Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora mi dedico ora al Gorgia.
COMMENTO
Il Gorgia è un dialogo di Platone risalente al gruppo dei dialoghi giovanili, e scritto probabilmente attorno al 386 a.C., al ritorno del filosofo dal suo primo viaggio in Sicilia.[1] Esso prende il titolo dal primo e più noto interlocutore che Socrate incontra in questo dialogo, il retore Gorgia di Leontini.
Il dialogo è ambientato ad Atene, dove Gorgia, ospite in casa di Callicle insieme all'allievo Polo, si è recato per far sfoggio della propria arte oratoria. Non è facile stabilire quando l'opera sia ambientata, perché i riferimenti interni - le allusioni che i vari personaggi fanno ad avvenimenti passati o contemporanei - sono di difficile interpretazione, tanto da far ritenere ad alcuni studiosi, come suggerì Erodico di Babilonia, che non sia possibile dare una datazione coerente con i riferimenti presenti nel testo. In effetti si menziona la recente morte di Pericle (429 a.C.), la presa di potere di Archelao I di Macedonia è avvenuta "solo l'altro giorno" (413 a.C.), mentre c'è un'allusione al processo seguito alla Battaglia delle Arginuse (403 a.C.).[2]
Personaggi
Il dialogo ruota attorno a cinque personaggi
Gorgia di Lentini, retore e sofista tra i più celebri;
Socrate;
Cherefonte, allievo di Socrate, presente anche in altri dialoghi;
Polo di Agrigento, giovane discepolo di Gorgia, autore di un trattato di retorica;
Callicle, giovane aristocratico presso la cui casa Gorgia è ospite.
L'intero colloquio si svolge di fronte ad una vasta platea di uditori, che ha appena assistito ad una performance retorica del maestro siciliano, nella quale sfidava chiunque a porgli una domanda a cui non avrebbe saputo rispondere.
Gli antichi sottotitolavano questo scritto Sulla retorica,[3] e in effetti il dibattito nella prima parte del dialogo verte proprio sulla natura di questa disciplina, se sia da considerarsi un'arte (téchne) o qualcosa di diverso. In realtà il prosieguo del colloquio muta di molto l'argomento iniziale: alle prese con Polo, Socrate dibatte della giustizia, mentre con Callicle il discorso pare spostarsi su quale tipo di vita valga davvero la pena di vivere. In sintesi, si può affermare che il Gorgia sia un dialogo che riguarda l'educazione dell'uomo alla giustizia, e che discute le possibilità di riuscita del filosofo e dei suoi concorrenti a questo riguardo.
Per quanto riguarda la struttura, il Gorgia è un dialogo diretto (cioè non riportato da personaggi terzi che hanno assistito o preso parte alla discussione) costruito secondo i canoni del genere drammatico: sono infatti riconoscibili un prologo, tre parti/atti, in cui si svolgono gli scontri tra Socrate e Gorgia, Socrate e Polo, Socrate e Callicle, e infine un epilogo con la narrazione di un mito escatologico.[4]
La scena si apre fuori dal luogo in cui Gorgia sta tenendo un'orazione, forse un ginnasio (Platone non descrive l'ambientazione). Socrate e Cherefonte, arrivando in ritardo, incontrano sull'uscio Callicle (uscito forse perché insofferente ai discorsi del sofista).[5] Il giovane accoglie i due facendo riferimento a un adagio popolare con un'allusione alla guerra e quindi, probabilmente, al tono veemente che si svilupperà nel corso del dialogo.[6] Socrate si dice dispiaciuto di essere arrivato tardi e di avere perso la conferenza di Gorgia. Cherefonte si offre allora, in quanto colpevole del ritardo, di intercedere presso Gorgia, affinché questi ripeta davanti a loro il suo discorso, ma Socrate è di tutt'altro parere: preferirebbe porre al retore alcune domande.
Il cambio di scena è repentino. Dopo le poche battute iniziali ci ritroviamo all'interno del luogo in cui si trovano Polo, Gorgia e il suo pubblico.[7] Qui Cherefonte, approfittando della nota abilità di Gorgia a rispondere a qualsiasi domanda, lo interroga a nome di Socrate chiedendogli chi sia (tipica domanda socratica). Tuttavia Polo protesta e si offre di sostituire nella disputa il maestro, provato dallo sforzo precedente. Cherefonte gli propone allora la domanda, ma Polo, con un artificio retorico, svia dalla risposta, affermando che Gorgia «partecipa dell'arte più bella di tutte». Cherefonte dimostra così di non essere in grado di tener testa all'arrembante retore, costringendo Socrate a intervenire nella discussione. La risposta di Polo, a suo dire, non è soddisfacente, in quanto non risponde alla domanda circa la natura della retorica, ma ne fa al contrario un elogio. Ottiene così che a rispondere alle sue domande sarà Gorgia in persona.
I Atto: Socrate contro Gorgia
Alla domanda «La retorica di quale oggetto si occupa?», Gorgia risponde che essa si occupa dei discorsi, e che insegna a pensare sugli argomenti di cui essi trattano. Tuttavia Socrate fa notare che anche le altre arti hanno a che fare con dei discorsi che concernono il loro contenuto: qual è allora la peculiarità della retorica? La risposta di Gorgia tenta di farsi più precisa, giungendo alla fine ad affermare che essa si occupa delle «cose più importanti e più grandi per l'uomo»: in questo modo però Gorgia cade nell'ambiguità. Socrate, riprendendo un adagio popolare, immagina le ipotetiche obiezioni che potrebbero essere mosse al sofista da un medico, un maestro di ginnastica e un uomo d'affari: chi potrebbe dire che la salute, il vigore del corpo e la ricchezza non sono cose grandi e importanti per gli uomini? E poi, qual è questo bene così grande di cui si occupa la retorica?
Gorgia risponde che la retorica ha per oggetto «ciò che dà la libertà» agli uomini, in quanto la retorica è la «capacità di convincere gli altri con le proprie parole». L'oggetto della retorica è dunque la persuasione, quella che si produce nei tribunali e nelle assemblee pubbliche, e riguarda il giusto e l'ingiusto. Una simile affermazione fa però spostare l'attenzione di Socrate sull'atto stesso di imparare. Se infatti vi è differenza tra credenza e conoscenza, se la prima può essere vera o falsa, mentre la seconda deve essere sempre vera, si deduce che devono esserci due persuasioni, l'una che produce credenza senza conoscenza, l'altra che produce epistéme (scienza). Stando così le cose, la persuasione della retorica non può essere che quella che dà credenza. Il retore dunque non sa insegnare che cosa è giusto e che cosa no, ma solo persuadere.
Socrate procede ora sviluppando la contraddizione in cui si è venuto a trovare Gorgia. A un'assemblea, che cosa potrà mai consigliare un retore? Solo riguardo alla giustizia e all'ingiustizia, oppure c'è dell'altro? Gorgia inizia a rispondere, portando l'esempio delle mura di Atene, costruite secondo il parere di Temistocle e Pericle, che non erano affatto dei tecnici. Da qui, Gorgia svolge una lunga tesi, in cui afferma che la retorica «è in grado di controllare tutte le capacità umane», riferendo poi l'esperienza personale di quando, al seguito del fratello medico Erodico, convinceva a parole i malati più restii a farsi curare - anzi, aggiunge, se si presentassero un retore e un medico davanti all'assemblea per un posto di medico pubblico, sarebbe il retore a spuntarla! La retorica ha dunque potere su tutte le altre technai, ma, appunto per questo, come accade anche per le arti marziali, non deve essere usata indiscriminatamente. D'altra parte, però, se càpitano casi di abuso, la colpa non può ricadere sul maestro - come non può essere responsabile il maestro di ginnastica se un allievo aggredisce un indifeso con le tecniche di lotta.
Tali affermazioni non sono però esenti da obiezioni, come Socrate non tarda a dimostrare. Gorgia aveva detto che la retorica si occupa della persuasione che si ottiene davanti a una folla. Ma, “davanti a una folla” è come dire “davanti a chi non sa”, poiché davanti a degli esperti un medico sarà di sicuro più persuasivo di un retore. Le parole di Gorgia portano dunque a ritenere che non importa che il retore conosca o meno l'argomento di cui parla, poiché per essere persuasivo gli bastano degli argomenti convincenti.[8] Ma allora, domanda Socrate, se un retore tiene un discorso sul bene e il male, sul giusto e l'ingiusto, sul bello e il brutto, conoscerà ciò di cui sta parlando? E se lo conosce, lo deve avere imparato prima di ricevere lezioni di retorica, oppure gli è stato insegnato dal suo maestro?
Gorgia risponde che, se l'allievo non ne sa niente, dovrà impararlo per forza da lui. Socrate comincia quindi a incalzarlo: chi vuole essere retore deve sapere cos'è il giusto e cosa l'ingiusto; e chi conosce la giustizia è giusto, e fa cose giuste.[9] Asserendo ciò, però, si entra in contraddizione con quanto detto in precedenza da Gorgia, ovvero che un retore può usare male la propria arte, e che la colpa di ciò non deve essere imputata al maestro. Socrate riesce così a ribaltare la posizione dell'avversario.
II Atto: Socrate contro Polo
Confutate le tesi di Gorgia, entra in scena Polo, che prende il posto del maestro sconfitto. Egli protesta contro Socrate: il filosofo ha indotto Gorgia in contraddizione, costringendolo ad ammettere di dover insegnare insieme alla retorica anche la differenza tra bene e male, facendo leva sulla vergogna che questi provava di fronte al proprio pubblico nell'affermare il contrario. Socrate invita così Polo a porgli delle domande, a cui il filosofo risponderà brevemente e per amore della conversazione. La prima domanda di Polo riguarda la definizione che Socrate darebbe di retorica. Nelle sue parole, la retorica non è una techne, ma un'abilità «nel produrre un certo piacere e un certo diletto», al pari della gastronomia. La retorica non è infatti una techne, poiché non sa dare ragione del suo oggetto e dei suoi strumenti, ma è un'attività irrazionale. Essa è descritta come una delle quattro parti in cui è divisa l'adulazione. Attraverso una breve tesi delle arti,[10] Socrate infatti parla di quattro technai buone, ovvero: ginnastica e medicina (che riguardano il corpo), legislazione e giustizia (che riguardano l'anima). A queste corrispondono specularmente quattro forme di adulazione: gastronomia e cosmesi, retorica e sofistica. Esse, diversamente dalle technai, non hanno di mira il bene delle persone, ma solo il loro piacere, e sono per questo cattive.
Come se non bastasse, Socrate afferma che retorica e sofistica si confondono (a Callicle dirà addirittura che sono tutt'uno), e per tale motivo i retori non sono tenuti in nessuna considerazione nelle poleis. Evidentemente Polo non può essere d'accordo con le ultime parole di Socrate, e risponde provocatoriamente che il retore nelle città è come un tiranno, che può tutto ciò che gli pare. Ma, obietta Socrate, è davvero così? Il filosofo propone un paradosso, secondo cui i retori e i tiranni fanno sì ciò che meglio gli pare, ma non ciò che vogliono. La risoluzione del paradosso viene così riassunta da Dodds:[11]
Primo passo: vengono differenziate le attività che vengono compiute perché in sé buone da quelle che vengono compiute in vista di qualcos'altro. Chi fa qualcosa in vista di uno scopo, lo fa per lo scopo, non per fare ciò che fa (per esempio prendere un farmaco è bene per chi è malato, non per chi è sano). Invece le virtù (sapienza, salute, ricchezza) sono beni in sé.
Secondo passo: tra le varie cose vi sono dunque quelle che non sono in sé né buone né cattive, ma che possono essere talvolta l'uno, talvolta l'altro. Tali cose vengono scelte dalle persone in vista di uno scopo, ovvero in vista del proprio bene.
Terzo passo: poiché ognuno desidera per sé la propria felicità, e la felicità è data solo dal bene, se ne deduce che chi fa del male pensando di fare del bene non fa ciò che vuole, ma fa quel che gli pare. Se il tiranno esilia o uccide qualcuno, compiendo del male fa un danno, non del bene a se stesso.
Socrate ribadisce così il proprio motto secondo cui nessuno compie il male volontariamente. Il tiranno non è invidiabile da nessuno e in nessuna circostanza. Egli uccide ingiustamente, e compiere un'ingiustizia è il male peggiore che possa capitare. A nulla vale l'esempio, citato da Polo, del re macedone Archelao, il quale aveva ottenuto il potere a seguito di una serie di omicidi all'interno della propria famiglia. Il filosofo, anzi, ribadisce con maggior vigore che chi compie un'ingiustizia deve essere assolutamente punito: solo così gli si farà del bene e, scontata la pena, potrà un giorno tornare ad essere felice.
III Atto: Socrate contro Callicle
Lo stesso argomento in dettaglio: Callicle.Fa a questo punto il suo ingresso nella discussione il giovane Callicle, il quale in una lunga tesi accusa Socrate di rozzezza e viltà, lett.: non essere uomo. Egli infatti afferma che la filosofia è un utile studio solo per i ragazzini, mentre gli uomini dovrebbero dedicarsi alla vita attiva della polis - ricalcando il tema del confronto vita attiva/vita contemplativa presentato nell'Antiope di Euripide. Inoltre, i discorsi di Socrate sul bene e la virtù sono discorsi validi per legge, non secondo natura. Le leggi altro non sono per Callicle che uno strumento con cui i deboli, la massa, si difendono dalle angherie dei più forti, i migliori, i quali per natura dovrebbero invece comandare. Secondo la legge di natura, che è ben diversa dalla legge convenzionale degli uomini, i migliori hanno maggiori diritti di chi è loro inferiore, e così avviene sia in natura sia in politica: le nazioni più potenti assoggettano le più deboli, e gli animali più forti vincono sui più deboli.[12] La morale comune, dunque, è una morale da deboli. Callicle continua su questa strada, giungendo infine alla nota affermazione di edonismo: la virtù e la felicità consistono nell'avere molti desideri e nell'assecondarli tutti. Ciò che conta nella vita sono il potere e la ricchezza: per ottenerli bisogna lasciare da parte le vuote chiacchiere dei filosofi, che non sanno niente della polis, e dedicarsi invece alla vita attiva, alla politica.
Socrate, ovviamente, non può essere d'accordo con queste posizioni. L'anima dei dissoluti, dice, è simile a un vaso bucato: dovendo assecondare ogni proprio desiderio, essa non sarà mai sazia. Meglio allora una vita morigerata, la quale garantisce tranquillità e serenità. Tale condizione è però paragonata da Callicle a quella di un sasso poiché, una volta saziati quei pochi desideri, le anime dei temperanti non posso più desiderare altro e dunque provare piacere. Socrate tuttavia continua con la propria tesi, sostenendo che il bene non coincide col piacere. I piaceri possono infatti essere buoni o cattivi, e solo un'attenta preparazione e un attento studio permettono di discernere la condotta di vita migliore. La vita proposta da Callicle, Gorgia e dalla sofistica in generale mira al successo personale e alla vittoria sul proprio interlocutore, e per questo motivo la retorica non può portare al bene del proprio fruitore, ma solo alla sua persuasione. Anche importanti e stimati politici come Milziade, Pericle, Temistocle e Cimone, citati da Callicle, ad un'attenta analisi dimostrano di essersi impegnati unicamente ad assecondare i voleri del demo e non per il suo bene: ne è dimostrazione il fatto che gli Ateniesi sotto il loro governo non sono migliorati.[13]
Callicle si dimostra però riluttante nel rispondere a Socrate, e per due volte dice di voler abbandonare la discussione. La prima volta è costretto ad intervenire Gorgia, per calmare gli animi e invitare il giovane a proseguire, nell'interesse della discussione e del pubblico astante. Callicle prosegue per alcune battute, finché abbandona completamente il dialogo, invitando il filosofo a concludere da sé il proprio ragionamento. Socrate è così indotto a tenere un lungo monologo, interrotto solo di tanto in tanto dal giovane, troppo orgoglioso per lasciare completamente la parola all'avversario. In estrema sintesi, dopo aver fatto il punto sui risultati prodotti fin lì dalla discussione, il filosofo giunge alla conclusione che l'importante non è vivere, ma vivere bene, cioè secondo moderatezza e perseguendo il bene. Chi vuole essere un uomo politico, non deve seguire l'esempio dei politici (democratici) a lui precedenti, che mirando al compiacimento del popolo si sono rivelati dei corruttori. Questi deve piuttosto impegnarsi - come Socrate dice di aver fatto - a ricercare il bene per sé e per il prossimo. Solo il filosofo in questo senso è il vero politico.
Epilogo: il giudizio delle anime dopo la morte
Socrate termina la discussione con un mito escatologico, che riguarda il giudizio delle anime dopo la morte. Narra il filosofo che al tempo di Crono gli uomini venivano avvisati in anticipo della data in cui sarebbero morti, e che una volta trapassati avrebbero dovuto sostenere un processo davanti ad altri uomini, che li avrebbero giudicati per la loro vita trascorsa. I giudici, tuttavia, essendo anch'essi uomini, venivano sovente imbrogliati dagli imputati, i quali facevano uso di tecniche retoriche e addirittura di falsi testimoni.
Con l'avvento al potere di Zeus, il dio decise di modificare tale pratica. Venne anzitutto impedito ai mortali di conoscere in anticipo il giorno della propria fine, e furono istituiti tre giudici, scelti tra gli uomini più saggi al mondo, per giudicare le anime. Furono così designati Radamanto per giudicare quanti provengono dall'Asia, Eaco quelli dell'Europa, e infine Minosse fu scelto quale “giudice d'appello”, nel caso vi fossero dubbi. In questo modo, ogni individuo va incontro a un trattamento giusto e adeguato alla propria condotta durante vita. Osservando infatti direttamente le anime, i giudici vedono ben chiare le cicatrici e i segni delle azioni ingiuste e spregiudicate compiute in passato, senza che il loro giudizio sia fuorviato da chiacchiere. Per passare indenni è dunque necessario perseguire la virtù e praticare la filosofia, in quanto conduce al bene.
La ricerca di una definizione della retorica
Si è visto che il Gorgia prende il via dalla domanda di Socrate sulla natura della retorica, e proprio sulla ricerca di una sua definizione si fonda la prima parte del dialogo. In particolare, tale ricerca si articola in due momenti: un primo momento, negativo, corrispondente al dialogo con Gorgia, vede Socrate fare uso dell'elenchos per confutare le posizioni dell'avversario; vi è poi un secondo momento, questa volta positivo, in cui Socrate, rispondendo alle domande di Polo, dà una propria definizione di retorica, ovvero quale abilità finalizzata all'adulazione.
È da notare che in questo frangente, per la prima volta, Socrate abbandona il proprio ruolo confutatorio (tipico dei dialoghi aporetici giovanili) per cercare in prima persona una definizione; e lo fa ricorrendo al metodo diairetico, metodo che verrà poi teorizzato e approfondito nei dialoghi successivi, soprattutto nel Sofista.[14] Distinguendo infatti tra technai che riguardano l'anima e technai che interessano il corpo, Socrate trova, dal lato opposto alle technai, le kolakeiai, ovvero le forme di adulazione, di cui la retorica è parte. Essa può così essere definita come un'abilità incapace di dare ragione del proprio operato, e per di più malvagia perché finalizzata all'adulazione.
Tale sensibilità teorica rende il Gorgia un dialogo di passaggio tra la stagione dei dialoghi aporetici a quella dei grandi dialoghi della maturità, in cui, al pari del Protagora, del Menone e del Libro Primo della Repubblica (il cosiddetto Trasimaco), Platone inizia a mettere in campo alcuni degli argomenti che occuperanno la sua indagine negli anni successivi.[15]
La critica a Isocrate
Nelle discussioni con Polo e soprattutto Callicle, Socrate ribadisce a più riprese il valore e l'importanza politica del filosofo nelle poleis, di contro alla spregiudicata attività dei sofisti che mirano unicamente al proprio utile. Ciò acquista ancora più significato se si considera che Platone usa il Gorgia per sferrare un affondo al retore Isocrate, suo avversario. Attaccando e confutando le tesi di Gorgia, nonché riducendo la retorica al rango di semplice abilità irrazionale e incapace di insegnare il bene e la virtù, Platone mira a screditare le tesi avanzate da Isocrate, principale allievo dello stesso Gorgia.[16]. Negando le tesi gorgiane di fatto viene negata la validità teorica della posizione isocratea. Inoltre, affermando che la retorica può solo formare individui corrotti, si mette in crisi il programma educativo di Isocrate, che invece si basava sull'equazione secondo cui un buon retore corrisponde a un cittadino virtuoso (ovvero, quella figura che da Cicerone e Quintiliano sino al Rinascimento verrà definita vir bonus dicendi peritus).
Note
1.^ Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, pp. 26-27.
2.^ Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, p. 17.
3.^ Diogene Laerzio III.56-62.
4.^ Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, pp. 1-6.
5.^ Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, p. 188.
6.^ Platone, Gorgia, a cura di S. Novel Pieri, Napoli 1991, p. 306.
7.^ A. Fussi, Retorica e potere. Una lettura del Gorgia di Platone, Pisa 2006, p. 43.
8.^ Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, p. 215.
9.^ Nell'ottica dell'eudemonismo socratico, chi conosce il bene e il giusto non può che comportarsi in modo giusto. Cfr. Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, pp. 218ss.
TESTO
CALLICLE:(1) Si dice, o Socrate, che questo è il modo di prendere parte ad una guerra e ad una battaglia!
SOCRATE: Ma allora, come dice il proverbio, arriviamo alla fine di una festa e ormai in ritardo?
CALLICLE: E alla fine di una festa davvero elegante: poco fa, per noi, Gorgia (2) ha fatto mostra di sé in molte e
belle cose.
SOCRATE: Ma la colpa di questo, Callicle, è del nostro Cherefonte,(3) che ci ha fatto perdere tempo in piazza.
CHEREFONTE: Non importa, o Socrate: vi porrò io rimedio.
Gorgia, infatti, è amico mio, sicché si esibirà apposta per noi, adesso, se ti pare il caso, oppure, se vuoi, un'altra
volta.
CALLICLE: Che hai detto, o Cherefonte? Socrate desidera ascoltare Gorgia?
CHEREFONTE: Proprio per questo siamo qui!
CALLICLE: Allora questo accadrà quando vorrete venire a casa mia, perché Gorgia alloggia da me, e certo si
esibirà per voi.
SOCRATE: Hai ragione, Callicle! Ma accetterà anche di discutere con noi?
Infatti, io voglio sapere da lui quale sia la funzione della sua arte e che cosa sia ciò che egli professa di insegnare.
Quell'altra esibizione di cui tu parli, ce la farà un'altra volta.
CALLICLE: Nulla vale quanto chiederlo a lui, Socrate. Anche questo, infatti, era parte della sua esibizione: proprio
ora, invitava chi volesse fra quelli che erano in casa a domandargli qualsiasi cosa, e sosteneva che ad ogni domanda egli
avrebbe dato risposta.
SOCRATE: Questo è parlare! O Cherefonte, interrogalo!
CHEREFONTE: E che dovrei domandargli?
SOCRATE: Domandagli chi è.
CHEREFONTE: Che intendi dire?
SOCRATE: Intendo dire che, se per sorte egli fosse fabbricante di scarpe, senz'altro ti risponderebbe che è calzolaio.
Non capisci cosa intendo dire?
CHEREFONTE: Capisco, glielo chiederò. Dimmi, Gorgia, è vero quello che dice il nostro Callicle, che tu professi
di rispondere a qualsiasi cosa uno ti domandi?
GORGIA: è la verità, Cherefonte. è proprio quello che ho professato poco fa, e dichiaro che nessuno mi ha mai
chiesto nulla di nuovo da molti anni.
CHEREFONTE: Allora certo mi risponderai con facilità, o Gorgia.
GORGIA: Sta a te, Cherefonte, farne la prova.
POLO:(4) Sì , per Zeus! Anzi, se vuoi, o Cherefonte, metti pure me alla prova. Mi pare infatti che Gorgia sia stanco,
visto che ha appena tenuto una lunga esposizione.
CHEREFONTE: Che intendi dire, Polo? Credi di poter rispondere meglio di Gorgia?
POLO: Che te ne importa, purché io sappia risponderti in modo esauriente?
CHEREFONTE: Nulla. Ma, visto che ci tieni, rispondimi tu.
POLO: Chiedi pure.
CHEREFONTE: Ebbene, ecco la mia domanda: se per sorte Gorgia fosse esperto nell'arte in cui lo è suo fratello
Erodico, (5) quale nome dovremmo giustamente dargli? Non lo dovremmo chiamare precisamente col nome con cui
chiamiamo quell'altro?
POLO: Certamente.
CHEREFONTE: Dunque, faremmo bene a dire che egli è medico.
POLO: Sì .
CHEREFONTE: E se, invece, fosse esperto nell'arte in cui lo è Aristofonte figlio di Aglaofonte, o suo fratello, (6)
con che nome dovremmo propriamente chiamarlo?
POLO: Pittore, è chiaro!
CHEREFONTE: Ora, dopo aver stabilito di quale arte sia esperto, con quale nome dovremmo propriamente
chiamarlo?
POLO: Cherefonte, ci sono molte arti fra gli uomini trovate in seguito a esperienze e per via di esperienza.
L'esperienza, infatti, porta avanti la nostra vita conforme ad arte, l'inesperienza, invece, la porta avanti a caso. Di tutte
queste arti, poi, si attinge chi all'una e chi all'altra, chi in un modo e chi nell'altro, e i migliori attingono alle arti
migliori. Di costoro, appunto, fa parte anche il nostro Gorgia, e attinge alla più bella delle arti.
SOCRATE: A quanto pare, o Gorgia, Polo è ben preparato a fare discorsi!
Non fa, però, ciò che ha promesso a Cherefonte.
GORGIA: E perché, o Socrate?
SOCRATE: Non mi pare affatto che stia rispondendo a quanto gli viene chiesto.
GORGIA: Allora interrogalo tu, se vuoi.
SOCRATE: No. Se però hai voglia di rispondere tu, sarei ben più felice di interrogare te: mi è chiaro, infatti, anche
da quanto ha detto, che Polo ha più pratica della cosiddetta retorica che di dialettica.
POLO: E perché, o Socrate?
SOCRATE: Perché, alla domanda di Cherefonte di che arte Gorgia sia esperto, tu elogi la sua arte, come se
qualcuno ne parlasse male, ma non hai risposto di che arte si tratti.
POLO: Non ho forse risposto che è la più bella?
SOCRATE: Eccome! Ma nessuno ti chiede di che qualità sia l'arte di Gorgia, bensì di che arte si tratti e con che
nome si debba chiamare Gorgia.
E come hai risposto bene e brevemente ai casi che prima Cherefonte ti sottoponeva, così anche ora rispondi di che
arte si tratti e che nome dobbiamo dare a Gorgia. O piuttosto, dicci tu stesso, o Gorgia, che nome dobbiamo darti e di
quale arte dobbiamo considerarti esperto.
GORGIA: Della retorica, o Socrate.
SOCRATE: Retore, allora, bisogna chiamarti?
GORGIA: Anzi, buon retore, o Socrate, se vuoi chiamarmi, per usare le parole di Omero, per quello che mi vanto di
essere.(7) SOCRATE: Eccome se voglio!
GORGIA: E allora chiamami pure così !
SOCRATE: E dobbiamo dire che sei capace di rendere tali anche altri?
GORGIA: Ne ho fatto, anzi, la mia professione, e non solo qui, ma anche altrove.
SOCRATE: Vorresti, dunque, o Gorgia, continuare a discutere come facciamo ora, facendo una domanda e dandovi
risposta, e rimettere a un'altra occasione questi lunghi discorsi, del genere di quelli che anche Polo aveva cominciato a
fare? Non mancare in ciò che hai promesso, e acconsenti a dare brevi risposte a ciò che ti viene domandato.
GORGIA: Vi sono, o Socrate, risposte che obbligano a fare lunghi discorsi; tuttavia, almeno tenterò di risponderti
nel modo più breve possibile. Anche questa, infatti, è una delle cose che io sostengo, che nessuno, cioè, sa dire le
medesime cose con meno parole di quelle che userei io!
SOCRATE: Ce n'è davvero bisogno, Gorgia! Dammi dunque un saggio di questo, vale a dire della tua capacità di
esprimerti in poche parole; e del tuo parlar prolisso me ne darai prova un'altra volta!
GORGIA: Lo farò, e tu sarai costretto ad ammettere di non aver mai sentito alcuno che fosse più conciso, nel
parlare, di me.
SOCRATE: Ebbene, dimmi: tu sostieni di essere esperto di arte retorica e di sapere rendere retore anche un altro.
Ma di che cosa si occupa la retorica? L'arte del tessere, ad esempio, si occupa della fabbricazione di tessuti. Non è vero?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: E la musica, non si occupa della creazione di melodie?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Per Era, o Gorgia! Ammiro le tue risposte, perché davvero rispondi nei termini più brevi possibili!
GORGIA: E credo, o Socrate, di dare risposte perfettamente appropriate.
SOCRATE: Hai ragione. Via, allora, rispondimi in questo modo anche a proposito della retorica: di che cosa essa è
conoscenza?
GORGIA: Dei discorsi.
SOCRATE: Di quali discorsi, O Gorgia? Forse dei discorsi che mostrano ai malati come, sottoponendosi a una certa
cura, potrebbero guarire?
GORGIA: No!
SOCRATE: Allora, non di tutti i discorsi si occupa la retorica.
GORGIA: No di certo!
SOCRATE: Però rende capaci di parlare.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: E su quelle cose di cui rende capaci di parlare, rende forse anche capaci di pensare?
GORGIA: E come no?
SOCRATE: E quell'arte di cui si diceva poco fa, vale a dire la medicina, rende allora capaci di parlare e di pensare
sui malati?
GORGIA: Necessariamente.
SOCRATE: Anche la medicina, allora, si occupa, a quanto pare, di discorsi.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Discorsi sulle malattie?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E la ginnastica, non si occupa forse anch'essa di discorsi, quei discorsi, cioè, che riguardano la buona e
la cattiva salute dei corpi?
GORGIA: Proprio così .
SOCRATE: E anche le altre arti, Gorgia, si trovano in questa situazione: ciascuna di esse si occupa di quei discorsi
che trattano della cosa di cui essa è arte.
GORGIA: Così pare.
SOCRATE: Perché mai, allora, non chiami "retoriche" anche le altre arti che hanno a che fare con discorsi, se
chiami retorica quest'arte, che, a tuo dire, si occuperebbe, appunto, di discorsi?
GORGIA: Perché, Socrate, la conoscenza delle altre arti riguarda quasi per intero opere manuali e simili azioni,
mentre non c'è parte della retorica che consista in tali opere manuali, e tutta la sua azione ed esecuzione si realizza
mediante discorsi. Per queste ragioni credo che la retorica sia arte dei discorsi, dando di essa, con questo, una corretta
definizione, come io sostengo.
SOCRATE: Forse non capisco che genere di definizione tu intenda dare di essa, ma presto lo comprenderò con più
chiarezza. Ma tu rispondimi: noi abbiamo delle arti. Non è così ?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Ebbene, considerando l'insieme delle arti, in alcune la pratica costituisce la parte maggiore ed esse
hanno bisogno di pochi discorsi; altre poi non ne hanno affatto bisogno, ma potrebbero portare a termine ciò che è
proprio di quella data arte addirittura in silenzio, come ad esempio la pittura, la scultura e molte altre.
E mi pare che siano queste le arti con cui tu dici che la retorica non ha nulla a che fare. O no?
GORGIA: Capisci davvero bene, o Socrate.
SOCRATE: Vi sono poi altre arti che realizzano per intero il loro scopo mediante il discorso, e che di attività pratica
non hanno per così dire alcun bisogno, o un bisogno del tutto marginale, come ad esempio l'aritmetica, la scienza del
calcolo, la geometria, la scienza del gioco della scacchiera e molte altre arti, alcune delle quali hanno la parte teorica
pressoché equivalente a quella pratica, mentre la maggior parte di esse prevede più discorsi che attività pratica, e la loro
azione e la loro efficacia si realizza interamente per mezzo di discorsi. Mi pare che tu stia dicendo che la retorica è una
di queste.
GORGIA: Dici il vero.
SOCRATE: Però non credo che tu voglia chiamare "retorica" nessuna di queste, benché, stando alle tue parole, tu
abbia detto proprio così , che "retorica", cioè, è quell'arte che realizza la propria efficacia per mezzo del discorso; e se
uno volesse cavillare sulle tue parole, potrebbe ribattere: «Chiami dunque retorica l'aritmetica, Gorgia?».
Ma io non credo che tu chiami retorica né l'aritmetica né la geometria.
GORGIA: E pensi bene, o Socrate; tu sì che capisci in modo giusto!
SOCRATE: Via, allora, finisci anche tu di rispondere alla domanda che ti ho posto. Poiché accade che la retorica sia
una di quelle arti che si servono per la maggior parte di discorsi, e poiché si dà il caso che vi siano anche altre arti con
questa caratteristica, cerca di definire su che cosa vertono i discorsi in cui la retorica ha la sua efficacia. Se uno, ad
esempio, a proposito di una qualsiasi delle arti di cui parlavo poco fa, mi chiedesse: «Socrate, che arte è l'aritmetica?»,
io gli potrei rispondere, come hai appena fatto tu, che essa è una di quelle arti che realizzano la loro efficacia attraverso
discorsi. E se tornasse a domandarmi: «Discorsi su che cosa?», potrei dirgli che essa si realizza attraverso discorsi sul
pari e sul dispari, su quale sia la grandezza dell'uno e dell'altro considerati singolarmente. Se poi, invece, mi
domandasse: «Come definisci l'arte di fare calcoli?», gli potrei rispondere che anch'essa appartiene a quelle arti che si
realizzano interamente attraverso discorsi. E se tornasse a chiedermi: «Riguardo a che cosa?», potrei dirgli, usando le
parole di coloro che nell'assemblea mettono per iscritto i pareri, che «per il resto l'arte del calcolo è come
l'aritmetica»,(8) poiché si occupa del medesimo oggetto, cioè del pari e del dispari, ma che da essa si distingue nel fatto
di considerare il pari e il dispari nei loro rapporti di grandezza, sia rispetto a sé medesimi sia considerati
reciprocamente.
