Il canto sedicesimo dell'Inferno si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, dove, come nel canto quindicesimo, sono puniti i violenti contro Dio, natura e arte: Dante e Virgilio stanno, ancora, camminando sull'argine del Flegetonte per non calpestare il "sabbione", e già essi iniziano a sentire il suono della cascata, simile al ronzio che fanno le api vicino alle arnie. Allora da una schiera di dannati si allontanano tre fiogure che vanno verso i due pellegrini, gridando a Dante: "Fermati tu, che sembri vestito come uno della nostra dannata città".
Mentre Dante rimane colpito dalle orribili bruciature dei tre, Virgilio lo prepara all'incontro che sta per avvenire. Come con Farinata degli Uberti, il poeta latino annuncia che Dante sta per incontrare una di quelle anime "magne" delle quali ha chiesto notizie a Ciacco, attraverso una perifrasi: "Aspetta, con questi dannati si deve mostrare cortesia; e se non fosse per la pioggia infuocata direi che sarebbe meglio per te corrergli incontro.".
I tre dannati riprendono il loro "antico verso" (il pianto o l'andatura) quando vedono che i due si sono fermati e quando sono vicini iniziano a girare in tondo, uno dietro l'altro perché, come ha già spiegato Brunetto Latini nel canto precedente, i sodomiti sono puniti con una corsa eterna e se essi si fermassero per cento anni sarebbero ben più dolorosamente inchiodati al suolo come i bestemmiatori. Dante fa una similitudine un po' oscura: come i campioni nudi e unti, studiando una presa che sia per essi vantaggiosa prima del combattimento, così facevano i tre ruotando il collo nel senso contrario dei piedi: forse tutto ciò per dire che essi lo fissavamo come quei "campioni" che nel medioevo si battevano su pagamento per dirimere controversie legali.
Uno dei tre inizia a parlare e offre tre lapidarie presentazioni di sé e dei suoi compagni: l'uomo, scorticato dalle fiamme e nudo, che lo precede fu una persona più importante di quello che sembri ora, nipote della buona Gualdra, e famoso condottiero di nome Guido Guerra (Vedi nota), sostenitore del partito guelfo, sconfitto nella Battaglia di Montaperti; colui che lo segue invece è Tegghiaio Aldobrandi, che avrebbe dovuto essere ascoltato su nel mondo (egli aveva infatti sconsigliato ai fiorentini di combattere a Montaperti); lui invece è Iacopo Rusticucci, che ebbe più danno dalla bisbetica moglie che da altro.
I tre fiorentini appartengono tutti alla generazione precedente a quella di Dante e furono importanti condottieri e uomini politici, per cui si presume che la loro schiera sia accomunata da questi meriti, mentre in quella di Brunetto Latini erano presenti solo chierici e letterati. Dante, per aver riconosciuto questi grandi uomini, scrive che volentieri sarebbe sceso ad abbracciarli, ma si guarda bene dal farlo per via della pioggia infuocata.
Inizia quindi a rispondere loro. Parafrasando, la loro misera condizione non gli suscita disprezzo, ma dolore persistente soprattutto da quando il suo maestro (Virgilio) lo avvertì del loro incontro; anche lui è fiorentino e "sempre mai", un ossimoro che più che altro ha valore di rafforzativo di "sempre", egli ha ascoltato e ripetuto con affetto i loro nomi e la loro onorata opera. Il poeta pellegrino lascia il fiele infernale per il "dolci pomi" del Paradiso, come gli ha promesso la sua guida (Virgilio), però prima dovrà scendere fino al centro della terra.
Iacopo chiede dunque, dopo aver invocato la magnanimità di Dante, se nella loro città regnano ancora le virtù cavalleresche come la "cortesia" (intesa come rispetto delle norme delle "corti") e il valore, perché un tal Guglielmo Borsiere, sceso da poco tra di loro (cioè morto da poco), gli ha narrato fatti preoccupanti.
Dante approfitta quindi per esporre la sua visione circa la Fiorenza contemporanea. Il nocciolo dei problemi secondo lui sta nell'"immigrazione" e nella facile ricchezza che alletta le persone e le riempie di orgoglio senza misura. Dante ha pronunciato questa breve orazione con gesto e tono profetico "con la faccia levata", e i tre si guardano l'un l'altro annuendo, sbigottiti e rattristati. Ringraziano dicendo che la sua risposta è stata gradita e si raccomandano che se egli tornerà nel mondo dei vivi, quando accadrà che racconti del suo viaggio si ricordi di citare i loro nomi. Poi se ne scappano con le gambe veloci nel tempo di dire un amen.
