GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. Gli imperatori romani figurano in un'altra sezione.
ARTICOLI PRECEDENTI. Sun Tzu - Alessandro Magno - Nabucodonosor - Elisabetta I - Carlo Magno - Hammurabi - Gilgames - Sargon - San Benedetto - Cesare - Saladino - Carlo V - Attila - Pietro il grande - Caterina di Russia - Gengis Khan - Napoleone Bonaparte - Akhenaton - Tutanchamon - Ramsete II - Ciro il Grande - Chandragupta Maurya - Qin Shi Huang - Barbarossa - Kanishka I - Costantino - Eraclio - Songtsen Gampo - Ottone I -
Basilio II
L’uomo che è passato alla storia comr lo “sterminatore dei bulgari”, fu un grandissimo comandante e uno dei più grandi imperatori che ressero le sorti dell'impero bizantino, dal 976 al 1025, conducendo Costantinopoli a vette ineguagliate. Il termine "bizantino", derivato da Bisanzio, l'antico nome della capitale imperiale Costantinopoli, non venne mai utilizzato durante tutta la durata dell'impero (395-1453): i bizantini si consideravano Greco-Romani di lingua greca, e chiamavano il loro Stato "Basileia Rhomaion", cioè "Regno dei Romani", o semplicemente Basilea.
Erede di quella famiglia macedone salita al potere da circa un centinaio d’anni grazie all’intraprendenza del capostipite, Basilio I, che in una folgorante scalata, passò da stalliere di corte a imperatore. Ma quando il padre di Basilio, Romano II morì nel 963, al figlio, al pari del fratello minore cui molto improvvidamente fu posto il nome di Costantino, si spalancava l’incerto futuro di chi pur essendo porfirogenito, ovvero generato nella porpora imperiale, non possedeva l’età adatta a rivendicare un diritto acquisito per nascita.
Toccò allora alla madre Teofane assicurare la sopravvivenza a una prole che, altrimenti, sarebbe stata spazzata via dalle turbinose correnti che si agitarono a corte per la lotta al potere. L’imperatrice prima si legò a Niceforo Foca, trasmettendo al generale trono e reggenza; salvo pentirsi sei anni dopo, nel 969, quando appoggiò la congiura di palazzo ordita dal suo nuovo compagno di letto Giovanni Zimisce, eliminando così Foca.
Ma, Teofane fece male i conti: nel momento in cui Giovanni assunse la porpora, dovette sottostare all’ingiunzione del patriarca di Costantinopoli che lo obbligava a compiere atto di penitenza per il crimine commesso e a spedire in esilio Teofane complice del misfatto, così Teofane fu costretta ad abbandonare la capitale.
I due bambini crebbero riverberando le angosce che li circondavano. Costantino sviluppò un’insensata crudeltà e una passione smodata per gli agi che lo porterà a godere, al pari del padre, di donne, vino e cibo in eccesso; Basilio sulle prime sembrò seguire le orme del padre, salvo poi indurirsi in seguito alle batoste che gli riserverà il fato, finendo per costituire l’immagine opposta del fratello. Quasi ascetico, attento, scrupoloso, coltiverà nell’ombra quel carattere che lo renderà uomo di ferrea volontà e di straordinaria energia, a riprova di come il sangue di Basilio I fosse ancora presente nel figlio.
Fu presto evidente in lui l’attrazione verso il potere, di cui subiva il fascino, ma al momento il ragazzo non era considerato che una fugace comparsa nelle cerimonie di corte. Le cose sembrarono migliorare nel 976, quando una malattia stroncava Giovanni Zimisce. La linea ereditaria era rimasta intatta e il ragazzo aveva l’età giusta per comandare, almeno formalmente. Si assistette così a una pomposa cerimonia con la quale il giovane Basilio e il suo negligente fratello furono investiti dell’autorità imperiale.
La novità di un porfirogenito appariva indigesta e, complice l’inesperienza del ragazzo, il potere fu di fatto trasmesso a piene mani al suo potentissimo prozio, l’eunuco Basilio Lecapeno, che rivestiva già la prestigiosa carica di parakoimomenos, letteralmente “colui che proteggeva il sonno” dell’imperatore. Sebbene di fatto non appartenesse alla linea dinastica macedone, il Lecapeno incarnava squisitamente la potenza dello Stato bizantino nella sua neutralità, nel suo porsi attraverso le istituzioni al di là delle forze sociali e anche, naturalmente, attraverso la manifestazione di una vera potenza economica, avendo egli accumulato ricchezze e proprietà notevolissime. Non fu un caso che da più parti si ritenesse che la strana malattia di Giovanni Zimisce fosse originata da un suo complotto e da un sapiente uso del veleno.
Fu forse anche in virtù di tale sospetto che in breve iniziarono le lotte di una guerra civile. Ad agitare per primo il fuoco della fronda fu Barda Sclero, esponente di una delle più importanti famiglie dell’impero, e che già sotto il cognato Zimisce aveva rivestito il ruolo di domestikos (maggiordomo) dell’Oriente, vale a dire l’uomo più potente del reame dopo l’imperatore. Costui aspirava a rivendicare a sé il titolo di basileus e, approfittando dell’inesperienza del legittimo erede, sollevò alla sua causa l’aristocrazia armena dalla quale proveniva, oltre ovviamente al nutrito esercito orientale di cui era a capo.
Sulla legittimità dell’intronizzazione di Basilio, comunque, non si potevano elevare eccezioni o critiche: era stato proclamato mikros basileus fin dal 960, quando aveva appena tre anni, ed era assolutamente naturale che dopo la dipartita dello Zimisce e la quasi coeva uscita dalla minorità politica, occorsa nel 974, fosse eletto al trono. Fu per questo che sulle prime Barda Sclero richiese un governo formale, del giovane basileus, mirando a esercitare l’assunzione diretta del governo esclusivamente per proteggere gli interessi dei porfirogeniti contro gli ipotetici maneggi del Lecapeno; salvo scoprire immediatamente le carte e rivendicare a sé non solo il ruolo di reggente, ma anche quello di imperatore.
A far precipitare gli eventi contribuì la decisione adottata dal Lecapeno di destituire Barda Sclero dalla carica di domestico delle scholae per l’Oriente, sperando in tal modo di fargli terra bruciata intorno. Al contrario, quell’atto provocò la reazione tra gli amici e gli affiliati dello Sclero in Anatolia, che seppure non si tradussero in un movimento generale dell’aristocrazia, interessarono cospicuamente le regioni periferiche dell’Armenia, terra originaria degli Sclero e la Siria settentrionale. Si giunse così a una vera e propria crisi istituzionale, che culminò nel marzo del 976 con l’autoproclamazione di Barda Sclero a imperatore: rivelandosi ufficialmente come usurpatore, egli dava sostanzialmente il via alla guerra civile.
Barda ottenne subito due importantissime vittorie campali in Anatolia contro le truppe lealiste inviate da Basilio o meglio, dal Lecapeno, che
considerato il grave frangente si sostituì in tutto e per tutto al suo inesperto pronipote. Quindi, incassato l’appoggio della flotta dell’Egeo, l’usurpatore riusciva a occupare Nicea nell’autunno del 977, o forse agli inizi del 978, e da lì si apprestava ad attaccare Costantinopoli sia via mare che via terra.
Ai Dardanelli, però, la flotta del Corno d’Oro rimasta fedele ebbe ragione di quella degli Sclero, lasciando all’usurpatore la sola opzione dell’attacco terrestre. Si giunse così a una situazione di stallo che vide lo Sclero, sebbene saldamente in possesso dell’Asia Minore, incapace di sbarcare nei Balcani, e l’esercito imperiale nell’impossibilità di contrattaccare in Anatolia. Per uscire dall’impasse militare, lo spregiudicato ministro e ciambellano Lecapeno tirò fuori un outsider scovandolo addirittura tra i discendenti del fu Niceforo Foca. Si rivolse infatti al nipote di questi, Barda Foca, protagonista nel 971 di un ammutinamento contro Giovanni Zimisce che gli era costato l’esilio proprio a causa dell’intervento militare di Barda Sclero.
La mossa era spregiudicata quanto geniale: l’eunuco resuscitava una casata caduta in disgrazia e la rivolgeva contro chi, un tempo fedele all’imperatore, era stato l’esecutore materiale della sua rovina. Nonostante ciò, quell’azzardo si rivelerà presto come tale e, sebbene sulle prime abbia prodotto i frutti sperati, sarà causa di minacce future.
Al momento comunque Barda Foca, liberato insieme alla sua schiatta dall’esilio, incassava la nomina di domestico per l’Oriente e, giurata fedeltà a Basilio, si precipitava nel territorio di famiglia, la Cappadocia, dove riuscì rapidamente a radunare un esercito “lealista”. Con quello, iniziò a infastidire le retrovie di Barda Sclero.
Sotto quella spinta, Barda Sclero fu costretto a distrarre le sue energie dalla capitale e a ripiegare a Sud, dove dovette concentrarsi nel contrastare il nuovo venuto, che si rivelò essere un osso duro. Sebbene infatti, inizialmente, Barda Foca subisse una serie di sconfitte, ben presto riuscì a portare dalla sua parte gli iberi, ottenendo un contributo che si rivelerà decisivo per le sorti del conflitto, visto che l’area forte degli Sclero, l’Armenia, si ritrovò scoperta sul versante caucasico.