E se uno mi interrogasse sull'astronomia, e, alla mia risposta che anch'essa realizza tutta la sua efficacia attraverso il
discorso, mi domandasse: «E i discorsi dell'astronomia, o Socrate, che cosa riguardano?», io gli potrei rispondere che
riguardano il moto degli astri, del sole e della luna, considerando in che rapporto di velocità stiano gli uni rispetto agli
altri.
GORGIA: E daresti la risposta giusta, o Socrate!
SOCRATE: Ebbene, Gorgia, rispondi anche tu. Infatti, si dà il caso che la retorica sia una di quelle arti che
realizzano ed eseguono il loro scopo interamente attraverso discorsi. Non è così ?
GORGIA: è così .
SOCRATE: Dimmi, dunque: discorsi su cosa? Nell'insieme delle cose esistenti, qual è l'oggetto dei discorsi di cui si
serve la retorica?
GORGIA: Si tratta, o Socrate, delle più grandi e delle migliori fra le umane faccende.
SOCRATE: Ma, o Gorgia, è controversa anche questa tua affermazione, e non è affatto chiara. Immagino, infatti,
che tu abbia già avuto occasione di sentir cantare nei banchetti quello scolio in cui si enumerano i beni, cantando che
essere sani è il primo bene, secondo viene l'essere belli, e il terzo, come dice l'autore dello scolio, è l'essere ricchi senza
frode.(9) GORGIA: L'ho già sentito. Ma a che proposito dici questo?
SOCRATE: Supponiamo che in questo istante ti si parassero dinanzi gli artefici di questi beni che l'autore dello
scolio elogiava, cioè il medico, il maestro di ginnastica e l'uomo d'affari, e che per primo il medico dicesse: «O Socrate,
Gorgia t'inganna: non è la sua arte ad occuparsi del bene più grande per gli uomini, ma la mia».
Se io allora gli domandassi: «E chi sei tu per dire questo?», egli certamente mi risponderebbe che è medico.
«Ebbene, cosa hai detto? è forse opera della tua arte il bene piu grande?» «E come potrebbe non esserlo»,
probabilmente dì rebbe, «Socrate, visto che si tratta della salute? Che cosa è bene più grande per gli uomini della
salute?». Se poi, dopo di lui, a sua volta, il maestro di ginnastica dicesse: «Resterei stupito anch'io, Socrate, se Gorgia
sapesse dimostrarti che il bene che è frutto della sua arte è maggiore di quanto io saprei dimostrare che lo è il bene
prodotto dalla mia arte», io, a mia volta, potrei dire anche a costui: «E tu chi sei, o uomo, e qual è il tuo mestiere?».
«Sono maestro di ginnastica», risponderebbe, «e il mio mestiere è di rendere gli uomini belli e forti nel corpo».
Dopo il maestro di ginnastica, sarebbe l'uomo d'affari a dire, con fare, credo, assai sprezzante per tutti: «Ebbene,
pensaci su, Socrate, se ti pare che esista bene più grande della ricchezza, sia presso Gorgia sia presso chiunque altro».
Ed io allora gli direi: «E allora? Ne sei forse l'artefice?». Egli affermerebbe di esserlo. «E chi sei tu?» «Un uomo
d'affari». «E allora? Pensi forse che il bene più grande per gli uomini sia la ricchezza?», diremo noi. «E come no?»,
risponderà.
«Eppure il nostro Gorgia sostiene che l'arte in suo potere sia causa di un bene maggiore che non la tua», potremmo
dire noi. Ovviamente, dopo questa affermazione, egli domanderebbe: «E qual è questo bene?
Sia Gorgia a rispondere!».
Su dunque, Gorgia! Immagina di essere interrogato e da costoro e da me, e rispondi che cos'è questo che tu sostieni
essere il bene più grande per gli uomini, e del quale ti definisci artefice.
GORGIA: Quello, o Socrate, che è veramente il bene più grande, che è fonte, per quelli stessi uomini, di libertà, e
che al tempo stesso conferisce, a ciascuno nella propria città, potere sugli altri.
SOCRATE: Ebbene, che cos'è questo di cui parli?
GORGIA: Per me, è l'essere capaci di persuadere con i discorsi i giudici in tribunale, i consiglieri nel Consiglio,(10)
i membri dell'assemblea nell'Assemblea, (11) e lo stesso in ogni altra riunione, che sia riunione di cittadini. E certo, con
questo potere nelle tue mani, avrai tuo schiavo il medico, e tuo schiavo il maestro di ginnastica.
Quest'uomo d'affari, poi, si rivelerà accumulare ricchezze non per sé ma per un altro, ossia per te, che hai il potere di
parlare e di persuadere le masse.
SOCRATE: Ora mi sembra, o Gorgia, che tu abbia mostrato molto da vicino che arte ritieni essere la retorica, e, se
io capisco qualcosa, tu sostieni che la retorica è artefice di persuasione, e che tutta la sua attività e il suo scopo si
riducono a questo. O puoi dire che la retorica abbia altri poteri oltre a quello di produrre persuasione nell'anima di
coloro che ascoltano?
GORGIA: Niente affatto, o Socrate. Mi pare che la tua definizione sia adeguata: è veramente questo il suo scopo.
SOCRATE: Sta a sentire ora, o Gorgia. Sappi bene che, per quel che mi riguarda, sono convinto che, se c'è qualcuno
che discuta con altri con la volontà di conoscere proprio la cosa di cui si discute, io sono uno di questi. E penso che
anche tu lo sia.
GORGIA: Ebbene, che c'entra questo, o Socrate?
SOCRATE: Te lo dirò adesso. Quale mai sia, poi, la persuasione esercitata dalla retorica, di cui tu parli, e su quali
cose sia persuasione, sappi bene che io non ne ho una chiara conoscenza; tuttavia ho una certa idea di quale sia, secondo
me, la persuasione a cui tu ti riferisci e su quali cose si eserciti. Nondimeno chiederò a te quale dici che sia questa
persuasione esercitata dalla retorica e su quali cose si eserciti.
Ora, per quale ragione, pur avendone per conto mio un qualche sospetto, vengo a chiederlo a te, e non lo dico io
stesso? Ebbene, non lo faccio per te, ma nell'interesse del ragionamento, affinché esso si sviluppi in modo da rendere
più chiaro possibile ciò di cui si parla. Infatti, bada bene, se ti pare che le mie domande siano poste con giusta ragione.
Ad esempio, se mi accadesse di chiederti che tipo di pittore è Zeusi, (12) e tu mi rispondessi che è un pittore di cose
vive, non avrei forse ragione di domandarti che genere di cose vive dipinga e dove?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E avrei ragione di farlo forse per questo motivo, ossia perché esistono anche altri pittori che dipingono
molti altri soggetti vivi?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Se, invece, nessun altro che Zeusi dipingesse, avresti risposto bene, allora?
GORGIA: E come no?
SOCRATE: Su, via, anche a proposito della retorica, dimmi: ti sembra che la retorica sia la sola arte ad esercitare
persuasione, o che anche altre arti lo facciano? Intendo dire: chiunque insegna una qualsiasi cosa, persuade della cosa
che insegna, oppure no?
GORGIA: Anzi, o Socrate, soprattutto di persuasione si tratta!
SOCRATE: Ora, torniamo a considerare le arti di cui si diceva poco fa. L'aritmetica non ci insegna tutto ciò che ha a
che vedere col numero, e così l'uomo che si intende di aritmetica?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E non esercita forse anche persuasione?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Non è anche l'aritmetica, allora, artefice di persuasione?
GORGIA: Così sembra.
SOCRATE: Se qualcuno, dunque, ci chiedesse di che genere di persuasione essa sia artefice e a proposito di che
cosa essa sia persuasiva, gli risponderemmo che si tratta di quella persuasione che insegna del pari e del dispari, ossia
della grandezza dell'uno e dell'altro. E sapremo così dimostrare che anche le altre arti di cui si diceva poco fa, sono tutte
artefici di persuasione, di che tipo di persuasione si tratti e su che cosa si eserciti. O no?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Dunque, la retorica non è la sola ad essere artefice di persuasione.
GORGIA: Dici il vero.
SOCRATE: Ebbene, visto che essa non è la sola arte che porti a termine quest'opera, ma ce ne sono delle altre che lo
fanno, con giusta ragione, come nel caso del pittore di soggetti vivi, potremmo fare al nostro interlocutore quest'altra
domanda: «Di che genere di persuasione è arte la retorica, e a proposito di che cosa lo è?». O non ti sembra giusto fare
quest'altra domanda?
GORGIA: A me sì .
SOCRATE: Allora rispondi, Gorgia, visto che anche tu la pensi così .
GORGIA: Ebbene, Socrate, io dico che si tratta di quella persuasione che si esercita nei tribunali e nelle altre
pubbliche adunanze, come dicevo appunto poco fa, e che essa ha per oggetto il giusto e l'ingiusto.
SOCRATE: Anch'io sospettavo che tu parlassi di questo genere di persuasione e che ti riferissi a queste cose,
Gorgia. Ma perché tu non ti sorprenda, se anche fra poco tornerò a farti una domanda simile, che pure sembra essere
ovvia - e tornerò tuttavia a fartela -, sappi che, come ti dicevo, ti interrogo nell'interesse che il ragionamento si svolga
con ordine, non per te, ma perché non prendiamo il vizio di anticipare l'uno le affermazioni dell'altro, facendo
supposizioni, e perche tu possa sviluppare i tuoi ragionamenti come tu preferisca, in modo conforme alla premessa.
GORGIA: E mi pare che tu faccia bene, Socrate.
SOCRATE: Su, allora! esaminiamo anche questo: esiste qualcosa che tu chiami "conoscere"?
GORGIA: Esiste.
SOCRATE: Ed esiste, poi, qualcosa che tu chiami "credere"?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Ebbene, ti pare che siano la stessa cosa il conoscere e il credere, la conoscenza e la credenza, o cose
diverse?
GORGIA: Penso, Socrate, che siano cose diverse.
SOCRATE: E pensi bene. E potresti capirlo da quanto segue. Se infatti qualcuno ti chiedesse: «Esiste, o Gorgia, una
credenza falsa e una credenza vera?», tu risponderesti di sì , credo.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Ed esiste, poi, una conoscenza falsa e una conoscenza vera?
GORGIA: Niente affatto!
SOCRATE: Allora è chiaro che si tratta di cose diverse.
GORGIA: Quello che dici è vero.
SOCRATE: Nondimeno, coloro che conoscono sono persuasi, e persuasi sono pure coloro che credono.
GORGIA: è così .
SOCRATE: Secondo te, allora, dovremmo porre due forme di persuasione: l'una che produce credenza senza
conoscenza, l'altra, invece, che produce conoscenza?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: Ebbene, quale di queste due forme di persuasione produce la retorica nei tribunali e nelle altre
pubbliche adunanze in cui si tratti del giusto e dell'ingiusto? Quella persuasione da cui deriva il credere senza
conoscere, o quella da cui deriva il conoscere?
GORGIA: E senz'altro evidente, Socrate, che si tratta di quella persuasione da cui deriva il credere.
SOCRATE: La retorica, dunque, a quanto pare, è artefice di quella persuasione che induce a credere ma che non
insegna nulla intorno al giusto e all'ingiusto.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Il retore, allora, non è uno che impartisce qualche insegnamento nei tribunali e nelle altre pubbliche
adunanze circa il giusto e l'ingiusto, ma è uno che porta solo credenza. Infatti, non potrebbe certo insegnare a una folla
tanto numerosa, in così poco tempo, cose tanto importanti.
GORGIA: No di certo.
SOCRATE: Su, allora! vediamo che valore mai abbia ciò che noi affermiamo sulla retorica. Per quel che mi
riguarda, infatti, non riesco, neppure io, a capire il senso delle mie affermazioni.
Quando in città si tenga un consiglio sulla scelta dei medici, o dei costruttori di navi o di qualche altra categoria di
artigiani, in quell'occasione sarà forse l'esperto di retorica a dare il suo parere?
Infatti è evidente che, in occasione di ogni scelta, si deve scegliere il più esperto. E l'esperto di retorica non verrà
consultato neppure quando si tenga consiglio sulla costruzione di mura, o sulla costruzione di porti o di arsenali, ma
saranno, invece, gli architetti a venir consultati. E neppure quando si tenga consiglio sulla scelta degli strateghi, o sullo
schieramento da adottare contro i nemici o sulla presa di postazioni: in queste occasioni, saranno gli esperti d'arte
militare a dare il loro parere, e non i retori.
Che ne dici, Gorgia, di queste cose? Visto che sostieni di essere retore tu stesso e di saper fare anche di altri degli
esperti di retorica, conviene venire da te ad informarsi circa le cose che riguardano la tua arte. E mettiti bene in mente
che io mi sto dando da fare anche nel tuo interesse! Infatti, è probabile che fra i presenti ci sia qualcuno che vuole farsi
tuo discepolo, come certi di cui io mi accorgo, e forse anche numerosi, che probabilmente si vergognerebbero a farti
domande. Quand'io ti interrogo, dunque, fa' conto di essere interrogato anche da costoro: «Che ce ne verrà, o Gorgia, se
ci faremo tuoi discepoli?
Su quali questioni saremo capaci di dare consigli alla città? Solo sul giusto e sull'ingiusto, oppure anche sulle
questioni di cui Socrate or ora parlava?». Ebbene, cerca di rispondere a costoro.
GORGIA: Cercherò, o Socrate, di svelarti in modo chiaro tutto il potere della retorica. Tu stesso mi hai preparato
bene la strada.
Tu certamente sai, infatti, che questi arsenali e le mura di Atene, e così la costruzione dei porti nacquero su consiglio
di Temistocle,(13) e alcuni anche su consiglio di Pericle, (14) e non su consiglio degli specialisti in materia.
SOCRATE: Questo, o Gorgia, è quanto si dice di Temistocle. Quanto a Pericle, poi, l'ho udito io stesso, quando ci
consigliava il muro di mezzo.(15) GORGIA: Dunque, anche quando si tratti di fare una scelta circa le questioni di cui
poco fa parlavi, Socrate, vedi bene che sono i retori quelli che danno consigli e che fanno prevalere i loro pareri su tali
questioni.
SOCRATE: è proprio perché mi stupisco di questo, o Gorgia, che da un pezzo ti sto chiedendo quale mai sia il
potere della retorica.
Infatti, quando la considero sotto questo aspetto, mi appare come una sorta di potere di grandezza divina.
GORGIA: Se tu sapessi tutto, Socrate, sapresti che essa, per così dire, raccoglie e tiene a sé sottomessi tutti i poteri.
Te ne darò una considerevole prova. Spesso, ormai, mi sono recato con mio fratello (16) e con altri medici da qualche
ammalato che non voleva bere medicine o mettersi in mano al medico lasciando che questi praticasse tagli o
cauterizzazioni, e, mentre il medico non riusciva a persuaderlo, io lo persuasi con non altra arte che la retorica.
Sostengo, anzi, che, se un retore e un medico arrivassero in una città qualsiasi, e se si trovassero a dover competere a
parole nell'assemblea o in un'altra pubblica adunanza su quale dei due vada scelto come medico, il medico non avrebbe
alcuna possibilità di uscirne vincitore, ma la scelta cadrebbe su quello capace di parlare, ammesso che costui lo volesse.
E se si trovasse a competere con qualsiasi altro specialista, il retore saprebbe persuadere a scegliere sé piuttosto che
chiunque altro. Non c'è infatti argomento di cui il retore, di fronte alla folla, non sappia parlare in modo più persuasivo
di qualsiasi altro specialista.
Ebbene, tanto grande e di tale natura è il potere di quest'arte!
Eppure, Socrate, bisogna servirsi della retorica come ci si serve di ogni altra forma di lotta. Anche delle altre forme
di lotta, infatti, non bisogna servirsi contro tutti gli uomini, e perché uno ha imparato il pugilato, il pancrazio (17) e la
lotta con le armi in modo da essere più forte degli amici come dei nemici, non per questo egli deve percuotere gli amici,
né ferirli né ucciderli. E neppure, per Zeus, se uno, frequentando una palestra, ha guadagnato salute nel corpo ed è
diventato pugile, e poi percuote il padre, la madre o qualsiasi altro familiare o amico, non per questo bisogna avere in
odio e cacciare dalle città i maestri di ginnastica e quelli che insegnano a lottare con le armi. Costoro, infatti, trasmisero
la loro arte a quelli, perché se ne servissero in modo giusto contro i nemici e contro gli offensori, per difendersi, e non
per aggredire per primi. Sono quegli altri, invece, che, stravolgendone l'uso, si servono in modo non corretto della forza
e dell'arte. Non sono dunque malvagi coloro che insegnano, né per questo è colpevole e malvagia l'arte, bensì lo sono,
secondo me, coloro che non se ne servono in modo corretto. Ebbene, lo stesso discorso vale anche per la retorica.
Anche il retore, infatti, sa parlare contro tutti e di tutto, in modo da essere più persuasivo di altri, di fronte alla folla, in
una parola su qualsiasi argomento voglia.
Tuttavia, non per questo, cioè per la sola ragione che avrebbe il potere di farlo, deve diffamare i medici né gli altri
specialisti, ma deve servirsi con giustizia anche della retorica, come di ogni altra forma di lotta. E se poi qualcuno, io
penso, divenuto retore, servendosi di questo potere e di quest'arte commetta ingiustizie, non bisogna avere in odio e
cacciare dalle città chi gliel'abbia insegnata, perché costui gli trasmise l'arte perché se ne servisse con giustizia, ed è
l'altro a servirsene in modo opposto. Perciò è giusto avere in odio, scacciare e uccidere chi se ne serva in modo non
corretto, non chi gliel'abbia insegnata.
SOCRATE: Credo, Gorgia, che anche tu sia pratico di molte discussioni e che, nel corso di queste, abbia notato
questo: non accade facilmente che si possa sciogliere la disputa dopo aver dato, l'uno all'altro, le proprie definizioni
circa gli argomenti di cui ci si è messi a discutere, imparando ed insegnandosi cose vicendevolmente.
Accade invece che, quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto, e quando l'uno non riconosca che l'altro parli
bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l'altro parli per invidia nei propri confronti, facendo a gara per
avere la meglio e rinunciando alla ricerca sull'argomento proposto nella discussione. E certuni, addirittura, finiscono col
separarsi nel modo più disonorevole, dopo essersi insultati e aver detto e udito, su di sé, cose tali che anche i presenti si
pentono di aver creduto che sarebbe valsa la pena venire a sentire gente del genere. Ebbene, perché dico queste cose?
Perché mi pare che tu, ora, dica cose non del tutto congruenti né consone alle tue affermazioni iniziali sulla retorica. E
allora ho paura, a confutarti, che tu possa sospettare che io parli misurandomi in una gara non contro la cosa discussa,
per costringerla a venire allo scoperto, ma contro di te. E allora, se anche tu sei di quel genere di uomini a cui anch'io
appartengo, ti interrogherei volentì eri, altrimenti, lascerei perdere.
Ma a che genere di uomini appartengo? A quel genere di uomini che provano piacere ad essere confutati, se mi
accade di dire cosa non vera, e che provano piacere a confutare, se qualcuno dica cosa non vera, e che, tuttavia, non
sono meno contenti, quando sono confutati, di quando confutano. Ritengo, infatti, che questo sia un bene maggiore, nel
senso che l'essere liberati dal male maggiore è un bene maggiore che non il liberarne altri. Niente, infatti, credo, è per
l'uomo un male tanto grande quanto una falsa opinione sulle questioni di cui ora stiamo discutendo. Se, dunque, anche
tu sostieni di essere un uomo di questo genere, discutiamo pure; se, invece, ti pare il caso di lasciar perdere, lasciamo
perdere e chiudiamo il discorso.
GORGIA: Ebbene, per quel che mi riguarda, o Socrate, sostengo di essere anch'io tale e quale il tipo di uomo che tu
hai descritto.
Forse, tuttavia, bisogna tenere conto anche dell'interesse dei presenti: è infatti da un pezzo, prima ancora che voi
arrivaste, che io ho esposto ai presenti molti concetti, e ora, forse, ci dilungheremmo troppo se continuassimo a
discutere. Bisogna, dunque, considerare anche la loro opinione, per non rischiare di trattenere alcuni di loro che
volessero fare qualcos'altro.
CHEREFONTE: Sentite anche voi, o Gorgia e Socrate, la clamorosa approvazione di questa gente, che vuole
ascoltarvi, purché diciate qualcosa. Per quel che mi riguarda, poi, mi auguro di non essere mai tanto indaffarato da
dovermi allontanare da discorsi di questo genere e sviluppati in questo modo, per attendere a qualche altra cosa più
urgente.
CALLICLE: Sì per gli dèi, o Cherefonte! E anch'io, che pure fui presente a ormai molte discussioni, dubito di
essermi mai divertito come ora. Di modo che, almeno a me, farete un piacere, se vorrete discutere anche tutto il giorno.
SOCRATE: Ma Callicle, per quel che mi riguarda, nulla me lo impedisce, purché Gorgia accetti.
GORGIA: Del resto, Socrate, sarebbe disdicevole che proprio io non accettassi, dopo aver richiesto di farmi
qualsiasi domanda uno volesse.
E se costoro la pensano così , discuti pure e domandami quello che vuoi.
SOCRATE: Ebbene, sta a sentire, o Gorgia, che cosa mi stupisce nelle tue affermazioni, perché forse, anche se tu
hai detto bene, sono io a non capirti come dovrei. Tu sostieni di essere in grado di rendere retore chiunque voglia
imparare da te.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Forse in modo che diventi, in mezzo alla gente, convincente in ogni campo, non insegnando ma
esercitando persuasione?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E poco fa dicevi che, anche in materia di salute, il retore sarà più persuasivo del medico.
GORGIA: Così dicevo infatti, almeno nel volgo.
SOCRATE: E questa tua espressione «nel volgo», non significa forse «fra gente che non sa»?; perché, di certo, fra
gente che sa non sarà più persuasivo del medico!
GORGIA: Dici il vero.
SOCRATE: E se sarà più persuasivo del medico, non sarà forse più persuasivo di colui che sa?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E senza essere medico. Non è vero?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Colui che non è medico, però, certamente ignora le cose di cui il medico ha invece conoscenza.
GORGIA: è chiaro che è così .
SOCRATE: Allora, chi non sa, fra gente che non sa, risulterà più persuasivo di chi sa, se è vero che il retore è più
persuasivo del medico. Se ne deduce questo, o la conseguenza è un'altra?
GORGIA: Se ne deduce questo, almeno in questo caso.
SOCRATE: Dunque, il retore e la retorica si trovano in questa posizione rispetto a tutte le altre arti: non c'è alcun
bisogno che sappia come stiano le cose in sé, ma occorre solo che trovi qualche congegno di persuasione, in modo da
dare l'impressione, a gente che non sa, di saperne di più di coloro che sanno.
GORGIA: Non è forse un bel progresso, o Socrate, senza aver imparato altre arti che questa soltanto, non essere,
tuttavia, affatto inferiore agli specialisti di quelle singole arti?
SOCRATE: Se il retore sia o non sia inferiore agli altri grazie a questa sua situazione, lo vedremo tra poco, quando
questo entri a proposito nel nostro ragionamento. Ora, invece, esaminiamo, prima, questo punto: la posizione del retore
rispetto al giusto e all'ingiusto, al brutto e al bello, al buono e al cattivo, accade forse che sia la stessa in cui egli si trova
su ciò che riguarda la salute e sulle altre cose che sono di competenza delle altre arti, ossia la posizione di non
conoscere queste cose in sé, vale a dire che cosa sia bene e che cosa sia male, che cosa sia bello e che cosa sia brutto,
che cosa sia giusto e che cosa sia ingiusto, ma di saper escogitare una persuasione, su queste cose, tale da dare
l'impressione, fra gente che non sa, di saperne di più di chi sa, pur non sapendo? Oppure è necessario che egli sappia, e
bisogna che chi viene da te con l'intenzione di imparare la retorica, abbia già conoscenza di queste cose? Altrimenti, tu,
che sei maestro di retorica, non insegnerai nulla di tutto ciò a chi viene da te, perché questo non è affar tuo, ma farai sì
che, agli occhi della gente, egli sembri sapere le cose di questo genere, benché non le sappia, e sembri essere buono,
benché non lo sia? Oppure non sarai affatto capace di insegnargli la retorica, a meno che non sappia già la verità su
queste cose? Come stanno le cose, Gorgia? E per Zeus, come poco fa hai detto, porta allo scoperto e dicci quale mai sia
il potere della retorica!
GORGIA: Ma io credo, o Socrate, che, qualora non sappia queste cose, le imparerà da me.
SOCRATE: Fermati qui! Dici bene infatti. Perché tu renda qualcuno retore, è necessario che costui conosca il giusto
e l'ingiusto, o prima, o anche dopo, per averlo imparato da te.
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: E allora? Chi ha imparato l'arte del costruire è costruttore o no?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: E chi ha imparato la musica non è forse musico?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: E chi ha imparato la medicina è medico? E accade così anche negli altri casi, secondo lo stesso
ragionamento, vale a dire che chi ha imparato una data arte, è tale quale la conoscenza di quell'arte lo rende?
GORGIA: Certamente.
SOCRATE: Dunque, in base a questo ragionamento, chi ha imparato la giustizia non è forse giusto?
GORGIA: è senz'altro così .
SOCRATE: E il giusto fa di certo cose giuste.
GORGIA: Sì SOCRATE: Non è dunque necessario che il retore sia giusto, e che il giusto voglia fare cose giuste?GORGIA: Almeno così pare.
SOCRATE: Il giusto, allora, non vorrà mai commettere ingiustizia.
GORGIA: Necessariamente.
SOCRATE: E in base al nostro ragionamento, è necessario che il retore sia giusto.
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Il retore, allora, non vorrà mai commettere ingiustizia.
GORGIA: Pare di no.
SOCRATE: Ebbene, ti ricordi di aver detto poco fa che non bisogna incolpare i maestri di ginnastica né cacciarli
dalle città, qualora il pugile, profittando dell'arte del pugilato, se ne serva ingiustamente e si renda colpevole di
ingiustizia; e che, allo stesso modo, anche quando il retore si serva della retorica ingiustamente, non bisogna farne colpa
a chi gliel'ha insegnata né cacciarlo dalla città, bensì bisogna farlo con chi compie ingiustizia e si serve in modo non
corretto della retorica? Si è detto questo o no?
GORGIA: Si è detto.
SOCRATE: Ora, però, pare che questo stesso individuo, vale a dire il retore, non commetta mai ingiustizia. O no?
GORGIA: Così pare.
SOCRATE: E all'inizio del nostro ragionamento, Gorgia, si diceva che la retorica ha a che fare coi discorsi, non
quelli sul pari e sul dispari, bensì quelli sul giusto e l'ingiusto. Non è vero?
GORGIA: Sì .
SOCRATE: Io, a queste tue parole di allora, intesi che la retorica non potesse, in nessun caso, essere una cosa
ingiusta, visto che i suoi discorsi riguardano sempre la giustizia. Ma quando, poco dopo, dicesti che il retore potrebbe
anche servirsi ingiustamente della retorica, dal grande stupore e poiché pensavo che le cose che si erano affermate non
concordassero tra di loro, feci quel discorso, dicendo che, se anche tu, come me, consideravi un guadagno essere
confutati, allora valeva la pena discutere, e, altrimenti, era il caso di lasciar stare. Poi, andando avanti con la nostra
indagine, vedi tu stesso che, di nuovo, ci troviamo d'accordo sul fatto che è impossibile che il retore si serva della
retorica ingiustamente e che voglia commettere ingiustizia. Dunque, come stiano queste cose, corpo d'un cane, è affare,
Gorgia, che non basta una discussione leggera ad esaminarlo come si deve.
POLO: Che dici, o Socrate? Anche tu pensi della retorica quello che ora stai dicendo? O pensi... Poiché Gorgia si è
vergognato di riconoscere davanti a te che il retore non ha conoscenza né del giusto né del bello né del buono, e che, se
andasse da lui uno che ignorasse queste cose, egli non gliele insegnerebbe, e poi, probabilmente in seguito a questa
ammissione, è risultato contraddittorio il ragionamento..., ma questo ti riempie certo di soddisfazione, dal momento che
sei tu a portare, di domanda in domanda, a tali deduzioni..., giacché, chi pensi negherebbe mai di conoscere il giusto e
direbbe di rifiutarsi di insegnarlo ad altri?
Ma portare il ragionamento a tali deduzioni è gran villania!
SOCRATE: O lodevole Polo, ma apposta noi ci procuriamo amici e figli!
perché quando noi, divenuti più vecchi, cadiamo in errore, voi che siete più giovani, al nostro fianco, raddrizziate la
nostra vita nelle opere e nelle parole. E ora, se io e Gorgia cadiamo in qualche errore nei ragionamenti, tu, che sei al
nostro fianco, riportaci pure sul retto ragionamento: è giusto che sia tu a farlo. E io sono disposto, se ti pare che
qualcuna delle cose approvate di comune accordo sia stata approvata senza giusta ragione, a rivedere qualsiasi cosa tu
voglia, purché tu mi mantenga una cosa sola.
POLO: A che cosa ti riferisci?
SOCRATE: Che tu, Polo, metta un freno a quel tuo modo prolisso di parlare, che ti eri messo ad usare all'inizio.
POLO: Che c'è? Non mi sarà permesso di dire tutto quello che voglio?
SOCRATE: Subiresti una grave ingiustizia, carissimo, se, giunto ad Atene, dove esiste la maggior libertà di parola
in Grecia, tu fossi il solo, poi, a cui essa venisse negata. Ma considera anche il caso opposto: se tu fai lunghi discorsi e
non accetti di rispondere a quello che ti viene domandato, non sarei io, a mia volta, a subire una ben grave ingiustizia se
non mi fosse permesso di andarmene e di non starti a sentire? Ma se a darti pensiero è il ragionamento che si è fatto e ti
preme correggerlo, allora, come ho detto poco fa, rivedendo quello che ti pare, a turno interrogando e accettando di
essere interrogato, come facevamo io e Gorgia, confuta e lasciati confutare. Infatti, credo, sostieni di intenderti tu pure
delle cose di cui s'intende Gorgia. O no?
POLO: Sì .
SOCRATE: Non inviti, allora, anche tu chiunque sia a domandarti qualsiasi cosa voglia, convinto di saper
rispondere?
POLO: Certamente.
SOCRATE: E adesso, allora, come preferisci, domanda o rispondi.
POLO: Ecco quello che farò! e tu, o Socrate, rispondimi! Visto che ti sembra che Gorgia abbia difficoltà a definire
la retorica, tu che cosa dici che essa sia?
SOCRATE: Mi chiedi forse quale arte io dico che essa sia?
POLO: Sì .
SOCRATE: A dirti la verità, o Polo, non mi pare che si tratti affatto di un'arte.
POLO: Ma allora che cosa ti sembra che sia la retorica?
SOCRATE: Quella cosa che tu affermi, in quel tuo scritto che ho recentemente letto, che produce l'arte.
POLO: E come la definisci?
SOCRATE: Una sorta di attività empirica.
POLO: Ti pare dunque che la retorica sia un'attività empirica?
SOCRATE: Sì , a meno che tu non dia di essa un'altra definizione.
POLO: Attività di che cosa?
SOCRATE: Di produrre un certo diletto e un certo piacere.
POLO: Non ti pare, allora, che la retorica sia una bella cosa, e capace di fare cosa gradita agli uomini?
SOCRATE: Che c'è, o Polo? Hai già avuto da me l'informazione di che cosa io sostengo che essa sia, al punto da
farmi ormai la domanda a questa successiva, cioè se mi sembri che essa sia una cosa bella?
POLO: Non sono forse venuto a sapere che, a tuo dire, essa è una sorta di attività empirica?
SOCRATE: Ebbene, visto che tieni in grande considerazione il fare piacere, vuoi farmi tu un piccolo piacere?
POLO: Sì .
SOCRATE: E allora chiedimi, adesso, che arte mi sembri essere la culinaria.
POLO: Ecco che te lo chiedo: che arte è la culinaria?
SOCRATE: Non si tratta affatto di un'arte, o Polo.
POLO: E allora che cos'è? Dimmelo!
SOCRATE: Eccoti la risposta: è una sorta di attività empirica.
POLO: E che attività?
SOCRATE: Eccoti la risposta: attività di produrre diletto e piacere, o Polo.
POLO: Culinaria e retorica sono dunque la stessa cosa?
SOCRATE: Niente affatto; piuttosto, sono parti della stessa occupazione.
POLO: Di che occupazione parli?
SOCRATE: Temo che sia troppo villano dire la verità. Ho qualche esitazione a dirla per scrupolo verso Gorgia, che
non creda che io voglia mettere in ridicolo la sua occupazione. Io, però, se consista in questo la retorica di cui Gorgia si
occupa, lo ignoro. Infatti, dal nostro discorso di poco fa, non è risultato per nulla chiaro che cosa mai egli pensi.
Comunque, ciò che io chiamo retorica è parte di una cosa che non rientra fra le cose belle.
GORGIA: Di che cosa, o Socrate? Parla! Non farti scrupoli nei miei confronti.