Dante riparte con Virgilio e il suono della cascata, citato a inizio del canto, è già molto forte tanto da coprire le loro voci. La successiva similitudine afferma che la cascata gli ricorda quella "dei Romiti" presso San Benedetto dell'Alpe.
A questo punto Virgilio gli chiede la corda che cinge i fianchi di Dante. Si tratta di un passo sicuramente dal valore allegorico, ma il cui significato non è mai stato pienamente chiarito. I punti fermi del passo dantesco sono che:
1.Virgilio chiede la corda per chiamare Gerione, simbolo della frode;
2.Dante dice che aveva cercato di catturare la Lonza maculata (simbolo della lussuria o di frode nel primo canto) con quella stessa corda.
Altri elementi sono che Dante gliela porge "aggroppata e raccolta", cioè avvolta a matassa, che Virgilio la lancia verso destra e che lo fa da lontano dalla sponda.
Le interpretazioni allegoriche della corda si possono ricondurre a due principali teorie, ciascuna sostenuta da un nutrito numero di studiosi e commentatori.
La prima, più antica e che si basa su citazioni della Bibbia e riscontri in altri passi danteschi, vede la corda come un simbolo dell'"intenzione" fraudolenta, legata alla seduzione amorosa, che richiama Gerione quale simbolo di frode "in atto".
La seconda, legata ad altre citazioni bibliche oltre che a passi di Sant'Agostino e di Aristotele, indica la corda quale simbolo di "Castità", intesa come cingolo che frena ai reni gli istinti legati alla sessualità. Se ciò spiegherebbe appieno la menzione al tentativo di Dante di domare la lussuria (la "lonza"), si adatta peggio alla figura di richiamo della Frode. Forse si può intendere in senso più ampio come un animo puro possa essere travisato per ingenuità che attira la malizia fraudolenta. Essa però in un certo senso addomestica e vince la frode, quindi, secondo anche un passo di Isaia, potrebbe figurare la Giustizia e la Fedeltà.
Dante immagina già che qualcosa di nuovo stia per apparire e riflette che gli uomini devono essere cauti quando si trovano in presenza di: coloro che, non soltanto (“pur”) vedono gli atti esteriori (“l'ovra”), ma anche penetrano col senno nei pensieri degli altri (è questa una perifrasi per riferirsi a Virgilio), cioè è bene tacere finché non si sa cosa stia accadendo. Ma Virgilio gli legge come al solito nel pensiero e (nonostante il rumore della cascata, che non è più citato) gli dice che presto qualcosa arriverà.
A questo punto egli apostrofa il lettore per richiamarne l'attenzione e prepararlo ad uno spettacolo straordinario ed irreale, dicendo che: si deve sempre evitare, fin che si può, di riferire un fatto, per quanto vero, quando esso si presenti con un'apparenza così strana e meravigliosa da farlo ritenere falso; perché è facile in tal caso, senza esser colpevoli di mendacio, meritarsi la taccia di bugiardi. Ma dice: "qui tacer nol posso" e giura sulle rime della sua "comedìa" rivolgendosi direttamente a ciascun lettore, che possano esse non essere vuote di alcuna grazia, che egli vide proprio una figura "maravigliosa" salire nuotando per l'"aere" denso e scuro (è questa una metafora), come il marinaio che scende per disincagliare l'àncora che si aggrappa a uno scoglio o ad altro oggetto sul fondo marino, che nella parte superiore del corpo si stende, e “da piè si rattrappa”, cioè ritrae a sé le gambe, per salire a galla.
Questa prodigiosa figura è Gerione, custode dell'ottavo cerchio dell'Inferno dove vengono puniti i fraudolenti ed è esso stesso simbolo di frode (nell'Eneide, custode dell'Averno). La sua figura, spalmata su ben quattro canti, sarà descrittà nel dettaglio nel prossimo canto, mentre il prodigioso volo di Dante e Virgilio in groppa a Gerione sarà trattato nel Canto diciottesimo; nel ventesimo si accennerà brevemente alla sua scomparsa nel primi versi.
Testo e parafrasi
Già era in loco onde s’udìa ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,3
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro marti 6
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
esser alcun di nostra terra prava». 9
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.12
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e: «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese. 15
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta». 18
Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei. 21
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti, 24
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio. 27
E «Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo, 30
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi. 33
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi: 36
Ero ormai giunto nel punto dell’argine in cui si udiva
il rimbombo del ruscello che cadeva nel cerchio successivo,
simile al ronzio delle api nelle arnie,
quando, da una schiera che procedeva sotto la pioggia
di fuoco del duro supplizio, si staccarono
insieme di corsa tre spiriti.