Si giunse così al 24 maggio 979, quando nella pianura di Pancalea, nei dintorni di Amorio, il Foca ebbe finalmente ragione dello Sclero. Le modalità attraverso le quali avvenne la vittoria furono indicative del grado di consapevolezza e per certi versi di presunzione che ormai l’aristocrazia aveva raggiunto. Barda Foca infatti, notando che il suo schieramento non avrebbe avuto nessuna possibilità di cavarsela nel corso di uno scontro tradizionale, decise nel bel mezzo della battaglia di puntare sul suo omonimo e di sfidarlo a singolar tenzone.
Il fatto che quest’ultimo, sebbene in vantaggio, abbia accettato, la dice lunga su come ormai i nobili considerassero se stessi come dei campioni che avevano il diritto di districare le vicende umane gareggiando personalmente come una sorta di divinità incarnate. Se tale convinzione trovava in Barda Foca una conferma nella sua stazza da gigante e nella forza che ne derivava, molta meno consistenza riscontrava nell’improvvido Sclero che, dotato dalla natura di un fisico normale, era destinato a soccombere al rivale.
Come ampiamente previsto infatti, non appena incrociate le armi, lo Sclero ricevette una devastante ferita su volto, che ne avrebbe decretato la fine se non fossero intervenute le sue guardie a toglierlo dalle mani dell’avversario e medicarlo. La sua débâcle mutò l’esito dello scontro, permettendo alle truppe di Foca di aver ragione del nemico ormai demoralizzato: nonostante ciò Barda Sclero riuscì a fuggire ottenendo rifugio presso il califfato di Baghdad, anche se ai più quella fuga apparve il risultato del salvacondotto ricevuto proprio dal suo rivale, che in tal modo onorava quel comportamento “cavalleresco”
ormai caratteristico della nobiltà bizantina proiettata in una nuova epoca e in una nuova cultura.
Chi invece rischiava di rimanere ancorato al vecchio era proprio Basilio che era costretto suo malgrado ad accettare una convivenza forzata non solo con lo zio, ma anche con Barda Foca, all’interno di un equilibrio istituzionale per il quale i poteri reali del basileus erano fortemente limitati.
Dovettero passare altri sei anni prima che il giovane imperatore riuscisse finalmente a liberarsi delle ingerenze dell’eunuco, sviluppando nel frattempo una sete di dominio talmente incontenibile da rendere intollerabile quella tutela che all’inizio aveva accettato volentieri. Fu infatti nel 985 che l’ennesima investigazione promossa da Basilio per screditare l’operato dell’ingombrante prozio portò a dei risultati concreti. Il Lecapeno infatti, subodorando le intenzioni del nipote, aveva già preso accordi con il Foca per togliere di mezzo sovrano: la congiura però fu scoperta e costituì la scusa per l’immediata rimozione dell’eunuco, la confisca di tutte le sue proprietà e il suo arresto. Basilio Lecapeno fu condannato a una detenzione da criminale comune alla quale non sopravvisse, mentre Barda Foca fu immediatamente degradato dalla carica di domestico dell’Oriente e gli fu concesso lo sminuente incarico di duca di Antiochia. Per di più Basilio intimò al sottoposto di sospendere immediatamente ogni attività militare contro l’emirato di Aleppo.
Approfittando della guerra civile bizantina, l’emiro di Aleppo aveva cessato di pagare i tributi a Bisanzio, mentre il sultano di Baghdad aveva occupato Mosul, fino a quel momento posta sotto la custodia di un protettorato bizantino. Ci volle tutta l’energia di Barda Foca per riuscire a riottenere il tributo e contenere le mire dell’emirato ribelle, obiettivi che questi raggiunse solo nel 985, proprio lo stesso anno in cui veniva destituito.
Quello che era successo in Oriente era nulla, se paragonato a ciò che si stava profilando in Occidente all’ombra dei Balcani, dove solo pochi anni prima, nel 972, una brillante campagna militare condotta da Zimisce aveva sottomesso all’impero l’intera Bulgaria. A partire dal 977, infatti, un forte sentimento di rivolta agitò slavi e bulgari che erano fortemente orientati a riportare indietro le lancette della storia, vanificando l’opera di Zimisce e ristabilendo i confini nell’area così come erano iscritti all’epoca di Romano II. L’insurrezione scatenata nella parte occidentale della Bulgaria, segnatamente in Macedonia, dove si
era formato un piccolo regno indipendente sottomesso a un protettorato bizantino, assunse i caratteri di una guerra di indipendenza nazionale, che rifiutava in toto la presenza greca in quell’area.
I ribelli volsero con fiducia il loro sguardo ai comitopuli, ovvero ai figli del comes Nicola, che prima dell’avvento di Zimisce esercitava la sua autorità sulla regione, e che ora prigioniero a Costantinopoli: l’evasione di Boris II e di suo fratello Romano rinfocolarono l’animo dei rivoltosi, convinti di poter disporre di nuovo czar a cui affidare le sorti della Bulgaria. Sfortunatamente, però, il primo morì durante la fuga, mentre il secondo, per quanto salvo, non poté aspirare a ricoprire la carica poiché era stato evirato dai bizantini proprio per scongiurare tale eventualità.
Le speranze bulgare si rivolsero dunque all’ultimo comitopulo rimasto, Samuele, che a scanso di ulteriori equivoci aveva già provveduto a eliminare un quarto fratello. Il sopravvissuto si dimostrò parecchio intraprendente, e dopo aver stabilito inizialmente la sua capitale a Prespa, occupò l’intera Macedonia e tutta la Bulgaria fino al Danubio, poi l’Epiro e Durazzo, infine la Serbia. Ciò fatto spostò la capitale a Ocrida, nell’attuale Macedonia occidentale, preoccupandosi di trasformarla nella sede del rinnovato patriarcato bulgaro.
Insomma, il vero nucleo del nuovo Stato che si considerava erede legittimo del fu impero bulgaro si spostava da occidente a Sud, denunciando implicitamente quali fossero le intenzioni dello czar. Samuele infatti, dopo avere liberato l’intera Bulgaria, la Macedonia e l’Albania dalla presenza bizantina e avere costituito un regno che andava dall’Adriatico al Danubio, manifestò un atteggiamento aggressivo contro le tradizionali regioni dell’impero bizantino. Nel 980 attaccò la Tessaglia, riproponendosi puntualmente nei tre anni successivi occupando di volta cittadelle e roccaforti finché, nel 986, non gli riuscì il colpo grosso con la conquista di Larissa. La presa della principale città dell’area fornì motivo di grave imbarazzo al prestigio di Basilio: una provocazione che non poteva essere ignorata da chi aveva appena mosso i primi passi, finalmente libero dal soffocante abbraccio del prozio.
Contrariamente a quanto sarebbe stato lecito attendersi, Basilio non puntò verso la Macedonia e la Serbia, nuovo nucleo del rinnovato stato bulgaro, bensì a est, in direzione di Serdica, ovvero la moderna Sofia, che aveva costituito il fulcro del vecchio impero.
La scelta, almeno sulla carta, era opportuna: rompere il fronte avversario separando le diverse etnie che componevano la nuova compagine statale. Ma l’assedio di Serdica non produsse l’effetto sperato. La città resistette al punto da indurre Basilio a desistere, forse a causa dell’esaurirsi delle scorte o molto più probabilmente richiamato frettolosamente a Costantinopoli dal profilarsi di una condizione di instabilità. A ogni modo, l’imperatore decise di ripiegare verso sud, percorrendo a ritroso quel tratto della via imperiale denominata Basilike che, passando attraverso la valle del fiume Maritsa, si snodava incassata tra gli scoscesi Haimos a nord e l’impervia catena dei monti Rodopi a sud.
Fu un errore tattico e un eccesso di prudenza a provocare quella che rimarrà la più grande disfatta subita da Basilio. Appare abbastanza evidente come le manovre di un imperatore che cerchi di traghettare le proprie forze attraverso un’angusta via tra due catene montuose possano risultare facilmente prevedibili; soprattutto a chi, al pari degli uomini di Samuele, era maestro nell’arte di operare incursioni a lungo raggio, eccellendo nella rapidità dei movimenti.
Così, mentre Basilio attendeva imprudentemente il ricongiungimento della retroguardia con il grosso dell’armata, i bulgari ebbero modo di attestarsi con tutta calma sulle alture che circondavano il passo detto “le Porte di Traiano”, presso l’attuale città bulgara di Soukeis, passaggio obbligato per chiunque intendesse muovere verso sud. Il 17 agosto 986 l’esercito imperiale, nell’atto di forzare il passo, si trovò così circondato e imbottigliato. Ciò che successe tra quelle gole ci è stato restituito dalla vivida voce di uno dei testimoni, Leone il Diacono, che nella sua Storia così raccontò la strage:
""L’esercito stava attraversando una gola boscosa, che era piena di caverne, e come l’ebbe passata si trovò davanti a un terreno ripido, percorso da molti canali. Qui i misiani [bulgari] attaccarono i romani, uccidendo un grande numero di uomini e impossessandosi delle ricchezze e dei quartieri imperiali e saccheggiando tutto il bagaglio dell’esercito. Io stesso, che narro questa triste storia, ero presente in quel tempo, per mia sfortuna, al seguito dell’imperatore e assolvendo gli obblighi di un monaco […] e i resti dell’esercito, passando per montagne [quasi] intransitabili, a sforzo sfuggirono all’attacco dei misiani, perdendo quasi tutti i cavalli e il bagaglio che stavano portando, e fecero ritorno in territorio romano.""
