, spostato anch'esso a destra, si dovrebbe riempire a spese di Fi, movimento destinato a sgonfiarsi.
Il ragionamento è elementare, ma non tiene conto di alcuni fatti, anch'essi elementari: uno, l'elettorato di destra ha abbandonato il Ppi, e, al momento, se dovesse lasciare Fi lo farebbe per spostarsi in An, due, dopo il "tradimento" della Lega, Berlusconi sarà molto avaro nel lasciare facilmente seggi agli alleati, tre, la grandissima maggioranza dell'elettorato Ppi preferisce il centro-sinistra, cosicché Buttiglione è un generale senza soldati.
L'undici marzo, Rocco Buttiglione presenta al consiglio nazionale del Ppi la sua proposta di alleanza con il Polo, dichiarando che, in caso di sconfitta, darebbe le dimissioni; al termine della votazione esce sconfitto per tre voti. Al posto delle dimissioni del segretario si assiste alla reazione dei suoi, che, con Formigoni in testa, contestano la votazione; Buttiglione, dopo tre giorni di silenzio, licenzia Luca Borgomeo, Franco Marini e Giuseppe Gargani, rispettivamente direttore del Popolo, responsabile organizzativo del partito e responsabile dei problemi della giustizia, la sinistra parla di golpe e non riconosce più Buttiglione come segretario. Quando i cattolici non vanno d'accordo lo scontro è però spesso sopraffattorio; i probiviri del Ppi, dichiarano nulla la seduta dell'11 marzo, la sinistra convoca ancora il consiglio e nomina segretario Gerardo Bianco, la destra non riconosce la nomina. Moderni papa e antipapa il partito ha ora due segretari.
Il 23 marzo, il giudice civile di Roma stabilisce che Buttiglione è legittimamente segretario del Ppi, ma che la votazione del consiglio nazionale, che ne respinge la linea politica, è anch'essa legittimamente valida; l'ordinanza del giudice, di fatto, conferma l'esistenza di due partiti. Inizia, pertanto, la corsa all'occupazione fisica delle sedi periferiche da parte dei sostenitori di Buttiglione e di Bianco. Buttiglione costituisce una nuova formazione quella dei Cristiani democratici uniti (Cdu), che si schiera nel polo a fianco del Ccd. Al partito di Bianco resta la denominazione di Ppi, al Cdu il vecchio simbolo della Dc.
Sempre nel mese di marzo 1995, esce Governare l'Italia, il programma politico di Romano Prodi; l'economista bolognese introduce la sua opera affermando che il movimento dell'Ulivo sarebbe nato in «un clima, a un tempo, di sollievo e di entusiasmo» (Prodi, 1995); in realtà gran parte degli italiani hanno di lui il ricordo del boiardo di stato all'ombra di De Mita. Il suo programma non brilla per alcun colpo di genio, l'unica proposta di un certo rilievo è quella che prevede, per l'Italia, una struttura federalista di tipo tedesco.
39.7 Mezza vittoria delle sinistre alle regionali
A sorpresa, sovvertendo i risultati degli exit poll, alle elezioni regionali del 23 aprile 1995 il Polo subisce una mezza sconfitta e il centro sinistra ottiene una mezza vittoria: il centro sinistra guadagna nove regioni su quindici. I candidati di Fi denunciano brogli elettorali, anche in ragione dell'alta percentuale di schede nulle (7-8%), e Berlusconi afferma: «Io sono convinto che il vero risultato sia quello degli exit poll... Il 90% delle schede nulle recava un'intenzione di voto per il polo... Vi sembrano elezioni veramente democratiche queste?». Berlusconi inizia a mostrarsi poco ricettivo ad accettare una sconfitta.
Gli alleati non sono del tutto d'accordo con il Cavaliere. Casini, su Repubblica, afferma che nel Polo «c'è un deficit di moderazione, di cultura di governo, di sensibilità istituzionale, di rispetto delle regole». E’ chiaro a tutti che Casini sta preparandosi la strada per un incarico istituzionale. E’ anche vero che Casini è affetto dalla sindrome del delfino, situazione psicologica nella quale la gratitudine diventa risentimento, l’amicizia si trasforma in avversione nei confronti di colui cui deve la propria posizione.
A commento delle elezioni emergono quattro considerazioni: uno, è stato sconfitto il tentativo del Polo di usare le elezioni amministrative per imporre immediate elezioni politiche, due, gridare al "pericolo comunista", forse, non paga più, tre, anche un buon comunicatore perde, se non cura la qualità del messaggio, quattro, forse, per vincere il centro destra ha bisogno della Lega.
39.8 È di moda il liberalismo
Il 2 maggio 1998, D'Alema, in un incontro con i finanzieri della City, si presenta come alfiere della rivoluzione liberale in Italia e il suo programma in cinque punti (riforma delle pensioni, riforma tributaria, riforma dello stato, privatizzazioni e lotta all'inflazione) sembta, senza dubbio, un fatto concreto. Dopo il ciclone di tangentopoli e la scomparsa dei vecchi partiti, tutti si proclamavano liberali, la speranza è che questi illuminati da Friedman si ricordino che Gobetti, cui risale il concetto di rivoluzione liberale, aveva ben chiara «la propensione della politica italiana al trasformismo e quella degli italiani al fascismo» e che la sua rivoluzione liberale prevedeva anche una rivoluzione morale.