Venivano verso di noi e ciascuno di essi gridava: «Fermati
tu che dal modo di vestire (ch’a l’abito) ci sembri essere
uno della nostra crudele città».
Ahimè, quali piaghe, vecchie e recenti, prodotte (incese) dalle
fiamme, io vidi nelle loro membra! Mi recano ancora dolore
(men duol) solo a ricordarle.
La mia guida si fermò rivolgendo la propria attenzione
alle loro grida; voltò lo sguardo verso di me
e disse: «Fermati ora, nei confronti di costoro è giusto
essere cortesi.
E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo fa
scendere, direi che la fretta dovesse convenire
più a te che a loro».
Non appena noi ci fermammo, essi ripresero
il loro consueto lamento; e quando furono
giunti presso di noi, tutti e tre insieme formarono
un cerchio (rota).
Come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, studiando
la presa più vantaggiosa (lor presa e lor vantaggio)
prima di colpirsi e ferirsi (battuti e punti),
così, con lo stesso movimento circolare, ciascuno (dei
tre) rivolgeva a me lo sguardo, così che il
loro collo doveva fare un continuo movimento contrario
a quello dei piedi.
Uno di essi cominciò: «Se la misera condizione di questo
sabbione (loco sollo = luogo cedevole) e il nostro aspetto annerito
e scorticato (brollo) rende spregevoli
noi e le nostre richieste (prieghi),
la fama rimasta di noi induca il tuo animo a
dirci chi sei tu, che ancora vivo calchi i piedi nell’Inferno
senza timore di bruciarti.
Costui, di cui mi vedi calpestare le orme, benché
vada nudo e scorticato, fu di rango sociale
più alto di quanto credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada. 39
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita. 42
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce». 45
S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51
Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia, 54
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse. 57
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. 60
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi». 63
«Se lungamente l’anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca, 66
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora; 69
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole». 72
fu nipote della virtuosa Gualdrada; si chiamò Guido
Guerra e in vita si distinse sia per virtù civili
che militari.
L’altro, che calpesta la sabbia vicino a me, è Tegghiaio
Aldobrandi, il cui consiglio avrebbe dovuto essere
stato meglio ascoltato a Firenze (nel
mondo sù).
E io, che sono sottoposto al tormento insieme
a loro, fui Iacopo Rusticucci; e certo più di ogni altra cosa
mi è dannosa la moglie intrattabile
(fiera)».
Se io fossi stato protetto dal fuoco, mi sarei gettato
giù tra loro, e credo che il mio maestro l’avrebbe consentito
(sofferto);
ma dal momento che mi sarei bruciato, la paura prese il sopravvento
sul sincero sentimento che mi
rendeva desideroso di abbracciarli.
Poi cominciai: «La vostra condizione mi impresse nell’animo
non disprezzo, ma un dolore
così intenso che dovrà passare molto tempo prima
che svanisca del tutto,
non appena la mia guida mi disse parole per
le quali io pensai che venissero persone tanto
meritevoli quali voi siete.
Io sono della vostra città, e sempre ascoltai
e riferii ad altri con piacere le vostre azioni
e i vostri nomi onorati.
Lascio l’amarezza del peccato (lo fele) e mi dirigo verso la
dolcezza del bene (dolci pomi), promessa a me dalla mia guida
veritiera; ma prima è necessario che io
scenda fino al centro dell’universo».
«Con l’augurio che tu possa vivere ancora a lungo», rispose
ancora quello spirito, «e che la tua fama risplenda
dopo la tua morte,
dicci se i valori cortesi e le virtù morali sopravvivono
ancora, come solevano un tempo (sì come
suole), nella nostra città, o se l’hanno del tutto abbandonata (se
n’è gita fora);
poiché Guglielmo Borsiere, che da poco tempo è
tormentato insieme a noi ed è laggiù con i suoi
compagni, ci affligge molto con le sue parole».
«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». 75
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata. 78
«Se l’altre volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta! 81
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui’’, 84
fa che di noi a la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.87
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi. 90
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi. 93
Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino, 96
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, 99
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;102
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.105
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.108
«Gli immigrati recenti e le loro improvvise fortune
hanno generato in te, Firenze, superbia
e sfrenatezza, così che già cominci a pagarne
le conseguenze».