Basilio scampò all’eccidio ma usciva da quel confronto a pezzi, minato nell’orgoglio e nella sua autorità. Al punto che tutti i suoi nemici poterono gioirne.
Fana-Cosroe, detto Adud al-Dawla, “Sostegno della dinastia”, il persiano che era anche emiro degli sciiti duodecimani, pur se formalmente soggetto al califfo abbaside di Baghdad, reagì alla sconfitta di Basilio liberando Barda Sclero, che sino a quel momento era stato suo ospite e prigioniero. Costui non fece neppure in tempo ad approdare in Anatolia che già la regione si poneva in uno stato di profonda agitazione: così, raggranellati uomini, risorse e danari forniti direttamente dal suo sponsor, Barda si pose a capo della rivolta che infiammò l’Asia Minore proclamandosi basileus.
Basilio II reagì ricorrendo senza troppa fantasia a Barda Foca, sfortunatamente per l’imperatore, Foca, memore del trattamento subito in precedenza, decise di proclamarsi a sua volta imperatore il 15 agosto 987.
Per quanto in netta posizione dominante, era impensabile per Foca lanciarsi all’attacco di Costantinopoli e del trono imperiale lasciandosi alle spalle un pericoloso antagonista. Così, adottando l’antico adagio “il nemico del mio nemico è mio amico” propose allo Sclero un patto che prevedeva la spartizione dell’impero riservando per sé l’area balcanica ed europea, inclusa la capitale, e promettendo all’altro il settore orientale.
Sclero non era in condizioni di fare contro proposte, considerata la sua debole posizione militare, e accettò, intraprendendo una strada che gli risulterà fatale. Foca infatti, incassata dal rivale e da tutto l’Oriente la sua titolatura imperiale, comprese di poter fare a meno dell'alleato: pertanto Sclero si ritrovò in ceppi in una fortezza anatolica, dove poté meditare a lungo in merito alla propria ingenuità, mentre Foca, sicuro di non dover subire spiacevoli sorprese alle spalle, si poté concentrare sull’assalto a Costantinopoli.
La situazione militare del legittimo basileus appariva drammatica: tutte le truppe dell’Oriente erano controllate dall’usurpatore; a esse poteva opporre al massimo i residui eserciti balcanici decimati dall’offensiva bulgara, oltre alla sempre benemerita flotta del Corno d’Oro. Fu in quel momento che Basilio, dopo anni di rovesci, divenne finalmente protagonista di quella riscossa che lo condurrà ai successi per i quali verrà giustamente incensato. Manifestando un sangue freddo e una buona dose di spregiudicatezza, egli scovò una soluzione tanto remota quanto efficace nella lontana Rus’. Si rammentò infatti che già Zimisce aveva iniziato a intavolare trattative con i signori di Kiev, apparsi più che disposti a orientare la sfera dei propri interessi verso sud. Basilio riannodò le fila di quei contatti ottenendo dal corrente voivoda Vladimir l’impegno a garantire a Costantinopoli un valido aiuto militare; in cambio il principe russo chiedeva una “sciocchezza”: un’unione matrimoniale tra lui e la sorella minore di Basilio II, la principessa Anna.
Ottenuta l’assicurazione di poter sposare la principessa Anna, Vladimir mantenne fede alla sua promessa, che si concretizzò con l’invio di 6000 guerrieri e di una veloce flotta composta da piccole imbarcazioni. L’apporto russo voluto da Basilio acquista il suo giusto valore, in considerazione del fatto che i guerrieri inviati da Vladimir non erano soldati comuni bensì i temibili variaghi, giganti vichinghi irrorati da sangue russo, famosi per battagliare con l’ascia bipenne: una straordinaria truppa d’élite che in un rapporto di forze poterono fare la differenza, bilanciando l’inferiorità numerica dei contingenti costantinopolitani.
Comunque Basilio dovette attendere il dicembre del 988 prima di poter godere di quei guerrieri; nel frattempo, fu costretto a compiere miracoli con quello di cui disponeva e soprattutto sfruttando quella indecisione politica che aveva sottratto all’usurpatore preziose risorse militari. Insinuandosi in quelle crepe, infatti, il basileus riuscì a compiere una prima controffensiva che si concretizzò con lo sbarco in Asia Minore di un esercito, a cui fu affidato il compito di marciare in direzione ovest-est verso l’Armenia, ovvero il cuore della potenza in declino degli Sclero.
In questa marcia la colonna lealista ebbe modo di saggiare lo scontento serpeggiante nei temi orientali tra i vecchi seguaci di Barda Sclero, riuscendo a reclutare numerosi indecisi o per lo meno tiepidi verso l’usurpazione dei Foca. L’intuizione di Basilio si rivelò in definitiva giusta: l’organizzazione tematica dell’Asia Minore, pur mutilata e diminuita dalla secessione, era ancora in piedi e disposta a mantenere il suo legame con il governo centrale e l’imperatore legittimo. Ciò permise a
quest’ultimo di ricucire i contatti interrotti tra i temi occidentali e costieri dell’Anatolia e quelli posti sull’estremo confine orientale, sottraendo terreno nelle retrovie al suo rivale.
Intanto sul fronte principale, quello del Bosforo, continuava indefessa l’opera di pattugliamento della flotta imperiale, allo scopo di prevenire e impedire sbarchi dalla sponda asiatica. Fu durante una di queste missioni che finalmente, nel dicembre 998, venne avvistata la flotta di Kiev recante il suo carico. I variaghi non fecero neppure in tempo a sbarcare che già Basilio li riuniva intorno alla sua persona per costituire una sorta di guardia personale. Quindi, galvanizzato da quel rinforzo, prese l’iniziativa e sferrò un contrattacco contro Crisopoli, mirato a spezzare l’apice orientale della tenaglia con cui Barda Foca opprimeva la capitale. L’imperatore stesso si pose alla testa dei variaghi che nella notte furono traghettati verso le coste asiatiche; immediatamente dietro avanzava una squadra navale armata di fuoco greco, con il compito di incendiare l’acqua prospiciente il litorale onde evitare aiuti dal mare ai ribelli, e soprattutto precludere a questi ogni possibile via di fuga.
In buona sostanza, Basilio aveva progettato una vera e propria azione di sterminio, che si concretizzò alle primissime luci dell’alba quando le asce dei giganti del Nord fecero letteralmente a pezzi l’armata di Foca, il quale scampò solo poiché in quel momento si trovava nelle retrovie, lontano dalla città.
Era il modo con cui l’esasperato imperatore segnava per quel conflitto il punto di non ritorno.
Frattanto Barda Foca, abbandonata Crisopoli, si diresse alla volta dell’Ellesponto, ovvero all’apice occidentale della tenaglia ormai mozzata da lui apparecchiata in precedenza. La sua intenzione era quella di porre sotto assedio Abido con lo scopo di attuare un blocco navale contro la capitale: la città però resistette, supportata dalla gloriosa flotta del Corno d’Oro che, anche in quella circostanza, impedì qualsiasi manovra navale ai ribelli.
Basilio ormai aveva in mano il pallino del gioco e nel marzo 989 si permetteva addirittura il lusso di inviare suo fratello alla guida di un piccolo contingente in aiuto alla città assediata; sarà la prima e ultima volta che il futuro Costantino VIII si occuperà di cose militari. Sarà stata poca cosa, ma indicativa della rinata verve del basileus che, in chiave propagandistica, annunciava quanto l’intera famiglia imperiale si spendesse esprimendo una ferrea volontà di riscossa. Subito dopo, toccherà a Basilio stesso scendere in campo sbarcando a Lampsaco alla testa dei suoi inseparabili variaghi, puntando a disturbare direttamente gli assedianti: la battaglia campale che si combatté il 13 aprile 989 nella piana davanti ad Abido non solo fu inevitabile, ma proditoriamente preparata.
Le truppe dell’usurpatore persero terreno e si scompaginarono sotto l’urto variago, che ancora una volta risultò decisivo. Barda Foca allora pensò bene di bissare quanto successo a Pancalea sfidando a duello Basilio che, accanto al fratello Costantino, affrontava impavidamente la battaglia combattendo tra le prime file. Il giovane imperatore sfidò la sorte e alzata al cielo la spada accettò di ingaggiare il duello con il gigante: considerato ciò che avvenne di lì a poco verrebbe da pensare che il basileus fosse stato confortato da una sorta di chiaroveggenza. Barda infatti non riuscì a terminare la carica, cadendo misteriosamente da cavallo a causa di ciò che le fonti unanimi individuarono come un improvviso e divino malore. A ogni modo Foca, non offeso da alcun dardo o lancia o qualsivoglia proietto, cadde fulminato da ciò che verosimilmente fu un colpo apoplettico, sentenziando con la sua dipartita la liquefazione del proprio esercito e la conseguente vittoria di Basilio.