SOCRATE: Ebbene, o Gorgia, mi pare che si tratti di un'occupazione che non ha le caratteristiche di un'arte, benché
sia propria di un'anima che ha buona mira, coraggiosa e per natura abile a trattare con gli uomini. Io chiamo il suo
elemento essenziale "lusinga". Mi pare, poi, che di questa occupazione vi siano molte altre parti, e che una di esse sia
anche la culinaria, la quale ha l'apparenza di un'arte, ma, come il mio ragionamento dimostra, non è un'arte, bensì
un'attività empirica e una pratica. E chiamo parte di essa anche la retorica, e così l'arte di agghindarsi e la sofistica:
quattro parti che corrispondono a quattro cose distinte.
Ebbene, se Polo vuole fare domande, le faccia pure. Infatti, non ha ancora saputo da me quale parte della lusinga è, a
mio giudizio, la retorica, e non si è accorto che non gli ho ancora risposto, e torna invece a domandarmi se io non la
consideri una cosa bella. Ma non gli risponderò se io consideri la retorica bella o brutta prima di avergli risposto,
innanzi tutto, che cosa essa sia: non sarebbe giusto, Polo. Invece, se ci tieni a sentirmelo dire, domanda quale parte della
lusinga io sostengo che sia la retorica.
POLO: Ebbene, te lo chiedo: e tu rispondi quale parte sostieni che essa sia.
SOCRATE: Ma tu riuscirai a capire, una volta che io ti abbia risposto?
Perché, secondo il mio ragionamento, la retorica è immagine di una parte della politica.
POLO: E allora, dici che è bella o brutta?
SOCRATE: Io dico che è brutta, perché io chiamo brutte le cose cattive, visto che bisogna risponderti facendo conto
che tu sappia già le cose che dico.
GORGIA: Per Zeus, o Socrate! Neppure io capisco ciò che dici.
SOCRATE: Naturale, Gorgia Non è affatto chiaro quello che dico, ma il nostro Polo è giovane e impetuoso!
GORGIA: Ma lascialo stare, e piuttosto spiega a me in che senso dici che la retorica è immagine di una parte della
politica.
SOCRATE: Ebbene, cercherò di spiegare quello che mi pare che sia la retorica. Se poi accadrà che non sia questo, il
nostro Polo mi confuterà.
C'è qualcosa che tu chiami corpo e qualcosa che tu chiami anima?
GORGIA: E come no?
SOCRATE: E non pensi che per ciascuno di questi ci sia uno stato di benessere?
GORGIA: Io sì .
SOCRATE: E poi? Pensi anche che esista uno stato di benessere apparente e non reale? Ti descrivo un caso di
questo genere: sembrano essere sani di corpo molti di cui non sarebbe facile accorgersi che in realtà non lo sono, a
meno che uno non sia medico o esperto di ginnastica.
GORGIA: Dici il vero.
SOCRATE: E una cosa del genere dico che accade e nel corpo e nell'anima, qualcosa che fa sembrare che il corpo e
l'anima siano in buona salute, benché, malgrado ciò, non lo siano affatto.
GORGIA: è così .
SOCRATE: Ebbene, se ne sono capace, cercherò di spiegarti in modo più chiaro quello che intendo dire. Dato che si
tratta di due cose distinte, io dico che due sono le arti: l'arte che riguarda l'anima la chiamo "politica", mentre quella che
riguarda il corpo non so chiamartela così con un nome solo, ma, benché sia una sola la cura del corpo, dico che due
sono le parti di essa: una è la ginnastica, l'altra è la medicina.
Nell'arte politica, poi, l'arte della legiferazione è l'equivalente della ginnastica, mentre alla medicina corrisponde la
giustizia. L'una e l'altra arte di ogni singola coppia sono fra loro in stretta relazione, dal momento che hanno a che fare
col medesimo oggetto: la medicina con la ginnastica e la giustizia con l'arte della legiferazione; tuttavia in qualcosa si
distinguono l'una dall'altra. Ebbene, che queste arti sono quattro e che curano, mirando sempre al meglio, le une il
corpo, le altre l'anima, se n'è accorta la lusinga, non per via di conoscenza ma per averlo indovinato, e, divisasi in
quattro, si è insinuata sotto ciascuna di queste parti, e finge di essere quell'arte sotto cui si è insinuata; di ciò che sia
meglio non si dà alcun pensiero e con quello che di volta in volta è la cosa più piacevole tende trappole agli stolti e li
inganna, al punto dì far credere loro di essere cosa di grandissimo valore. Dunque, sotto la medicina si è insinuata la
culinaria, e finge di sapere quali siano i cibi migliori per il corpo così abilmente che, se un cuoco e un medico dovessero
competere davanti ad una giuria di fanciulli, o di uomini tanto stolti quanto lo sono i fanciulli, per decidere chi dei due
si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Ebbene, questo io lo
chiamo lusinga, e dico che è una brutta cosa, o Polo, e con questo rispondo alla tua domanda, perché mira al piacere
senza tener conto del sommo bene. E non la definisco arte ma attività empirica, perché offre le cose che offre senza
avere alcuna intelligenza di quale sia mai la loro natura, sicché non può spiegare la ragione di ciascuna di esse. Ed io
non chiamo arte un'opera che non si possa razionalmente giustificare. Ma se non sei d'accordo su queste mie
affermazioni, sono disposto a renderne conto.
Sotto la medicina, dunque, sta, come dicevo, la lusinga culinaria; sotto la ginnastica, parimenti, la lusinga
dell'agghindarsi, malefica, ingannevole, ignobile e servile, che inganna con figure esteriori, colori, leziosità e vesti, al
punto da far sì che gli uomini preoccupati di attirare su di sé una bellezza estranea, trascurino la propria, quella cioè che
si ottiene grazie alla ginnastica. Ma per non farla troppo lunga, voglio spiegarmi usando il gergo dei geometri, perché
così , forse, riuscirai a seguirmi, e voglio dirti che, come l'arte di agghindarsi sta alla ginnastica, così la sofistica sta
all'arte della legiferazione, e che, come la culinaria sta alla medicina, così la retorica sta alla giustizia. Ebbene, quello
che intendo dire è che, pur essendo le due arti per natura distinte, dal momento, però, che sono fra loro vicine, sofisti e
retori si confondono in uno, e così le cose di cui si occupano, e non sanno che funzione attribuire né loro a se stessi né
gli altri a loro. Se, infatti, l'anima non governasse il corpo, ma questo si governasse da sé, e se non fosse l'anima a
riconoscere e a distinguere la culinaria e la medicina, ma fosse il corpo a giudicarle stimandole in base ai piaceri che
gliene vengono, allora, o Polo, varrebbe quanto dice Anassagora (18) visto che tu di queste cose sei pratico, e tutte le
cose si confonderebbero in una, senza che si potessero più distinguere le cose della medicina, della salute e della
culinaria. Hai sentito, dunque, quello che io sostengo che la retorica sia: essa è per l'anima l'equivalente di quello che la
culinaria è per il corpo. Ma ecco che, forse, ho fatto una cosa assurda: pur non permettendo a te di fare lunghi discorsi,
proprio io ho tirato il mio discorso per le lunghe. Ma merito il perdono: quando parlavo in modo conciso, non capivi, e
non sapevi cavare nulla dalla risposta che ti avevo dato, ma avevi bisogno che ti venisse spiegata per esteso. Ebbene, se
anch'io, a una tua risposta, non saprò cavarne nulla, allora anche tu potrai sviluppare il tuo discorso; se, invece, io saprò
che utilità cavarne, lascia che ne faccia buon uso, come è giusto che sia. E ora, fa' pure quello che vuoi di questa mia
risposta.
POLO: Che dici, dunque? Ti pare che la retorica sia una lusinga?
SOCRATE: Una parte della lusinga, ho detto. Non te ne ricordi, Polo, che pur sei tanto giovane? Che farai fra non
molto?
POLO: Ti pare dunque che, nelle città, i buoni retori siano considerati alla stregua di adulatori, gente abbietta?
SOCRATE: è una domanda, questa che fai, o è l'inizio di un ragionamento?
POLO: è una domanda.
SOCRATE: A me non sembra neanche che siano tenuti in alcuna considerazione.
POLO: Come sarebbe a dire, non sono tenuti in alcuna considerazione? Non hanno forse grandissimo potere nelle
città?
SOCRATE: No, almeno se tu per "potere" intendi qualcosa che sia un bene per chi la possiede.
POLO: Ma è questo quello che io intendo!
SOCRATE: Allora mi sembra che i retori, fra i cittadini, siano quelli che hanno meno potere di tutti.
POLO: Che dici? Non fanno forse uccidere, come i tiranni, chi vogliono, non spogliano dei beni e non scacciano
dalle città chi pare a loro?
SOCRATE: Corpo d'un cane, Polo, sono sempre in dubbio, su ognuna delle cose che dici, se siano tue affermazioni
e se manifesti una tua opinione, o se invece si tratti di una domanda che fai a me.
POLO: Ma è una domanda che ti faccio!
SOCRATE: Se è così , mio caro, allora tu mi stai facendo due domande contemporaneamente.
POLO: Come sarebbe a dire, due?
SOCRATE: Non hai detto poco fa press'a poco questo: «I retori non fanno forse uccidere, come i tiranni, chi
vogliono, non spogliano dei beni e non scacciano dalle città chi pare a loro?»?
POLO: Sì .
SOCRATE: Ebbene, ti dico che queste sono due domande, e ti risponderò ad entrambe. Sostengo, Polo, che tanto i
retori quanto i tiranni hanno, nelle città, pochissimo potere, come ho appena detto, perché, in un certo senso, non fanno
nulla di ciò che vogliono, e tuttavia fanno quello che a loro sembra il meglio.
POLO: E non consiste forse in questo l'avere grande potere?
SOCRATE: No, almeno stando a quello che dice Polo.
POLO: Io dico di no? Ma io lo affermo!
SOCRATE: O corpo di un...! Tu non lo affermi affatto, dato che sostenevi che l'avere grande potere è un bene per
chi lo possiede.
POLO: Certo che lo sostengo!
SOCRATE: Pensi dunque che sia un bene, se uno fa le cose che gli sembrano migliori, ma senza avere intelligenza?
E questo tu lo chiami avere grande potere?
POLO: Non io!
SOCRATE: Non riuscirai, allora, a dimostrare che i retori hanno intelligenza e che la retorica è un'arte e non una
lusinga, se mi avrai confutato? Se invece mi lascerai inconfutato, allora sarà vera l'affermazione che i retori, e con loro i
tiranni, facendo nelle città ciò che loro pare, non hanno guadagnato in questo alcun bene, e sarà vero, d'altra parte, che il
potere, come tu dici, è un bene, mentre il fare senza intelligenza ciò che pare, come anche tu ammetti, è un male. Non è
vero?
POLO: Sì .
SOCRATE: Come può essere vera, dunque, l'affermazione che i retori, o i tiranni, abbiano grande potere nelle città,
a meno che Socrate non venga confutato da Polo, e non gli venga da questi dimostrato che essi fanno ciò che vogliono?
POLO: Quest'uomo...
SOCRATE: Io nego che essi facciano ciò che vogliono. Ebbene, confutami!
POLO: Non hai appena ammesso che essi fanno ciò che loro pare essere meglio?
SOCRATE: Infatti lo ammetto anche ora.
POLO: E non fanno, allora, ciò che vogliono?
SOCRATE: Lo nego.
POLO: Benché facciano ciò che loro pare?
SOCRATE: Sì .
POLO: Dici cose spaventosamente paradossali, o Socrate.
SOCRATE: Non parlare male di me, mio carissimo Polo, per rivolgermi a te nei tuoi stessi termini. Piuttosto, se hai
domande da farmi, dimostra che io m'inganno, altrimenti, rispondi tu.
POLO: Ma io sono disposto a rispondere, almeno per sapere quello che intendi dire.
SOCRATE: Ebbene, ti pare che gli uomini vogliano la cosa che di volta in volta fanno, o la cosa in vista della quale
fanno ciò che fanno? Ad esempio, coloro che bevono le medicine prescritte dai medici, ti sembra che vogliano la cosa
che fanno, ossia bere la medicina e soffrire, o la cosa in vista della quale la bevono, ossia essere sani?
POLO: è chiaro che quello che vogliono è essere sani.
SOCRATE: Anche coloro che vanno per mare, allora, e coloro che si imbarcano in qualche altra impresa di
guadagno, non vogliono la cosa che di volta in volta fanno: chi vuole, infatti, andare per mare, correre pericoli e avere
guai? Vogliono invece, credo, la cosa in vista della quale vanno per mare, vale a dire arricchire. E per amore della
ricchezza, infatti, che vanno per mare.
POLO: Certamente.
SOCRATE: E non è forse così in tutte le cose? Se uno fa una cosa per un fine, non vuole la cosa che fa, bensì la
cosa per cui fa quello che fa.
POLO: Sì .
SOCRATE: Ebbene, fra le cose che esistono ce n'è qualcuna che non sia né buona né cattiva né una via di mezzo fra
il bene e il male, vale a dire né buona né cattiva?
POLO: è senza dubbio necessario, o Socrate.
SOCRATE: Dunque, non definisci forse beni la sapienza, la salute, la ricchezza e le altre cose di questo genere, e
mali le cose opposte a queste?
POLO: Sì .
SOCRATE: E le cose né buone né cattive non dici, allora, che sono queste che talora partecipano del bene, talora del
male, e talora di nessuno dei due, come accade per lo stare seduti, il camminare, il correre e il navigare, e come accade
nel caso delle pietre, dei legni e delle altre cose di questa specie? Non è forse a queste cose che ti riferisci? O sono altre
le cose che tu chiami né buone né cattive?
POLO: No, sono proprio queste.
SOCRATE: Ebbene, si fanno le cose che sono una via di mezzo in vista delle cose buone, o si fanno le cose buone
in vista di quelle che sono una via di mezzo?
POLO: Senza dubbio si fanno le cose che sono una via di mezzo in vista di quelle buone.
SOCRATE: Dunque, è perché inseguiamo un bene che noi camminiamo, quando camminiamo, pensando che sia
meglio farlo, e, al contrario, quando stiamo fermi, stiamo fermi in vista dello stesso fine, vale a dire il bene. Non è così ?
POLO: Sì .
SOCRATE: E allora non uccidiamo, se uccidiarno qualcuno, non scacciamo e non spogliamo dei beni, nella
convinzione che sia meglio per noi fare queste cose, anziché non farle?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Allora è in vista del bene che fanno tutte queste cose coloro che le fanno!
POLO: Lo affermo.
SOCRATE: E non abbiamo forse stabilito di comune accordo che noi vogliamo non le cose che facciamo in vista di
un certo fine, ma il fine stesso per il quale le facciamo?
POLO: Proprio così .
SOCRATE: Allora noi non vogliamo trucidare, né scacciare dalle città né spogliare dei beni così semplicemente,
ma, quando queste azioni siano utili, allora noi le vogliamo compiere, e quando invece siano dannose, non le vogliamo
compiere. Infatti, noi vogliamo le cose buone, come tu affermi, mentre le cose che non sono né buone né cattive non le
vogliamo, e così neppure le cose cattive. O no? Ti sembra che io dica il vero, Polo, o no? Perché non rispondi?
POLO: Dici il vero.
SOCRATE: Dunque, visto che su questo siamo d'accordo, se uno, tiranno o retore che sia, uccide qualcuno o lo
scaccia dalla città o lo spoglia dei beni, pensando che questo sia meglio per lui, mentre in realtà si dà il caso che sia
peggio, senza dubbio costui fa ciò che gli pare. O non è così ?
POLO: Sì .
SOCRATE: E fa, forse, anche le cose che vuole, se, in realtà, si dà il caso che queste cose siano mali? Perché non
rispondi?
POLO: Ebbene, non mi sembra che faccia le cose che vuole.
SOCRATE: Può essere, allora, che costui abbia grande potere in quella data città, se è vero che l'avere grande potere
è, per tua ammissione, un bene?
POLO: Non può essere.
SOCRATE: Allora io dicevo la verità, quando sostenevo che può ben essere che un uomo, che faccia nella città ciò
che gli pare, non abbia tuttavia grande potere né faccia ciò che vuole.
POLO: Sicché, Socrate, tu non accetteresti che ti fosse permesso di fare nella città ciò che ti pare anziché no, o non
proveresti invidia a vedere che uno uccide chi gli pare, o lo spoglia dei beni o lo fa imprigionare!
SOCRATE: Intendi dire giustamente o ingiustamente?
POLO: Che lo faccia in un modo o nell'altro, non è in entrambi i casi invidiabile?
SOCRATE: Bada a come parli, o Polo!
POLO: E perché?
SOCRATE: Perché non bisogna invidiare chi non è degno di essere invidiato né gli sciagurati, ma averne piuttosto
compassione.
POLO: Che dici? Ti pare che sia questa la situazione degli uomini di cui io parlo?
SOCRATE: E come potrebbe non parermi tale?
POLO: E chi uccide chi gli pare, se lo uccide con giusta ragione, ti pare forse sciagurato e degno di compassione?
SOCRATE: A me no, ma non mi pare neppure degno di invidia.
POLO: Non l'hai appena definito uno sciagurato?
SOCRATE: Certo, amico mio, ma colui che uccide ingiustamente, e mi pare, per giunta, degno di compassione.
Invece, colui che uccide con giusta ragione l'ho definito "non invidiabile".
POLO: Caso mai, è colui che viene ingiustamente ucciso ad essere degno di compassione e sciagurato!
SOCRATE: Meno del suo uccisore, o Polo, e meno di colui che muore giustamente.
POLO: In che senso, dunque?
SOCRATE: Nel senso che il più grande dei mali è commettere ingiustizia.
POLO: Questo, dunque, è il male più grande? Non è male peggiore il subire ingiustizia?
SOCRATE: Niente affatto!
POLO: Tu, allora, preferiresti subire ingiustizia piuttosto che commetterla?
SOCRATE: Io non preferirei né l'uno né l'altro; ma, se fosse necessario o commettere ingiustizia o subirla, sceglierei
il subire ingiustizia piuttosto che il commetterla.
POLO: Tu, allora, non accetteresti di fare il tiranno?
SOCRATE: No, almeno se per "fare il tiranno" tu intendi la stessa cosa che intendo io.
POLO: Ma io intendo quello che ho appena detto: avere il potere di fare nella città ciò che gli pare, uccidendo,
scacciando e facendo tutto a proprio arbitrio.
SOCRATE: Carissimo, ascolta questo mio ragionamento e poi muovi pure le tue obiezioni. Supponiamo che io, in
una piazza piena di gente, portando un pugnale sotto l'ascella, dicessi rivolgendomi a te: «Polo, sono da poco in
possesso di un potere e di un formidabile mezzo di sopraffazione: infatti, se mi parrà che uno degli uomini che vedi
debba morire in questo stesso istante, costui, che parrà a me, morirà; e, parimenti, se mi parrà che a uno di costoro
debba essere spaccata la testa, si troverà all'istante con la testa rotta; e se mi parrà poi che il suo vestito debba essere
strappato, si troverà col vestito strappato, tanto grande è il potere che ho in questa città». Se, allora, alla tua incredulità,
ti mostrassi il pugnale, probabilmente, alla vista di questo, diresti: «Socrate, in questo modo tutti potrebbero avere
grande potere, perché in questa maniera si potrebbe anche dar fuoco alla casa che vuoi, ai cantieri degli Ateniesi, alle
triremi e a tutte le imbarcazioni sia pubbliche sia private». Ma non in questo consiste l'avere grande potere, ossia nel
fare ciò che pare. Non ti sembra?
POLO: No di certo, almeno non in questo modo.
SOCRATE: Sapresti dire, allora, per quale ragione biasimi un potere di questo genere?
POLO: Sì .
SOCRATE: Ebbene, perché? Dillo!
POLO: Perché chi agisce così , finisce necessariamente con l'essere punito.
SOCRATE: Ma l'essere punito non è un male?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Ebbene, o carissimo, ecco che di nuovo ti risulta che, se col fare ciò che gli pare, uno ne ottiene come
effetto un certo beneficio, allora questo è un bene e, a quanto sembra, in questo consiste l'avere grande potere;
altrimenti, è un male e un potere da poco. Ma esaminiamo anche questo: non siamo forse d'accordo sul fatto che talora è
meglio compiere le azioni di cui poco fa si diceva, vale a dire uccidere, mandare uomini in esilio e spogliarli dei beni, e
tal altra, invece, non lo è?
POLO: Certamente.
SOCRATE: E questo, a quanto pare, è ammesso da te come da me.
POLO: Sì .
SOCRATE: Ebbene, quando, a tuo dire, è meglio compiere queste azioni? Dimmi quale confine stabilisci.
POLO: Rispondi pure tu, o Socrate, a questa domanda.
SOCRATE: Allora io affermo, Polo, se ti fa più piacere sentirlo dire da me, che, quando uno compia queste azioni
con giusta ragione, allora è meglio, e quando, invece, le compia ingiustamente, è peggio.
POLO: Quant'è difficile confutarti, Socrate! Ma non riuscirebbe a confutarti anche un bambino, dimostrandoti che
non dici il vero?
SOCRATE: Allora sarò molto grato a quel bambino, e anche per te avrò la stessa gratitudine, se mi confuterai e mi
libererai da una fandonia. Non stancarti di far del bene ad un amico, e confutami!
POLO: Ma in realtà, o Socrate, non c'è alcun bisogno di ricorrere a fatti vecchi per confutarti: i fatti accaduti ieri e
ieri l'altro bastano a confutarti e a dimostrare che molti uomini dalla condotta ingiusta, sono tuttavia felici.
SOCRATE: E quali sono questi fatti?
POLO: Vedi anche tu quell'Archelao, figlio di Perdicca, che regna sulla Macedonia,(19) non è vero?
SOCRATE: Se non lo vedo, almeno ne sento parlare.
POLO: Ebbene, ti pare che sia felice o infelice?
SOCRATE: Non lo so, o Polo. Non ho mai avuto occasione di incontrarmi con quest'uomo.
POLO: Ma che dici? Se ti fossi incontrato con lui, lo sapresti, e, invece, non avendolo mai incontrato, non sai che è
felice?
SOCRATE: Per Zeus, no di certo!
POLO: è chiaro, o Socrate, che neppure del Gran Re (20) dirai di sapere che è felice!
SOCRATE: E direi la verità, dal momento che io non so come egli stia in fatto di educazione spirituale e di
giustizia.
POLO: Che vorresti dire? Dipende forse da questo tutta la felicità?
SOCRATE: Per quel che ne so io, sì , o Polo. Io sostengo, infatti, che chi è giusto e buono, sia uomo o donna, è
felice, e che, invece, chi è ingiusto e malvagio è infelice.
POLO: Allora, in base al tuo ragionamento, questo Archelao è infelice?
SOCRATE: Alla condizione, amico mio, che sia ingiusto.
POLO: E come potrebbe non essere ingiusto? A lui non spettava alcun diritto al potere che ora detiene, essendo nato
da una donna che era schiava di Alcete, fratello di Perdicca; per diritto, dunque, sarebbe stato schiavo di Alcete, (21) e,
se avesse voluto fare ciò che era giusto, avrebbe servito Alcete e, secondo il tuo ragionamento, sarebbe stato felice. Ora,
invece, quanto straordinariamente infelice è diventato, per aver commesso le peggiori ingiustizie!
E la sua prima ingiustizia la commise quando, dopo aver mandato a chiamare questo suo padrone e zio, facendogli
credere che gli avrebbe restituito il potere che Perdicca gli aveva sottratto, dopo aver ospitato e fatto ubriacare lui e il
figlio di lui, Alessandro, suo cugino e press'a poco suo coetaneo, dopo averli caricati su un carro e portati fuori nella
notte, li trucidò e fece scomparire i cadaveri di entrambi.
E dopo essersi macchiato di questi delitti, non si accorse di essere diventato infelicissimo e non se ne pentì ! Anzi,
poco tempo dopo non volle essere felice allevando e restituendo il potere, com'era giusto facesse, a suo fratello, figlio
legittimo di Perdicca, un fanciullo, allora, di sette anni, a cui il potere spettava di diritto, ma, dopo averlo gettato in un
pozzo e lasciatovelo annegare, disse alla madre di lui Cleopatra che vi era caduto rincorrendo un'oca e che vi era morto.
E oggi, dopo essersi macchiato dei peggiori delitti commessi in Macedonia, egli è il più infelice di tutti i Macedoni,
e non il più felice, e probabilmente fra gli Ateniesi c'è chi, a cominciare da te, preferirebbe essere un qualsiasi altro
Macedone piuttosto che Archelao!
SOCRATE: Anche all'inizio della nostra conversazione, o Polo, io mi complimentai con te, dicendo che mi pareva
che tu avessi una buona formazione retorica, ma mi sembrava, d'altra parte, che tu avessi trascurato la dialettica. E ora
sarebbe questo il ragionamento con cui anche un bambino riuscirebbe a confutarmi, e col quale tu credi ora di aver
confutato me, che sostengo che chi commette ingiustizia non è felice! In che modo, carissimo? Io non ti do per buona
nessuna delle cose che dici.
POLO: Perché non vuoi, benché anche tu sia della mia stessa opinione.
SOCRATE: Caro mio, tu cerchi di confutarmi secondo le regole della retorica, come coloro che credono di
confutare nei tribunali. Lì , infatti, gli uni credono di confutare gli altri, quando chiamino molti e stimati testimoni a
deporre in favore delle proprie dichiarazioni, e quando l'avversario, invece, faccia venire a deporre un solo testimone o
nessuno. Ma questo genere di confutazione non ha alcun valore ai fini della verità. Infatti, è già accaduto che qualcuno
sia stato vittima di false testimonianze deposte da molti e stimati testimoni. Così , ora, se tu volessi produrre testimoni
che depongano contro di me e dichiarino che io non dico il vero, quasi tutti gli Ateniesi, e con loro i forestieri,
confermerebbero la tua versione dei fatti. E in tuo favore testimonierebbero, se tu volessi, Nicia di Nicerato (22) e i suoi
fratelli, i cui tripodi sono esposti in bell'ordine nel tempio di Dioniso; e, se tu volessi, Aristocrate figlio di Scellio,(23)
da cui viene quel bel dono votivo che si trova nel tempio di Apollo Pizio; e, se tu volessi, deporrebbe in tuo favore
l'intera casata di Pericle e qualsiasi altra famiglia che tu voglia scegliere fra quelle di qui. Ma io, anche se sono uno
solo, non mi dichiaro d'accordo con te, perché tu non mi metti nella condizione di doverlo fare, e invece, chiamando a
deporre molti falsi testimoni contro di me, cerchi di allontanarmi dal mio bene e dalla verità! Io, invece, se non mi
riuscirà di far deporre un solo testimone, cioè te, che confermi le mie affermazioni, penserò di non aver ottenuto nessun
considerevole risultato circa le questioni di cui stiamo discutendo. E penso che nemmeno tu l'otterresti, a meno che io,
pur essendo uno solo, non testimoni in tuo favore, e tu non lasci perdere tutti gli altri. Questo è, in effetti, un modo di
confutare, come tu pensi, e con te molti altri; ma ne esiste anche un altro, quello che io, a mia volta, ho in mente.
Ebbene, mettendo a confronto l'uno con l'altro, esaminiamo se c'è qualcosa in cui differiscono. Infatti, si dà il caso che
le questì oni su cui ci troviamo a sostenere tesi opposte non siano affatto cose di poco conto; invece, si tratta press'a poco
di quelle cose la cui conoscenza è la cosa più bella e la cui ignoranza è la cosa più brutta, perché la loro essenza consiste
nel sapere o nell'ignorare chi sia felice e chi non lo sia.
E subito, per cominciare, a proposito di quello che ora si diceva, tu ritieni che possa essere felice un uomo che
commetta delitti e sia ingiusto, visto che consideri Archelao ingiusto ma felice.
Dobbiamo dunque tener conto che la tua opinione sia questa?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Io, invece, sostengo che questo è impossibile. E questa è una cosa su cui noi sosteniamo tesi opposte. E
sia! Ma colui che si macchia di delitti, sarà forse felice, se gli accadrà di pagare per la sua colpa e di essere punito?
POLO: Niente affatto: in quel caso, anzi, sarebbe infelicissimo!
SOCRATE: E qualora, invece, il colpevole di un delitto non paghi per la sua colpa, secondo il tuo ragionamento sarà
felice?
POLO: Io dico di sì .
SOCRATE: E invece, secondo la mia opinione, o Polo, chi si macchia di delitti e chi è ingiusto è infelice in ogni
caso; ma è ancora più infelice quando, pur commettendo ingiustizia, non sconti la pena e non venga punito, e, invece,
meno infelice quando paghi il fio della sua colpa e sia punito dagli dèi e dagli uomini.
POLO: Ti metti a dire cose assurde, Socrate!
SOCRATE: E cercherò di far sì che anche tu, amico mio, dica le stesse cose che dico io, perché ti considero un
amico. Ora, questi sono i punti su cui ci troviamo in disaccordo. Esaminali anche tu: io ho detto, prima, che commettere
ingiustizia è peggio che subirla.
POLO: Certamente.
SOCRATE: Tu, invece, che è peggio subirla.
POLO: Sì .
SOCRATE: Ed io ho affermato che coloro che commettono ingiustizia sono infelici, e sono stato da te confutato.
POLO: Sì , per Zeus!
SOCRATE: Almeno questo è quello che credi tu, o Polo.
POLO: E credo il vero.
SOCRATE: Forse! Tu, invece, hai affermato che coloro che commettono ingiustizia sono felici, purché non scontino
il fio della loro colpa.
POLO: Certamente.
SOCRATE: Ed io, invece, sostengo che costoro sono infelicissimi, mentre coloro che scontano la pena lo sono
meno. Vuoi confutare anche questo?
POLO: Ma questo è ancora più difficile da confutare di quell'altro, Socrate!
SOCRATE: Per la verità, Polo, non è difficile, bensì impossibile, perché ciò che è vero non si confuta mai!
POLO: Come dici? Se un uomo viene sorpreso a tramare, macchiandosi di ingiustizie, per impossessarsi del potere,
e, una volta arrestato, viene torturato, mutilato, gli vengono bruciati gli occhi, e dopo aver patito altri tormenti, in gran
numero, strazianti e di ogni sorta, e dopo aver visto patire i figli e la sposa, alla fine viene impalato o cosparso di pece
per essere bruciato, costui sarà forse più felice di quanto sarebbe stato se, trovato scampo, fosse diventato tiranno e
potesse passare il resto della vita al potere nella sua città, facendo quello che vuole, invidiato e considerato felice dai
cittadini e dagli altri forestieri?
Dici che è impossibile confutare queste tue affermazioni?
SOCRATE: Adesso mi stai mettendo paura, o nobile Polo, e non mi stai confutando! Poco fa, invece, citavi
testimonianze. Comunque, fammi ricordare un particolare; hai detto: «Se viene sorpreso a tramare per impossessarsi del
potere ingiustamente»?
POLO: Sì .
SOCRATE: Dunque, più felice non sarà mai nessuno dei due: né chi si sia impossessato ingiustamente del potere né
chi paghi per la sua colpa, perché fra due infelici non potrebbe essercene uno più felice dell'altro; tuttavia e più infelice
colui che è sfuggito alla pena e che si è impossessato del potere. Che cosa fai, Polo? Ridi? è forse un altro genere di
confutazione questo, mettersi a ridere, quando uno abbia detto qualcosa, e non confutarlo?
POLO: Non pensi di essere già confutato, Socrate, quando dici cose tali che nessuno degli uomini confermerebbe?
Chiedi pure a uno di costoro!
SOCRATE: O Polo, io non sono un politico, e l'anno scorso, quando venni eletto per partecipare al Consiglio,
poiché la Pritania era toccata alla mia tribù e dovevo essere io a chiedere che si votasse, feci ridere e non fui capace di
farlo.(24) Ebbene, anche oggi, non spingermi a far votare i presenti, ma, se non hai un metodo di confutazione migliore
di questi, come ho appena detto, dammi il cambio e sperimenta il metodo di confutazione che, io credo, è quello che si
deve usare. Infatti, in sostegno delle mie affermazioni, io so chiamare a deporre un solo testimone, vale a dire colui al
quale il mio ragionamento è rivolto, e lascio stare il resto della gente; e so chiamare a votare una sola persona, mentre
col resto della gente non mi metto neppure a discutere. Vedi, dunque, se ti va di darmi il cambio a confutare,
rispondendo alle domande che ti verranno fatte. Io, infatti, sono convinto che io, tu e il resto dell'umanità consideriamo
il commettere ingiustizia cosa peggiore che subirla, e il non pagare per un'ingiustizia commessa cosa peggiore che
pagare per essa.
POLO: Io, invece, sono dell'opinione che né io né nessun altro uomo la pensiamo così . Ma tu preferiresti subire
ingiustizia piuttosto che commetterla?
SOCRATE: E lo preferiresti anche tu, e con te tutti gli altri.
POLO: Ce ne vuole! Ma né io né tu né alcun altro!
SOCRATE: Dunque non rispondi?
POLO: Certamente! Infatti desidero sapere che cosa dirai.
SOCRATE: Per saperlo, allora, non hai che da rispondermi come se per la prima volta ti domandassi: «Quale delle
due azioni ti pare peggiore, o Polo, commettere ingiustizia o subirla?».
POLO: A me subirla!
SOCRATE: E ti sembra più brutto il compiere o il subire ingiustizia?
Rispondi!
POLO: Il compiere ingiustizia.
SOCRATE: Dunque è anche male peggiore, se è più brutto.
POLO: Niente affatto!
SOCRATE: Capisco. Tu, a quanto pare, non consideri che siano la stessa cosa il bello e il bene, il male e il brutto.