Così gridai a testa alta; e i tre, che recepirono queste parole
come risposta, si guardarono l’un l’altro come si assiste
alla conferma di una dura verità.
«Se ti costa sempre come ora (l’altre volte) così poco», risposero
tutti insieme, «rispondere esaurientemente alle domande (il
satisfare altrui), felice te se sei in grado di parlare liberamente
con tanta franchezza!
Perciò, con l’augurio che tu possa scampare dall’Inferno
e ritornare a vedere il cielo (le belle
stelle), quando ti piacerà rievocare il viaggio nell’Oltretomba
(dicere “I’ fui”),
fa in modo di parlare di noi alla gente». Quindi
sciolsero il cerchio , e nel fuggire le loro
gambe veloci sembrarono ali.
Non si sarebbe potuto pronunciare un “amen”
così velocemente come essi scomparvero;
per la qual cosa al maestro parve opportuno allontanarsi
(partirsi).
Io lo seguivo e, dopo essere avanzati un poco, il fragore della
cascata era così vicino a noi che, se ci fossimo
parlati , ci saremmo a malapena uditi.
Come il fiume che per primo, dal Monviso verso oriente,
nella parte sinistra dell’Appennino, sfocia in mare (ha
proprio cammino),
e che si chiama Acquacheta nella parte alta del suo corso,
prima di scendere in pianura (giù nel basso
letto), e a Forlì non si chiama più con
quel nome,
rimbomba presso San Benedetto all’Alpe poiché
precipita con un unico salto là dove
dovrebbe essere ricevuto in moltissimi
salti;
così, giù da una parete scoscesa, incontrammo
quell’acqua rossa cadere fragorosamente,
tanto che avrebbe danneggiato l’udito in brevissimo
tempo.
Io portavo avvolta intorno ai fianchi una corda,
con la quale una volta pensai di catturare la lonza
dalla pelle screziata.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.111
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato.114
‘E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.117
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!120
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra».123
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;126
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,129
ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,132
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,135
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
Dopo averla completamente srotolata,
così come mi aveva ordinato il maestro, gliela porsi
raccolta a matassa (aggroppata e ravvolta).
Egli allora si volse verso destra e la gettò giù nel profondo
burrone un po’ lontano dalla
sponda.
“Qualcosa di straordinario deve certo
corrispondere ”, dicevo tra me e me, “all’inconsueto
segnale che il maestro segue con tanta attenzione
(sì seconda)”.
Ahi quanto devono essere cauti gli uomini vicino alle
persone che non solo vedono gli atti esteriori
, ma, grazie al loro acume, riescono a
penetrare nei pensieri!
Egli mi disse: «Presto salirà ciò che io attendo
con certezza e che tu immagini solo confusamente (il
tuo pensier sogna): presto dovrà rivelarsi ai tuoi occhi
(viso).
L’uomo, finché può , deve sempre rifiutarsi dall’esprimere
quella verità che ha l’apparenza
di menzogna, poiché essa lo farebbe sembrare
bugiardo anche se è sincero;
ma in questa occasione non posso tacerla; e in nome dei
versi di questo poema (comedìa) – possano non essere
a lungo privi di favore presso il pubblico
–, ti giuro, lettore,
che io vidi salire attraverso quell’aria densa
e scura, come se nuotasse , una figura tale da impressionare
anche un animo intrepido,
con lo stesso movimento con cui risale il marinaio,
che talvolta scende sott’acqua per liberare
l’ancora rimasta impigliata in uno scoglio o in
un altro ostacolo sul fondo marino,
che stende in alto le braccia e raccoglie le gambe.
Video HD https://www.youtube.com/watch?v=lUiqJ0T23gw
Gassman https://www.youtube.com/watch?v=MNt77HqDWbw
Gerione
Il Gerione dantesco si richiama a fonti bibliche (Apocalisse di Giovanni 9, 7-10) e alla zoologia figurativa del Medioevo. Personaggio della mitologia classica, figlio di Crisaore e Calliroe definito «tricefalo» da Esiodo mentre la tradizione successiva lo descrisse con tre busti uniti all'altezza del bacino. Secondo la leggenda era il custode delle vacche che Ercole, su incarico di Euristeo, gli sottrasse dopo averlo ucciso. Virgilio lo menziona nell' Eneide (VIII 202-204) e, in un altro passo del poema, lo definisce, senza nominarlo, " forma tricorporis umbrae " (VI 289).