Ormai fiaccato dagli anni e da un biennio di prigionia, Sclero affrontò debolmente le truppe imperiali e alla fine si decise alla resa, che fu pattuita direttamente con il trentaduenne imperatore in un incontro destinato a passare alla Storia.
Dopo aver annunciato l’abbandono definitivo a ogni pretesa al trono, Barda Sclero si lanciò in una lunga disquisizione politica che Basilio trascinò sul tema dell’ostilità nutrita dall’aristocrazia anatolica nei confronti della basileia e la sua dinastia. Pare che lo Sclero motivasse tale atteggiamento addossandolo all’eccessiva sicurezza con cui i dynatoi, ovvero i potenti dell’amministrazione civile, militare e religiosa potevano disporre dei propri diritti e delle proprietà.
Individuata la causa, lo Sclero offrì anche la soluzione consigliando a Basilio di applicare nei confronti di quella casta un inflessibile aumento della pressione fiscale e la requisizioni delle terre a loro volta espropriate ai meno abbienti, due rimedi che infallibilmente avrebbero raffreddato le teste tanto nobili quanto calde.
Sarà perché distratto dalla vittoria, Basilio aveva tralasciato di ottemperare alla promessa di matrimonio fatta al buon Vladimir quando aveva ottenuto il reclutamento dei formidabili variaghi. Se la memoria del basileus vacillava, quella del principe russo era invece lucidissima e prontamente tornò a battere cassa, consapevole che proprio grazie al suo aiuto Basilio poteva ancora vantare la permanenza sul trono bizantino.
L’imperatore provò a tergiversare, sempre martoriato dalle critiche feroci di chi non si rassegnava ad abbandonare la principessa Anna nelle mani del voivoda considerato poco più che barbaro: ciò indusse Vladimir a occupare nell’estate del 989 Cherson in Crimea, da dove minacciò di stracciare il trattato e soprattutto di richiamare il contingente variago.
Così il matrimonio si fece, e bisogna ammettere che in prospettiva a Basilio non andò male. Non solo infatti otteneva l’immediato sgombero della Crimea da parte delle armate russe, e incassava la conferma dei precedenti trattati di cooperazione militare russo-bizantina nell’Ucraina meridionale, ma già nel momento stesso in cui gli sposi partivano alla volta di Kiev, poteva ammirare, comprensibilmente commosso, la lunga schiera di preti ortodossi che si aggregava al corteo. Grazie al loro contributo, unito ovviamente al fatto che la corona di Kiev si era imparentata direttamente con la dinastia regnante a Costantinopoli, l’influenza bizantina che già da circa mezzo secolo aveva iniziato a penetrare in Russia assunse caratteristiche esplosive.
Avvenne così che la nascente chiesa russa fu sottoposta al diretto controllo del patriarcato di Costantinopoli e all’opera missionaria gestita da monaci greci. Tale campagna di proselitismo, che vide esposti in prima persona il principe Vladimir e Anna porfirogenita, ebbe conseguenze epocali: la Russia, allontanandosi dal paganesimo, cambiava radicalmente volto e sceglieva nel mondo cristiano come unico referente proprio la chiesa greco-ortodossa, suggellando un legame plurisecolare tra il Corno d’Oro e le infinite steppe ucraine e russe.
br />
Sarà stata la consapevolezza delle gravi difficoltà che lo aspettavano a operare in Basilio un profondissimo cambiamento nel carattere: inizialmente faceto e amante dell’eloquio, si fece taciturno e pensieroso, contraddicendo ciò che sino a quel momento aveva costituito la massima espressione della rappresentazione del potere romano e bizantino, per lo meno sotto il profilo civile. L’esercizio dell’eloquenza e della retorica costituiva infatti il marchio di fabbrica dell’imperatore, tradizionalmente riconosciuto come il supremo giurista e dunque il più alto interprete della legge e della sua enunciazione. Al contrario Basilio, progressivamente e programmaticamente abbandonò gli orpelli della retorica, approdando a un’enunciazione schietta e cruda, in linea con un mutato stile di vita che rifuggiva ogni evento mondano, considerato non solo inutile ma addirittura dannoso.
Secondo Psello, un autore che scrisse un secolo dopo i fatti, a partire dal 989 Basilio concentrò tutte le sue ambizioni verso il rafforzamento dell'impero, che si preoccupò di preservare tanto dai nemici interni quanto da quelli esterni: semplicità nell’eloquio, asciuttezza nel cerimoniale di corte, diffidenza assoluta verso il prossimo e un’accentuata misoginia furono parte integrante di questo nuovo disegno esistenziale e psicologico. La scelta di Basilio ebbe come conseguenza diretta l’estremizzazione del conflitto già in atto tra aristocrazia e basileia: nessun imperatore osteggiò e detestò la classe nobiliare come lui, né si poteva dargli torto, considerati i grattacapi che i dynatoi, incarnati dalle famiglie degli Sclero o dei Foca, gli avevano fornito sin dal momento in cui aveva legittimamente cinto la corona imperiale.
Il decennale conflitto scaturito dall’opposizione nobiliare aveva instillato in Basilio l’idea che l’unica forza capace di controbilanciare lo strapotere aristocratico risiedesse nella classe dei contadini e nel legame stabilito tra questi e il carisma militare imperiale. Come per l’epoca eracliana, si riconosceva dunque che il destino dell’impero era indissolubilmente condizionato dal diretto rapporto politico tra basileia e mondo agricolo. Secondo Basilio dunque, tra i coltivatori diretti – coloro che venivano chiamati “poveri” nella sua legislazione – e l’imperatore, doveva ripristinarsi quella sorta di co-essenzialità secondo cui i primi dovevano costituire il fondamento dell’esercito, mentre il secondo
doveva trasformarsi nel loro riferimento immediato, privo di ogni mediazione.
Perseguendo tale logica, Basilio ripristinò quella forma di Stato nata nel VII secolo e basata sul principio del nomos georgikos, letteralmente “consuetudini dell’agricoltura” secondo le quali i contadini, intesi non più come servi della gleba bensì come proprietari delle terre che lavoravano, venivano posti sotto la diretta tutela dell’imperatore, fornendo in cambio la leva che avrebbe ingrossato le fila dell’esercito, che diveniva così emanazione diretta del potere imperiale.
Paradossalmente, con quella scelta attraverso cui, dopo cento anni, un imperatore si poneva in prima persona alla guida degli eserciti, dormendo sotto stesse le tende, patendo lo stesso freddo, sopportando le stesse fatiche, Basilio si trasformava in un basileus incontrovertibilmente aristocratico. Era stata infatti l’aristocrazia a riproporre quel modello esistenziale da almeno un secolo e mezzo, acquisendo storicità e fascino ai quali era difficile sottrarsi. Così Basilio, che passerà come l’eroe della lotta contro le grandi casate, assunse per contrappasso il medesimo stile di vita della nobiltà che tanto osteggiò.
Non a caso, egli fu percepito dai suoi contemporanei non come il sovrano avverso alla classe nobiliare, bensì come il realizzatore di una basileia che si manifestava attraverso un iperpotere aristocratico, che pur rimanendo della stessa sostanza dei gruppi sociali che tradizionalmente gravitavano intorno al governo, spesso condizionandolo, li sopravanzava rifiutando con essi nessun tipo di compromesso.
Basilio stesso ebbe cura di perseguire tale idea con estrema determinazione, rivelandosi sempre molto preciso nell’individuare la neutralità e la superiorità del potere che stava forgiando. Individuò nel diritto la fonte stessa della legittimità del lignaggio imperiale, giungendo così a descrivere una sorta di “aristocrazia superiore” che a conti fatti comportava la negazione stessa dell’aristocrazia. Forte di quel carisma, Basilio poté aspirare a ricalcare l’esempio dei primi imperatori romani, come dimostreranno i costanti riferimenti ad Augusto espressi nella sua opera legislativa e di governo.
Questo recupero del passato divenne funzionale per azzerare l'ideologia aristocratica che negli ultimi cento anni aveva contaminato la struttura stessa dell’esercito bizantino, permettendo a Basilio di reintrodurre, spesso brutalmente, l’antica organizzazione tematica. Partendo dall’assunto che l’imperatore fosse il terminale assoluto dell’intera struttura, Basilio poteva articolare a suo piacimento la gerarchia all’interno delle varie guarnigioni, sfruttando una rigida disciplina che non tenesse minimamente conto della provenienza sociale dei soldati e dei loro comandanti.