POLO: Certo che no!
SOCRATE: Ma che ne dici di questo? Tutte le cose belle, come corpi, colori, forme, suoni e attività umane, le
chiami in ogni circostanza belle, senza fare nessun'altra considerazione? Nel primo caso, ad esempio, i corpi che siano
belli non li chiami "belli" considerando o l'utilità al cui fine ciascuno di essi sia utile, oppure un certo piacere, se accade
che chi li guarda prova piacere a guardarli? O hai qualcos'altro da dire, oltre a queste mie considerazioni, sulla bellezza
di un corpo?
POLO: Non ho altro da dire.
SOCRATE: E, allo stesso modo, anche nel caso di tutte le altre cose, forme e colori, non le chiami forse belle
pensando ad un certo piacere che esse procurano, o ad una qualche loro utilità, o ad ambedue le cose?
POLO: Sì .
SOCRATE: E questo non vale forse anche per i suoni e per tutto ciò che riguarda la musica?
POLO: Sì .
SOCRATE: Così anche le cose che hanno a che fare con le leggi, e anche le attività umane, non sono certo belle per
ragioni al di fuori di queste, cioè al di fuori del fatto di essere utili o piacevoli o di avere l'una e l'altra caratteristica.
POLO: Mi pare di no.
SOCRATE: E non vale forse lo stesso anche per la bellezza delle conoscenze?
POLO: Certamente. Ora sì che definisci bene ciò che è bello, Socrate, definendolo con il piacere e con il bene!
SOCRATE: E ciò che è brutto, allora, non va forse definito con i loro opposti, cioè con il dolore e con il male?
POLO: Necessariamente.
SOCRATE: Allora, quando, fra due cose belle, una è più bella dell'altra, è più bella perché supera l'altra nell'uno o
nell'altro di questi due aspetti o in entrambi gli aspetti contemporaneamente, vale a dire o in piacere, o in utilità o in
entrambe le cose contemporaneamente.
POLO: Certamente.
SOCRATE: E, d'altra parte, quando, fra due cose brutte, una è più brutta dell'altra, sarà più brutta perché supera
l'altra o in dolore o in male.
O non è necessario che sia così ?
POLO: Sì .
SOCRATE: Su, allora, che cosa si diceva poco fa, a proposito del commettere ingiustizia e del subirla? Non dicevi
che il subire ingiustizia è peggio che commetterla, e che, d'altra parte, il commettere ingiustizia è più brutto che subirla?
POLO: Lo dicevo.
SOCRATE: E allora, se il commettere ingiustizia è più brutto che subirla, non dovrebbe essere più brutto o per il
fatto di essere più doloroso, e quindi superiore in dolore, o per il fatto di superarlo in male, o in entrambi gli aspetti
insieme? Non è anche questo necessario?
POLO: E come potrebbe non esserlo?
SOCRATE: Innanzi tutto, allora, esaminiamo questo: è forse in fatto di dolore che il commettere ingiustizia supera
il subirla, e coloro che commettono ingiustizia soffrono forse di più di coloro che ne sono vittime?
POLO: Niente affatto, o Socrate, almeno non questo!
SOCRATE: Allora, non è in dolore che è superiore.
POLO: No di certo!
SOCRATE: Dunque, se non è superiore in dolore, non potrebbe esserlo neppure in entrambi gli aspetti.
POLO: Pare di no.
SOCRATE: Non resta, dunque, che la sua superiorità sia fondata sull'altro dei due aspetti.
POLO: Sì .
SOCRATE: Vale a dire sul male.
POLO: Così sembra.
SOCRATE: Ma allora, il commettere ingiustizia dovrebbe essere peggio che subirla, per il fatto di essergli superiore
in male.
POLO: è evidente che è così .
SOCRATE: Ebbene, prima non era stato forse ammesso davanti a me, da te e dalla maggior parte della gente, che il
commettere ingiustizia è più brutto del riceverla?
POLO: Sì .
SOCRATE: Ebbene, ora è risultato essere anche peggio.
POLO: Così sembra.
SOCRATE: E tu, allora, preferiresti ciò che è peggio e più brutto a ciò che lo è meno? Non aver timore di
rispondere, Polo: non ne avrai alcun danno. Affidati coraggiosamente, invece, al ragionamento come ad un medico, e
afferma oppure nega le cose che ti domando.
POLO: Ebbene, io non lo preferirei, o Socrate!
SOCRATE: Lo preferirebbe qualcun altro?
POLO: Mi pare di no, almeno in base a questo ragionamento.
SOCRATE: Allora avevo ragione a sostenere che né io né tu né alcun altro uomo preferiremmo commettere
ingiustizia anziché subirla, perché accade che sia cosa peggiore.
POLO: Pare dì sì .
SOCRATE: Vedi dunque, Polo, che il mio modo di confutare, messo a confronto col tuo, non gli assomiglia affatto:
con te si dicono d'accordo tutti gli altri, tranne che me; a me, invece, basta che tu, pur essendo uno solo, ti dichiari
d'accordo con me e testimoni in mio favore, e, chiamando a votare te solo, gli altri li lascio stare.
E questo resti fra noi stabilito. Esaminiamo, ora, dopo questo, il secondo punto su cui sostenevamo tesi opposte, vale
a dire se il più grande dei mali sia, per chi è colpevole di ingiustizia, pagare il fio della sua colpa, come tu sostenevi, o
se sia, invece, male peggiore il non pagare per la colpa commessa, come io sostenevo. Esaminiamolo in questo modo: tu
dici che il pagare per la colpa commessa e l'essere giustamente puniti per aver commesso ingiustizia, siano la stessa
cosa?
POLO: Sì .
SOCRATE: E puoi dire, o no, che tutto ciò che è giusto è bello, in virtù del fatto di essere giusto? E rifletti prima di
rispondere!
POLO: Ma mi pare che sia così , o Socrate!
SOCRATE: Allora rifletti anche su questo: se uno compie un'azione, non è forse necessario che qualcosa subisca
quell'azione da parte di chi la compie?
POLO: A me pare di sì .
SOCRATE: E questa cosa, allora, non subisce proprio l'azione che chi agisce compie, e nel modo in cui chi agisce la
compie? Intendo dire: se uno colpisce, è necessario che qualcosa venga colpito?
POLO: Necessariamente.
SOCRATE: E se chi colpisce, colpisce violentemente o velocemente, in questo stesso modo viene anche colpita la
cosa che viene colpita?
POLO: Sì .
SOCRATE: Allora, la cosa che viene colpita subisce un'azione che è tale quale l'azione che compie colui che
colpisce?
POLO: Certamente.
SOCRATE: E se qualcuno cauterizza, non è allora necessario che qualcosa sia cauterizzato?
POLO: E come non potrebbe?
SOCRATE: E se costui cauterizza violentemente o dolorosamente, la cosa che viene cauterizzata, viene cauterizzata
nel modo in cui cauterizza colui che cauterizza?
POLO: Certamente.
SOCRATE: E se uno taglia qualcosa, non vale forse lo stesso ragionamento?
Infatti, qualcosa viene tagliato.
POLO: Sì .
SOCRATE: E se il taglio è lungo o profondo o doloroso, il taglio che subisce la cosa che viene tagliata non è tale
quale lo pratica colui che taglia?
POLO: Pare di sì .
SOCRATE: Ebbene, guarda se in generale sei d'accordo su quanto dicevo poco fa, cioè che, in tutti i casi, l'azione
subita dalla cosa che la subisce è tale quale l'azione compiuta da chi la compie.
POLO: Ma certo che sono d'accordo!
SOCRATE: Ebbene, visto che su questo siamo d'accordo, pagare per la colpa commessa è subire un'azione o
compierla?
POLO: Necessariamente, o Socrate, si tratta di subire un'azione.
SOCRATE: Dunque, da parte di qualcuno che la compie?
POLO: E come potrebbe non esserlo? Da parte di chi punisce!
SOCRATE: Chi punisce con rettitudine punisce con giustizia?
POLO: Sì .
SOCRATE: Facendo ciò che è giusto, o no?
POLO: Facendo ciò che è giusto.
SOCRATE: E chi viene punito pagando per la colpa commessa, non subisce forse ciò che è giusto?
POLO: Pare di sì .
SOCRATE: E non si era convenuto che ciò che è giusto, è bello?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Di questi, dunque, uno fa ciò che è bello, mentre l'altro, vale a dire colui che viene punito, subisce ciò
che è bello.
POLO: Sì .
SOCRATE: E se le cose sono belle, non sono forse anche buone? Infatti, o sono piacevoli o sono utili.
POLO: Necessariamente.
SOCRATE: Allora subisce un bene chi paga per la colpa commessa?
POLO: Sembra.
SOCRATE: Ne trae, dunque, beneficio?
POLO: Sì .
SOCRATE: Forse quel beneficio che io intendo? Diventa migliore nell'anima, se viene punito giustamente?
POLO: Probabilmente.
SOCRATE: Ed è da un male dell'anima che si libera colui che paga per la colpa commessa?
POLO: Sì .
SOCRATE: E non si libera, allora, dal più grande dei mali? Considera la cosa in questo modo: nella condizione
economica dell'uomo, vedi qualche altro male che non sia la povertà?
POLO: No: è la povertà il male che vedo.
SOCRATE: E che dire della condizione del corpo? Diresti tu che suoi mali sono la debolezza, la malattia, la
bruttezza e le altre cose di questo genere?
POLO: Sì .
SOCRATE: Non credi, allora, che anche a proposito dell'anima esista uno stato di malessere?
POLO: E come no?
SOCRATE: E tu non lo chiami, allora, ingiustizia, ignoranza, viltà, e con altri nomi di questo genere?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Ebbene, del patrimonio, del corpo e dell'anima, che sono tre cose distinte, non hai forse fatto il nome di
tre stati di malessere: povertà, malattia, ingiustizia?
POLO: Sì .
SOCRATE: Qual è, dunque, il più brutto di questi stati di malessere?
Non si tratta forse dell'ingiustizia e, in generale, del malessere dell'anima?
POLO: Certamente.
SOCRATE: E se è il più brutto, non è forse anche il peggiore?
POLO: In che senso intendi dire, o Socrate?
SOCRATE: In questo senso: da quanto abbiamo convenuto prima, risulta che la cosa che è, di volta in volta, la più
brutta, è tale perché procura il più grande dolore o il più grande danno, o ambedue le cose insieme.
POLO: Proprio così .
SOCRATE: Ma non si è appena convenuto che la cosa più brutta è l'ingiustizia e il generale malessere dell'anima?
POLO: Si è convenuto, infatti.
SOCRATE: Ebbene, non è forse, fra queste, la cosa più dolorosa e più brutta perché superiore in dolore o in danno o
in entrambi questi aspetti insieme?
POLO: Necessariamente.
SOCRATE: Allora, l'essere ingiusto, dissoluto, vile ed ignorante è forse più doloroso dell'essere povero e dell'essere
malato?
POLO: Mi pare di no, o Socrate, almeno in base a queste premesse.
SOCRATE: Allora, il malessere dell'anima è di tutte le cose la più brutta, perché superiore alle altre per il danno
prodigiosamente grande e il male straordinario che comporta, visto che la sua superiorità, come tu hai detto, non si
fonda sul dolore.
POLO: Pare.
SOCRATE: Ma ciò che è superiore per il massimo danno, dovrebbe essere il male più grande fra quelli che esistono.
POLO: Sì .
SOCRATE: Allora, l'ingiustizia, l'intemperanza, e le altre forme di malessere dell'anima, non si identificano forse
col più grande dei mali che esistono?
POLO: Pare.
SOCRATE: Ora, quale arte libera dalla povertà? Non è l'arte di guadagnare?
POLO: Sì .
SOCRATE: E quale dalla malattia? Non è l'arte della medicina?
POLO: Necessariamente.
SOCRATE: E quale arte libera dalla malvagità e dall'ingiustizia? Ma se la domanda, così formulata, ti mette in
difficoltà, considera la cosa in questo modo: dove portiamo, e da chi, coloro che sono malati nel corpo?
POLO: Dai medici, o Socrate.
SOCRATE: E dove portiamo coloro che si rendono colpevoli di ingiustizia e si danno ad una vita dissoluta?
POLO: Vuoi dire dai giudici.
SOCRATE: E non ce li portiamo forse perché paghino per la colpa commessa?
POLO: Lo affermo.
SOCRATE: E coloro che puniscono con rettitudine, non puniscono forse servendosi di una certa giustizia?
POLO: è evidente.
SOCRATE: Dunque, l'arte di guadagnare libera dalla povertà, la medicina dalla malattia, la giustizia dalla
dissolutezza e dall'ingiustizia.
POLO: Così risulta.
SOCRATE: Quale di queste arti, dunque, è la più bella?
POLO: Di quali arti parli?
SOCRATE: Dell'arte di guadagnare, della medicina e della giustizia.
POLO: è di gran lunga superiore, o Socrate, la giustizia!
SOCRATE: Allora, essa comporta il piacere più grande, o la più grande utilità o ambedue le cose insieme, visto che
è la più bella?
POLO: Sì .
SOCRATE: Farsi curare dai medici è forse piacevole, e coloro che si fanno curare provano forse piacere?
POLO: Non mi pare.
SOCRATE: Ma è utile. O no?
POLO: Sì .
SOCRATE: Infatti, chi si lascia curare si libera da un gran male, sicché trae giovamento dal sopportare il dolore e
dal guarire.
POLO: E come no?
SOCRATE: Ebbene, riguardo al corpo, un uomo sarebbe più felice quando guarisca grazie alle cure del medico, o
quando fin da principio non si sia neppure ammalato?
POLO: è ovvio che sarebbe più felice quando non si sia neppure ammalato.
SOCRATE: Infatti, a quanto pare, la felicità non consiste in questo, ossia nella liberazione da un male, bensì nel non
aver preso su di sé il male fin dal principio.
POLO: è così .
SOCRATE: E allora, chi è più infelice fra due che hanno un male nel corpo e nell'anima, colui che si fa curare e si
libera dal male, o colui che non si fa curare e si tiene il suo male?
POLO: Mi pare evidente: il più infelice è colui che non si fa curare.
SOCRATE: Ma il pagare per la colpa commessa non era forse la liberazione dal male più grande, vale a dire dalla
malvagità?
POLO: Infatti lo era.
SOCRATE: La giustizia, infatti, fa in un certo qual modo rinsavire, rende più giusti, e fa come da medicina della
malvagità.
POLO: Sì .
SOCRATE: Il più felice, allora, è colui che non ha malvagità nell'anima, dal momento che questo si è rivelato essere
il più grande dei mali.
POLO: è evidente.
SOCRATE: Secondo, poi, in fatto di felicità, è colui che se ne libera.
POLO: Sembra.
SOCRATE: E costui era colui che viene castigato, rimproverato, e che paga per la sua colpa.
POLO: Sì .
SOCRATE: Vive peggio, dunque, chi ha malvagità nell'anima, e non se ne libera.
POLO: Pare.
SOCRATE: E costui non è forse colui che, pur macchiandosi dei peggiori delitti e pur servendosi della più grande
ingiustizia, ha fatto tuttavia in modo di non essere punito, di non essere castigato, e di non pagare per le sue colpe,
proprio come tu dici che Archelao ha fatto, e come lui gli altri tiranni, retori e signori?
POLO: Sembra.
SOCRATE: Infatti, in un certo senso costoro, o carissimo, hanno fatto all'incirca la stessa cosa di uno che, afflitto
dalle più gravi malattie, facesse tuttavia in modo di non rendere conto ai medici dei mali del suo corpo e di non lasciarsi
curare, temendo, come un bambino, che l'essere tagliato e cauterizzato sia cosa dolorosa. Non pare anche a te che sia
così ?
POLO: Sì .
SOCRATE: E lo fanno ignorando, a quanto pare, che cosa sia la salute del corpo. Ebbene, in base a quanto abbiamo
di comune accordo stabilito, rischiano di fare una cosa di questo genere anche coloro che sfuggono alla giustizia, o
Polo: considerano solo il suo aspetto doloroso, sono ciechi alla sua utilità, ed ignorano quanto sia più infelice vivere con
un'anima non sana, ma marcia, ingiusta ed empia, che vivere con un corpo non sano; e così fanno di tutto per non
pagare per le proprie colpe e per non liberarsi dal più grande dei mali, procurandosi ricchezze, amici, e cercando di
essere il più possibile persuasivi nel parlare. Ma se è vero quanto abbiamo di comune accordo stabilito, o Polo, ti
accorgi di quali sono le conseguenze che derivano dal nostro ragionamento? O vuoi che deduciamo insieme queste
conseguenze?
POLO: Sì , se ti pare il caso.
SOCRATE: Non se ne deduce forse che il male più grande è l'ingiustizia e l'essere ingiusto?
POLO: Almeno così pare.
SOCRATE: E non è risultato che la liberazione da questo male consiste nel pagare per la colpa commessa?
POLO: Pare di sì .
SOCRATE: E il non pagare per la colpa commessa non è invece un persistere del male?
POLO: Sì .
SOCRATE: Dunque, il male che per grandezza viene secondo è il commettere ingiustizia, mentre il non pagare per
la colpa commessa, quando si è colpevoli di ingiustizia, è il più grande e il primo dei mali.
POLO: Sembra.
SOCRATE: Ebbene, non era questo il punto su cui sostenevamo tesi opposte, tu stimando felice Archelao, che, pur
essendo colpevole dei peggiori delitti, non scontò alcuna pena, ed io, al contrario, credendo che se Archelao o chiunque
altro non paghi per le colpe commesse, pur essendo colpevole, a costui toccherà di essere infelice più degli altri uomini,
e che sempre chi commette ingiustizia è più infelice di chi la subisce, e chi non paga per le colpe commesse è più
infelice di chi invece paga?
Non era questo quello che io sostenevo?
POLO: Sì .
SOCRATE: E non si è forse dimostrato che quanto dicevo era vero?
POLO: Così pare.
SOCRATE: E sia. Se dunque queste cose sono vere, Polo, qual è la grande utilità della retorica? Infatti, da quanto
abbiamo appena stabilito, bisogna che ciascuno si guardi soprattutto dal commettere ingiustizia, nella convinzione che
gliene verrebbe gran male! Non è così ?
POLO: Certamente.
SOCRATE: Se poi abbia commesso ingiustizia, lui o un altro di quelli che gli stanno a cuore, bisogna che vada, di
sua volontà, là dove al più presto potrà pagare per la colpa commessa, vale a dire dal giudice come andrebbe dal
medico, affrettandosi perché il morbo dell'ingiustizia, diventato cronico, non renda l'anima purulenta all'interno e
inguaribile. O come dovremmo dire, o Polo, se regge quanto abbiamo prima ammesso? Non è necessario che queste
conclusioni concordino con quelle premesse in questo modo e non in un altro?
POLO: E che cosa dovremmo dire, allora, o Socrate?
SOCRATE: Allo scopo di difendere la propria ingiustizia o quella dei genitori, degli amici, dei figli o della patria,
quando sia rea di ingiustizia, la retorica, allora, non ci è per niente utile, o Polo; a meno non la si intenda utile per scopo
opposto, e non ci sì renda conto che bisogna accusare prima di tutto se stessi, e poi anche i familiari e, fra gli altri che ci
sono cari, chiunque commetta ingiustizia, che non bisogna nascondere, ma portare allo scoperto il torto commesso, per
scontarne la pena e risanarsi, e che si deve costringere se stessi e gli altri a non temere e a mettersi nelle mani della
giustizia, ad occhi chiusi e coraggiosamente, come ci si affiderebbe al medico perché tagli e cauterizzi, perseguendo il
bene e il bello, senza metterne in conto l'aspetto doloroso; e qualora le ingiustizie commesse meritino percosse bisogna
offrirsi alle percosse, qualora meritino la prigione offrirsi a essere imprigionato, qualora meritino una multa offrirsi a
pagare la multa, qualora meritino l'esilio offrirsi all'esilio, e qualora meritino la pena di morte offrirsi a morire, essendo
se stessi i primi accusatori di sé e dei familiari: questo è lo scopo per il quale bisogna servirsi della retorica, affinché,
portate allo scoperto le ingiustizie, ci si possa liberare dal male più grande, vale a dire l'ingiustizia. Dobbiamo dire così ,
o Polo, o no?
POLO: Mi sembrano, o Socrate, affermazioni paradossali; eppure, forse, concordano con le affermazioni precedenti.
SOCRATE: Allora, o si cancellano quelle, o si ammette che queste ne sono la necessaria conseguenza.
POLO: Sì . Le cose stanno così .
SOCRATE: E, al contrario, voltando il ragionamento, se bisogna far del male a qualcuno, si tratti di un nemico o di
uno qualsiasi, con l'unica eccezione di non essere noi vittime di ingiustizia da parte di questo nemico, perché da questo
caso bisogna guardarsi; quando il nostro nemico, dunque, commetta ingiustizia verso un altro uomo, bisogna darsi da
fare, in tutti i modi, a fatti e a parole, perché costui non paghi per le colpe commesse e non vada davanti al giudice. E
se, invece, arrivi davanti al giudice, bisogna escogitare un modo con cui il nostro nemico possa sfuggire alla giustizia e
non scontare la sua colpa; e, se ha rubato molto denaro, bisogna escogitare un mezzo perché non lo restituisca, ma,
tenendoselo, lo spenda per sé e per i suoi in modo ingiusto ed empio; e se ha commesso reati che gli valgono la pena di
morte, bisogna trovare il modo che non muoia, possibilmente mai, ma che viva immortale continuando ad essere
malvagio, altrimenti, che viva il più a lungo possibile mantenendosi tale. Per scopi di questo genere, o Polo, mi pare che
la retorica sia utile, visto che, per chi non ha intenzione di commettere ingiustizia, non mi pare che sia grande la sua
utilità, ammesso che qualche utilità l'abbia, dal momento che, nei precedenti ragionamenti, non è apparso in alcun modo
che ne abbia una.
CALLICLE: Dimmi, o Cherefonte, Socrate dice queste cose sul serio, o scherza?
CHEREFONTE: A me pare, o Callicle, che dica fin troppo sul serio.
Eppure, nulla vale quanto domandarlo a lui!
CALLICLE: Certo, per gli dèi! Voglio proprio domandarglielo! Dimmi, o Socrate, dobbiamo supporre che tu ora
stai dicendo sul serio o stai scherzando? Infatti, se tu dici sul serio, e accade che le cose che dici sono vere, non
dovremmo allora pensare che la vita di noi uomini sarebbe capovolta e che, a quanto pare, noi facciamo tutto il
contrario di quello che si deve fare?
SOCRATE: O Callicle, se gli uomini non provassero lo stesso sentimento, chi per una cosa e chi per un'altra, e
ciascuno di noi provasse, invece, un sentimento suo particolare, diverso da quello che provano gli altri, non sarebbe
facile far capire ad altri il proprio sentimento. E lo dico pensando che a me e a te, ora, accade di provare lo stesso
sentimento, visto che siamo ambedue innamorati di due cose ciascuno: io di Alcibiade figlio di Clinia (25) e della
filosofia, e tu, a tua volta, di due cose, cioè del demo degli Ateniesi e di Demo figlio di Pirilampo.(26) Ebbene, io mi
accorgo che tu, in ogni occasione, malgrado la tua abilità, non sei capace di contraddire ciò che dicano i tuoi amati e le
loro affermazioni su come stanno le cose, ma lasci che ti voltino in su e in giù. E così nell'Assemblea, se, a una tua
affermazione, il demo degli Ateniesi dice che le cose non stanno così , tu, voltando opinione, dici quello che vuole lui. E
una cosa del genere ti accade anche nei confronti di quel bel giovane figlio di Pirilampo. Infatti, non sei capace di
opporti ai consigli e ai discorsi dei tuoi diletti, sicché, se uno, al tuo dire in ogni circostanza le cose che per amor loro
dici, si stupisse dell'assurdità di tali affermazioni, forse tu dovresti rispondergli, se volessi dire la verità, che, a meno che
qualcuno non faccia smettere i tuoi amati di fare questi discorsi, neppure tu smetterai di dire queste cose. Ebbene, fa'
conto di dover sentire anche da me cose di questo genere, e non stupirti che io dica queste cose, ma fa' smettere la
filosofia, che è la mia amata, di dire queste cose. è lei, infatti, a dire le cose che ora mi senti dire, ed è molto meno
volubile dell'altro mio amato: il figlio di Clinia, infatti, dice ora una cosa ora un'altra, mentre la filosofia dice sempre le
stesse cose, ed è lei appunto a dire le cose di cui ora ti stupisci, e c'eri anche tu quando le si diceva.
Dunque, o confuterai la filosofia, come ho appena detto, provando che non è vero che il commettere ingiustizia e il
non pagare per la colpa commessa quando si sia colpevoli di ingiustizia, è l'estremo dì tutti i mali; oppure, se lascerai
questo non confutato, per quel cane che è il dio degli Egizi, (27) Callicle non sarà d'accordo con te, o Callicle, ma
discorderà da te per tutta la vita. Io invece credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e
stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d'accordo con me e mi
contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi.
CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un vero oratore popolare.
E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a Polo accade la stessa cosa che egli accusava
Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva, infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola
uno che volesse imparare la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si vergognò e
disse che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell'usanza che vige fra gli uomini, di sdegnarsi se uno
rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua ammissione che portò Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di
soddisfazione.
E allora Polo si fece beffe di te, e con ragione, secondo me. Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa
ragione io non ammiro Polo, ossia per avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla:
infatti, in seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato imbavagliato, vergognandosi
di dire ciò che pensava. E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a fare
affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla natura, ma rispetto alla legge. E
queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e
non osa dire le cose che pensa, finisce necessariamente per contraddirsi.
E tu, imparata questa astuzia, tendi tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue domande alla natura, quando uno
parla riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge, quando uno si riferisce alla natura.
E questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia: mentre Polo si riferiva a
ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento facendo riferimento alla natura.
Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a dire il subire ingiustizia; secondo la legge,
invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti questa condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non
è degna di un uomo, bensì di uno schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è
vittima di ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si prenda cura. Ma
io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo. Dunque, per sé e nel proprio interesse costoro
istituiscono leggi, fanno elogi e muovono rimproveri. E per spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare,
affinché non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il
commettere ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri.
Io credo, in effetti, che costoro siano contenti quando abbiano l'uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri.
Per queste ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli altri, ed è questo ciò che
essi chiamano "commettere ingiustizia".
Invece, mi pare che la natura stessa mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è
peggiore, e chi è più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così , lo dimostra in molti casi, sia nelle
altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica con questo criterio: che il più forte
comandi sul più debole ed abbia più di lui.
Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse (28) mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli Sciti? (29) E si
potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro agiscano così secondo il diritto della
natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno quella di natura, e tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge
che noi istituiamo. Per plasmare i migliori e i più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incantandoli
e seducendoli, li sottomettiamo, dicendo loro che bisogna ottenere l'uguaglianza e che in questo consiste il bello e il
giusto.
Ma io penso che, se solo nascesse un uomo dotato di una natura che ne fosse all'altezza, costui, scrollatosi di dosso,
fatte a pezzi e sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutte contro
natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si rivelerebbe nostro padrone, ed allora splenderebbe il diritto di natura.
E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove dice: «la legge di tutti regina
mortali e immortali...»; ebbene, questa, lui dice, «guida, giustificando l'azione più violenta, con mano potente: lo
deduco dalle imprese di Eracle, poiché ... senza averle comprate...»; (30) dice press'a poco così , perché non so il carme
a memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione (31) gliele avesse donate, Eracle portò
via le vacche, Convinto che questo fosse per natura suo diritto, e che tanto le vacche quanto le altre cose che sono in
mano ai peggiori e ai più deboli appartengono tutte al migliore e al più forte.
E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a cose più grandi. Certo,
Socrate, la filosofia è un'amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età; ma se uno vi passi più
tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini. Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali,
qualora si attardasse a filosofare anche quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe
inesperto di tutte quelle cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e onorato. Infatti, costoro
diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui ci si deve servire quando si hanno faccende
da sbrigare con altri uomini, in privato e in pubblico, dei piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto
inesperti dei costumi degli uomini. Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si rendono ridicoli,
allo stesso modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si intromettano nelle vostre dispute e nei vostri
ragionamenti. Accade infatti quanto dice Euripide, «che ciascuno brilla in una data cosa, e a questa si sente attratto,
dedicando ad essa la maggior parte del giorno perché lì gli accade di superare se stesso».(32) Quella cosa, invece, in cui
uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e loda l'altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se
stesso. Ma io penso che la cosa più giusta sia partecipare dell'una e dell'altra cosa: è bello partecipare alla filosofia nella
misura in cui è utile all'educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché si è giovani; ma quando si attardi a
filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate, si fa ridicola, ed io provo nei confronti di coloro che
fanno i filosofi un sentimento identico a quello che provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano. Infatti,
quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l'esprimersi in questo modo, cioè balbettando e
giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e confacente alla sua età. Quando invece mi capita di sentire un
fanciullo esprimersi con chiarezza, mi dà l'impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare
un modo di fare servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci appare cosa ridicola e
poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte. Ebbene, lo stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro
che fanno i filosofi.
Infatti, provo gusto a vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che costui
sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e penso che non sarà mai
all'altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti negli anni che ancora coltivi la filosofia e non
sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa,
a quest'uomo, per quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro della città e
le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, (33) e passare il resto della vita rintanato in un angolo a
borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un discorso degno di uomo libero, elevato e valido. Ma io,
Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel sentimento che lo Zeto di Euripide provava
nei confronti di Anfione, che ho già menzionato. Anche a me, infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al
fratello: «Tu trascuri, Socrate, le cose di cui dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile della
tua anima; né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la parola in modo da essere
ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in favore dì altri». Ebbene, caro Socrate, e non
prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare che sia sconveniente per te trovarti in questa situazione,
in cui io credo che vi troviate tu e gli altri che si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che
ora uno, arrestato te o un altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo che tu hai
commesso un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare di te, ma resteresti smarrito e a
bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo piede in tribunale, anche se ti capitasse un accusatore buono
a niente e incompetente, potresti morire, se costui volesse chiedere per te la pena di morte. Ebbene, o Socrate, come può
essere saggia quell'arte che, preso sotto le sue cure un uomo di buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare
se stesso e di salvare dai più grandi pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici,
perché lo spoglino di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città?
Un uomo del genere, anche se l'espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi impunemente! Ma amico
mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa delle cose pratiche, dedicati a quelle cose, grazie
alle quali ti farai la reputazione di essere uomo di buon senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o
fandonie che si debbano chiamare, con le quali finirai per abitare in vuote dimore, (34) ed emulando non gli uomini che
stanno a confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.
SOCRATE: Se io avessi l'anima d'oro, o Callicle, non credi che sarei ben contento di trovare una di quelle pietre con
cui si saggia l'oro, la migliore che esista, e, avvicinandole la mia anima, di poter sapere con certezza, se quella pietra mi
confermasse che la mia anima è stata ben allevata, di essere in buona condizione e di non aver bisogno di altre prove?
CALLICLE: A che scopo fai questa domanda, o Socrate?
SOCRATE: Te lo dirò. Io penso che l'essermi imbattuto in te, quest'oggi, sia stato come imbattermi in un tesoro di
questo genere.
CALLICLE: E perché?
SOCRATE: So bene che, se confermerai le cose che la mia anima pensa, queste saranno allora vere. Infatti penso
che colui che si accinge a saggiare in modo efficace un'anima, per vedere se essa viva o no con rettitudine, deve avere
tre requisiti, che tu possiedi senza eccezione, vale a dire conoscenza, affetto e schiettezza.
E così mi capita di imbattermi in molti uomini che non sono in grado di saggiarmi, perché non sono sapienti come
te; altri, invece, sono sapienti, ma non se la sentono di dirmi la verità, perché non si prendono a cuore il mio bene, come
invece fai tu. E questi forestieri, poi, Gorgia e Polo, sono sapienti e amici miei, ma mancano di schiettezza e si fanno
più scrupoli del dovuto. E come potrebbe non essere così ? Sono arrivati a un tal punto di pudore che, proprio perché si
fanno scrupolo, ciascuno dei due ha il coraggio di contraddirsi di fronte a molta gente, e su importantissime questioni.
Tu, invece, possiedi tutti questi requisiti che gli altri non possiedono: hai avuto un'eccellente educazione, come molti
Ateniesi potrebbero confermare, e sei benevolo nei miei confronti. E quale prova ne ho? Te lo dirò. So che voi quattro,
Callicle, ossia tu, Tisandro di Afidna, Androne di Andozione e Nausicide di Colarge, (35) siete stati compagni di
sapienza; e ho sentito dire che una volta avete tenuto consiglio per stabilire fino a che punto la sapienza andasse
coltivata, e so che prevalse fra voi questa opinione, vale a dire che non bisogna mettere troppo zelo nel praticare la
filosofia con eccessivo rigore, e che anzi vi raccomandavate l'uno all'altro di stare attenti, che, diventando più sapienti
del dovuto, non finiste per rovinarvi senza accorgervene. Ebbene, visto che ti sento farmi le stesse raccomandazioni che
facevi ai tuoi migliori amici, questo è per me prova sufficiente che sei veramente benevolo nei miei confronti.