Molti si dichiarano liberali e il risultato è di trasformare il liberalismo in un contenitore nel quale ciascuno mette quello che la convenienza politica gli suggerisce. A destra e a sinistra è tutto un florilegio di "mercato, privatizzazioni, stato leggero, popolo sovrano, regole, liberismo, garanzie, federalismo, normalizzazione"; in sostituzione del linguaggio criptico del passato, le leggi del marketing hanno imposto il linguaggio della comunicazione, la parola facile e pervasiva. L'impressione che si ricava, però, da tutto questo è che se il linguaggio criptico nascondeva spesso progetti reali, anche se bloccati, il nuovo linguaggio nasconda solo interessi di parte o bolle d'aria.
La sinistra parla di capitalismo, ma esso deve essere "ben temperato e buono", tutti vogliono le privatizzazioni, ma nessuno batte ciglio se la Banca di Roma, dell'Iri, acquista una banca privata, se la Stet si appresta a monopolizzare le reti cablate, oppure se i presidenti delle banche pubbliche, al riparo delle rispettive fondazioni, hanno acquisito un'autonomia di movimento e un'emancipazione da qualunque controllo, che ne fanno i nuovi potentissimi boiardi di stato. Una moda del 1995 è la riscoperta di Popper; tutti si dichiarano popperiani, ma in realtà le sue idee continuano ad essere ignorate o boicottate. La realtà è che, escludendo solitari idealisti e pensatori, il liberalismo in Italia non è mai esistito se non sotto forma di paravento d'interessi economici.
La ragione sarebbe da cercarsi, secondo Angelo Panebianco, nei tre i vizi che ammorbano la dialettica politica; il populismo «che contrappone il popolo, variamente definito, ma sempre, comunque, giudicato puro e innocente, a una minoranza prevaricatrice, (di volta in volta i ricchi, i poteri forti, i politici o quant'altro), un'ideologia camaleontica, che può essere indifferentemente di destra, di sinistra o di centro»; l'Italia, dopo la liberazione, ha conosciuto il populismo cattolico, quello comunista, ora conosce quello di destra. L'ideologia populista è, da sempre, il principale ostacolo alla diffusione delle idee liberali, il populismo è infatti il rifiuto ad accettare le regole impopolari, che è necessario osservare per costruire una civiltà liberale (Panebianco, 1995). Afferma Sartori: «Da quando il mondo è mondo il populista fa il demagogo, e il demagogo è l'imbroglia popolo per eccellenza.... l'anti-elitismo approda alla dequalificazione, alla valorizzazione dell'incompetenza, all'eguaglianza in demerito e, ormai clamorosamente, al degrado dell'educazione» (Sartori, 1994).
Il secondo vizio sarebbe l'ideologismo, inteso, sia come «lo spirito di fazione, la tendenza a ragionare in termini di appartenenze politiche e di schieramenti, anziché in termini di problemi», sia come propensione «al valutare i fatti pubblici alla luce dei propri pii desideri»; tutto ciò allontana e non avvicina al liberalismo, che presuppone invece un confronto razionale tra le idee. L’ideologismo diventa in Italia uno strumento di lotta politica che conduce a non accettare l’esistenza dell’altro, lo scontro è muro contro muro e anche oggi, nel 2010, non c’è speranza di sgretolare la muraglia di odio che divide il centro destra dal centro sinistra. Nell’ambito di questo contrasto duro esistono sempre i Casini e i Fini che cercano di ricavare vantaggi per la propria posizione politica da questa situazione di scontro duro.
Il terzo è il moralismo e cioè la tendenza a giudicare l'etica pubblica attraverso il filtro della propria morale, che è sempre un far ricorso alle passioni e non alla razionalità; il moralismo è un'attitudine, che «sfocia sempre in proposte pubbliche illiberali», per di più, laddove alberga il moralismo, generalmente manca il senso morale.
È spesso pericoloso seguire le teorie dei politologi, che mettono in bella mostra una notevole capacità logica, sfornano teoremi accattivanti e apparentemente ovvii ma, che, in generale, quando fanno una previsione, vengono smentiti dai fatti. La politica di Reagan fu, in Italia, sarcasticamente bollata di populismo e quel populismo ha portato gli Usa a un livello di benessere mai visto prima. Dice Sartori che per costruire una civiltà liberale occorrono regole impopolari. E perché mai? Non è forse meglio costruire una società liberale con regole popolari? La realtà è un'altra. Per costruire una società liberale occorre creare una base culturale comune che prima definisca che cosa s'intende per società liberale (quella di Pannella è diversa da quella di Scalfari, che è diversa da quella di Berlusconi, che è diversa da quella di Martino, tutti convinti e in buona fede); occorre che il tempo consenta al Paese di acquisire un comune sentire su pochi ma chiari concetti base.
Eugenio Caruso - 10 luglio 2019
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