Sulla scia di questa estremizzazione, Basilio fu in grado anche di depotenziare l’amministrazione centrale dello Stato, sollevando le logotesie, quelli che oggi chiameremmo ministeri, da moltissime competenze e attribuzioni, che furono assunte neanche a dirlo direttamente dall’imperatore. Per quanto tale trasformazione fosse dettata da elementi contingenti e, se vogliamo, anche psicologici, Basilio ebbe il merito di infonderle tratti di contiguità che sopravvissero ancora per molto tempo: alla sua morte infatti l’impianto istituzionale da lui creato non fu abbandonato e, anzi, si assistette a un progressivo declino dei dicasteri, sostituti puntualmente dall’imperatore che, in prima persona, cercherà di trasformarsi di volta in volta in tramite tra il centro e la periferia dell’impero.
Consolidata la propria posizione, Basilio si sentì nella condizione, se non in dovere, di dare seguito a quella promessa sancita all’indomani della batosta patita alle “Porte di Traiano”: era giunta l’ora di regolare i conti con chi aveva avuto l’ardire di umiliarlo. Così, nel 991 l’imperatore divenne protagonista di una nuova campagna contro i bulgari che, a differenza della prima, fu contrassegnata da un’estrema prudenza. Alla guida di un esercito disciplinatissimo e addestrato direttamente da lui, Basilio avanzò con circospezione nell’area occidentale del nuovo impero bulgaro, preoccupandosi al momento di scongiurare i continui sconfinamenti che flagellavano Tessaglia e Peloponneso.
Quanto avesse imparato la lezione, lo rivela il fatto che si preoccupò di accompagnare l’azione militare con una febbrile iniziativa diplomatica, volta a ottenere quanti più alleati possibili. Già nel 990 infatti si era guadagnato dell’apporto di Giovanni Vladimiro di Doclea, un principe serbo al quale aveva affidato il compito di minacciare da settentrione i territori bulgari occidentali. Nonostante tali accortezze, però, la campagna scontava tutte le difficoltà derivate dalla disfatta subita in precedenza: basti pensare che per raggiungere l’imperatore, gli ambasciatori serbi furono costretti a prendere la via del mare e a percorrere l’Adriatico meridionale, evidenziando come le via di terra dislocate tra l’Epiro, la Macedonia e la stessa Serbia meridionale fossero sotto il controllo degli uomini di Samuele.
Nel 995, dopo quattro anni di scontri e lievi avanzate in cui non era ancora riuscito ad ottenere nulla, Basilio fu costretto ad abbandonare le operazioni a causa di sconfortanti notizie giunte dal fronte mediorientale. Sin dall’anno precedente, infatti, i Fatimidi avevano attaccato la Siria bizantina e ottenuto sull’Oronte un’importante vittoria ai danni delle truppe bizantine. A seguito di quella battaglia gli appetiti arabi si erano fatti ancora più smodati, al punto da minacciare direttamente Aleppo e Antiochia.
Fu proprio l’emiro di questa città, ridotta sin dai tempi di Zimisce a un protettorato bizantino, a richiedere l’aiuto di Basilio quando, nel 995, iniziò a subire l’attacco fatimida. L’imperatore non pose tempo in mezzo e, affidato al generale Niceforo Urano un numero di uomini strettamente necessario a presidiare i confini bulgari e le piccole conquiste ottenute, si precipitò a Costantinopoli dove riunì una forza di circa 40.000 effettivi.
Era fondamentale agire con la massima urgenza: Basilio, fortemente intenzionato a non delegare a chicchessia la conduzione dell’intervento, tanto meno alle instabili casate anatoliche, voleva al contrario dimostrare l’efficienza e la velocità del potere centrale. Per ottenere tale risultato, l’imperatore ricorse a un espediente che rappresentò un unicum nella secolare storia militare bizantina: la Tracia venne rastrellata da cima a fondo alla ricerca di un numero sufficiente di muli da poter aggregare all’esercito. Ne vennero confiscati quasi centomila, di modo che ogni soldato ne avesse in dotazione almeno un paio da poter sfruttare, uno per la sua marcia e il secondo per il suo armamento.
Grazie ai quadrupedi l’armata, procedendo a marce forzate raggiunse lo scenario bellico in poche settimane, stupendo non solo gli arabi ma anche i potentati aristocratici; costoro, sperando in un ritardo che attestasse l’inadeguatezza imperiale, già si erano visti reinvestiti della responsabilità di far fronte alla situazione. Invece, in soli sedici giorni da che erano partite da Costantinopoli, le avanguardie di quell’esercito di mulattieri, circa 17.000 soldati, giunsero in vista di Aleppo: prima ancora che arrivasse il grosso delle forze di Basilio, nell’aprile dello stesso anno riuscivano a rompere l’assedio della città e a costringere i Fatimidi a una precipitosa fuga a Damasco.
L’imperatore non si accontentò del successo e anzi, una volta giunto sul posto, sfogò la sua voglia di usare le maniere forti contro Emesa, tornata nuovamente sotto gli arabi ai tempi della guerra civile aristocratica. La conquista fu impietosa, contraddistinta da un feroce saccheggio e dalla conseguente devastazione; quindi toccò alla costa del Libano, là dove l’offensiva fatimida aveva vanificato, ancora nel decennio precedente, l’opera militare dell’infaticabile Giovanni I Zimisce. Anche stavolta Basilio non fece sconti: tutta la linea del litorale subì saccheggi e massacri, a eccezione di Tripoli che comunque venne nuovamente soggiogata. Il ripiegamento dei Fatimidi verso la Palestina restituì all’impero i confini relativi a un paio di decenni prima: Libano e Siria settentrionale tornavano nell’alveo bizantino.
Sistemate le cose in Medio Oriente, Basilio pensò di togliersi qualche sassolino anche in Armenia e Georgia, conducendo una vittoriosa campagna che oltre a implicazioni di carattere internazionale mirava soprattutto a mettere le cose in chiaro sul fronte interno. I georgiani infatti erano stati alleati dei Foca, mentre agli armeni scontavano la loro vicinanza a Sclero: una bella ripassata ai sodali dell’elemento aristocratico, per giunta in prossimità dell’emissione del decreto agrario che, come vedremo, avrà luogo proprio nel 996. Tanto più che gli antichi alleati caucasici di Bisanzio si erano lasciati irretire dalle lusinghe del califfo di Baghdad il quale, approfittando a suo tempo della guerra civile, dopo aver occupato Mosul ed essere risalito lungo la Mesopotamia, aveva esteso nella zona la propria influenza: la vecchia catena con cui Marco Aurelio aveva soggiogato le montagne armene era sul punto di spezzarsi, consentendo così al califfo di forzare il Tauro e procedere all’invasione della Mesopotamia settentrionale.
Fu dunque un complesso di disegni politici e strategici a spingere Basilio verso il Caucaso, prolungando la sua permanenza in Asia Minore quasi a volerla controllare in previsione della legge antiaristocratica che si accingeva a promulgare. La campagna contro i georgiani assunse i caratteri di una spedizione punitiva: i legami con l’odiata casata dei Foca vennero spezzati a suon di saccheggi e massacri. Alla fine, il re dell’Iberia meridionale si vide costretto a nominare Basilio suo erede, assumendo una risoluzione che per la Georgia avrà effetti devastanti: quando infatti nel 1000 lo sventurato sovrano morirà, il suo regno non solo verrà inglobato nella sfera bizantina, ma verrà ridotto al rango di provincia direttamente controllata dall’imperatore.
Sorte più o meno analoga toccherà al protettorato armeno, il cui emiro marwanide, reo di aver appoggiato Barda Sclero, fu sconfitto, umiliato e costretto a riconoscere la protezione di Basilio II.
Quell’operazione costituì il preambolo all’azione giuridica con cui Basilio si apprestava a infliggere il colpo definito al potere aristocratico in Anatolia, seguendo il leggendario consiglio offertogli da Barda Sclero nel 989. La novella emessa nel 996 costituì il recupero della consuetudine legale bizantina del VII secolo, rielaborata in forme rivoluzionarie. La promulgazione del decreto si iscriveva nel quadro dello sforzo bellico prodotto contro i Fatimidi e i potentati armeni e caucasici, in un contesto in cui la dispersione dei poteri introdotta dall’aristocrazia aveva prodotto una vera e propria disarticolazione della politica estera bizantina.
La necessità di contrastare la deriva aristocratica, trovava conferma in ciò che Basilio ebbe modo di constatare con i suoi propri occhi quando nel corso del 995, rientrato dalla campagna siriana, fu ospite di un’importante famiglia nobiliare, quella dei Malini in Cappadocia. Lì ebbe modo di osservare quanto si estendessero le relazioni di colonato e servitù, attraverso le quali i nobili si erano appropriati di terre appartenute un tempo a coltivatori che secondo quanto stabilito dall’organizzazione tematica, erano non solo liberi ma costituivano la base del reclutamento dell’esercito imperiale. Al contrario l’aristocrazia, istituendo una propria “tassa di leva”, i Malini erano in grado di reclutare un proprio esercito privato, con tutte le conseguenze eversive derivanti.