I tre fiorentini
Il canto non ha unità d’argomento. La prima parte si presenta come una continuazione dell’episodio di Brunetto Latini: tema dominante è qui la decadenza civile e morale di Firenze a seguito dei rivolgimenti politici e dell’avvento al potere di una classe socíale avida e rapace, non legata al rispetto della tradizíone, ma intenta solamente ad arricchirsi. Accanto a questo tema si colloca, come nel canto precedente, quello della colpa privata, che nessuna carità di patria, per quanto fervida e pura, può riscattare. Ma nell’epìsodio dei tre guelfi il motivo della condanna divina è messo in maggior risalto. Dante non ha conosciuto di persona Guido Guerra, Jacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi. Egli ha davanti a sé personaggi già idealízzati, già collocati dalla voce pubblica in un limbo di spiriti eccelsi. L’affetto che prova per loro non può quindi essere quello semplice e spontaneo che lo lega all’autore del Tesoro e che nasce da una considerazione umana, prima che teologica, della figura di questo peccatore. La carità del natìo loco non ha in essi nulla di paludato, di austero. Se la presentazione delle loro figure obbedisce a un canone quello che, fin dall’antichità classica, ha stabilito, attraverso Plutarco, le qualità dell’uomo politico buono in opposizione schematica alla figura del tiranno, le manifestazioni del loro attaccamento a Firenze sono di una immediatezza non riscontrabile altrove se non nella Commedia. La patria non è per essi un concetto, un ideale fermo e solenne, ma un essere concreto e vivo, soggetto all’errore e bisognoso di aiuto. C’è, nelle loro parole, una sollecitudine quasi materna per le sorti di Firenze, la quale smentisce in pieno la sobria rigidità delle loro biografie. Soltanto Dante è riuscito ad esprimere con tanta semplicità di mezzi e al di fuori di ogni considerazione astratta o moraleggiante la pietas che ci lega al luogo dove siamo nati e che, lungi dal richiedere una spiegazione razionale, appare come il fondamento di tutto il nostro modo di vedere, interpretare e razionalizzare le cose.
Il processo di idealizzazione dei protagonisti della storia più recente di Firenze, iniziato con Farinata, culmina nei tre personaggi di questo canto. Il principio della carità, che in Farinata emergeva faticosamente dal buio della superbia e dei risentimenti, è in essi, fin dal loro primo apparire, luminoso, operante, purissimo. Ma la santità del loro sentire e operare è stata parziale, imperfetta e incapace di salvarli. Ecco quindi che la loro collocazione fra i numi tutelari della patria ha la sua controparte nel grottesco del castigo infernale: ai sentimenti da loro espressi, manifestazioni di un volere apparentemente ancora libero, si contrappongono in modo stridente i movimenti che sono costretti a compiere, le parole che impiegano per designare la loro condizione attuale. La similitudine della rota sintetizza la medesima degradazione dell’umano accennata, alla fine del canto precedente, nell’evocazione della gara del drappo verde, di quest’ultima riproponendo il senso complessivo e alcune forme: possiamo notare, ad esempio, come una residua affermazione dell’umano, pur nell’ambito di una valutazione tendente a destituire di ogni umanità colui che ha peccato, sia contenuta tanto nell’immagine dei campioni, quanto in quella del vincitore del drappo (quelli che vince, non colui che perde). Anche il rilievo dato al particolare fisico, veduto non in quanto espressione di un atteggiamento morale o di uno stato d’animo, ma in sé, nella sua compatta, inspiegabile gratuità, mira a mettere in luce, al di là dei loro meriti, lo stato di perdizione in cui queste anime si trovano.
Guido Guerra
Trascorse un periodo alla corte di Federico II di Hohenstaufen, dove divenne uno dei pupilli del sovrano, sebbene una volta tornato a Firenze egli abbracciasse convintamente la parte guelfa, divenendone uno dei principali capi, divenendo uomo di fiducia di papa Innocenzo IV. Dal 1248 fu Capitano Generale della Santa Sede.
Come uomo d'arme combatté nel 1255 al servizio di Firenze contro gli aretini e nel 1260 partecipò alla Battaglia di Montaperti, dove vennero sconfitti i guelfi, causandogli un esilio da Firenze. Entrato al servizio di Carlo I d'Angiò combatté a San Germano e nella battaglia di Benevento (1266), dove la parte guelfa ebbe la sua riscossa. In quell'occasione Guido si distinse particolarmente ricevendone onori e riconoscimenti (Vicario angioino per la Toscana, podestà di Lucca e Capitano Generale dei guelfi di Toscana). Tornato a Firenze nel 1267, morì nel castello di Montevarchi, di sua proprietà, nel 1272.