Che, poi, tu sia capace di parlare francamente e senza farti scrupolo, tu stesso lo dichiari, e il discorso che hai fatto
poco fa conferma quello che dici. Dunque, è chiaro che, su questi punti, le cose stanno così : se, nel corso dei miei
ragionamenti, ti riconoscerai d'accordo con me su qualche cosa, questa sarà da considerarsi ormai sufficientemente
saggiata e da me e da te, e non ci sarà più bisogno di sottoporla ad altre prove. Infatti, non l'avresti mai approvata per
difetto di sapienza o per eccesso di scrupolo, né mi daresti la tua approvazione allo scopo di ingannarmi, perché mi sei
amico, come tu stesso professi. In effetti, dunque, l'assenso mio e tuo avrà forza di verità. E la ricerca più bella di tutte,
Callicle, è quella che riguarda le cose su cui tu mi hai rimproverato, ossia quale debba essere l'uomo, di cosa debba
occuparsi e fino a che punto, sia quando è vecchio, sia quando è giovane. Se, infatti, faccio qualcosa in modo non giusto
nella mia vita, sappi bene che non faccio questo sbaglio volontariamente, ma per mia ignoranza. Tu, dunque, non
smettere di rimproverarmi come hai cominciato a fare, ma mostrami bene cosa sia ciò di cui dovrei occuparmi, e in che
modo potrei entrarne in possesso; e, se mi troverai d'accordo con te ora, e in futuro, invece, mi sorprenderai a non fare
le cose alle quali avevo acconsentito, considerami pure un indolente, e non rimproverarmi mai più, pensando che io non
ne valgo affatto la pena. Ma ripetimi da capo: qual è, a detta tua e di Pindaro, la condizione del giusto, il giusto secondo
natura? Che il più forte si prenda con violenza ciò che appartiene ai più deboli, che il migliore comandi sui peggiori e
che chi è più capace abbia più di chi è meno capace? Dici che il giusto non è altro che questo? Ricordo bene?
CALLICLE: Lo dicevo allora, e anche ora te lo ripeto!
SOCRATE: Ma tu chiami la stessa persona migliore e più potente?
Perché neppure prima sono riuscito a capire che cosa tu intendessi dire! Per "più potenti" intendi dire "più forti", e
affermi che i più deboli devono obbedire a chi è più forte, come mi pare che tu anche prima facevi intendere,
sostenendo che le grandi città muovono contro le piccole per diritto di natura, perché sono più potenti e più forti, nella
convinzione che il più potente, il più forte e il migliore siano la stessa cosa; oppure si può essere migliore, pur essendo
meno potente e più debole, ed essere più potente, pur essendo più malvagio? O la definizione di "migliore" e di "più
potente" è la stessa? Di questo devi darmi una chiara definizione: il più potente, il migliore e il più forte sono la stessa
cosa o cose diverse?
CALLICLE: Ma io ti dico chiaramente che sono la stessa cosa!
SOCRATE: Ora, i molti non sono forse più potenti di uno solo, in natura?
Senza dubbio, sono costoro ad imporre le leggi a quell'uno, come anche tu poco fa dicevi!
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: Dunque, le leggi dei molti sono anche le leggi dei più potenti.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E non sono, allora, anche le leggi dei migliori? Infatti i più potenti sono anche migliori, secondo il tuo
discorso.
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E le leggi di costoro non sono allora belle secondo natura, visto che costoro sono i più potenti?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Non è forse vero, allora, che i più la pensano in questo modo, come del resto tu poco fa dicevi, vale a
dire che è giusto che si abbia uguaglianza e che è più brutto commettere che subire ingiustizia? E così o no? E bada, a
questo punto, di non farti sorprendere anche tu a prenderti riguardo. Ritengono o no, i più, che sia giusto avere
uguaglianza, e non avere più degli altri, e che sia più brutto commettere ingiustizia che subirla? Non negarmi questa
risposta, o Callicle, perché io possa, nel caso in cui tu mi dia il tuo assenso, essere rassicurato da te, visto che la
conferma mi verrebbe da un uomo che è all'altezza di giudicare.
CALLICLE: Ma i più la pensano proprio così .
SOCRATE: Allora, non solo per legge è più brutto commettere che subire ingiustizia, e neppure solo per legge è
giusto avere uguaglianza, ma anche per natura; sicché c'è il rischio che tu non abbia detto la verità nei precedenti
ragionamenti e non mi abbia accusato con giusta ragione, quando sostenevi che la legge e la natura sono tra loro
opposte, e che io, consapevole di questo, tendo tranelli nei ragionamenti, portando il ragionamento sul piano della legge
quando uno parli riferendosi alla natura, e portandolo sul piano della natura quando uno parli riferendosi alla legge.
CALLICLE: Quest'uomo non la smetterà mai di dire insulsaggini!
Dimmi, o Socrate, non ti vergogni, alla tua età, di andare a caccia di parole, e, quando uno si sbagli di una parola, di
credere di aver trovato in questo una fortuna inaspettata? Pensi forse che io per "più potenti" intenda qualche altra cosa
che non "migliori"? Non ti sto dicendo da un pezzo che secondo me "migliore" e "più potente" sono la stessa cosa? O
credi che io voglia dire che, qualora si riunisse un'accozzaglia di schiavi e di gente di ogni sorta, buona a nulla tranne
forse che a sfruttare la propria forza fisica, e qualora costoro facessero delle affermazioni, queste affermazioni
costituirebbero le leggi?
SOCRATE: E sia, o sapientissimo Callicle! Dici così ?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ma anch'io, o divino, è da un pezzo che credo di indovinare che tu per "potente" intenda una cosa del
genere, e torno tuttavia a domandartelo, perché desidero sapere con chiarezza che cosa tu voglia dire.
Di certo, infatti, tu non pensi che due siano migliori di uno, né che i tuoi schiavi siano migliori di te, per il fatto che
sono più forti di te.
Ma torna a dirmi, daccapo: che cosa intendi dire per "migliori", visto che non intendi "i più forti"? E, carissimo,
insegnami con un po' più di maniera, se non vuoi che smetta di venire alla tua scuola.
CALLICLE: Fai dell'ironia, o Socrate.
SOCRATE: No, o Callicle, per Zeto, di cui poco fa ti sei servito per fare un bel po' d'ironia nei miei confronti! Ma
dimmi: chi sostieni che siano i migliori?
CALLICLE: Io dico che sono i più virtuosi.
SOCRATE: Ma non vedi che anche tu dici solo parole e non dimostri nulla?
Non vuoi dirmi se per "migliori" e "più potenti" tu intendi dire "i più assennati", o altri?
CALLICLE: Ma sì , per Zeus! Proprio questi intendo dire, e anzi lo affermo con certezza!
SOCRATE: Spesso, allora, uno solo che sia assennato, secondo il tuo ragionamento, è più potente di una
moltitudine di uomini che non abbiano senno, e costui deve comandare e gli altri lasciarsi comandare, e chi comanda
deve avere più di quelli che obbediscono al suo comando. Questo mi pare tu voglia dire (e non vado a caccia di parole!),
quando sostieni che uno solo è più potente di una moltitudine di uomini.
CALLICLE: Ma è proprio questo quello che intendo dire! Infatti, io credo che in questo consista il giusto secondo
natura: che chi è migliore e più assennato comandi ed abbia di più di quelli che sono meno capaci.
SOCRATE: Fermati qui! Che cosa rispondi adesso? Supponiamo che ci trovassimo in molti, come ora, radunati
nello stesso luogo, e che avessimo in comune cibi e bevande in abbondanza; che fossimo uomini di vario tipo, alcuni
forti, altri deboli; e che uno di noi fosse più assennato degli altri in materia di cibi e bevande, essendo medico, ma fosse,
com'è ragionevole supporre, più forte di alcuni e più debole di altri: costui, avendo più senno di noi, non sarà in queste
cose anche migliore e più potente?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Forse allora, di questi cibi, costui deve averne più di noi, per il fatto di essere migliore? Oppure, per il
fatto di essere lui a comandare, bisogna che sia lui a distribuire tutto, ma non che sia privilegiato rispetto agli altri nel
consumare e nell'adoperare questi cibi per il proprio corpo, se non vuole essere invidiato, ma bisogna che ne abbia di
più rispetto ad alcuni e meno rispetto ad altri? Non è così , amico mio?
CALLICLE: Tu parli di cibi, di bevande, di medici e di simili sciocchezze.
Ma non sono queste le cose di cui parlo io!
SOCRATE: Non chiami "migliore" chi è più sapiente? Affermalo oppure negalo!
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E non dici che il migliore deve avere più degli altri?
CALLICLE: Non di cibi, almeno, né di bevande!
SOCRATE: Capisco! Forse, allora, di vestiti: il tessitore più abile deve avere il mantello più grande e andare in giro
con più vestiti degli altri e vestito dei più bei abiti?
CALLICLE: Ma quali vestiti?
SOCRATE: E, a proposito di scarpe, è ovvio che deve essere privilegiato chi in questo campo è più esperto e
migliore. Così il calzolaio, forse, deve passeggiare calzato di scarpe più grandi e con più scarpe degli altri.
CALLICLE: Ma quali scarpe? Continui a dire sciocchezze!
SOCRATE: Ma se non sono queste le cose di cui parli, forse sono queste altre: il contadino, ad esempio, che si
intende di terra, ed è in questo campo esperto e capace, forse deve avere più sementi degli altri, e deve adoperarne, per
la sua terra, più che può.
CALLICLE: Dici sempre le stesse cose, o Socrate!
SOCRATE: Non solo, Callicle! Le dico anche sugli stessi argomenti!
CALLICLE: Per gli dèi! Non la smetti proprio di parlare di calzolai, di cardatori, di cuochi e di medici, come se la
nostra discussione riguardasse costoro!
SOCRATE: Ma allora, a proposito di quali cose il più potente e il più assennato sarà giustamente privilegiato
nell'avere più degli altri?
Oppure non lascerai che sia io a suggerirlo, né lo dirai tu stesso?
CALLICLE: Ma è un pezzo che te lo dico! Come prima cosa, con "più potenti" non mi riferisco né a calzolai né a
cuochi, ma a coloro che, riguardo agli affari della città, siano assennati tanto da capire in che modo li si possa
amministrare con successo, e non solo assennati, ma anche coraggiosi, che siano cioè capaci di mettere in atto le cose
che pensano, e che non desistano per debolezza dell'anima.
SOCRATE: Vedi, mio caro Callicle, che le cose di cui tu mi accusi non sono le stesse di cui io accuso te? Tu, infatti,
sostieni che io dico sempre le stesse cose, e mi rimproveri; io, invece, ti accuso del contrario, sostenendo che non dici
mai le stesse cose a proposito dei medesimi argomenti: prima definivi i migliori e i più potenti come i più forti, poi
tornavi a definirli come i più assennati, e adesso, di nuovo, te ne vieni con un'altra definizione, e i più potenti e i
migliori vengono da te definiti come uomini più coraggiosi di altri.
Ma, amico mio, sbrigati a dire chi siano secondo te i migliori e i più potenti, e in che cosa lo siano!
CALLICLE: Ma ti ho già detto che si tratta di coloro che sono assen- nati circa gli affari della città e coraggiosi. A
costoro, infatti, spetta di diritto governare le città, e la giustizia consiste in questo: che costoro abbiano più degli altri,
vale a dire quelli che comandano più di quelli che sono comandati.
SOCRATE: E poi? Rispetto a se stessi, amico mio, in che posizione si trovano? Nella posizione di chi comanda, o in
quella di chi è comandato?
CALLICLE: Come dici?
SOCRATE: Mi riferisco alla questione se ciascuno di essi comandi su se stesso. Oppure non c'è alcun bisogno di
questo, cioè che uno comandi su se stesso, e basta, invece, che uno comandi sugli altri?
CALLICLE: In che senso dici «che comandi su se stesso»?
SOCRATE: Non intendo dire nulla di complicato, bensì lo dico nel senso in cui lo intende la maggior parte della
gente: che sia temperante e padrone di sé, e che sappia comandare i piaceri e i desideri che dimorano dentro di sé.
CALLICLE: Come sei dolce! Tu, allora, chiami temperanti gli stolti.
SOCRATE: Come sarebbe? Non c'è nessuno che non comprenda che non è questo quello che intendo dire io!
CALLICLE: Non c'è dubbio che è proprio questo, o Socrate! Infatti, come potrebbe essere felice un uomo che fosse
schiavo di qualcuno, non importa di chi? Invece, il bello e il giusto secondo natura consiste in questo che io ora,
parlando con franchezza, ti dico: colui che intende vivere con rettitudine deve lasciare che i propri desideri si
ingrandiscano il più possibile e non deve mettervi freno; e, quando abbiano raggiunto il massimo dello sviluppo, deve
saperli servire con coraggio e accortezza, ed essere capace di appagare ogni desiderio che di volta in volta gli venga.
Ma questo, credo, alla maggior parte della gente non è possibile.
Perciò biasimano quelli che ne sono capaci per vergogna, per nascondere così la propria impotenza, e dicono che
l'intemperanza è cosa abbietta, come ho detto prima, allo scopo di asservire gli uomini che per natura sono migliori; e,
poiché essi non sono capaci di procurare soddisfazione ai propri piaceri, elogiano la temperanza e la giustizia per la
propria mancanza di virilità. Infatti, per coloro ai quali fin da principio toccò in sorte di essere figli di re, o di essere per
natura capaci di procurarsi un potere di qualche genere, tirannide o signoria che sia, che cosa potrebbe essere in verità
più brutto e peggiore della temperanza e della giustizia per questi uomini?
E costoro, pur avendo il pote re di godere dei beni senza che nessuno li ostacoli, dovrebbero di propria iniziativa
farsi un padrone nella legge della moltitudine degli uomini, nei loro discorsi e nel loro biasimo? E come potrebbero non
essere resi infelici dalla bellezza della giustizia e della temperanza, non potendo distribuire ai loro amici nulla di più che
ai loro nemici, e questo pur comandando nella propria città? Ma, Socrate, in nome di quella verità che tu dici di cercare,
così stanno le cose: dissolutezza, intemperanza e libertà, quando abbiano un sostegno su cui poter contare, costituiscono
la virtù e la felicità, e tutte queste altre cose non sono che bella facciata, convenzioni contro natura fatte dagli uomini,
sciocchezze e roba che non vale nulla.
SOCRATE: Callicle, spieghi le tue ragioni davvero con coraggio e franchezza: tu, ora, dici chiaramente cose che gli
altri pensano, ma non sono disposti a dire. Ti prego, dunque, di non desistere in alcun modo, perché diventi veramente
chiaro in che modo si debba vivere. Dimmi: tu sostieni che non bisogna frenare i desideri, se si vuole essere come si
deve, ma che bisogna, lasciandoli sviluppare il più possibile, procurare loro soddisfazione trovandola non importa dove,
e che in questo consiste la virtù?
CALLICLE: Questo è quello che affermo.
SOCRATE: Allora, non è giusto dire che felici sono coloro che non hanno bisogno di nulla!
CALLICLE: Già: se così fosse, le pietre e i cadaveri sarebbero i più felici.
SOCRATE: Eppure, come anche tu sostieni, la vita è terribile. E non sarei sorpreso se Euripide dicesse il vero là
dove dice; «Chi sa, se il vivere non sia morire, e il morire non sia vivere?».(36) Anche noi, in realtà, forse siamo morti.
Infatti, ho già sentito dire dai sapienti che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba,(37) e che questa
parte dell'anima in cui hanno sede i desideri è tale da lasciarsi sedurre e da mutare direzione in su e in giù.
E un uomo arguto, un tale che si spiega per immagini, forse un siculo o un italico, (38) prendendo il nome dal suo
carattere credulo e facile a persuadersi, chiamò questa parte dell'anima «orcio»,(39) e diede agli uomini privi di senno il
nome di «non iniziati», e disse che quella parte dell'anima dei dissennati dove hanno sede i desideri, per il suo carattere
sfrenato e la sua incapacità di ritegno, è come un orcio forato, paragonandola a questo per la sua insaziabilità. E, al
contrario di te, o Callicle, costui fa vedere come, di coloro che sono nell'Ade (e con questo si riferisce al mondo
invisibile), i più infelici siano proprio costoro, vale a dire i non iniziati, e come essi debbano portare acqua nell'orcio
forato con un crivello anch'esso pieno dì buchi.
E con il crivello, come disse chi me ne informò, egli intendeva riferirsi all'anima: paragonava l'anima dei dissennati
ad un crivello pensando che essa è come forata, perché è incapace di ritenere nulla per incredulità e dimenticanza.
Queste similitudini sono probabilmente un poco strane, ma chiariscono quello che io voglio dimostrarti, per persuaderti,
purché ne sia in qualche modo capace, a fare il cambio e a prendere, al posto della vita insaziabile e sfrenata, la vita
bene ordinata, che è soddisfatta e si accontenta di ciò che ha. Ma riesco a convincerti a mutare parere e a persuaderti che
gli uomini ordinati sono più felici dei dissoluti, oppure posso ben raccontarti molti altri miti come questo, senza per
questo farti cambiare idea?
CALLICLE: Quest'ultima cosa che hai detto, o Socrate, è la più vera.
SOCRATE: Allora voglio riportarti un'altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola (40) da cui viene quella di
cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell'uno e dell'altro, la vita cioè dell'uomo temperante e quella dell'uomo
senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l'uno avesse i suoi sani
e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi
contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non
dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo.
Anche per l'altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi
orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse,
patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita
dell'uomo dissoluto è più felice di quella dell'uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad
ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?
CALLICLE: Non mi persuadi, o Socrate. Infatti, per colui che ha ormai riempito i suoi orci non resta più alcun
piacere, e proprio in questo consiste, come dicevo poco fa, il vivere come una pietra, senza più provare, una volta
riempiti gli orci, né piacere né dolore.
Invece, in quest'altro consiste il vivere piacevolmente: nel versare negli orci quanto più liquido è possibile!
SOCRATE: Ma non è allora necessario che, se molto vi si versa, sia molto anche quello che se ne va, e che piuttosto
grandi siano i fori per lo scolo?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ma la vita di cui parli tu è quella del caradrio,(41) e non quella di un morto o di una pietra! Ma dimmi:
ti riferisci forse a una cosa del genere: aver fame, e quando si ha fame mangiare?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E aver sete, e quando si ha sete bere?
CALLICLE: Proprio di questo parlo! E dico che il vivere felici consiste nel provare tutte le altre voglie e, trovandosi
nella possibilità di farlo, nell'appagarle traendone piacere.
SOCRATE: Bene, carissimo! Continua come hai cominciato e bada di non farti scrupolo! E, a quanto pare, bisogna
che neppure io me ne faccia. Come prima cosa, dimmi se vivere felicemente è anche passare la vita a grattarsi quando si
ha la scabbia e la voglia di grattarsi, se ci si può grattare senza impedimenti.
CALLICLE: Quanto sei assurdo, o Socrate! E che autentico oratore da piazza sei!
SOCRATE: E infatti, o Callicle, ho sconvolto e messo soggezione a Polo e a Gorgia! Ma tu non farti sconvolgere né
mettere soggezione, visto che sei coraggioso. Ma cerca solo di rispondermi.
CALLICLE: Allora ti dico che anche colui che passa la vita a grattarsi dovrebbe vivere piacevolmente.
SOCRATE: E se piacevolmente, allora anche felicemente?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E se ha voglia di grattarsi solo la testa... o c'è bisogno che ti faccia altre domande? Considera, o
Callicle, che cosa risponderesti, se qualcuno ti facesse questa domanda a proposito di tutte le parti del corpo, una dopo
l'altra. E, stando così le cose, in somma, la vita dei dissoluti non è forse terribile, brutta e infelice? O avrai il coraggio di
dire che costoro sono felici, purché abbiano in abbondanza ciò di cui sentono il bisogno?
CALLICLE: Non ti vergogni, o Socrate, di portare il ragionamento a tali conclusioni?
SOCRATE: Sono forse io che lo porto a tali conclusioni, mio caro, o piuttosto chi sostiene senza ritegno che felici
sono coloro che godono, in qualsiasi modo godano, e non distingue, fra i piaceri, quali siano buoni e quali siano cattivi?
Ma dimmi ancora una volta se, secondo te, il piacere e il bene sono la stessa cosa, o se sostieni che fra i piaceri ve ne sia
qualcuno che non sia buono.
CALLICLE: Ebbene, affinché il mio ragionamento non risulti incoerente, nel caso in cui dicessi che si tratta di cose
diverse, affermo che sono la stessa cosa.
SOCRATE: Mandi in malora, o Callicle, i ragionamenti di prima, e, col dire cose contrarie alle tue opinioni, potresti
finire per non poter più indagare con me la realtà in modo adeguato.
CALLICLE: E tu pure, o Socrate.
SOCRATE: E neppure io, allora, faccio bene, se è vero che faccio questo, come non fai bene tu! Ma, o beato, bada
che il bene non consista in questo, ossia nel godere a tutti i costi, perché, se così fosse, ne deriverebbero quelle
numerose, brutte conseguenze a cui si accennava poco fa, e molte altre ancora.
CALLICLE: Questo è quello che credi tu, o Socrate.
SOCRATE: Ma tu, o Callicle, veramente sostieni queste cose?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Dovremo dunque metterci a discutere, assumendo che tu dica sul serio?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Su allora, visto che la pensi così , chiariscimi questo: c'è qualcosa che tu chiami conoscenza?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E non dicevi poco fa che c'è anche una sorta di coraggio insieme alla conoscenza?
CALLICLE: Lo dicevo infatti.
SOCRATE: E non dicevi, poi, che di due cose si trattava, intendendo con questo che il coraggio è altra cosa dalla
conoscenza?
CALLICLE: Proprio così .
SOCRATE: E che dire poi del piacere e della conoscenza? Sono la stessa cosa o cose diverse?
CALLICLE: Senza dubbio cose diverse, o tu sapientissimo!
SOCRATE: E anche il coraggio, allora, è altra cosa dal piacere?
CALLICLE: E come potrebbe non esserlo?
SOCRATE: Su, allora, vediamo di ricordarci queste cose: che Callicle del demo di Acarne sosteneva che il piacere e
il bene sono la stessa cosa, e che invece la conoscenza e il coraggio sono diversi tra loro e diversi dal bene.
CALLICLE: E invece Socrate del demo di Alopece non mi dà per buona questa mia affermazione. Oppure me la dà
per buona?
SOCRATE: Non te la dà per buona. Credo, anzi, che neppure Callicle te la darebbe per buona, se solo sapesse
esaminare se stesso come si conviene! Infatti, dimmi: non ritieni che coloro che stanno bene si trovino in una
condizione opposta rispetto a coloro che stanno male?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E se queste condizioni sono fra loro opposte, non è allora necessario che fra esse vi sia la stessa
relazione che esiste fra lo stato di salute e lo stato di malattia? L'uomo, infatti, certamente non è sano e malato nello
stesso tempo, né contemporaneamente perde la salute e si libera della malattia.
CALLICLE: Che vuoi dire?
SOCRATE: Prendi come esempio una parte qualsiasi del corpo, e rifletti. L'uomo può avere una malattia agli occhi
a cui si dà il nome di oftalmia?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: E, di certo, al tempo stesso non può anche avere gli occhi sani!
CALLICLE: No di certo, in nessuno caso!
SOCRATE: E quando invece si libera dell'oftalmia? Forse in quel preciso istante perde anche la salute degli occhi, e
finisce per liberarsi ad un tempo dell'una e dell'altra?
CALLICLE: Niente affatto!
SOCRATE: Infatti, credo, sarebbe un fenomeno strano e assurdo. Non è così ?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Piuttosto, io credo, quando l'uomo prende l'una perde l'altra, e viceversa.
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Non accade lo stesso anche con la forza e la debolezza?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E con la velocità e la lentezza?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E a proposito dei beni e della felicità e dei loro opposti, i mali e l'infelicità, non accade forse che si
acquistano gli uni e si perdono gli altri, e viceversa?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Allora, se scopriamo delle cose che l'uomo contemporaneamente perde e possiede, sarà chiaro che
queste cose non potrebbero essere il bene e il male. Siamo d'accordo su questo? E rispondi dopo aver ben riflettuto!
CALLICLE: Ma sono perfettamente d'accordo!
SOCRATE: Torniamo, allora, alle cose che prima abbiamo stabilito di comune accordo. Dicevi che l'aver fame è
una cosa piacevole o una cosa penosa? Intendo dire l'avere fame preso di per sé.
CALLICLE: Io sostengo che è cosa penosa. Mentre invece sostengo che il mangiare quando si ha fame è cosa
piacevole.
SOCRATE: Capisco. Ma allora l'avere fame, preso di per sé, è cosa penosa. O no?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: E non lo è, allora, anche l'avere sete?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Devo farti altre domande, oppure ammetti che ogni bisogno e ogni desiderio sono penosi?
CALLICLE: Lo ammetto, e tu non farmi altre domande.
SOCRATE: E sia! Eppure, non sostieni che il bere quando si ha sete è piacevole?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Dunque, questo «quando si ha sete» di cui tu parli, non equivale forse a «quando si è in pena»?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Mentre il bere è soddisfazione di un bisogno e piacere?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Tu dici, allora, che nel bere si prova piacere?
CALLICLE: Senza dubbio.
SOCRATE: Purché si abbia sete, però.
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Solo se si è in pena, allora?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Ti rendi conto, allora, della conseguenza che ne deriva? Ti accorgi che quando dici «bere quando si ha
sete», tu dici «provare piacere provando, contemporaneamente, dolore»? O non è vero che questo accade,
contemporaneamente, nello stesso tempo e nello stesso luogo, vuoi dell'anima vuoi del corpo? Io non credo, infatti, che
ci sia alcuna differenza. E così o no?
CALLICLE: E così .
SOCRATE: Eppure tu affermi che è impossibile che chi sta bene stia, al tempo stesso, anche male.
CALLICLE: Infatti, lo affermo.
SOCRATE: Però hai ammesso che è possibile provare piacere mentre si prova dolore.
CALLICLE: Pare.
SOCRATE: Forse, allora, provare piacere non equivale a stare bene, e provare dolore non equivale a stare male,
sicché il piacere risulta essere altra cosa dal bene.
CALLICLE: Io non capisco i sofismi che fai, o Socrate!
SOCRATE: Li capisci eccome, o Callicle, ma fai lo gnorri. Ma fa' ancora un passo avanti, perché tu sappia quanto
sei saggio ad ammonirmi! Ciascuno di noi, nel bere, non cessa forse di aver sete e al tempo stesso di godere?
CALLICLE: Non capisco quello che dici.
GORGIA: Così non va affatto bene, o Callicle! Piuttosto, rispondi anche nel nostro interesse, perché il ragionamento
approdi a una conclusione.
CALLICLE: Ma Socrate è sempre il solito, o Gorgia! Egli domanda e confuta piccolezze e cose di poco conto.
GORGIA: E che cosa te ne importa? In ogni caso, non è tua la colpa, o Callicle. Lascia invece che Socrate confuti
come vuole.
CALLICLE: Ebbene, domandami pure queste tue piccolezze e queste tue meschinità, visto che a Gorgia piace così !
SOCRATE: Sei stato fortunato, o Callicle, ad essere iniziato ai grandi misteri, prima che ai piccoli.(42) Non
pensavo che fosse consentito.
Rispondi, dunque, da dove ti sei interrotto, se è vero o no che ciascuno di noi cessa al tempo stesso di avere sete e di
godere.
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: E non si smette allora, al tempo stesso, di avere fame e di sentire gli altri desideri e gli altri piaceri?
CALLICLE: E così .
SOCRATE: E non si smette, allora, nello stesso tempo, di provare dolore e piacere?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Dai beni e dai mali, però, non si cessa contemporaneamente, come tu hai ammesso. Ora non lo ammetti
più?
CALLICLE: Sì . E allora, che succede?
SOCRATE: Succede, mio caro, che non risulta più che i beni siano la stessa cosa dei piaceri, né i mali la stessa cosa
che i dolori. Gli uni, infatti, ossia piaceri e dolori, si smette di provarli contemporaneamente, gli altri invece, vale a dire
beni e mali, no, appunto perché si tratta di cose diverse. Dunque, come potrebbero i piaceri essere la stessa cosa dei
beni, e i dolori la stessa cosa dei mali? Ma, se vuoi, considera la cosa anche sotto quest'altro aspetto, anche se credo che
neppure così ti troverai d'accordo con te stesso. Tuttavia, prova a riflettere: gli uomini buoni, non li chiami "buoni" per
la presenza del bene, proprio come chiami "belli" coloro nei quali sia presente la bellezza?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E poi? Chiami "buoni" coloro che sono stolti e vili? Poco fa, infatti, non li chiamavi buoni, e chiamavi
buoni, invece, coloro che sono coraggiosi ed assennati. O non sono costoro quelli che tu chiami "buoni"?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E poi? Ti è già capitato di vedere un bambino, che è privo di senno, provare piacere?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E non hai mai visto godere un uomo privo di senno?
CALLICLE: Almeno, credo di averlo visto. Ma questo che significa?
SOCRATE: Nulla. Ma tu rispondi.
CALLICLE: L'ho visto.
SOCRATE: E poi? Un uomo che avesse senno l'hai mai visto soffrire e godere?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Godono e soffrono di più gli assennati o gli stolti?
CALLICLE: Io penso che non vi sia grande differenza.
SOCRATE: Ma basta anche di questo. Piuttosto, in guerra hai già visto un uomo vile?
CALLICLE: Come no?
SOCRATE: E quando i nemici battevano in ritirata, quali ti parevano provare maggiore piacere, i vili o i coraggiosi?
CALLICLE: Gli uni come gli altri, mi pareva. O, perlomeno, in modo quasi uguale.
SOCRATE: Non importa. Dunque, anche i vili provano piacere?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E gli stolti pure, a quanto pare.
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E all'avanzare dei nemici, invece, patiscono solo i vili o anche i coraggiosi?
CALLICLE: Gli uni come gli altri.
SOCRATE: In modo uguale, forse?
CALLICLE: Forse di più i vili.
SOCRATE: E al ritirarsi dei nemici, non provano forse maggiore piacere?
CALLICLE: Forse.
SOCRATE: Allora, come tu affermi, gli stolti e gli assennati, e i vili e i coraggiosi soffrono e godono in modo quasi
uguale, e, anzi, i vili più dei coraggiosi?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Ma gli assennati e i coraggiosi sono buoni, e i vili e gli stolti sono, invece, cattivi?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: In modo quasi uguale, dunque, soffrono e godono i buoni e i cattivi?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Sono allora buoni e cattivi in modo quasi uguale i buoni e i cattivi? Oppure i cattivi sono ancora più
buoni?
CALLICLE: Ma per Zeus, non capisco quello che dici!
SOCRATE: Non capisci che tu sostieni che i buoni sono buoni per la presenza di beni e che i cattivi sono cattivi per
la presenza di mali? E che sostieni che i beni sono i piaceri e i mali i dolori?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E in coloro che godono non sono allora presenti i beni vale a dire i piaceri, se è vero che godono?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: E non è forse per la presenza di beni che sono buoni coloro che godono?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E poi? In coloro che soffrono non sono forse presenti i mali, vale a dire i dolori?
CALLICLE: Sono presenti.
SOCRATE: Ed è per la presenza di mali, a tuo dire, che i cattivi sono cattivi; o non lo sostieni più?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Buoni, allora, sono coloro che godono e cattivi coloro che soffrono?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E più godono e più soffrono, più sono buoni o cattivi, e meno godono e meno soffrono, meno sono
buoni o cattivi, e coloro che soffrono in uguale misura sono buoni o cattivi in uguale misura?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Non sostieni forse che godono e soffrono in modo uguale gli assennati e gli stolti, e i vili e i coraggiosi,
anzi, i vili ancora più dei coraggiosi?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Ebbene, deduci con me quale conseguenza scaturisce da quanto abbiamo appena stabilito. Si dice infatti
che sia bello dire e considerare due e tre volte le cose belle. Noi affermiamo che è buono colui che è assennato e
coraggioso. O no?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E cattivo colui che è stolto e vile?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E, d'altra parte, affermiamo che è buono colui che gode?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E cattivo colui che soffre?
CALLICLE: Necessariamente.
SOCRATE: E che il buono e il cattivo soffrono e godono nello stesso modo, anzi, forse il cattivo ancora più del
buono?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Ma, allora, il cattivo non risulta essere cattivo e buono in modo uguale al buono, o addirittura più buono
di colui che è buono?
Non sono queste le conseguenze che ne derivano, e con queste quelle di prima, se uno premette che piaceri e beni
sono la stessa cosa? Non sono deduzioni necessarie, Callicle?
CALLICLE: E da un pezzo, o Socrate, che ti sto a sentire, dandoti il mio assenso, riflettendo che, quando uno anche
per scherzo ti faccia una qualsiasi concessione, tu, contento di essa, te la terresti stretta come fanno i bambini. E così tu
pensi che io o un altro qualsiasi degli uomini non consideriamo alcuni piaceri migliori di altri, e alcuni piaceri peggiori
di altri.
SOCRATE: Ahi, ahi! O Callicle! Sei proprio un briccone e mi tratti come un bambino, talora dicendomi che le cose
stanno in un certo modo, tal altra, invece, dicendomi che le stesse cose stanno in un modo diverso, ingannandomi.
Eppure non pensavo, all'inizio, che sarei stato deliberatamente ingannato da te, credendo che tu mi fossi amico.
Ora, invece, mi è stato provato che avevo torto e, a quanto pare, bisogna che io, secondo l'antico detto, faccia buon
viso a cattivo gioco e prenda quello che mi viene dato da te. Ebbene, quello che ora affermi, a quanto sembra, è che vi
sono piaceri buoni e piaceri cattivi. O no?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Non sono forse buoni quelli utili e cattivi quelli dannosi?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E sono utili quelli che fanno del bene, e dannosi quelli che fanno del male?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Parli di quel genere di piaceri che hanno a che vedere col corpo, di cui dicevamo poco fa, quei piaceri,
cioè, che si trovano nel mangiare e nel bere? E di questi piaceri, sono buoni quelli che, nel corpo, portano salute, forza,
o qualche altra virtù fisica, e cattivi, invece, quelli che provocano gli effetti opposti?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Anche i dolori, allora, non sono forse, allo stesso modo, alcuni benefici e altri malefici?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: Non bisogna, allora, preferire e coltivare quei piaceri e quei dolori che siano benefici.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E non quelli malefici?