Appena rientrato a Costantinopoli, Basilio intervenne direttamente contro la famiglia cappadoce che aveva avuto la sfortuna di ospitarlo, imprigionando il capostipite Eustachio Malino e confiscandogli tutti i beni. Quindi produsse la novella che avrebbe esteso gli stessi effetti a tutte le altre famiglie aristocratiche. Nel preambolo della legge è evidente la determinazione del sovrano: «Abbiamo osservato con i nostri stessi occhi (quando abbiamo attraversato i temi del nostro impero nel corso delle campagne militari) l’avarizia e le ingiustizie perpetrate ogni giorno nei confronti dei poveri [...]. I potenti che desiderano ingrandire le loro terre e godere della piena proprietà di ciò che hanno ingiustamente sottratto a spese dei poveri [...] saranno privati della proprietà appartenente ad altri».
Individuate nella tranquillità e nella supremazia economica delle casate anatoliche l’origine della loro intraprendenza politica, Basilio si apprestava a distruggere quella base economica. Si stabilì così che tutte le terre acquisite dagli aristocratici dopo il 929 andassero restituite alle famiglie dei vecchi proprietari, poiché tutte quelle cessioni erano avvenute in aperto contrasto con il nomos georgikos. Al centro assoluto delle disposizioni di Basilio c’era la difesa dei “poveri” contro i “potenti” che nel corso dei secoli si erano indebitamente appropriati delle loro terre, senza che le crisobolle imperiali trovassero adeguata applicazione. Era ferma determinazione del basileus riportare i poveri dentro le antiche relazioni fiscali e le terre che gli erano appartenute dentro gli obblighi fiscali e militari verso lo Stato.
Il decreto, la cui applicazione su larga scala richiedeva una notevole mobilitazione di forze sociali e militari, distrusse la potenza dell’aristocrazia anatolica e restituì all’impero l’organizzazione tematica, sebbene in forme stravolte: spesso i contadini furono ridotti al rango di coloni militari dello stato, non potendo più assolutamente alienare e vendere le loro terre. Gli effetti sociali e istituzionali dell’operazione del 996 furono dirompenti: Basilio, più che restituire un mondo, lo distrusse reinventandolo da capo. La legge provocò un vero terremoto sociale che costrinse l’imperatore a stazionare in Asia Minore almeno per un quinquennio, tenendolo lontano dallo scenario bulgaro al quale anelava di tornare. La regione visse in uno stato di guerra civile e l’applicazione del decreto avvenne sotto l’ombra delle lance dell’esercito.
Recependo l’eredità stabilita da Eraclio e dalla sua dinastia, Basilio fece in modo che agricoltura ed esercito finissero per trasformarsi in due facce della stessa medaglia, in cui alla produzione agricola e ai rapporti sociali delle campagne corrispondesse una struttura militare, in un’unione resa inscindibile da un’adeguata politica fiscale. Questa sorta di unicum generò una sicurezza economica da cui derivò un surplus che finalmente, dopo tre secoli, poté essere adoperato di nuovo per reclutare mercenari stranieri ed evitare la guerra a una società come quella bizantina che, tolte le deviazioni aristocratiche anatoliche, non amava affatto praticarla.
Sebbene la presenza massiccia di soldati di professione divenisse un tratto distintivo del governo basiliano, ciò non andava in conflitto con la rivalutazione tematica operata dal basileus. I mercenari infatti, legati da un giuramento di fedeltà all’imperatore, furono compensati con l’elargizione di terre di cui diventavano custodi. Insomma l’esercito mutava pelle ma si inseriva all’interno di una tradizione che ancora dimostrava tutta la sua validità, tanto più che il lavoro agricolo e la collaborazione con i vicini avrebbe prodotto assimilazione linguistica e integrazione culturale. Fu così che vandali, turchi, bulgari, valacchi e macedoni, ovvero quelle compagini che secondo gli annales barenses infoltirono i ranghi imperiali assieme a variaghi e addirittura arabi, se con una mano impugnavano le armi, con l’altra brandivano la zappa per incidere solchi che, concordati con i coloni autoctoni, li avvicinavano paradossalmente sempre più al mondo greco.
Mentre Basilio era impegnato a rimodellare il proprio impero, Samuele chaveva consolidato le sue posizioni, tanto che nel 996 riusciva a conquistare Durazzo e l’intera Albania, interrompendo la rete logistica costiera dell’impero ma soprattutto affacciandosi minacciosamente sull’Adriatico. L’anno successivo penetrava in Grecia e si spingeva a sud fino al Peloponneso, salvo essere intercettato sulla via del ritorno da una forza bizantina guidata dal famoso Niceforo Urano, presunto autore del trattato militare Taktika. La battaglia si svolse in una località non lontana dalle storiche Termopili e si risolse con una sconfitta rovinosa dei bulgari: lo stesso Samuele venne ferito e si salvò dalla cattura solo per miracolo.
Per quanto quella vittoria apparisse brillante, tuttavia, non era conclusiva lo scontro era avvenuto ben all’interno del territorio greco, sul fiume Sperchios presso la moderna Lamia, a 95 miglia da Atene; Samuele non era mai stato così vicino a una capitale bizantina, evidenziando quanto la situazione fosse peggiorata. Non per nulla due anni dopo, nel 998, lo czar di Bulgaria riprese l’offensiva, riuscendo a schiacciare Giovanni Vladimiro, l’alleato serbo dei bizantini: entro il 1000 Serbia e Bosnia caddero e i bulgari potevano spingersi a nord della penisola balcanica e minacciare le coste croate e slovene, vale a dire la Dalmazia bizantina.
Basilio, che fra le sue molte doti non contemplava quella dell’ubiquità, fu costretto a rispondere a quelle iniziative per via diplomatica tessendo interessanti trame con Venezia, irrobustendo quella che a partire dal 992 si era profilata come una blanda collaborazione. Era necessario creare una cerniera tra Oriente e Occidente che corresse lungo l’Adriatico, reso drammaticamente insicuro dalle recenti conquiste bulgare. I contatti tra il doge Pietro Orseolo II e Basilio si fecero frenetici e sfociarono nell’accordo per cui tutte le città greche della costa adriatica ubicate in Dalmazia, pur rimanendo sottoposte al protettorato bizantino, sarebbero state difese dalla flotta veneziana. In cambio la Serenissima otteneva una riduzione delle tasse sui commerci attraverso i Dardanelli, ma soprattutto, a partire dall’anno 1000, il doge venne insignito del titolo di Dux Dalmatiae, che gli conferiva il diritto di intervenire nell’entroterra adriatico anche militarmente.
La politica spregiudicata di Basilio riusciva a isolare l’insorgenza bulgara nell’area, ma pagava uno scotto pesante: se fino a quel momento gli unici tutori militari dell’Adriatico erano state le flotte bizantine, ora l’impero era costretto a ricorrere a un alleato che seppure storico era comunque esterno alla basileia. Fu una sorta di ammissione di impotenza che aprì non solo la strada all’ingerenza veneziana, le cui implicazioni diverranno epocali, ma evidenziava come l’impero non fosse più in grado di competere con il dinamismo di una nuova Europa, non più limitata a un gruppo di regni romano-barbarici il cui unico scopo era impossessarsi di Bisanzio e dintorni.
Il grande sforzo antibulgaro che caratterizzò l’ultima fase dell’impero di Basilio trova le sue ragioni anche nella volontà di rivedere questa ingombrante alleanza con Venezia e diminuirne la portata; ma soprattutto, risiedeva nella ferrea determinazione con cui l’imperatore aveva deciso di chiudere una volta per tutte la questione bulgara. Paradossalmente, la stagione più gloriosa dell’epopea militare di Basilio sconta per contrappasso l’aridità delle fonti, che furono talmente frammentarie da avvolgere il tutto in un’aura di fumosa leggenda. Sappiamo che essa iniziò nel 1001, dopo che la tregua decennale firmata coi Fatimidi concesse al basileus la possibilità di abbandonare lo scenario orientale per concentrarsi anima e corpo nell’impresa che durò quasi senza soluzione di continuità sino al 1018.
Stavolta Basilio non cercò di ricacciare indietro i bulgari, come gli eserciti bizantini avevano fatto in sua assenza con esiti scarsi se non addirittura disastrosi, ma ripercorse la strategia della sua sfortunata campagna di tredici anni prima: attaccare la parte orientale dell’impero nemico con il chiaro scopo di indebolirne il retroterra danubiano e di provocare divisioni nella nuova nazione. La sua intuizione di privare Samuele dei territori più fertili e più popolati della Bulgaria originaria (e attuale) rimaneva sostanzialmente giusta: era nell’ampia valle fluviale posta a sud del Danubio che pulsava il cuore del nemico, lì dove i khan proto-bulgari avevano piantato i loro primi accampamenti e poi stabilito a Pliska la loro capitale.
Basilio stavolta non commise l’errore che aveva portato al disastro delle Porte di Traiano: molto probabilmente condusse le truppe bizantine lungo la costa del mar Nero, ben lontano dall’alta catena degli Haimos e dai loro passi. Il condizionale è d’obbligo, visto che l’unica fonte contemporanea di cui disponiamo, la Synopsis Historion di Giovanni Scili è abbastanza nebulosa in merito. Qualunque fosse la direttrice intrapresa, andò bene: Serdica venne espugnata, così come le fortezze limitrofe. Tra il 1001 e il 1004 cadevano le antiche capitali bulgare di Pliska, Grande e Piccola Preslav e la parte orientale della Bulgaria. Si consumò così quella frattura che spezzò l’unità tra la parte occidentale dello Stato bulgaro, prevalentemente slavo e saldamente in mano a Samuele, e la parte orientale etnicamente mongola, ormai in possesso dei bizantini.