La sua figura è anche nota per essere uno dei tre fiorentini che Dante Alighieri pose nel girone dei sodomiti, assieme a Jacopo Rusticucci e a Tegghiaio Aldobrandi.
Dante nel passo del Canto XVI dell'Inferno aveva forse bisogno di almeno tre figure per creare la scena dei dannati che girano correndo in tondo per la pena di non potersi mai fermare, variando sul tema della passeggiata a fianco del poeta usato come espediente nel precedente passo su Brunetto Latini. Il poeta scelse quindi tre figure prese dal mondo politico e militare della generazione immediatamente precedente alla sua, persone di grande fama che, lo fa dire Dante stesso a Jacopo, non devono ingannare per il loro aspetto miserabile da dannati, essendo stati in vita uomini valorosi e rispettati.
Aldobrandi Tegghiaio
Della consorteria magnatizia degli Adimari, T. d'Aldobrando è ricordato in If VI 79, dove Dante chiede notizia di lui, come di altri insigni suoi concittadini, a Ciacco; è presentato di poi da Iacopo Rusticucci, che con lui e Guido Guerra s'è distaccato dalla seconda schiera di sodomiti e s'aggira rotando intorno ai due poeti, essendogli vietato il fermarsi. Se l'aggettivo degni, usato per Tegghiaio come per Farinata, il Rusticucci e altri nell'interrogare Ciacco, vuol essere inteso come " ragguardevoli " e considerato genericamente allusivo alla riverenza di Dante verso i maggiorenti politici del primo popolo, l'espressione con cui il poeta lo fa designare dal compagno di pena suona esplicita lode alle qualità e al contegno dell'uomo politico. Ciò sia che si attribuisca a dovria il senso di " avrebbe dovuto " (la voce di T. avrebbe dovuto essere ascoltata volentieri quando sconsigliò l'impresa contro Siena), sia di " dovrebbe " (la fama di T. dovrebbe essere gradita ai suoi concittadini perché egli aveva sconsigliato, ecc.). È ben vero poi quello che osserva L. Caretti d'autentico blasone " (e in sua vita / fece col senno assai e con la spada, vv. 38-39). La lode coincide d'altronde con quella del Villani, che definisce Tegghiaio " cavaliere savio e prode in arme e di grande autoritade " e del Boccaccio, che lo dice " cavaliere di grande animo e d'operazion commendabili e di gran sentimento in opera d'arme; e fu colui il quale del tutto sconsigliò il Comun di Firenze che non uscisse fuori a campo ad andare sopra i Sanesi; conoscendo, sì come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non creduto né voluto, ne seguì la sconfitta a Monte Aperti ".
Iacopo Rusticucci
Non si hanno molte notizie storiche della sua biografia, si sa che apparteneva alla consorteria dei Cavalcanti e che nel 1254 fu procuratore speciale del comune di Firenze per le trattative con gli altri comuni della Toscana. Nel 1258 fu capitano del popolo ad Arezzo. L'ultima notizia certa su di lui lo cita ancora vivo nel 1266. La sua celebrità sta nel fatto che Dante Alighieri lo citi fra i grandi spiriti "ch'a ben far puoser li 'ngegni" e che, con costernazione del poeta, troverà invece tra i dannati "più neri" dell'Inferno. Il Rusticucci è infatti fra i personaggi che Dante incontra nella triade dei violenti contro natura. Nel passo è Virgilio stesso a spronare al dialogo il pellegrino. «A le lor grida il mio dottor s'attese; vol 'l viso ver' me, e "Or aspetta", disse, "a costor si vuole esser cortese."» Al contrario del Tegghiaio, descritto come "cavaliere di grande animo (...) e di gran sentimento in opera d'arme", questa figura viene presentata come un cavaliere "di picciol sangue". Dante si limita a fargli dire che la causa della sua rovina fu la moglie, frase sulla quale i commentatori antichi hanno "ricamato" la storia della donna troppo assillante o austera da indurlo alla pederastia, di fatto parafrasando solo il verso dantesco. Secondo commentatori antichi, la moglie di Jacopo Rusticucci era una donna ritrosa e bisbetica, da cui si sarebbe diviso e per la cui avversione sarebbe stato indotto al peccato di sodomia.
Eugenio Caruso - 17-07-2019
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