CALLICLE: è chiaro.
SOCRATE: Infatti, se ben ricordi, già a Polo e a me parve che si dovesse fare tutto in vista dei beni. Sei forse anche
tu di quest'opinione, vale a dire che il fine di tutte le azioni è il bene, e che bisogna fare tutto il resto in vista del bene, e
non il bene in vista del resto? Anche tu, di noi tre, dai il nostro stesso voto?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: In vista del bene, dunque, bisogna fare le altre cose, e con queste anche le cose piacevoli, e non le cose
buone in vista di quelle piacevoli.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E forse propria di ogni uomo la facoltà di scegliere quali delle cose piacevoli siano buone e quali
cattive, oppure c'è bisogno di un esperto per ogni singolo caso?
CALLICLE: C'è bisogno di un esperto.
SOCRATE: Ebbene, cerchiamo di ricordare le cose che già dissi a Polo e a Gorgia. Se ben ricordi, dicevo che ci
sono alcuni lavori che mirano al piacere e che procurano solo questo, ignorando il meglio e il peggio, e altri che
conoscono che cosa sia bene e che cosa sia male. E fra i lavori che mirano ai piaceri mettevo la culinaria, dicendo che si
tratta di una pratica empirica e non di un'arte, mentre fra i lavori che mirano al bene mettevo l'arte medica.
E per Zeus dio dell'amicizia, o Callicle, non pensare che con me si debba scherzare, e non rispondere quello che ti
viene in mente, contro le tue opinioni, e, a tua volta, non prendere quello che io dico come se io scherzassi. Infatti, vedi
bene che stiamo ragionando di una questione, in confronto alla quale di che cosa ci si dovrebbe occupare con più serietà
anche da parte di un uomo di poco senno, se non di questa? è la questione di come si debba vivere, se nel modo al quale
tu mi inviti, vale a dire facendo le cose che ci si aspetta che un uomo faccia, cioè parlare nell'assemblea, coltivare la
retorica e occuparsi di politica nel modo in cui voi ora ve ne occupate, oppure facendo quella vita che si fonda sulla
filosofia, e in che cosa questo modo di vivere differisca da quello. Forse il metodo migliore consiste nel distinguerli,
come io avevo cominciato a fare poco fa, e dopo averli distinti e avere stabilito di comune accordo che esistono questi
due tipi di vita, ricercare in che cosa differiscano l'uno dall'altro e quale delle due vite debba essere vissuta. Ma forse
non capisci ancora che cosa intendo dire.
CALLICLE: No davvero.
SOCRATE: Te lo dirò più chiaramente. Dal momento che tu ed io abbiamo convenuto che esiste un bene, che esiste
un piacere, che il piacere è altra cosa dal bene, che per l'uno e per l'altro di questi due esiste una ricerca e un
procedimento per entrarne in possesso, vale a dire l'andare a caccia del piacere, e l'andare a caccia del bene... Ma,
innanzi tutto, conferma o smentisci questo.
Lo confermi?
CALLICLE: Così com'è, lo confermo.
SOCRATE: Su, allora, dammi la conferma anche delle cose che dissi a costoro, se ti è parso che allora dicessi il
vero. Dicevo, press'a poco, che non mi pare che la culinaria sia un'arte ma una pratica empirica, mentre la medicina è
un'arte, spiegando che l'una, la medicina, ha indagato la natura di colui che è oggetto delle sue cure e la causa delle cose
che fa, e quindi può rendere conto di ciascuna di queste; l'altra, invece, quella che mira al piacere, al quale ogni sua cura
è rivolta, tende ad esso senza arte alcuna, senza avere indagato la natura del piacere né la causa di questo, e in modo del
tutto irrazionale, senza aver calcolato per così dire nulla, e solamente conservando con la pratica e l'esperienza il ricordo
di ciò che di solito si verifica, e questo è il mezzo di cui si serve per procurare i piaceri. Innanzi tutto, dunque, considera
se ti pare che queste cose siano state dette bene, e se ti pare che anche riguardo all'anima ci siano altre pratiche simili a
queste, le une dotate dei requisiti dell'arte, che abbiano a cuore, cioè, ciò che è meglio per l'anima, le altre, invece, che
di questo non si curano, e che a loro volta considerano, come nel caso precedente, solo il piacere dell'anima, ossia in che
modo possa venire piacere all'anima, senza indagare quale dei piaceri sia meglio e quale sia peggio, e senza che per loro
importi altro che il solo procurare piacere, meglio o peggio che sia. A me, Callicle, pare che ce ne siano, e affermo che
una cosa di questo genere è lusinga, nei confronti del corpo, nei confronti dell'anima, o nei confronti di qualunque altra
cosa del cui piacere ci si curi senza considerare ciò che è meglio e ciò che è peggio. Ma su questi punti sottoscrivi la
nostra stessa opinione, o la vuoi contraddire?
CALLICLE: Io no, ma te la do vinta, perché il tuo ragionamento arrivi a una conclusione e per fare un piacere a
Gorgia.
SOCRATE: E questa lusinga opera su di un'anima sola, e non su due o molte anime?
CALLICLE: No, ma opera anche su due e su molte anime.
SOCRATE: Non è allora possibile procurare piacere anche a una moltitudine di anime nello stesso tempo, senza
considerazione per ciò che è meglio?
CALLICLE: Sì , almeno credo.
SOCRATE: Puoi dire, allora, quali sono le occupazioni che provocano quest'effetto? O piuttosto, se vuoi, facciamo
che sia io a interrogarti, e tu di' di sì a quella che ti sembra rientrare fra queste, e di' di no a quella che non ti sembra.
Innanzi tutto, esaminiamo l'arte di suonare il flauto. Non ti sembra, o Callicle, che essa sia tale da ricercare solo il
nostro piacere, e da non preoccuparsi di niente altro?
CALLICLE: Mi pare che sia così .
SOCRATE: E questo non vale forse anche per tutte le arti di questo genere, come ad esempio l'arte di suonare la
cetra che si esibisce nelle gare?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E che dire dell'istruzione dei cori e della poesia ditirambica?
Non ti sembrano rientrare in questo genere di arti? Oppure pensi che Cinesia figlio di Meleto (43) si preoccupasse di
dire qualcosa che rendesse migliori gli uomini del suo pubblico, e non, invece, che il suo intento fosse quello di
procurare piacere alla folla degli spettatori?
CALLICLE: è chiaro che si tratta di questo, o Socrate, almeno per quanto riguarda Cinesia.
SOCRATE: E che dire di suo padre Meleto? Ti sembra che cantasse accompagnandosi con la cetra, mirando al bene
supremo? O forse egli non mirava neppure al piacere supremo, visto che, quando cantava, era un tormento per gli
spettatori? Ma rifletti: non ti sembra che l'arte di cantare accompagnandosi con la cetra, considerata nel suo insieme, e la
poesia ditirambica siano state inventate in funzione del piacere?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E qual è il fine che sta a cuore a quest'arte sublime e meravigliosa che è la poesia tragica? Secondo te, il
suo sforzo e la sua premura sono solo quelli di procurare piacere al pubblico, o ti pare che essa si sforzi, quando accada
che una cosa sia piacevole e gradita ma malefica, di non dirla, e quando invece accada che una cosa sia spiacevole ma
utile, di dirla e di cantarla, sia che gli spettatori la gradiscano, sia che no? Quale di queste due attitudini ti sembra che
abbia la poesia tragica?
CALLICLE: Ma è chiaro che è questa, o Socrate, cioè che essa mira più al piacere e a fare cosa gradita al pubblico.
SOCRATE: E non dicevamo poco fa, o Callicle, che una cosa di questo genere è una lusinga?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ebbene, se dalla poesia considerata nella sua interezza si togliesse la musica, il ritmo e il metro, che
altro resterebbe se non le parole?
CALLICLE: Necessariamente.
SOCRATE: E non è a una numerosa folla e al popolo che questi discorsi sono rivolti?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Dunque, la poesia è una sorta di discorso al popolo.
CALLICLE: Pare.
SOCRATE: E un discorso al popolo non sarebbe retorico? Non ti pare che i poeti, nei teatri, usino la retorica nei
loro discorsi?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Ora, dunque, abbiamo trovato un genere di retorica che si rivolge ad un popolo tale da essere composto
ad un tempo di fanciulli, di donne, di uomini, di schiavi e di uomini liberi: un genere di retorica per la quale non
abbiamo affatto ammirazione, perché diciamo che essa è una lusinga.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E sia! Ma che cos'è per noi la retorica che si rivolge al popolo degli Ateniesi e agli altri popoli di
uomini liberi nelle altre città? Ti pare che i retori, ogni volta che parlano, guardino sempre a ciò che è meglio, mirando a
questo fine, ossia che i cittadini diventino quanto è possibile migliori grazie ai loro discorsi, o ti pare, invece, che anche
costoro, protesi a gratificare i cittadini e incuranti dell'interesse collettivo in favore del loro interesse privato, trattino i
popoli come fanciulli, cercando solo di compiacerli e non preoccupandosi affatto se questo li renderà migliori o
peggiori?
CALLICLE: Ancora una volta, la tua domanda non è tale da poterle rispondere in modo univoco: infatti, ci sono
alcuni che dicono le cose che dicono prendendosi a cuore il bene dei cittadini, e ci sono invece altri che sono come tu
dici.
SOCRATE: Basta così . Perché, se anche la retorica ha due aspetti, una parte di essa dovrebbe essere lusinga e
retorica di bassa lega, e l'altra, invece, dovrebbe essere bella e consistere nel darsi da fare perché le anime dei cittadini
diventino quanto è possibile migliori, e nello sforzarsi di dire le cose migliori, sia che queste riescano gradite, sia che
scontentino gli uditori. Ma tu non hai mai visto questa specie di retorica! E se puoi farmi il nome di un retore che sia
tale, perché non mi hai ancora detto chi sia?
CALLICLE: Ma, per Zeus, non posso farti il nome di nessuno, almeno non fra i retori nostri contemporanei.
SOCRATE: E fra quelli di un tempo, puoi farmi il nome di un retore, al quale gli Ateniesi riconoscano il merito di
aver fatto sì che essi divenissero migliori dopo che cominciò ad arringare il popolo, mentre prima erano peggiori?
Infatti, io non so chi sia costui!
CALLICLE: Che dici? Non senti dire che Temistocle (44) è stato un uomo buono, e così Cimone, Milziade, (45) e
questo Pericle (46) che è morto da poco e che anche tu hai avuto occasione di ascoltare?
SOCRATE: Sarebbe vero, o Callicle, se la virtù fosse quella che prima tu dicevi, vale a dire la facoltà di soddisfare i
desideri propri ed altrui. Ma se invece la virtù non consiste in questo, bensì in quello che nel ragionamento successivo
fummo costretti ad ammettere, vale a dire nella facoltà di soddisfare quei desideri che, una volta appagati, rendono
l'uomo migliore, e di non soddisfare quelli che lo rendono peggiore, e se è vero che questa facoltà potrebbe essere
un'arte, allora non ho modo di citare, fra i retori, un uomo che sia tale.
CALLICLE: Ma se cerchi bene, lo troverai.
SOCRATE: Ebbene, vediamo, allora, riflettendo con calma, se qualcuno di costoro sia stato tale. Dimmi: l'uomo
buono, che parla in funzione di ciò che è meglio, non è forse vero che non parlerà a caso, ma avendo di mira qualche
cosa? E così , del resto, anche tutti gli altri artefici mettono cose, ciascuno nella propria opera, scegliendole non a caso,
ma stando attenti che ciò che viene realizzato possa avere una forma che gli sia propria. Se vuoi, ad esempio, guarda i
pittori, gli architetti, i costruttori di navi e tutti gli altri artefici, o chiunque tu voglia di questi: ciascuno mette in un dato
ordine ogni cosa che mette, e costringe l'una ad adattarsi e ad armonizzarsi all'altra, finché il tutto non prenda
consistenza in qualcosa di organizzato e ordinato. E come gli altri artefici, così anche coloro dì cui si diceva poco fa,
quelli cioè che si occupano del corpo, maestri di ginnastica e medici, portano ordine nel corpo e lo rendono armonico.
Siamo d'accordo che le cose stanno così o no?
CALLICLE: E stiano pure così !
SOCRATE: E una casa che abbia ordine e armonia sarebbe allora buona, e quella che abbia disordine, invece,
cattiva?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: E non è forse lo stesso anche per una nave?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E potremmo dire lo stesso anche dei nostri corpi?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E che dire dell'anima? Sarà buona quando abbia disordine o quando abbia un certo ordine e una certa
armonia?
CALLICLE: Dal ragionamento precedente, è necessario ammettere anche questo.
SOCRATE: E quale nome viene dato a ciò che nel corpo è effetto dell'ordine e dell'armonia?
CALLICLE: Forse intendi dire "salute" e "forza".
SOCRATE: Sì . E quale nome viene dato, invece, a ciò che nell'anima è effetto dell'ordine e dell'armonia? Cerca di
trovare e di dire un nome, come hai fatto nel caso precedente.
CALLICLE: Perché non lo dici tu, o Socrate?
SOCRATE: Ebbene, se lo preferisci, lo dirò io. Ma tu, se ti pare che io parli bene, approvami; altrimenti, confutami
pure e non darmela per buona. A me pare che il nome per l'ordine del corpo sia "sano", e che da questo derivi la salute
nel corpo e ogni altra virtù fisica. E così o non è così ?
CALLICLE: E così .
SOCRATE: E mi pare, d'altro canto, che il nome per l'ordine e l'armonia dell'anima sia "legale" e "legge", e che da
qui derivino gli uomini che rispettano la legge e che conducono una vita ordinata.
Approvi o no?
CALLICLE: Sia pure.
SOCRATE: E quel retore, allora, che sia esperto e buono, avendo questo di mira, rivolgerà alle anime tutti i discorsi
che pronunci e tutte le sue azioni, e, se si troverà a fare qualche offerta, la farà, e, se si troverà a togliere qualche cosa, la
toglierà, tenendo la sua mente sempre rivolta a questo fine: che nelle anime dei suoi concittadini nasca la giustizia e se
ne vada l'ingiustizia, che la temperanza vi attecchisca e la dissolutezza se ne allontani, e che vi si sviluppi ogni altra
virtù e ogni altra malvagità si dilegui. Sei d'accordo o no?
CALLICLE: Sono d'accordo.
SOCRATE: Infatti, a che serve, o Callicle, dare ad un corpo malato e in cattive condizioni molti e gustosissimi cibi,
bevande o qualsiasi altra cosa, che non lo faranno stare più bene di prima, o che anzi, al contrario, lo faranno stare
anche peggio, com'è ragionevole supporre?
è così ?
CALLICLE: Sia pure.
SOCRATE: Infatti, io non credo che all'uomo convenga vivere con il corpo in cattive condizioni, poiché questo
vorrebbe dire, necessariamente, vivere malamente. O non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E i medici, nella maggior parte dei casi, non permettono forse a chi è sano di appagare i propri desideri,
come mangiare quanto si vuole quando si ha fame o bere quando si ha sete, mentre a chi è malato non permettono quasi
mai di saziarsi di ciò che desidera? Sei d'accordo anche tu su questo?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E a proposito dell'anima, o carissimo, non è lo stesso? Finché essa sia malvagia, essendo stolta,
dissoluta, ingiusta ed empia, bisogna tenerla alla larga dalla soddisfazione dei desideri e non lasciarle fare altre cose da
quelle che la rendano migliore. Approvi o no?
CALLICLE: Lo approvo.
SOCRATE: Forse perché così è meglio per l'anima stessa?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E il tenerla alla larga dalla soddisfazione dei desideri non equivale forse a castigarla?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Ma, allora, l'essere castigata è per l'anima meglio che l'essere lasciata alla sua sfrenatezza, come tu poco
fa pensavi.
CALLICLE: Non so che dici, Socrate. Interroga pure un altro!
SOCRATE: Quest'uomo non sopporta che gli si faccia del bene, e di subire ciò di cui si sta parlando, vale a dire di
essere castigato.
CALLICLE: Non m'importa nulla delle cose che dici, e ti ho dato queste risposte solo per fare un piacere a Gorgia.
SOCRATE: E sia! Che cosa dovremo fare, allora? Vuoi che lasciamo il ragionamento a metà?
CALLICLE: Dovresti saperlo tu!
SOCRATE: Dicono, però, che non sia lecito lasciare a metà neppure i miti, ma solo dopo aver dato loro una testa,
perché non vadano in giro senza testa. Rispondi dunque anche a ciò che rimane, perché il nostro ragionamento possa
avere una testa.(47) CALLICLE: Quanto sei prepotente, o Socrate! Ma, se vuoi darmi retta, lascia perdere questo
ragionamento, o dovrai trovarti qualcun altro con cui discutere!
SOCRATE: Chi altri si offre, dunque? Non lasciamo che il ragionamento resti incompiuto!
CALLICLE: Ma non potresti svolgere da solo il tuo ragionamento, parlando da solo o rispondendo a te stesso?
SOCRATE: Certo! Perché mi accada quello che dice Epicarmo, vale a dire, ciò che prima in due uomini dicevano,
(48) essere capace di dirlo da solo!
Eppure, qui si rischia di dover fare proprio così . Anche se faremo così , però, io credo che noi tutti dovremo fare a
gara per sapere che cosa sia il vero e che cosa sia il falso circa le cose dì cui parliamo: sarà un bene per tutti, infatti, che
questo sia chiarito. Sarò io, dunque, a spiegare come mi pare che stiano le cose. Ma se a qualcuno di voi sembrerà che
io convenga con me stesso cose che in realtà non sono, biso~nerà che costui mi interrompa e mi confuti. Infatti, neppure
io dico le cose che dico avendone già conoscenza, ma le cerco insieme a voi, sicché, se il mio avversario risulterà dire
qualcosa di vero, io sarò il primo ad ammetterlo. Ma io dico questo, nel caso in cui si decida che il ragionamento deve
essere concluso. Se invece non volete, lasciamo stare e andiamocene.
GORGIA: Ma a me non pare, Socrate, che sia il caso di andarsene; piuttosto, mi pare il caso che tu svolga fino in
fondo il tuo ragionamento, e mi pare che anche gli altri siano di quest'opinione.
Infatti, anch'io voglio sentirti esporre, da solo, ciò che rimane.
SOCRATE: Ma, o Gorgia, ben volentieri avrei continuato a discutere con il nostro Callicle, almeno finche non gli
avessi restituito la parola di Anfione, in cambio di quella di Zeto! (49) Ma dal momento che tu, o Callicle, non vuoi
concludere insieme a me il ragionamento, allora ascoltami, almeno, e fa' obiezione quando ti sembri che io non parli
bene. E se tu mi confuterai, io non me la prenderò con te, come tu hai fatto con me, ma ti registrerò come mio sommo
benefattore.
CALLICLE: Parla da solo, amico mio, e concludi.
SOCRATE: Ebbene, ascoltami, allora, riepilogare il ragionamento dall'inizio. «Il piacere e il bene sono forse la
stessa cosa?» «Non sono la stessa cosa, come io e Callicle abbiamo ammesso di comune accordo».
«E bisogna fare ciò che è piacevole in vista di ciò che è bene, o ciò che è bene in vista di ciò che è piacevole?» «Il
piacere in vista del bene».
«E piacevole è ciò che, quando sopraggiunge, noi godiamo, mentre bene è ciò che, quand'è presente, noi siamo
buoni?» «Certamente».
«Ma è grazie alla presenza di una certa virtù che siamo buoni, noi e tutte le altre cose che sono buone?» «A me pare
che sia necessario, o Callicle!».
«Ma la virtù di ogni singola cosa, di un attrezzo, di un corpo, di un'anima e di ogni animale, certamente non arriva a
caso, bensì in virtù di un ordine, di una precisione e di un'arte, che a ciascuno di questi è stata assegnata. Non è così ?»
«Infatti, affermo che è così ». «E la virtù di ogni singola cosa, allora, consiste nell'essere disposta con ordine e
armonia?» «Direi di sì ».
«Allora, è un certo ordine, presente in ciascuna cosa e particolare di ciascuna cosa, a rendere buona ciascuna delle
cose che sono?» «Almeno mi pare». «E un'anima che abbia un ordine suo particolare è allora migliore dell'anima
disordinata?» «Necessariamente».
«Ma l'anima che abbia ordine è ordinata?» «E come potrebbe non esserlo?» «E l'anima ordinata è temperante?» «è
davvero necessario».
«Allora l'anima temperante e buona».
Io non ho nulla da obiettare contro queste affermazioni, caro Callicle.
Ma se tu hai qualche obiezione, ammaestraci pure.
CALLICLE: Di' pure, carissimo!
SOCRATE: Ebbene, allora dico che, «se l'anima temperante è buona, quella che si trova nella condizione opposta
alla temperante è cattiva. E questa era l'anima dissennata e dissoluta». «Certo». «E l'uomo temperante non dovrebbe
fare, allora, ciò che conviene, nei confronti degli dèi e nei confronti degli uomini, perché, se non facesse ciò che
conviene, non sarebbe temperante?» «è necessario che sia così ». «E facendo ciò che conviene nei confronti degli
uomini, dovrebbe fare cose giuste, mentre, facendo ciò che conviene nei confronti degli dèi, dovrebbe fare cose sante. E
colui che fa cose giuste e sante è necessariamente, a sua volta, giusto e santo». «è così ». «Ed è necessariamente anche
coraggioso.
Infatti, di certo non è caratteristica dell'uomo temperante né ricercare né fuggire ciò che non conviene ricercare o
fuggire, bensì fuggire e ricercare ciò che si deve fuggire e ricercare, cose, uomini, piaceri e dolori, e, sopportando,
resistere quando bisogna. Sicché è veramente necessario, Callicle, che l'uomo temperante, come ho spiegato, essendo
giusto, coraggioso e santo, sia uomo perfettamente buono, che l'uomo buono, poi, faccia bene e in bel modo le cose che
fa, e che chi agisce bene sia beato e felice, mentre chi è malvagio e agisce in malo modo sia infelice. E costui sarebbe
colui che si trova nella condizione opposta al temperante, vale a dire il dissoluto che tu elogiavi».
è così che io stabilisco queste cose, e sostengo che queste sono vere. E se sono vere, chi vuole essere felice deve, a
quanto pare, ricercare e coltivare la temperanza, fuggire la dissolutezza con quanta forza ha nelle gambe, e, soprattutto,
deve fare in modo di non avere alcun bisogno di essere castigato; se poi si trovi ad averne bisogno, o lui o qualcun altro
dei suoi familiari, o un privato cittadino o una città, gli si deve imporre una pena e deve essere castigato, se si vuole che
sia felice. Questo mi pare che sia il fine in vista del quale si deve vivere, tendendo tutte le proprie forze e quelle della
città a questo scopo: che vi siano giustizia e temperanza in colui che vuole essere felice. E mi pare che così si debba
agire, non lasciando che i propri desideri siano sfrenati e cercando poi di soddisfarli, il che sarebbe male senza fine,
vivendo una vita da ladrone. Infatti, un tipo del genere non potrebbe essere amico né a un altro uomo né a un dio,
perché è incapace di condividere, e non può esserci amicizia per chi non sa condividere con alcuno. E i sapienti (50)
dicono, Callicle, che a tenere insieme cielo, terra, dèi e uomini sono la comunanza, l'amicizia, l'ordine, la temperanza e
la giustizia; e proprio per questo, amico mio, essi danno a questo insieme il nome di "cosmo", ordine, e non quello di
"disordine" né quello di "dissolutezza".
Ma mi pare che tu non presti attenzione a queste cose, e questo benché tu sia sapiente, e non ti sei accorto che
l'uguaglianza geometrica (51) ha grande potere fra gli dèi e fra gli uomini, e pensi invece che si debba coltivare
l'eccesso: infatti tu trascuri la geometria. E sia! Ora, o dobbiamo confutare questo ragionamento, dimostrando che non è
per il fatto di possedere giustizia e temperanza che sono felici coloro che sono felici, e che, d'altra parte, gli infelici non
sono infelici per la malvagità che essi possiedono, oppure, se questo ragionamento è veritiero, bisogna considerare quali
conseguenze ne derivino. Ne derivano tutte le conseguenze di cui si diceva prima, o Callicle, quelle a proposito delle
quali mi chiedevi se io parlassi sul serio, quando sostenevo che bisogna accusare se stessi, il figlio e l'amico, qualora si
commetta qualche ingiustizia, e che della retorica bisogna servirsi per questo scopo. E le cose che tu pensavi che Polo
ammettesse solo per pudore, erano dunque vere, vale a dire che commettere ingiustizia è tanto peggio che subirla,
quanto è più brutto; e che colui che ha intenzione di diventare un retore come si deve, deve essere giusto e intenditore
del giusto, cosa che Gorgia, secondo Polo, a sua volta ammise solo per pudore.
E visto che le cose stanno così , esaminiamo che cos'è ciò di cui tu mi rimproveri, se hai ragione o no a dire che io
non sono capace di aiutare me stesso, né alcuno di coloro che mi stanno a cuore e dei familiari, né di salvare alcuno dai
più gravi pericoli, e che sono invece in balia di chiunque, come chi è privo di diritti civili, sia che voglia prendermi a
schiaffi, per usare quella tua espressione un po' forte, sia che voglia spogliarmi dei miei averi, sia che voglia cacciarmi
dalla città, sia che, in ultimo, voglia uccidermi; e trovarsi in tali condizioni, secondo il tuo ragionamento, sarebbe fra
tutte la cosa più brutta. Quale sia, invece, il mio ragionamento, è già stato detto più di una volta, ma nulla impedisce di
dirlo ancora una volta. Io sostengo, o Callicle, che la cosa più brutta non è l'essere preso a schiaffi ingiustamente, né il
subire un torto sulla propria persona o il vedersi portare via la borsa, ma che è cosa più brutta e peggiore il prendere a
schiaffi ingiustamente e il fare torti a me e alle mie cose; e, insieme, sostengo che rubare, ridurre in schiavitù,
scassinare, e, per farla breve, commettere qualsiasi ingiustizia contro me e contro le mie cose è cosa più brutta e
peggiore per chi la commette che per me che ne sono vittima. Questi concetti, che là sopra, nel precedente
ragionamento, ci sono risultati nel modo che dico io, sono tenuti e legati, anche se è un poco rozza l'espressione, con
argomenti di ferro e di acciaio, o almeno così sembrerebbero; e, se tu non scioglierai o un altro più ardito di te non
scioglierà questi argomenti, non si potrà dire bene dicendo diversamente da come dico ora io. Per me, infatti, vale
sempre lo stesso discorso, vale a dire che io non so come stiano queste cose, e che tuttavia, fra la gente in cui mi sono
imbattuto, come del resto accade anche ora, nessuno è in grado di dire diversamente senza rendersi ridicolo.
Io, dunque, stabilisco che queste cose stanno così . E se è vero che le cose stanno così , e che il più grande dei mali è
l'ingiustizia per chi la commette, e che male ancora più grande, se è possibile, di questo, che pure è già il male
maggiore, è che chi commette ingiustizia non paghi per la sua colpa, qual è, allora, l'aiuto che, quando un uomo non è
capace di recarlo a se stesso, costui si renderebbe realmente ridicolo? Non si tratta, forse, di quell'aiuto che allontanerà
da noi il danno più grande? Ma è proprio necessario che sia questo il genere di aiuto che è più brutto non poter recare né
a se stesso né ai propri amici e familiari, e che, poi, la seconda cosa brutta sia l'incapacità di salvare dal secondo dei
mali, che terza cosa brutta sia l'incapacità di salvare dal terzo dei mali, e così via: è proporzionata alla naturale
grandezza di ciascun male la bellezza del poter recare aiuto contro di esso e l'infamia del non poterlo fare. Le cose
stanno forse in modo diverso da questo, o Callicle?
CALLICLE: Non stanno diversamente.
SOCRATE: Dunque, fra questi due mali, commettere e subire ingiustizia, affermiamo che commettere ingiustizia è
male maggiore, e che subire ingiustizia è, invece, male minore. E allora, cosa dovrebbe procurarsi l'uomo per poter
soccorrere se stesso, in modo da ottenere entrambi questi benefici: quello che deriva dal non commettere ingiustizia e
quello che deriva dal non subirla?
Quale delle due, forza o volontà? In quale dei due casi riuscirà a non subire ingiustizia: se non vorrà esserne vittima,
o se si sarà procurato la forza necessaria per non caderne vittima?
CALLICLE: è chiaro che di questo si tratta: qualora abbia forza!
SOCRATE: E che dire riguardo al commettere ingiustizia? Perché uno non commetta ingiustizia, basterà che non
voglia commetterla, oppure occorrerà, anche per questo scopo, che si sia procurato una certa forza e una certa arte, dato
che, qualora non impari e non coltivi queste, finirà per commettere ingiustizia?
Perché non rispondi a questa domanda, Callicle, dicendo se ti pare o meno che io e Polo siamo stati costretti, nei
precedenti ragionamenti, ad una giusta ammissione, quando abbiamo ammesso che nessuno commette ingiustizia
deliberatamente, e che quanti la commettono lo fanno tutti involontariamente?
CALLICLE: E sia pure così , o Socrate, purché tu concluda il tuo ragionamento!
SOCRATE: Allora, anche per questo scopo, a quanto pare, vale a dire per non commettere ingiustizia, occorre
procurarsi una certa forza e un'arte.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E qual è, dunque, l'arte che fa sì che non si subisca ingiustizia alcuna, o che se ne subisca il meno
possibile? Rifletti se non ti pare che si tratti di quell'arte che pare a me. A me, infatti, pare che sia questa: uno deve
comandare o essere tiranno nella propria città, o parteggiare per il governo che si trova al potere.
CALLICLE: Vedi, Socrate, che io sono pronto a lodarti, se dici bene qualcosa? Questo mi pare che tu l'abbia detto
davvero bene!
SOCRATE: Considera, allora, se ti pare che io dica bene anche quest'altro.
A me pare che ogni uomo sia amico di un altro uomo, come anche gli antichi sapienti dicono, (52) soprattutto
quando l'uno sia simile all'altro. Non pare anche a te?
CALLICLE: Mi pare di sì .
SOCRATE: Dunque, quando al potere vi sia un tiranno rozzo e senza educazione, se in città ci fosse uno migliore di
lui, non accadrebbe forse che il tiranno avrebbe timore di costui e non potrebbe mai essergli amico di tutto cuore?
CALLICLE: è così .
SOCRATE: E se ci fosse uno molto inferiore rispetto a lui, neppure a uno così egli potrebbe essere amico. Infatti il
tiranno lo disprezzerebbe e non lo prenderebbe mai in seria considerazione come amico.
CALLICLE: Anche questo è vero.
SOCRATE: Resta, allora, come unico amico degno di considerazione per un uomo del genere, colui che, pur avendo
la sua stessa indole e disprezzando e apprezzando le medesime cose, sia disposto a lasciarsi comandare e a sottomettersi
a chi comanda. Costui avrà grande potere in quella città, e nessuno gli farà ingiustizia impunemente.
Non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Se, allora, in questa città, uno dei giovani facesse questa considerazione: «In che modo potrei avere
grande potere e nessuno mi potrebbe fare ingiustizia?», questa, a quanto pare, è la strada che fa per lui: abituarsi subito,
fin da giovane, a provare gusto e sdegno per le stesse cose per cui prova gusto e sdegno colui che comanda, e fare in
modo di assomigliargli il più possibile.
Non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Con questo mezzo, dunque, in base al vostro ragionamento, otterrà di non subire ingiustizia e di avere
grande potere nella città.
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Forse otterrà anche di non commettere ingiustizia? O sarà ben lungi da questo, se assomiglierà a colui
che comanda, il quale è ingiusto, e avrà grande potere presso costui? Io credo, invece, che, al contrario, in questo modo
egli avrà i mezzi per poter commettere il maggior numero di ingiustizie, e, commettendole, di non pagare per le sue
colpe. O no?
CALLICLE: Pare.
SOCRATE: Da questo, dunque, egli avrà il male più grande, vale a dire quello di essere malvagio e corrotto
nell'anima, a causa dell'imitazione di chi comanda e del potere così ottenuto.
CALLICLE: Non so come fai a girare ogni volta in su e in giù i ragionamenti, o Socrate. O forse non sai che costui
che imita chi comanda ucciderà, se vorrà, colui che non lo imita, e lo spoglierà dei suoi averi.
SOCRATE: Lo so, o carissimo Callicle, se è vero che non sono sordo, anche per averlo sentito poco fa da te e da
Polo più di una volta, e da quasi tutti gli altri abitanti di questa città. Ma anche tu ascoltami, perché ti dico che, se vorrà,
lo ucciderà, ma si tratterà di un uomo malvagio che uccide un uomo per bene.
CALLICLE: E non sarà forse anche questo intollerabile?
SOCRATE: Non per chi ha senno, almeno, come il nostro ragionamento lascia intendere, O pensi che l'uomo debba
provvedere a questo, a vivere, cioè, il più a lungo possibile e a praticare quelle arti che in ogni circostanza ci salvano dai
pericoli, come, ad esempio, quell'arte che tu mi inviti a praticare, vale a dire la retorica, che ci salva nei tribunali?
CALLICLE: Sì , per Zeus, e un buon consiglio ti do!
SOCRATE: E allora, o carissimo? Ti pare forse che anche il saper nuotare sia un sapere degno di tutto rispetto?