Le conseguenze strategiche furono evidenti: Samuele aveva, se non proprio i giorni, gli anni contati. Tanto più che la determinazione di Basilio fu massima. Psello scrive che il basileus «non condusse le guerre come la maggior parte degli imperatori, che intraprendono le campagne in primavera per ritornare nella tarda estate; il momento del ritorno era per lui determinato dal raggiungimento dello scopo per cui aveva intrapreso la spedizione». Così, seguendo l’insegnamento di Eraclio, l’esercito bizantino manovrò ininterrottamente, senza pause estive o invernali, in qualsiasi condizione meteorologica, avendo imparato a muoversi velocemente tra boschi, pianure e monti dove combatteva su tutti i terreni senza patire né il caldo né il freddo.
Tanta abnegazione fiaccò i bulgari che progressivamente retrocedevano. Intorno al 1004 Basilio poteva puntare a est, portando la guerra direttamente in casa di Samuele, in Macedonia. Berea, un sito fortificato posto a circa 70 chilometri a ovest di Tessalonica, si arrese; Servia fu espugnata e da lì l’imperatore penetrò nella Grecia settentrionale, che i bulgari avevano occupato. Pacificata la Tessaglia, Basilio rimontò a nord e avanzò ancora in Macedonia dove Vodena, importante roccaforte oggi nota come Edessa, cedette dopo dure battaglie e aspri assedi. Implacabile, si mosse nuovamente verso nord fino a raggiungere la fortezza di Vidin, lungo il Danubio, attualmente all’incrocio tra Bulgaria, Romania e Serbia. La città fu espugnata dopo otto mesi di assedio, permettendo al basileus di appropriarsi dell’apice settentrionale del nuovo impero bulgaro, spaccandolo, nei fatti, in due tronconi.
Samuele, per parte sua, cercò di alleggerire la pressione attaccando la Tracia bizantina e minacciando Adrianopoli, ma la città non cedette, consentendo a Basilio di continuare indisturbato la sua azione verso gli estremi settentrionali del Danubio. Inarrestabile, l’imperatore scendeva di nuovo a sud, in Macedonia, dove nello stesso anno, sul fiume Vardar nei dintorni di Skopje, segnava l’ennesimo punto a suo favore, schiacciando l’esercito nemico: dopo la vittoria la stessa Skopje gli spalancò le porte. Quella perdita, sommata a quella di Vodena, stringeva Samuele in una morsa e gli apriva gli occhi su un’amara e incontrovertibile verità: in quattro anni di guerra aveva perduto più della metà dei suoi possessi; gli restavano solo la Serbia, attraverso il vassallaggio di Giovanni Vladimiro, l’Albania, la Bosnia e una parte della Macedonia occidentale, cui si sommavano, separata da una sorta di cordone sanitario costruito dopo Vidin, la Tracia settentrionale.
Solo dopo questi successi Basilio si decise a sospendere la campagna e rientrò per svernare a Costantinopoli, dove nel 1005 lo colse la gradita notizia della riconquista di Durazzo, tornata bizantina per un opportuno cedimento degli assediati.
Il periodo che andò dal 1005 al 1014 è avvolto dal buio più assoluto. Possiamo immaginare un forte rallentamento delle operazioni belliche dovuto più a una campagna di consolidamento che non a una vera strategia offensiva: d’altro canto, la caduta di Durazzo lasciò intuire che sul versante bulgaro una lenta catena di diserzioni ne stava minando l’impalcatura. Costretto sulla difensiva, Samuele non poté far altro che arginare i puntuali tentativi di penetrazione bizantina in Macedonia che ogni anno, con l’arrivo della primavera, l’imperatore reiterava nel tentativo di forzare l’avversario a quello scontro campale che ne avrebbe definitivamente segnato le sorti. Il copione si presentava pressoché identico: Basilio cercava di forzare i passi che immettevano nella valle del fiume Strimone, il passaggio obbligato per accedere al cuore della Bulgaria orientale, e Samuele lo attendeva dietro le fortificazioni, le palizzate e le torri poste a difesa di quegli accessi.
La riproposizione della stessa tattica permise anno dopo anno ai bizantini di studiarla, vagliarla e finalmente neutralizzarla. Il metodo di Samuele presupponeva l’ammassamento delle forze bulgare nel fondovalle, esponendole dunque a una forza che avesse tenuto sotto controllo le alture poste ai due lati. Fu questo il tallone d’Achille che i bizantini riuscirono a sfruttare quasi fortuitamente nell’estate del 1014. Basilio, come di consueto, tentava di forzare il passo di Kleidon nelle montagne Belasica, non lontano dall’odierno villaggio di Kljuc. Durante l’avanzata fu attaccato frequentemente da gruppetti di cavalleria bulgara, al punto di dover separare in due corpi l’armata e affidarne una parte a Teofilo Botaniate, lo stratego di Tessalonica, affinché contrastasse quelle fastidiose sortite. Il generale svolse brillantemente il suo compito mentre Basilio, ridotte le sue forze, pur distruggendo le fortificazioni nemiche non riusciva a superare il blocco che 20.000 bulgari avevano costituito nella valle dello Strimone, e subiva perdite sempre più consistenti. Si profilava la necessità di effettuare una manovra molto più ampia, che aggirasse la valle da est o da ovest, ma Basilio esitava, preoccupato di sfilacciare ulteriormente le sue forze e temendo di compromettere così l’intera campagna. Fu allora che Niceforo Xiphias, lo stratego di Filippopoli, si offrì di condurre un piccolo contingente alla ricerca di una via tra i monti che permettesse di aggirare il nemico.
Basilio rimase a valle, contrastando i bulgari con continui assalti che coprirono la missione del distaccamento; finalmente, all’alba del 29 luglio, la colonna rintracciava una pista seminascosta a ovest del passo, attraverso la quale giunse a occupare le alture, piombando sul nemico assiepato dietro la palizzata che costituiva la sua estrema difesa. I bulgari furono colti dal panico, permettendo all’imperatore di infrangere lo steccato e abbattersi sulle truppe avversarie. Queste, strette tra l’attacco congiunto dell’imperatore che risaliva la vallata, le forze di Xiphias che calavano dalla montagna, e le truppe di Botoniate ormai giunte sul campo, furono spacciate. Almeno 6000 guerrieri caddero, mentre gli altri si trovarono imbottigliati e costretti alla resa. Nella confusione più totale, lo stesso Samuele, di solito eroico, scappò addirittura utilizzando il cavallo del figlio, secondo quanto riportato da Scilitze. La fuga solitaria dello czar fu emblematica della inesorabilità della sconfitta patita.
In ogni caso, con la forza della disperazione, alcuni contingenti bulgari attaccarono, allo scopo di aprirsi un varco verso le retrovie: a farne le spese fu la colonna guidata da Teofilo Botaniate, che fu colta di sorpresa da quella reazione, al punto che lo stesso stratego venne catturato e ucciso. La battaglia intanto si concludeva e 14.000 cavalieri furono fatti prigionieri, mentre l’eccellenza dell’esercito bulgaro, quella posta alle dirette dipendenze dello czar, veniva annientata.
Secondo alcune fonti, fu la morte di Teofilo Botaniate e il massacro del distaccamento bizantino a suscitare in Basilio l’idea di una terribile vendetta; secondo altri fu l’esasperazione per un trentennio ininterrotto di guerre. Quali che fossero i motivi, sembra che Basilio abbia fatto dividere in centurie i prigionieri, accecandone novantanove e lasciando al centesimo un occhio solo, in modo da poter guidare i suoi compagni a Prislev, dove nel frattempo Samuele aveva trovato riparo. La vista di quella triste colonna di ciechi guidata da orbi sarebbe stata fatale allo czar che due giorni dopo, il 6 ottobre del 1014, moriva di crepacuore.
Fatta salva la veridicità della dipartita di Samuele, tutta la vicenda appare quanto meno esagerata, se non altro nei numeri. Sebbene la pratica dell’accecamento fosse all’epoca abbastanza diffusa, in quanto rispondente al comandamento cristiano che imponeva di non togliere la vita donata da Dio (quanta misericordia!), appare improbabile che il numero dei guerrieri sottoposti al trattamento fosse così elevato. Molto più verosimilmente solo una porzione di prigionieri sensibilmente più ristretta subì l’ira di Basilio, giusto quel tanto che sarebbe bastato a demoralizzare Samuele o che avrebbe consentito all’imperatore di fregiarsi di quell’epiteto con cui, come detto, sarà universalmente noto: Bulgaroktonos, “Sterminatore dei Bulgari”.
Eppure quel marchio non fu riportato nelle fonti coeve: né in Michele Psello, attento narratore dell’impero basiliano e delle sue imprese, né in Giovanni Scilitze, che pure enfatizzò la vittoria di Basilio. Il titolo fece la sua comparsa nella Cronaca di Niceta Coniata, edita alla fine del XII secolo, vale a dire due secoli dopo i fatti in questione. Tanto ci volle affinché la sottomissione dei bulgari conquistasse rilevanza epocale, tanto più per l’acquisizione di un vasto territorio che consentirà a Bisanzio di sopravvivere quando, alla fine del secolo in oggetto, dovrà affrontare la minaccia dei turchi selgiuchidi
.
Comunque la morte di Samuele segnava una fase decisiva nel pluridecennale conflitto: la Bulgaria perdeva un condottiero carismatico e capace, oltre ad aver subito una batosta difficilmente recuperabile. La guerra si protrasse stancamente per altri quattro anni, alimentata più da disperata tenacia che non da effettiva capacità bellica, a fronte della quale i bizantini adottarono una prudente tattica attendista, lasciando che la Bulgaria si dissanguasse in preda alle discordie interne.
Nel 1015 Gabriele, il figlio di Samuele che aveva ereditato l’ormai poco altisonante titolo di czar, era già disposto ad accettare l’offerta di un protettorato sulla regione, salvo venir ammazzato insieme alla moglie e al cognato, Giovanni Vladimiro di Serbia. Il triplice omicidio ebbe l’importante risvolto di affrancare i serbi dal vassallaggio bulgaro e stracciare l’alleanza contratta in precedenza. Così Giovanni Ladislao, usurpatore del trono e mandante della strage, si ritrovava con un cospicuo pezzo di territorio in meno. Ciononostante, pur accettando formalmente il protettorato imperiale, sottobanco brigava per riconquistare Durazzo.
Basilio, informato di queste manovre, attaccò direttamente la Macedonia; puntò sulla capitale Ocrida, lasciandosi dietro una scia di massacri e accecamenti; assediò ed espugnò la capitale occidentale dei bulgari, riservandole un trattamento terribile; infine si ritirò, guidato come al solito dalla sua estrema prudenza in campo militare. Giovanni Ladislao non si diede per vinto: confidando nell’alleanza con georgiani, armeni e Fatimidi che proprio in quegli anni manifestavano una certa insofferenza verso il giogo bizantino, riprese l’offensiva e rientrò a Ocrida. Basilio rispose duramente evitando distrazioni sul fronte orientale: ormai era deciso a seppellire la questione bulgara sotto un cumulo di morti. Ripiombò in Macedonia e la squassò fino a espugnare Ocrida, mentre Ladislao si ritirava verso l’estremo lembo occidentale del fu impero bulgaro, l’Albania. Qui l’ultimo czar si lanciò in un disperato attacco contro Durazzo, dove trovò inesorabilmente la morte. Era il febbraio 1018: dopo trentadue anni, sul conflitto greco-bulgaro si scrisse definitivamente la parola fine.
Basilio, rientrato a Costantinopoli, si concesse un trionfo più che meritato per la prima volta dopo trecento anni, ora che la basileia si estendeva di nuovo dall’Adriatico al Danubio. Dopo tanti patimenti e soprattutto dopo le prove di notevole vendicatività fornite dal basileus, sarebbe stato lecito attendersi una rivalsa durissima verso ciò che restava della popolazione bulgara: invece nei confronti dei vinti Basilio fu incredibilmente mite, come se l’imperatore, dopo aver vinto la guerra, volesse vincere anche la pace.
Come accennato, tra il 1016 e il 1018 i georgiani animarono un’insurrezione sotto l’incauta guida di un certo Giorgio, che cercò e trovò l’alleanza dei Fatimidi d’Egitto. Questi, sollecitati dall’assenza della reazione imperiale invischiata nelle vicende balcaniche, penetrarono in Siria settentrionale e occuparono il protettorato bizantino di Aleppo. Per una sorta di effetto domino anche i principi armeni si unirono alla festa, profilando in buona sostanza il crollo della diga che Basilio, emulo di Marco Aurelio, aveva eretto non più di dieci anni prima sulla dorsale caucasica.
Quando la distrazione che aveva tenuto lontano l’imperatore dal confine orientale fu cancellata, e dopo i trionfi e un breve periodo di riposo, nel 1020 il basileus piombava nell’area. Inutile dire che il suo intervento fu contrassegnato dalla determinazione a lui propria. La Georgia fu invasa con metodi “bulgari”, così, col solito schieramento di eccidi, massacri e accecamenti in massa, Basilio stravinse e Giorgio fu costretto a capitolare.
Anche in questo frangente, una volta pacificata la regione, il basileus dimostrò un’inusitata mitezza, concedendo al ribelle di sopravvivere politicamente sotto un protettorato bizantino. In realtà tanta generosità risiedeva in un preciso calcolo politico, come confermò quanto successe in Armenia. Qui Basilio venne e sfoderò la solita ferocia; il principe armeno di Ani soccombette e accettò il protettorato bizantino fino alla sua morte, a partire dalla quale sarebbe entrata in vigore la concreta annessione del suo regno all’impero. Identica sorte subì il principe di Kars, e l’ampia zona del Vaspurakan, anch’essa inserita nell’organizzazione tematica bizantina e direttamente sottoposta al governo della basileia.
Lo scopo di umiliare il retroterra anatolico, centro dell’antico potere aristocratico, appariva abbastanza palese: la creazione di temi di confine diminuì l’importanza strategica dei tradizionali temi di Cappadocia e Anatolia, i quali subivano per giunta un aggravio in termini fiscali e in relazione agli obblighi e le incombenze militari.
Per l’aristocrazia fu troppo: nel 1022, Niceforo Foca (e chi se no?), figlio del vecchio Barda Foca, insorse trascinandosi dietro la Cappadocia. L’ennesima rivolta nobiliare dimostrava tutta la debolezza della restaurazione basiliana del 996, e quanto una stirpe fortemente perseguitata potesse ancora rappresentare una minaccia militare e sociale, eorgiani e armeni appena sconfitti appoggiarono la rivolta.
Basilio, incapace di immaginare soluzioni diverse, adoperò i rimedi noti: la secessione di Niceforo fu rapidamente repressa mentre una breve e rapida campagna punì le simpatie espresse da armeni e georgiani. Sebbene lo strapotere militare concedesse al basileus la possibilità di domare i focolai di rivolta, le contraddizioni espresse dalla sua politica, basata sull’inabissamento della classe nobiliare, rimarranno latenti. Ma di ciò si preoccuperanno i suoi cosiddetti eredi, considerata la sua scelta di assoluta castità.
Basilio era il sovrano più potente d’Europa. Sotto di lui, il territorio dell’impero era passato dagli 850.000 chilometri quadrati della fine del regno di Costantino VII, cioè il 959, ai 1.200.000 chilometri quadrati del 1025, aumentando del 41% la propria espansione. A fronte di questo aumento territoriale la popolazione dell’impero passava dai 9 milioni del 959 ai 12 milioni del 1025, registrando un incremento del 33%. In termini fiscali ciò si tradusse in un maggior gettito nelle casse dello Stato, le cui entrate annue raggiunsero i 5.900.000 nomismata contro i 3.900.000 del 959.
Fu la fotografia di un vero e proprio boom economico al centro del quale Costantinopoli, beneficiando degli introiti provenienti da ogni angolo dell’impero, frutto di una produttività agricola quasi senza precedenti, si trasformò in un immenso portale commerciale brulicante di ogni bene. Quella ricchezza, gestita direttamente dalla corona, fu impiegata per innervare le file dell’esercito che dai 179.000 effettivi stimati in precedenza, raggiunse verosimilmente la cifra di 289.000 unità.
Contando su quel patrimonio e sentendosi ancora nel pieno delle forze, Basilio nel 1025 progettò l’invasione della Sicilia: se fosse riuscito nell’impresa, avrebbe chiuso i conti con la pirateria saracena nello Ionio e nel Tirreno e definitivamente riaffermato la supremazia del primo impero, quello bizantino, contro il secondo impero, quello tedesco.
Ma non fece in tempo: il 15 dicembre 1025, a circa sessantasette anni, Basilio inaspettatamente morì. Se ne andava così un sovrano eccezionale, capace di attribuire valore universale al suo governo, al punto da essere riconosciuto come l’incarnazione stessa del potere imperiale. Non a caso, in una delle immagini che lo ritrassero a posteriori, conservata in un salterio oggi custodito presso la Biblioteca Marciana di Venezia, egli era rappresentato come una sorta di supremo soldato, in armi e in posizione frontale, intento a ricevere sul capo, dalle mani dell’Arcangelo Gabriele, la corona che Cristo sullo sfondo fa discendere. A completare l’immagine, l’arcangelo Michele pronto a offrire al basileus la sua lancia, strumento supremo della lotta militare.
L’intento dell’artista era chiarissimo: Basilio viene esaltato al di là della dimensione storica, assumendo attraverso la consacrazione dell’Altissimo un rilievo immanente, eterno, assoluto.
Se Eraclio era stato l’Alfa dell’impero bizantino, quello strano essere brutto, rozzo, goffo, incolto, avaro e diffidente in maniera quasi patologica aveva costituito senza dubbio l’Omega. Tanto più che la sua scelta di non procreare sembrò suggellare, per l’impero bizantino, l’inizio inesorabile della fine.
Eugenio Caruso
- 2 settembre 2019
Tratto da