CALLICLE: No, per Zeus, almeno non a me!
SOCRATE: Eppure anche quest'arte salva gli uomini dalla morte, quando s'imbattano in quelle circostanze in cui c'è
bisogno di quest'arte. Ma se quest'arte ti pare che sia di poco conto, te ne nominerò un'altra più importante di questa,
ossia l'arte del pilota, la quale salva non solo le anime, ma anche i corpi e gli averi dagli estremi pericoli, proprio come
fa la retorica. Eppure è pudica e modesta, e non si vanta atteggiandosi come se compisse imprese straordinarie, ma, pur
ottenendo gli stessi risultati della giurisprudenza, se portasse qualcuno in salvo da Egina (53) fin qui, gli farebbe pagare,
credo, due oboli; se, invece, dall'Egitto o dal Ponto, (54) o da molto più lontano, in cambio di questo grande beneficio,
dopo aver tratto in salvo, come prima dicevo, lui e i suoi figli e i suoi averi e le sue donne, dopo averli sbarcati nel
porto, si farebbe pagare due dracme. (55) E colui che possiede quest'arte e che ha fatto ciò, sceso a terra, passeggia
lungo il mare, accanto alla sua nave, tenendo un contegno modesto. Penso, infatti, che egli sappia riflettere che non è
chiaro a quali passeggeri egli abbia fatto del bene, non lasciando che finissero in mare, e quali invece abbia
danneggiato, sapendo di non averli sbarcati in nulla migliori di com'erano quando s'imbarcarono, né nel corpo né
nell'anima. E allora riflette che, se uno, che era afflitto nel corpo da gravi e incurabili malattie, non è annegato, per
costui il non essere morto è stata una sciagura, e non ha ricevuto da lui alcun beneficio. E se poi uno ha molte e
incurabili malattie in ciò che è più prezioso del corpo, ossia l'anima, egli riflette che per costui non vale la pena vivere e
che non gli si farà del bene, sia che lo si salvi dal mare, dal tribunale o da qualsiasi altro frangente; e sa che per l'uomo
malvagio non è meglio vivere, perché vive necessariamente male.
Per questo non è costume che il pilota si vanti, benché ci salvi, e neppure che si vanti il costruttore di macchine da
guerra, che pure, in certe circostanze, è in grado di salvare non meno dello stratega, per non dire del pilota di nave, o di
chiunque altro: ci sono casi in cui egli salva intere città. Non ti pare che regga il confronto con l'avvocato? Eppure, se
volesse parlare, Callicle, come fate voi, vantando la sua professione, potrebbe seppellirci con le sue argomentazioni,
sostenendo che si deve diventare costruttori di macchine da guerra e invitandoci a diventarlo, dicendo che il resto non
vale nulla. Nondimeno, tu disprezzi lui e la sua arte, e come per scherno lo chiameresti "costruttore di macchine da
guerra", e a suo figlio non vorresti dare tua figlia in sposa, né vorresti che tuo figlio prendesse in sposa la figlia di lui.
Eppure, considerando le ragioni che porti per lodare la tua professione, con che diritto disprezzi il costruttore di
macchine da guerra e gli altri di cui poco fa parlavo? So bene che puoi rispondere che sei migliore e discendi da
migliori progenitori.
Ma se il meglio non consiste in ciò che io dico, e se la virtù consiste invece proprio in questo, cioè nel salvare se
stessi e le proprie cose, a prescindere da che sorta di persona uno sia, allora diventa ridicolo il tuo disprezzo per il
costruttore di macchine da guerra, per il medico e per tutte le altre arti che sono state create allo scopo di salvarci. Ma, o
beato, bada che la nobiltà e il bene non siano altra cosa che il salvare e l'essere salvati. E sta' attento che chi è uomo per
davvero deve abbandonare la considerazione di vivere per un tempo più o meno lungo e non deve essere attaccato alla
vita, ma circa queste questioni deve mettersi nelle mani del dio e prestare fede alle donne, quando dicono che nessuno
può sfuggire al proprio destino; (56) e la sua considerazione successiva dev'essere come possa vivere nel migliore dei
modi quel tempo che egli è destinato a vivere: se, cioè, il modo migliore sia quello di conformarsi al governo della città
in cui abita, nel qual caso devi cercare di assomigliare il più possibile al popolo di Atene, se vuoi essergli amico e avere
grande potere in città. Considera se questo giova a te e a me, perché non ci capiti quello che, si dice, capita alle maghe
della Tessaglia che hanno il potere di far scendere la luna, (57) di pagare cioè con quanto abbiamo di più caro la scelta
di questo potere nella città. Ma se pensi che qualcuno ti trasmetterà un'arte tale da far sì che tu abbia grande potere in
questa città pur restando differente dalla sua forma di governo, sia in meglio sia in peggio, allora, secondo me, Callicle,
non pensi bene. Infatti, non basta che tu imiti costoro: devi essere per natura simile a costoro, se vuoi stringere una
sincera amicizia col popolo di Atene e, per Zeus, con Demo figlio di Pirilampo, per giunta! Dunque, chi ti renderà più
degli altri simile a costoro, costui farà di te, visto che desideri essere un politico, proprio un politico e un retore.
Ognuno, infatti, prova piacere a sentir fare discorsi consoni alla propria indole, e si sdegna, invece, a sentir fare discorsi
estranei ad essa. A meno che tu non abbia da dire una cosa diversa, amico caro. Abbiamo qualcosa da obiettare contro
queste affermazioni, Callicle?
CALLICLE: Non so come, ma mi sembra che tu dica bene, o Socrate, e tuttavia provo lo stesso sentimento della
maggior parte della gente: nqn sono del tutto persuaso di quello che dici!
SOCRATE: è l'amore per il popolo, o Callicle, che risiede nella tua anima, a farmi opposizione. Ma se
esaminassimo meglio, più di una volta, queste stesse cose, finiresti per persuadertene.
Cerca, dunque, di ricordare come dicevamo che esistono due mezzi per curare l'uno e l'altra, ossia il corpo e l'anima,
e che uno si occupa di essi mirando al loro piacere, mentre l'altro se ne occupa mirando a ciò che è meglio per essi, non
assecondando i loro desideri ma contrastandolì . Non erano queste le cose che allora definimmo?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: L'uno, dunque, quello che mira al piacere, è ignobile e accade che non sia altro che lusinga. Non è così ?
CALLICLE: E sia pure così , se vuoi.
SOCRATE: E l'altra, invece, mira allo scopo che la cosa che noi curiamo, si tratti del corpo o dell'anima, diventi
quanto è possibile migliore?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E se è così , non dovremo cercare di prenderci cura della città e dei cittadini, con l'intenzione di rendere
i cittadini quanto è possibile migliori? Senza questo, infatti, come abbiamo scoperto nei precedenti ragionamenti, non è
di alcuna utilità recare altri benefici, se non è buona e onesta l'intenzione dì coloro che stanno per mettere le mani su
grandi ricchezze, sul comando di certe cose o su qualsiasi altra forma di potere. Possiamo affermare che le cose stanno
così ?
CALLICLE: Certamente, se lo preferisci!
SOCRATE: Ebbene, se noi ci incoraggiassimo l'un l'altro, o Callicle, ad eseguire, per conto della città, la
costruzione di opere pubbliche, vale a dire le grandi costruzioni di mura, di arsenali o di templi, non dovremmo prima
esaminare noi stessi e verificare se conosciamo o no l'arte del costruire e da chi l'abbiamo imparata? Dovremmo farlo o
no?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E la seconda cosa che dovremmo considerare non sarebbe allora questa: se abbiamo mai costruito un
edificio privato, o per qualche amico o per noi stessi, e se questo edificio sia bello o brutto? E se, facendo questa
considerazione, scoprissimo che i nostri maestri furono bravi e stimati, e che molti e begli edifici furono costruiti da noi
insieme ai nostri maestri, e che molti furono anche quelli costruiti da noi, quando ci eravamo già staccati dai nostri
maestri, allora, a queste condizioni, sarebbe da uomini assennati dedicarsi alle opere pubbliche. Se, invece, non
avessimo alcun maestro da citare e nessuna costruzione, oppure molte ma di nessun pregio, allora, se le cose stessero
così , sarebbe certamente impresa dissennata dedicarsi alle opere pubbliche e incoraggiarci l'un l'altro a farlo. Possiamo
dire che queste cose sono dette a ragione o no?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E non è forse così in tutti i casi? Per quanto riguarda le altre professioni, se, ad esempio, avendo
intenzione di esercitare la pubblica professione di medici, ci incoragiassimo l'un l'altro pensando di essere medici
capaci, senza dubbio faremmo, io su di te e tu su di me, questa considerazione: «Suvvia, per gli dèi, come sta Socrate
stesso di salute, nel corpo? C'è forse qualcuno, schiavo o libero, che sia già guarito da malattia per mano di Socrate?».
E penso che anch'io farei su di te altre considerazioni di questo genere. E se non trovassimo nessuno che grazie a noi
fosse migliorato nel corpo, né fra i forestieri né fra i nostri concittadini, né uomo né donna, per Zeus, o Callicle, non
sarebbe allora ridicolo che noi uomini arrivassimo a un punto tale di stoltezza che, prima di aver molte volte esercitato
la professione in privato come ci capitava, prima di essere riusciti bene in molte occasioni e di aver fatto sufficiente
esercizio nell'arte, ci mettessimo, come dice il proverbio, ad imparare l'arte del vasaio cominciando dall'orcio, (58) e ci
mettessimo a esercitare pubblicamente la professione di medici e a incoraggiare altri come noi a farlo?
Non ti pare che sia stolto agire così ?
CALLICLE: Mi pare che lo sia.
SOCRATE: E ora, carissimo uomo, dato che tu stesso hai cominciato da poco ad occuparti degli affari della città, e
incoraggi anche me e mi rimproveri perché non me ne occupo, non faremo, l'uno sull'altro, questa considerazione:
«Suvvia, Callicle ha già reso migliore qualche cittadino? C'è qualcuno che, mentre prima era malvagio, ingiusto,
dissoluto e stolto, grazie a Callicle sia diventato un uomo per bene, forestiero o cittadino, schiavo o uomo libero che
fosse?»? Dimmi, Callicle, se qualcuno ti facesse queste domande, che cosa risponderesti? Chi dirai di aver reso migliore
con la tua compagnia? Esiti forse a rispondere, se esiste qualche tua opera di quando esercitavi la professione ancora in
privato, prima che ti mettessi a esercitarla pubblicamente?
CALLICLE: Sei un attaccabrighe, o Socrate.
SOCRATE: Non è per amore di contesa che ti interrogo, ma perché voglio veramente sapere in quale modo pensi
che ci si debba occupare di politica nella nostra città. O ti preoccuperai, una volta ottenuto l'accesso agli affari della
città, dì qualche altra cosa, nel nostro interesse, che non sia il modo in cui noi cittadini possiamo essere quanto è
possibile migliori? O non abbiamo ormai più di una volta ammesso che di questo si deve occupare l'uomo politico? Lo
abbiamo ammesso o no? Rispondi! Lo abbiamo ammesso, risponderò io al posto tuo. Se, dunque, è questo ciò a cui
l'uomo buono deve provvedere nell'interesse della propria città, allora, adesso, cerca di ricordare e dimmi, a proposito di
quegli uomini di cui parlavi poco fa, se ti pare ancora che siano stati buoni cittadini; mi riferisco a Pericle, Cimone,
Milziade e Temistocle.
CALLICLE: A me pare di sì !
SOCRATE: Allora, se è vero che sono stati buoni, è chiaro che ciascuno di loro rese migliori i cittadini, da peggiori
che erano. Li rese o non li rese migliori?
CALLICLE: Sì .
5OCRATE Dunque, quando Pericle cominciò a parlare dinanzi al popolo, gli Ateniesi erano peggiori di quando egli
pronunciò i suoi ultimi discorsi?
CALLICLE: Forse.
SOCRATE: Non "forse", o carissimo, ma "necessariamente", in base a quanto abbiamo concordemente ammesso,
almeno se davvero egli fu un buon cittadino!
CALLICLE: E allora?
SOCRATE: Nulla. Ma rispondi, oltre a quella domanda, a quest'altra: se si dice che gli Ateniesi siano diventati
migliori grazie a Pericle, o se, al contrario, si dice che siano stati da lui corrotti. In effetti, quello che io sento dire è
questo: che Pericle rese gli Ateniesi oziosi, vili, chiacchieroni e avidi, avendo per primo istituito uno stipendio per i
pubblici incarichi.
CALLICLE: Questo è quello che senti dire, o Socrate, da quelli che hanno le orecchie rotte! (59) SOCRATE:
Queste altre, invece, non le ho ancora sentite dire, ma le so con chiarezza, e anche tu le sai: che, all'inizio, Pericle
godeva di una buona reputazione, e che gli Ateniesi non emisero contro di lui nessuna condanna per alcun turpe
crimine, quando erano peggiori; ma dopo essere diventati gente per bene sotto la sua influenza, verso la fine della vita
di Pericle, lo condannarono per furto, e poco mancò che non lo condannassero a morte, evidentemente nella
convinzione che egli fosse malvagio.
CALLICLE: E allora? Per questa ragione Pericle fu un malvagio?
SOCRATE: Ebbene, anche un allevatore di asini, di cavalli e di buoi, che fosse tale quale Pericle fu, avrebbe la fama
di essere un cattivo allevatore, se, avendoli presi che non calcitravano, non davano di corna e non mordevano, li avesse
resi così selvatici da fare tutte queste cose. O non ti pare che sia un cattivo allevatore, chiunque egli sia e qualunque
animale egli allevi, colui che, dopo averli presi più docili, li restituisca più selvatici di com'erano quando li prese con
sé? Ti pare o no?
CALLICLE: Certamente; lo dico per farti un piacere!
SOCRATE: Allora, fammi il piacere di rispondere a quest'altra domanda: è anche l'uomo un animale, oppure no?
CALLICLE: E come no?
SOCRATE: E Pericle non si prendeva forse cura di uomini?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E allora? Non avrebbero dovuto questi uomini, come abbiamo convenuto poco fa, diventare, sotto la
sue cure, più giusti, da più ingiusti che erano, se davvero egli si fosse preso cura di loro da buon politico?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ma coloro che sono giusti, sono docili, come dice Omero. (60) E tu che dici? Non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Eppure, egli li rese più selvatici di com'erano quando li prese sotto le sue cure, e, questo, contro se
stesso, che era l'ultima cosa che avrebbe voluto!
CALLICLE: Vuoi che mi dica d'accordo con te?
SOCRATE: Solo se ti pare che io dica il vero.
CALLICLE: Allora, sia pure così !
SOCRATE: E se davvero li rese più selvatici, non li rese forse più ingiusti e peggiori?
CALLICLE: E sia.
SOCRATE: Allora, Pericle non fu un buon politico, secondo questo ragionamento.
CALLICLE: Che non lo fosse lo dici tu!
SOCRATE: Ma, per Zeus, anche tu lo dici, secondo quanto hai ammesso!
Ma torna a parlarmi dì Cimone: non lo ostracizzarono coloro di cui egli si prendeva cura, (61) per non sentire più,
per dieci anni, la sua voce? E non fecero lo stesso con Temistocle, (62) e non lo punirono con l'esilio? E Milziade, (63)
poi, l'eroe di Maratona, non decretarono di gettarlo nel baratro, e, se non fosse stato per il pritano, (64) non ve
l'avrebbero gettato? Eppure costoro, se, come tu sostieni, fossero stati uomini buoni, non sarebbero mai stati trattati
così ! E non accade che i buoni cocchieri all'inizio non cadano dal carro, e poi, invece, dopo aver addestrato i cavalli ed
esser diventati essi stessi cocchieri più abili, allora cadano!
Questo non accade né nell'arte di condurre carri né in nessun altra professione. O ti pare di sì ?
CALLICLE: Non mi pare.
SOCRATE: Allora, a quanto pare, erano veri i ragionamenti di prima, vale a dire che noi non conosciamo nessun
uomo che sia stato buon politico in questa città. Tu ammettevi di non conoscerne nessuno fra gli uomini del nostro
tempo, ma sostenevi di conoscerne fra gli uomini del passato, e citavi questi uomini. Ma costoro si rivelarono essere
nelle stesse condizioni di quelli di adesso; sicché, se costoro furono retori, non si servirono della retorica sincera, perché
in tal caso non sarebbero caduti in disgrazia, né della retorica lusingatrice.
CALLICLE: Eppure, Socrate, ce ne vuole a che uno dei politici di adesso compia opere quali realizzò uno qualsiasi
di questi!
SOCRATE: Ma carissimo, neppure io biasimo costoro perché sono stati servitori della città, e mi sembra, anzi, che
siano stati servitori più devoti di quelli di adesso e più capaci di procurare alla città ciò che essa desiderava. Ma, quanto
a far mutare i desideri e a non assecondarli, persuadendo e costringendo con la forza a fare ciò da cui i cittadini
sarebbero usciti migliori, ebbene, quanto a questo, quelli non differiscono per così dire in nulla da questi. E solo in
questo consiste l'opera del buon politico.
Quanto, poi, a procurare navi, mura, arsenali e molte altre cose di questo genere, anch'io concordo con te che quelli
fossero più capaci di questi. Io e te, dunque, facciamo una cosa ridicola nei nostri discorsi: per tutto il tempo che stiamo
a dialogare, non smettiamo mai di girare intorno allo stesso punto, ignorando, l'uno dell'altro, il senso di quello che
diciamo! Ebbene, io credo che tu abbia più volte ammesso e riconosciuto che esistono due pratiche, sia riguardo al
corpo sia riguardo all'anima, e che una di queste è servile, e grazie ad essa è possibile procurare cibi quando il corpo
abbia fame, bevande quando abbia se e vesti coperte e scarpe quando abbia freddo, e altre cose che il corpo venga a
desiderare. E apposta ti parlo usando le stesse immagini, perché tu possa capirmi più facilmente. Infatti, uno che sia
capace di procurare queste cose, per essere bottegaio o mercante, o che sia produttore di qualcuna di queste cose,
essendo panettiere, cuoco, tessitore, calzolaio, o conciapelli, non c'è da stupirsi che, essendo tale, egli consideri se
stesso, e che gli altri considerino lui, come uno che cura il corpo; a considerarlo tale, almeno, sarà chiunque non sappia
che, oltre a tutte queste arti, esistono le arti della medicina e della ginnastica, le quali costituiscono la vera cura del
corpo e alle quali spetta il comandare su tutte queste arti e il servirsi delle loro opere, per il fatto che esse sanno, dei cibi
e delle bevande, quale è buono e quale nuoce alla virtù del corpo, mentre tutte queste altre arti lo ignorano.
Per questa ragione, dunque, queste, vale a dire le altre arti che curano il corpo, sono occupazioni degne di schiavi,
servili e disdicevoli per un uomo libero, mentre la ginnastica e la medicina sono, a buon diritto, loro padrone. Dunque,
quando io dico che queste stesse cose valgono anche per l'anima, a volte mi dai l'impressione di capire quello che
intendo dire, e approvi come se capissi ciò di cui sto parlando; ma, poco dopo, vieni a dire che uomini per bene sono
stati cittadini di questa città, e, quando io ti chiedo chi siano costoro, mi pare che tu mi metti davanti uomini tali che,
riguardo alla politica, è proprio come se, alla mia domanda di chi siano quelli che sono stati o sono, riguardo alla
ginnastica, buoni curatori del corpo, tu, serio, mi facessi i nomi di Tearione il panettiere, di quel Miteco che scrisse di
cucina siciliana e di Sarambo l'oste, (65) dicendo che costoro sono stati mirabili curatori del corpo, l'uno procurandogli
pani meravigliosi, l'altro pietanze, e l'altro vino. E forse, allora, te la prenderesti, se ti dicessi: «Buon uomo, non capisci
nulla di ginnastica: mi stai nominando dei servi, uomini che provvedono ad appagare i desideri, senza intendere che
cosa sia buono e che cosa sia bello riguardo ad essi, i quali, se ne hanno occasione, dopo aver saziato e ingrassato i
corpi degli uomini, coperti di elogi da costoro, rovinano anche le loro carni di prima. E quegli altri, dal canto loro, a
causa della loro ignoranza, non accuseranno quelli che imbandirono loro la tavola di essere causa delle loro malattie e
della perdita delle loro carni di un tempo; ma quando, dopo qualche tempo, arrivi a portare loro malattie la sazietà, che
non ha alcun riguardo per la salute, accuseranno coloro che si troveranno lì ad assisterli e a dare loro consigli, li
copriranno di biasimo e faranno loro del male, se ne saranno capaci, e loderanno, invece, quegli altri di prima che sono i
veri colpevoli dei loro mali.
E anche tu, ora, o Callicle, fai qualcosa di molto simile a questo: elogi quegli uomini che imbandirono loro la tavola
pascendoli di ciò che desideravano. E si dice che costoro hanno reso grande la città: non ci si accorge che essa è gonfia
e purulenta proprio a causa di quegli antichi. Infatti, senza temperanza e senza giustizia hanno riempito la città di porti,
di mura, di tributi e di simili sciocchezze; così , quando poi verrà quell'attacco di debolezza, incolperanno quelli che si
troveranno lì a consigliarli, e loderanno, invece, Temistocle, Cimone e Pericle, che sono i veri colpevoli dei loro mali.
E, se non stai attento, forse prenderanno anche te alla sprovvista, e così il mio amico Alcibiade, quando perderanno
anche i loro beni di prima oltre a quelli che hanno acquisito, benché voi non siate colpevoli dei mali, ma, forse, solo
complici. Eppure, io vedo accadere, ora, un fatto insensato, e sento dire che accadeva anche fra gli antichi. Mi accorgo,
infatti, che, quando la città tratti qualcuno dei politici come un malfattore, costui si sdegna e si lamenta, convinto di
essere trattato in modo intollerabile: dopo aver reso molti servigi alla città, vengono da essa ingiustamente rovinati,
stando a quel che dicono loro! Ma tutto questo è una menzogna: nessun governante di città potrebbe mai perire
ingiustamente per mano della stessa città che egli governa. Infatti, sembra che la stessa cosa accada a coloro che si
danno l'aria di essere politici e a coloro che si danno l'aria di essere sofisti. Anche i sofisti, benché sapienti nel resto,
fanno questa cosa assurda: mentre proclamano di essere maestri di virtù, spesso accusano i loro discepoli di commettere
ingiustizia nei loro confronti, defraudandoli del loro compenso e non ripagando altri favori, pur avendo ricevuto del
bene da loro. Ma cosa potrebbe essere più assurdo di questo discorso, di dire cioè che uomini divenuti buoni e giusti,
una volta liberati dall'ingiustizia per opera del maestro e ormai in possesso della giustizia, commettano ingiustizia per
mezzo di ciò che non hanno più? Non ti pare che quest'affermazione sia assurda, amico mio? Mi hai davvero costretto
ad arringarti, o Callicle, non accettando di rispondermi!
CALLICLE: Ma tu non saresti capace di parlare, a meno che qualcuno non ti rispondesse?
SOCRATE: Almeno, pare che sia così . E così , ora, tiro per le lunghe i miei ragionamenti, perché non vuoi
rispondermi. Ma, o carissimo, dimmi, per Zeus dio dell'amicizia: non ti pare che sia assurdo, mentre si afferma di aver
reso qualcuno buono, rimproverarlo, poi, quando costui sia divenuto buono e sia ormai tale grazie a noi, di essere
malvagio?
CALLICLE: A me pare di sì .
SOCRATE: E non senti forse fare affermazioni di questo genere da parte di coloro che professano di educare gli
uomini alla virtù?
CALLICLE: Sì . Ma perché devi parlare proprio di uomini che non valgono nulla?
SOCRATE: Ma che diresti, allora, di coloro i quali, mentre dicono di governare la città e di prendersi cura che essa
diventi quanto è possibile migliore, poi l'accusano di essere in sommo grado malvagia? Pensi che ci sia qualche
differenza fra costoro e quelli di prima? La stessa cosa, o caro, sono il sofista e il retore, o qualcosa di vicino e di quasi
uguale, come dicevo a Polo. Tu, invece, per ignoranza, credi che l'una, cioè la retorica, sia una cosa bellissima, mentre
disprezzi l'altra. In realtà, la sofistica è più bella della retorica nella stessa misura in cui l'arte di legiferare è più bella
dell'arte di amministrare la giustizia, e la ginnastica è più bella della medicina. Piuttosto, io penserei che solo agli
oratori popolari e ai sofisti non sia permesso rimproverare il destinatario dell'educazione da essi impartita di essere
malvagio nei propri confronti, senza accusare, così dicendo, contemporaneamente anche se stessi di non aver recato
alcun giovamento a coloro ai quali essi sostengono di recarne. Non è così ?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: E certamente solo a costoro, com'è ragionevole pensare, sarebbe possibile prodigare i propri benefici
senza riscuotere un compenso, se fosse vero quello che essi dicono. Infatti, se uno ha ricevuto un beneficio di altro
genere, ad esempio, quello di essere diventato veloce nella corsa grazie al maestro di gmnastì ca, forse potrebbe frodarlo
del compenso che gli deve, se il maestro di ginnastica si fidasse di lui e, dopo aver pattuito con lui il compenso, non
riscuotesse il denaro di volta in volta che gli insegnasse a correre veloce. Non è con la lentezza, credo, che gli uomini
commettono ingiustizia, ma con l'ingiustizia. Non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: E allora, se uno toglie proprio questo, vale a dire l'ingiustizia, non dovrebbe più temere di subire
ingiustizia alcuna, e costui è il solo che potrebbe in tutta sicurezza prodigare la propria opera benefica, ammesso che sia
vero che uno possa rendere altri buoni. Non è così ?
CALLICLE: Lo affermo.
SOCRATE: Per queste ragioni, dunque, a quanto pare, dare consigli facendosi pagare su altre cose, come ad
esempio sull'arte di costruire o sulle altre arti, non è una cosa turpe.
CALLICLE: Almeno così sembra.
SOCRATE: Ma riguardo a questa faccenda, vale a dire il modo in cui uno possa diventare quanto è possibile
migliore e possa amministrare al meglio la propria casa o la propria città, è considerata cosa turpe che uno si rifiuti di
dare consigli, a meno che non lo si paghi per questo. Non è così ?
CALLICLE: Sì .
SOCRATE: Infatti, è chiaro che questa ne è la ragione, cioè che questo è il solo beneficio che fa sì che colui che lo
riceve desideri ricambiarlo, di modo che è considerato buon segno, se colui che ha prodigato questo peneficio ne venga
a sua volta ricambiato.
Altrimenti, non lo è. è così che stanno le cose?
CALLICLE: è così .
SOCRATE: Chiariscimi, dunque, a quale dei due modi di prendersi cura della città tu mi esorti: a quello che
consiste nel contrastare gli Ateniesi, affinché diventino quanto è possibile migliori, come farebbe un medico, oppure mi
inviti a mettermi al loro servizio e a frequentarli al fine di compiacerli? Dimmi la verità, o Callicle!
Infatti è giusto che tu, visto che hai cominciato a parlarmi con franchezza, continui fino in fondo a dirmi quello che
pensi.
Anche ora, dunque, parla bene e coraggiosamente.
CALLICLE: Ebbene, io ti dico che il mio invito è a metterti al loro servizio.
SOCRATE: A lusingarli, dunque, tu mi inviti, o nobilissimo!
CALLICLE: Anzi, se lo preferisci, di' pure che io ti invito «a fare come uno schiavo di Misia», (66) o Socrate,
perché se tu non farai questo...
SOCRATE: Non dirmi quello che mi hai già detto più volte, cioè che «chiunque vorrà mi ucciderà», perché anch'io,
a mia volta, non torni a risponderti: «Sarà allora un malvagio che ucciderà un uomo per bene»; e non dirmi che «mi
spoglierà di tutti i miei averi», perché io non ti risponda di nuovo: «Ma una volta che me li abbia sottratti, non saprà
cavarne niente di buono, e come ingiustamente mi ha spogliato di essi, così ingiustamente se ne servirà quando li abbia
nelle sue mani, e se ingiustamente, anche in modo turpe, e se in modo turpe, anche malamente».
CALLICLE: Quanto mi sembri fiducioso, Socrate, che non ti potrebbe mai capitare nulla di tutto ciò, come se tu
abitassi fuori dal mondo e non avessi nessuna probabilità di essere trascinato in tribunale da un uomo completamente
malvagio e volgare!
SOCRATE: Sarei davvero uno sciocco, o Callicle, se non pensassi che in questa città a chiunque potrebbe capitare
una cosa del genere.
Eppure so bene questo: che se dovessi mettere piede in tribunale, correndo qualcuno di questi pericoli di cui tu parli,
sarà un uomo malvagio a trascinarmi lì , perché nessun uomo buono trascinerebbe in tribunale chi non abbia commesso
alcuna ingiustizia, e che non ci sarebbe nulla di strano se io dovessi morire. E vuoi che ti dica per che motivo mi aspetto
questo?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Credo di essere uno dei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e l'unico fra i
contemporanei che la eserciti. E poiché non per compiacere la gente faccio i ragionamenti che di volta in volta faccio,
ma mirando al meglio e non a ciò che è più piacevole, e poiché non sono disposto a fare le cose che mi esorti a fare,
cioè queste astuzie di cui parli, non saprò che cosa dire in tribunale.
Mi sovviene lo stesso ragionamento che feci a Polo: infatti, sarò giudicato come potrebbe essere giudicato un
medico davanti ad una giuria di fanciulli, se ad accusarlo fosse un cuoco. Considera, infatti, che cosa potrebbe dire in
sua difesa un uomo del genere processato davanti a costoro, se uno lo accusasse dicendo: «Ragazzi, quest'uomo ha fatto
molti mali proprio a voi, e rovina i più giovani di voi praticando tagli e cauterizzando, e vi debilita facendovi dimagrire
e togliendovi il fiato, somministrandovi pozioni amarissime e costringendovi a patire la fame e la sete, non come me,
che vi imbandivo, invece, cibi abbondanti, squisiti e di ogni genere». Che cosa credi che il medico potrebbe rispondere,
trovandosi in tale frangente? E se dicesse la verità, cioè: «Ho fatto tutto questo, ragazzi per la vostra salute!», che razza
di grida credi che leverebbero giudici di quel genere? Non credi che sarebbero ben alte?
CALLICLE: Forse; almeno così bisogna pensare.
SOCRATE: Non pensi, allora, che egli si troverebbe in completa difficoltà su quello che dovrebbe dire?
CALLICLE: Certamente.
SOCRATE: Ebbene, so che anch'io, se dovessi mettere piede in tribunale, mi troverei in una situazione del genere.
Infatti, non potrò citare loro piaceri che io abbia procurato, quel genere di piaceri che essi reputano benefici e
giovamenti, mentre io non invidio né coloro che li procurano, né coloro ai quali sono procurati. E se uno dicesse, di me,
o che corrompo i giovani mettendoli in difficoltà, o che parlo male dei vecchi facendo aspri discorsi, sia in privato sia in
pubblico, non saprò dire nemmeno la verità, vale a dire questo: «Per amore di giustizia dico tutte queste cose, e lo
faccio nel vostro interesse, o giudici, e non per altro scopo».
Sicché, probabilmente, subirò quello che mi toccherà subire.
CALLICLE: Ti pare, dunque, o Socrate, che sia bello, per un uomo, trovarsi in questa situazione nella propria città,
ed essere incapace di aiutare se stesso?
SOCRATE: A condizione, però, che possieda quel solo requisito che anche tu hai più volte ammesso, vale a dire che
egli abbia aiutato se stesso, senza aver né detto né fatto nulla di ingiusto né di fronte agli uomini né di fronte agli dèi.
Infatti, abbiamo più volte convenuto che è questo il migliore aiuto che si possa recare a se stessi. Se, dunque, uno mi
confutasse, provandomi che sono incapace di recare questo aiuto a me stesso e ad altri, mi vergognerei, sia che mi si
confutasse dì fronte a molti, sia di fronte a pochi, sia da solo a solo; e, se dovessi morire per questa mia impotenza, mi
sdegnerei. Se, invece, dovessi morire per difetto di retorica lusingatrice, so bene che mi vedresti sopportare con facilità
la morte. Infatti, il morire in sé non lo teme nessuno che non sia del tutto irragionevole e codardo, mentre si teme il
commettere ingiustizia. Infatti, che l'anima giunga all'Ade carica di molte ingiustizie, è l'estremo di tutti i mali. Ma, se
vuoi, posso narrarti qualcosa che dimostra che le cose stanno proprio così .
CALLICLE: Bene, visto che hai fatto il resto, fai pure anche questa.
SOCRATE: E allora, ascolta, come si dice, un gran bel racconto, che tu considererai un mito, credo, e che io, invece,
considero un ragionamento. Infatti, ti narrerò ciò che sto per narrarti come se fossero cose vere. Come racconta Omero,
Zeus, Posidone e Plutone (67) si spartirono il potere, dopo che l'ebbero ereditato dal padre. All'epoca di Crono, dunque,
vigeva, e vige tuttora fra gli dèi, questa legge circa gli uomini: che chi fra gli uomini abbia vissuto in modo giusto e
santo, una volta morto, vada ad abitare nelle Isole dei Beati, in completa felicità e al di fuori dei mali, e che chi, invece,
abbia vissuto in modo ingiusto e senza dio, vada nel carcere dell'espiazione e del castigo, che chiamano Tartaro. (68)
Giudici di costoro, all'epoca di Crono e anche all'inizio del regno di Zeus, erano uomini vivi, giudici di uomini a loro
volta vivi, poiché li giudicavano nel giorno stesso in cui dovevano morire. I giudizi, dunque, erano dati male. Allora
Plutone e i guardiani delle Isole dei Beati andarono da Zeus a dire che arrivavano da loro, nell'uno e nell'altro luogo,
uomini che non meritavano di esser mandati lì . Zeus, dunque, disse: «Farò in modo che questo non accada più. Ora i
giudizi sono dati male, perché coloro che vengono giudicati, sono giudicati vestiti: vengono infatti giudicati da vivi.
Molti, dunque, pur avendo anime malvagie, indossano bei corpi, nobiltà e ricchezze, e, quando si tiene il giudizio,
vengono molti testimoni a deporre, in loro favore, che essi hanno vissuto nel rispetto della giustizia. I giudici, allora, si
lasciano impressionare da queste cose, e giudicano a loro volta vestiti, avendo l'anima coperta dagli occhi, dalle
orecchie e dal resto del corpo. E tutte queste cose sono loro d'intralcio, sia i loro abiti sia quelli di coloro che vengono
giudicati.
Come prima cosa, dunque, bisogna fare in modo che d'ora in poi non prevedano la propria morte, perché ora la
prevedono. Ed è già stato dato ordine a Prometeo (69) di far cessare questa loro preveggenza. Poi, devono essere
giudicati nudi di tutte queste cose: bisogna che siano giudicati dopo che siano morti. Anche il giudice deve essere nudo,
morto, e la sua anima deve contemplare l'anima di ognuno subito dopo la morte, da sola senza tutta la sua parentela, e
dopo che abbia lasciato sulla terra tutta quell'ornamentazione, perché la sentenza sia giusta. E io, avendo saputo queste
cose prima di voi, ho nominato giudici i miei figli, due dall'Asia, Minosse e Radamante, e uno dall'Europa, Eaco.(70) E
costoro, appena gli uomini saranno morti, li giudicheranno sul prato, nel trivio da cui partono le due strade, l'una che
porta alle Isole dei Beati, l'altra che porta al Tartaro. Radamante giudicherà gli uomini dell'Asia ed Eaco quelli
dell'Europa; a Minosse, invece, assegnerò il privilegio di giudicare come arbitro aggiunto, quando un caso sia insolubile
per gli altri due, perché sia più giusta possibile la sentenza sulla destinazione degli uomini.
Questo, o Callicle, è ciò che ho sentito dire, e credo che sia vero. E da questo ragionamento io deduco la seguente
conseguenza.
La morte, come mi sembra, altro non è che la separazione di due cose, l'anima e il corpo, l'una dall'altra. Una volta
che si siano staccate l'una dall'altra, ciascuna di esse conserva, tuttavia, la condizione che le è propria, quella che aveva,
cioè, quando l'uomo era ancora in vita: il corpo mantiene la sua particolare natura, e conserva visibili i segni delle cure
che gli siano state prodigate e delle vicissitudini attraverso cui sia passato.
Ad esempio, se il corpo di un uomo, quando questi era in vita, era grande per natura o per alimentazione o per
entrambe le cose, anche il suo cadavere, allorché egli muoia, sarà grande; e se era robusto, sarà robusto anche dopo
morto, e così via. E, ancora, se uno si lasciava crescere i capelli, anche il suo cadavere avrà i capelli lunghi. E se uno da
vivo era un uomo da frusta, e portava sul corpo, a ricordo delle percosse ricevute, le cicatrici lasciate dalla frusta o da
altre ferite, anche sul corpo del morto le si potrà vedere. Oppure, se le membra di uno, quand'era vivo, erano rotte o
distorte, questo si potrà vedere anche sul suo cadavere.
In una parola, quelle caratteristiche che uno, da vivo, ha procurato al proprio corpo, queste saranno visibili, tutte o la
maggior parte, per qualche tempo, anche una volta che egli sia morto. Ebbene, mi pare che accada la stessa cosa anche
per l'anima, Callicle: nell'anima, quando essa si sia spogliata del corpo, tutto è visibile, le sue naturali caratteristiche e le
impressioni che l'uomo riceveva nell'anima da ogni faccenda di cui si prendeva cura. Dunque, una volta giunti al
cospetto del giudice, quelli dell'Asia al cospetto di Radamante, Radamante, dopo averla fermata, osserva l'anima di
ognuno, senza sapere a chi appartenga; e spesso, incontrata l'anima del Gran Re, o l'anima di un qualsiasi altro re o
signore, non scorse nulla di sano in quell'anima, ma la vide frustata e piena delle cicatrici lasciate dagli spergiuri e dalle
ingiustizie, segni che ogni sua azione impresse sull'anima, e vide tutte le storture lasciate dalla menzogna e dalla
millanteria, e non vide nulla di dritto, perché essa è cresciuta senza verità.
E vide l'anima piena di sproporzione e bruttezza per colpa della licenza, della lussuria, della tracotanza e
dell'intemperanza delle sue azioni. Ebbene, dopo averla vista, la spedì con disonore dritta al carcere, dove, una volta
giunta, deve subire le pene che le spettano.
Ebbene, a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore
e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri, affinché gli altri, vedendolo patire le pene che gli
tocca patire, per paura diventino migliori. E coloro che traggono giovamento e che scontano la pena inflitta loro dagli
dèi e dagli uomini, sono coloro che abbiano peccato di colpe sanabili. Tuttavia, il giovamento viene loro a prezzo di
dolori e sofferenze, sia qui sia nell'Ade, perché non è possibile liberarsi dell'ingiustizia in altro modo.
Coloro che invece commisero le peggiori ingiustizie e che a causa di tali ingiustizie sono diventati insanabili,
vengono usati come esempi; e mentre essi personalmente non possono più trarne alcun giovamento, dato che sono
insanabili, ne traggono giovamento altri che li vedano patire, a causa delle loro colpe, i tormenti più grandi, più dolorosi
e più terribili per l'eternità, sospesi lì nel carcere dell'Ade come veri esempi, spettacolo e monito per gli ingiusti che
continuamente vi giungono. E sostengo che uno di questi sarà anche Archelao, se è vero ciò che dice Polo, e chiunque
altro sia un tiranno pari a lui. E credo che la maggior parte di costoro che saranno usati come esempio per gli altri,
venga proprio dai tiranni, dai re, dai signori e da coloro che hanno curato gli affari della città. Costoro, infatti, a causa
dell'arbitrio garantito dal potere che hanno, si macchiano delle ingiustizie più gravi e più empie. E di questo anche
Omero è testimone: (71) infatti re e signori li ha messi nell'Ade a pagare in eterno per le loro colpe, Tantalo, (72) Sisifo
(73) e Tizio. (74) Tersite, (75) invece, e qualunque altro malvagio che fosse privato cittadino, nessuno lo ha mai
rappresentato oppresso da grandi punizioni perché insanabile: infatti, credo, non gli era nemmeno possibile commettere
ingiustizie tali da renderlo insanabile, e per questo era più fortunato di coloro che invece avevano il potere di
commetterle.
Ma, Callicle, proprio dai potenti vengono gli uomini più malvagi. Tuttavia, nulla impedisce che anche fra costoro vi
siano uomini buoni, e merita davvero provare ammirazione per quelli che lo siano; infatti è difficile, Callicle, e degno di
grande lode, pur trovandosi in pieno potere di commettere ingiustizia, vivere secondo giustizia. Pochi sono gli uomini di
questa specie; ma poiché ce ne sono stati, qui e altrove, penso che anche in futuro ci saranno uomini perbene, buoni di
questa virtù che consiste nell'amministrare secondo giustizia ciò che sia stato loro affidato. Uno di questi fu molto
famoso anche presso gli altri Greci: Aristide figlio di Lisimaco.(76) Ma i potenti, carissimo, sono per la maggior parte
malvagi. Dunque, come stavo dicendo, quando Radamante trova uno di costoro, su di lui non sa niente altro, né chi sia
né di chi sia figlio, tranne che è malvagio; e, visto questo, lo manda al Tartaro, indicando con un contrassegno se egli
sia, a suo giudizio, sanabile o insanabile. E quello, giunto lì , patisce ciò che gli tocca patire. Talora, invece, vedendo
un'altra anima che abbia vissuto con santità e verità, sia essa l'anima di un privato cittadino o di chiunque altro, ma
soprattutto, io ti dico, Callicle, l'anima di un filosofo che nella vita abbia fatto ciò che gli competeva fare e non si sia
intromesso in troppe faccende, prova per essa ammirazione e la manda alle Isole dei Beati. Lo stesso fa Eaco, ed
entrambi giudicano tenendo in mano una verga. Minosse, invece, siede sovrintendendo, ed è il solo a tenere in mano
uno scettro d'oro, come l'Odisseo di Omero dice di averlo visto con uno scettro d'oro fare giustizia ai morti. (77) Io
dunque, Callicle, mi sono lasciato persuadere da questo racconti, e cerco di poter mostrare al giudice la mia anima
quanto è possibile sana. E così , lasciati perdere gli onori, quelli che la maggior parte della gente considera tali,
coltivando la verità cercherò di vivere e di morire, quando giunga l'ora di morire, al meglio di me stesso, per quanto mi
sia possibile.
Ed invito anche tutti gli altri uomini, per quanto è in mio potere, e a mia volta ricambio anche te con un altro invito a
questa vita e a questa lotta, che secondo me vale più di tutte le lotte di questo mondo, e ti rimprovero che non sarai
capace di soccorrere te stesso, quando si terrà per te quel processo e quel giudizio di cui parlavo poco fa. Ma tu, giunto
al cospetto del giudice, il figlio di Egina, (78) quando egli, afferrandoti, ti trascinerà, resterai a bocca aperta e ti sentirai
smarrito, non meno di quanto lo sarei io qui; e forse qualcuno ti prenderà anche a schiaffi con disonore, e ti coprirà di
insulti di ogni sorta.
Probabilmente, queste cose che ti sono state narrate ti sembrerà che siano una favola, come ne raccontano le
vecchie, e ne proverai disprezzo; e non farebbe nessuna meraviglia il disprezzare queste cose, se, cercando, da qualche
parte ne potessimo trovare di migliori e di più vere. Ma ora vedi che voi, che siete in tre, e che siete i più sapienti dei
Greci del nostro tempo, tu, Polo e Gorgia, non sapete dimostrare come si debba vivere una vita diversa da questa, una
vita che si riveli vantaggiosa anche laggiù. E fra tanti ragionamenti, mentre gli altri sono stati confutati, questo è l'unico
che resti saldo, ossia che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal subirla, e che, più di ogni altra cosa,
l'uomo deve cercare non di apparire ma di essere buono, (79) sia in privato sia in pubblico; e se uno faccia qualcosa di
male, egli deve essere punito, e questo è il secondo bene dopo l'essere giusto, vale a dire il diventarlo e scontare la
propria colpa subendo il castigo. E ogni lusinga, sia verso se stesso sia verso gli altri, sia verso pochi sia verso molti,
deve essere evitata; e della retorica bisogna servirsi sempre in funzione della giustizia, e così di ogni altra pratica.
Dammi retta, dunque e seguimi là dove, una volta giunto, sarai felice, sia mentre vivi sia dopo morto, come il racconto
lascia intendere. E lascia pure che qualcuno ti disprezzi, convinto che tu sia fuori di senno, e che ti insulti, se vuole, e tu,
per Zeus, con coraggio, lasciati pure colpire con quello schiaffo disonorevole, perché non ti accadrà nulla di cui avere
paura, se sarai davvero un uomo per bene, che coltiva la virtù. E poi, quando avremo in questo modo fatto pratica di
virtù insieme, allora, se ci sembrerà utile, ci dedicheremo alle faccende politiche; o qualunque cosa ci parrà opportuna,
allora prenderemo decisioni, perché saremo più capaci di prendere decisioni di quanto non lo siamo ora. Infatti è brutto
che, nelle condizioni in cui è evidente che noi ora ci troviamo, ci comportiamo con baldanza, convinti di valere
qualcosa, noi che non abbiamo mai la medesima opinione sulle medesime questioni, e questo proprio sulle questioni più
importanti: a tal punto di ignoranza siamo giunti! E così , allora, prendiamo come guida il ragionamento che ora ci si è
rivelato, il quale ci fa vedere che questo è il modo migliore di vivere, vale a dire vivere e morire coltivando la giustizia e
ogni altra virtù. Seguiamo, dunque, questo modo di vivere, e invitiamo anche gli altri a seguirlo, e non quello a cui tu,
fidandoti di esso, mi inviti, perché, o Callicle, non vale nulla.
VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=k2V3wLjukp4
NOTE
1) Callicle è un personaggio sconosciuto da altre fonti. C'è chi sostiene si tratti di una pura invenzione di
Platone, che ha voluto personificare il prototipo dell'Ateniese privo di ogni scrupolo morale, che si vanta della propria
franchezza e che grazie ad essa può affermare il diritto del più forte e del più intelligente di dominare sugli altri, cosa
che a suo giudizio tutti pensano, ma nessuno osa dire per puro ritegno; considera la legge un'invenzione
dei deboli per asservire gli uomini forti; ritiene che la filosofia sia utile alla paideia finché si è giovani, ma
che bisognerebbe prendere a schiaffi chi continua ad occuparsi di essa in età matura; invita Socrate a
lasciare che altri si trastullino con le confutazioni, e a coltivare un'altra Musa, quella delle cose pratiche, che è la sola a
rendere capaci di cavarsela nella vita.
2) Gorgia nacque a Leontini in Sicilia intorno al 485-480 a.C. è tradizionalmente considerato "padre della retorica",
definita come strumento di persuasione per avere successo nelle varie circostanze della vita sociale. Un
saggio di arte retorica e una dimostrazione della forza persuasiva della parola è il suo celebre Elogio di Elena.
3) Cherefonte è citato come amico di Socrate anche in Platone, Apologia Socratis 20e-21a, dove si dice che
Cherefonte fu amico del partito popolare, che nell'ultimo esilio andò in esilio con i popolari (dopo la restaurazione
dell'oligarchia ad Atene nel 404 a.C.) e che con essi tornò ad Atene (dopo la caduta del governo dei trenta tiranni nel
403 a.C.). Socrate racconta l'aneddoto di Cherefonte che si reca a Delfi e domanda alla Pizia se ci sia qualcuno più
sapiente di Socrate, e della risposta enigmatica della Pizia, che «più sapiente di Socrate non c'è nessuno», chiamando a
testimone il fratello di Cherefonte, perché Cherefonte, all'epoca dell'Apologia, nella primavera del 399 a.C., era già
morto.
4) Polo fu discepolo di Gorgia. Insieme a Gorgia di Leontini e a Prodico di Ceo è citato in Platone, Theages 127e, a
proposito di coloro che professano di essere capaci di educare i giovani e che sanno convincerli, nelle città in cui
giungono, a frequentare la loro compagnia pagando per questo molto denaro. In Platone, Phaedrus 267b-c, vengono
citati i titoli di due trattati di retorica, i Templi delle Muse dei discorsi, di cui pare che Polo avesse parlato, e i Templi
delle Muse delle parole, scritto da Licinnio di Chio, altro discepolo di Gorgia, e da costui donato a Polo «per la
composizione del bello stile». Platone menziona un libro, verosimilmente un trattato di retorica, scritto da costui e lo chiama esperto delle dottrine di Anassagora.
5) Questo Erodico fratello di Gorgia, medico, non è il celebre medico Erodico di Selimbria, citato da Platone in
Protagoras e in Respublica.
6) Il fratello di Aristofonte figlio di Aglaofonte è il celebre Polignoto di Taso, attivo alla metà del quinto secolo.
Anche il padre Aglaofonte era pittore. Aristotele lo lodava per la sua abilità di etografo. cioè di 'pittore che sa
rappresentare i caratteri delle figure'.
7) Questa formula ricorre in Omero, Ilias, libro 6, verso 211; Odyssea libro 1, verso 180. Nel primo caso è Glauco,
figlio di Ippoloco, che rende conto della sua stirpe a Diomede: «Ecco la stirpe e il sangue di cui mi vanto di essere»
(traduzione di Rosa Calzecchi Onesti); nel secondo caso Telemaco chiede ad Atena, giunta ad Itaca travestita da ospite,
chi e donde egli fosse, dove fosse la sua città e chi fossero i suoi genitori, su quale nave fosse giunto e
chi quei marinai «si vantavano d'essere...», ed essa risponde: «Mi vanto di essere Mente, figlio d'Anchilao saggio». Era
la formula usata nel rivelare, o certificare, la propria identità.
8) La formula: «Per il resto è come... », veniva usata nella stesura dei documenti, per introdurre aggiunte o
emendamenti, e, come si dice qui, quando venivano registrati i pareri nell'assemblea, per evitare ripetizioni (cfr.
Aristotele, Athenaion politeia, 29).
9) Lo scolio era un carme conviviale, composto sui temi tipici del simposio aristocratico. Probabilmente era detto
scolio, 'obliquo', dal fatto che i convitati si passavano di mano in mano, obliquamente, secondo alcuni la lira, secondo
altri un ramoscello, succedendosi, senza un ordine prestabilito, nel canto di queste strofe. Lo scolio che Platone cita
viene attribuito sia a Simonide che ad Epicarmo.
10) Il Consiglio, il più importante organo politico di Atene, erano composto di cinquecento membri,
cinquanta per ognuna delle dieci tribù, ed era presieduto, a turno, dai cinquanta membri di una delle tribù per un periodo
di 35/36 giorni. Durante questo periodo, tali consiglieri prendevano il nome di pritani.
11) All'Assemblea ("Ecclesia") partecipavano tutti i cittadini di Atene che avevano diritto di voto, e vi discutevano
le leggi già approvate dal Consiglio.
12) Zeusi, nativo di Eraclea, è il celebre pittore del quinto secolo a.C., citato come Zeusippo di Eraclea da Platone
(Protagoras 318b-c). Ne parla Aristotele, Poetica 1461b, 13.
13) Temistocle fu uno dei più celebri uomini politici della prima metà del quinto secolo. Eletto arconte nel 493/492
a.C., fece costruire il porto fortificato del Pireo. Nel 482 convinse gli Ateniesi a costruire una forte flotta, e dopo la
vittoria sui Persiani di Serse a Salamina nel 480, ricostruì le mura di Atene. Venne ostracizzato nel 471 e morì in esilio
intorno al 462.
14) Pericle, della famiglia degli Alcmeonidi, è legato all'apogeo della polis ateniese. Era imparentato con Clinia,
padre di Alcibiade, e divenne tutore di questi alla morte del padre nel 446 a.C. Platone, in Alcibiades 118d-e, dice che
Pericle non seppe trasmettere la propria sapienza ai figli Paralo e Santippo, che dovevano essere considerati, nella
communis opinio, due sciocchi. Morì con la peste del 429 a.C.
15) Le mura che univano Atene al Pireo.
16) Erodico (cfr. la nota 5).
17) Il pancrazio combinava lotta e pugilato. Pugilato, pancrazio e lotta sono citati insieme anche in Platone, Leges
libro 7, 795b. In Euthydemus 27ic-d due sofisti sono paragonati, per la loro abilità, a campioni di pancrazio, e giocando
sull'etimo di pancrazio ("pan" 'tutto' e "cratein" 'vincere'), Socrate dice che «sono tali da poter vincere tutti».
La stessa similitudine e lo stesso gioco verbale si può rintracciare qui (cfr. 457a: «Anche il retore, infatti, sa parlare
contro tutti e di tutto»).
18) Il detto di Anassagora cui Platone si riferisce era divenuto proverbiale per esprimere l'idea di una mescolanza di
cose indistinguibili. Viene citato con lo stesso scopo nel Fedone (72c). Anassagora di Clazomene sosteneva che
all'origine le cose esistevano sotto forma di omeomerie ('parti uguali') o "semi", mescolate insieme e infinite in quantità
e piccolezza, e che fu l'Intelligenza a ordinare e causare le cose. Nel Fedone (97b e seguenti) Socrate racconta che alla
lettura di un libro di Anassagora egli si era dapprima illuso di avere trovato il maestro che gli avrebbe insegnato la
«causa delle cose che sono», ma poi, letti i suoi libri, rimase deluso a vedere come egli attribuiva il ruolo di causa ad
altre cose (l'aria, l'etere, l'acqua) estranee all'Intelligenza. Nelle Nuvole di Aristofane, Anassagora è l'ispiratore delle
stramberie meteorologiche di Socrate.
19) Archelao salì al potere nel 413 e morì assassinato da una congiura nel 399 a.C.
20) Il modo abituale, per i Greci, di indicare il re dei Persiani.
21) Il figlio di una schiava apparteneva per legge al padrone della schiava, chiunque fosse il padre (cfr. Platone,
Leges libro 11, 930d).
22) Nicia figlio di Nicerato, di famiglia aristocratica, alla morte di Pericle (nel 429 a.C.) divenne capo del partito
oligarchico, opponendosi alla corrente democratica capeggiata da Cleone. Fu fautore della pace del 421 a.C. fra Atene e
Sparta (Pace di Nicia). Si oppose alla spedizione in Sicilia contro Siracusa, ma vi fu posto a capo con Lamaco e
Alcibiade.
In seguito alla disfatta ateniese venne giustiziato dai Siracusani nel 413 a.C. Compare come uno degli interlocutori
nel Lachete.
23) Questo Aristocrate figlio di Scellio può essere l'Aristocrate che Tucidide nomina tra gli Ateniesi che firmarono
la pace di Nicia (Libro 5, 19 e 24), oppure quello citato da Aristotele, "Athenaion politeia", 33.
24) L'episodio a cui Socrate fa riferimento è lo stesso menzionato in Platone, Apologia Socratis 32b-c. Fu l'unica
volta, per esplicita ammissione di Socrate (ivi, 32a) che egli esercitò un pubblico ufficio, e fu in occasione del processo
in cui vennero giudicati i dieci strateghi che dopo la battaglia delle Arginuse del 406 a.C. non raccolsero i morti e i
naufraghi. Socrate fu il solo dei Pritani che si oppose a chi voleva giudicarli in massa e non singolarmente come la
legge prescriveva.
Il riferimento a questo fatto fa pensare al 405 a.C. come probabile data in cui collocare l'azione del dialogo.
25) Alcibiade visse fra il 450 e il 404 a.C. Fu figlio di Clinia, discendente della ricca e potente famiglia degli
Eupatridi, e di Dinomache, appartenente anch'essa ad una stirpe illustre, quella degli Alcmeonidi.
Imparentato con Pericle, nel 406 a.C. venne affidato alla sua tutela (cfr. Alcibiades 118 C). Il tema dei suoi rapporti
con Socrate è dettagliatamente sviluppato nel Simposio, dove, sotto l'effetto del vino, Alcibiade racconta
agli altri convitati del suo corteggiamento a Socrate e del fallimento dei suoi tentativi di conquistarlo fidando nella
propria bellezza, e della scoperta che Socrate, benché frequentasse sempre la compagnia dei belli e benché desse a
vedere di struggersi d'amore per essi, in realtà disprezzava la loro avvenenza. Compare come uno degli interlocutori nel
Protagora, dove prende le parti di Socrate contro Protagora.
26) Pirilampo aveva sposato in seconde nozze Perictione, madre di Platone.
Nel Carmide (158a), viene nominato come zio materno di Carmide, e si dice che si recò più volte come
ambasciatore presso il Re di Persia e presso altri stati del continente. Era soprannominato "allevatore d'uccelli" per i
pavoni che aveva portato dalla Persia.
27) Si tratta del dio Anubi, che aveva testa di cane.
28) Serse, figlio di Dario, fu re di Persia dal 486 a.C. La guerra a cui qui si allude è la spedizione di Serse contro la
Grecia nel 481 a.C. Dopo aver invaso l'Attica, saccheggiato e bruciato Atene, la flotta persiana venne sconfitta a
Salamina nel 480 a.C.
29) Dario regnò sulla Persia dal 522 al 486 a.C. La spedizione contro gli Sciti a cui Platone qui si riferisce avvenne
intorno al 513 a.C.
30) Frammento di un carme perduto di Pindaro.
31) Gerione, figlio di Crisaor e di Calliroe, figlia di Oceano. In Esiodo, Theogonia 287-294, si racconta di come
Gerione «dalle tre teste» venne trucidato da Eracle nell'isola di Eritia presso i suoi buoi, quel giorno in cui Eracle gli
rubò i buoi, dopo aver ucciso il cane Orto e il pastore Euritione nella stalla dove li teneva, e li portò a Tirinto. Questa
versione del mito è confermata ai versi 981-983, dove Esiodo dice che Calliroe generò Gerione, «il più forte di tutti i
mortali», che Eracle uccise ad Eritia per i suoi buoi.
32) Frammento (185 Nauck) dell'Antiope, perduto dramma di Euripide, che pare trattasse del conflitto fra i figli di
Antiope: Anfione, che aspirava alla «vita contemplativa» (il "Theoreticós bios" del frammento 910 Nauck, in cui si
rintraccia l'influenza sul teatro euripideo del pensiero di Anassagora), e Zeto, che impersonava invece l'attitudine alla
vita pratica e attiva.
33) Omero, Ilias, libro 9, verso 441. Degno di nota è il contesto omerico: Fenice, per convincere Achille a non
starsene in disparte dalla guerra a covare la sua ira, gli ricorda quel tempo in cui il padre di Achille Peleo mandò Fenice
perché insegnasse al figlio ancora fanciullo, che ancora non conosceva la guerra e le piazze, dove gli uomini si
affermano, ad essere buon parlatore ("rétor") e buon artefice di opere.
34) Sono richiami all'Antiope di Euripide (cfr. la nota 32).
35) Questi personaggi non sono noti da altre fonti, tranne Androne figlio di Andozione, nominato nel Protagora
(315c), come uno dei sapienti accorsi in casa di Callia in occasione del soggiorno ateniese di Protagora. Di lui si sa che
prese parte alla rivolta oligarchica del 411 a.C.
36) Frammento attribuito alla perduta tragedia Polido, nonché alla pure perduta tragedia Frisso (frammenti 639 e
833 Nauck).
37) Nel testo greco si coglie il gioco di parole tra 'corpo' ("soma") e 'tomba' ("sema"). Nel Cratilo (400c), Socrate
spiega le diverse etimologie di "soma", dicendo che alcuni lo chiamano "sema" dell'anima, intendendo che essa vi si
trova sepolta nella vita presente; che, d'altra parte, poiché l'anima si serve del corpo per esprimere ciò che intende
esprimere (in greco "semainein"), anche per questo è corretto denominare il corpo "sema" ('segno'); e che, tuttavia,
l'interpretazione più probabile è quella che siano stati i seguaci di Orfeo a chiamare il corpo "soma", considerandolo
l'involucro, immagine di una prigione, in cui l'anima sconta la pena delle colpe che deve espiare, affinché si salvi
("sózetai").
Il corpo, secondo questa etimologia, sarebbe la custodia, o prigione, dell'anima, finché questa non abbia pagato per
le sue colpe. Quest'ultima spiegazione è probabile che risalga al pitagorico Filolao, citato dallo stesso Platone (Phaedro
61d-62c), dove Socrate, per spiegare la ragione per cui, a detta di Filolao e di altri, non è lecito uccidere se stessi,
ripete quello che a questo proposito si dice nei misteri (orfico-pitagorici): noi uomini siamo come rinchiusi in un
carcere, e non dobbiamo liberarcene e fuggire, perché gli dèi sono i nostri custodi e noi siamo un possesso degli dèi.
38) Platone potrebbe riferirsi ai pitagorico Filolao oppure ad Empedocle di Agrigento, di cui pare che Gorgia fosse
stato discepolo (cfr. Meno 76c).
39) Nella traduzione si perde il gioco dei suoni fra i termini dell'allegoria e quelli dei
concetti che si intendono esprimere: le corrispondenze sono fra "píthos" ('orcio'), "pithanós" ('credulo'), "peisticós"
('facile a persuadersi'); fra "anóetos" ('privo di senno') e "amuetos", sul quale si innesta un ulteriore doppio senso:
significa infatti 'non iniziato ai misteri', ma anche 'che non trattiene in sé', 'che non stagna', 'aperto'; e fra "Aides"('Ade')
e "aidés" ('invisibile').
40) Dalla scuola dei Pitagorici.
41) "Karádrios" si suole tradurre con 'uccello di torrente', 'piviere'.
Pare che si trattasse di un uccello che espelleva mentre mangiava, divenuto quindi proverbiale per la sua voracità.
42) I grandi misteri a cui si allude sono i misteri eleusini in onore della dèa Demetra, che venivano celebrati ad
Atene nel mese di Boedromione (dal 15 settembre al 15 ottobre): per accedere ad essi bisognava prima essere iniziati
ai piccoli misteri, in onore della dea Persefone, che venivano celebrati nel mese di Antesterione (mese che
comprendeva parte di febbraio e parte di marzo).
43) Cinesia fu poeta di ditiramhi, vissuto a cavallo fra il quinto e il quarto secolo a.C. Accusato di aver corrotto il
ditirambo, fu preso di mira dalla satira di Aristofane che lo cita più volte (cfr. Aves 1377; Ranae 153 e 1437;
Ecclesiazusae 330).
44) Su Temistocle cfr. la nota 13.
45) Cimone, figlio di Milziade, fu uno dei protagonisti della politica ateniese
nella prima metà del quinto secolo a.C. Capo del partito aristocratico, come generale aveva condotto numerose
spedizioni contro i Persiani; pare che grazie alla propria ricchezza si fosse creato una vasta clientela politica (cfr.
Aristotele, "Athenaion politeia" 27).
Venne ostracizzato nel 461 a.C. Milziade, padre di Cimone, fu un celebre politico ateniese. Nato intorno ai 540
a.C., nel 490 a.C., in qualità di stratega, sconfisse i Persiani a Maratona. In seguito fu accusato di essersi venduto al re
di Persia e condannato a pagare una multa di 50 talenti, ma morì prima di pagare. La multa venne poi pagata dal figlio
Cimone.
46) Su Pericle cfr. la nota 14.
47) «Dare una testa al discorso» e «non lasciare il discorso senza testa» sono espressioni proverbiali che ricorrono,
ad esempio, nel Filebo (66d) e nelle Leggi (libro 6, 752).
48) Epicarmo fu un commediografo attivo in Sicilia tra il
sesto e il quinto secolo. Platone ne parla nel Teeteto (152e), dicendo di Epicarmo che egli fu il più grande poeta nel
genere della commedia. Dai frammenti rimasti, pare che le sue commedie fossero di carattere moraleggiante. Da esse si
ricavarono raccolte di massime. Il verso di Epicarmo qui menzionato (23 B. frammento 16 Diels-Kranz = 253 Kaibel)
nell'originale suona: «ciò che prima in due uomini dicevano, basto io solo (a dirlo)».
49) Cfr. supra 485e, e la nota 32.
50) Platone qui potrebbe riferirsi ai pitagorici Archita di Taranto e Filolao, oppure a Empedocle di Agrigento.
51)
L'uguaglianza geometrica era il fondamento del "giusto" aristocratico, come l'uguaglianza aritmetica lo era del "giusto"
democratico. Suo era il principio della "giusta proporzione" e della "giusta misura", ed era considerata la via di accesso
alla dialettica: secondo la tradizione, Platone avrebbe posto sulla porta dell'Accademia la scritta «Non entri chi non è
geometra».
52) Questo concetto doveva essere un luogo comune piuttosto diffuso (più o meno come il nostro «Dio li fa e poi
li accoppia»), espresso anche da Omero, Odyssea, libro 17, verso 218: «perché sempre il dio appaia il simile con il
simile» (è il pastore di capre Melanzio che offende il porcaio Eumeo e Odisseo vestito da straccione). E questo verso di
Omero è citato da Platone nel Liside (214a), a proposito dell'amicizia, aggiungendo poi che anche negli scritti dei
sapienti si dice che necessariamente il simile stringe amicizia con il simile. Con sapienti qui si allude a una tesi
specifica, probabilmente quella di Empedocle, che spiegava con le forze cosmiche dell'amicizia e dell'odio l'attrazione
e la repulsione tra simili e dissimili.
53) Egina è un'isola che sta proprio di fronte ad Atene.
54) Il Mar Nero.
55) La dracma era una moneta d'argento
del valore di sei oboli.
Nell'Apologia di Socrate (20b) Socrate viene a sapere che il sofista Eveno di Paro chiedeva per i suoi insegnamenti
un compenso di cinque mine, vale a dire cinquecento dracme.
56) Forse si riferisce al celebre «ma la Moira, ti dico, non c'è uomo che possa evitarla», di Ettore ad Andromaca,
nell'Iliade (libro 6, verso 488).
57) Si diceva che le maghe della Tessaglia avessero il potere di far scendere la luna, e che pagassero questo potere
con la perdita di un organo o di un figlio.
58) «Iniziare a praticare l'arte del vasaio dalla costruzione di un orcio» doveva essere un proverbio molto diffuso.
Compare anche nel Lachete (187b), sempre a proposito del mestiere di educatore. Il proverbio significa cominciare ad
imparare un mestiere mettendo subito mano alle cose più difficili, com'era appunto la fabbricazione dell'orcio o della
giara nel mestiere del vasaio.
59) Era un modo di dire per alludere a quegli Ateniesi di simpatie filospartane, e che, a quanto pare, facevano
propaganda antidemocratica. Fanatici nell'imitare i costumi spartani, praticavano anche l'arte del pugilato, pestandosi le
orecchie, cingendosi i pugni con cinghie di cuoio, frequentando assiduamente le palestre e indossando sportivi mantelli
corti.
60) Cfr. Omero, Odyssea, libro 6, verso 120, dove Odisseo, al suo risveglio nella terra dei Feaci, si chiede fra quali
uomini sia giunto, se "violenti, selvaggi e ingiusti, oppure ospitali e pii verso gli dèì »; l'associazione di questi aggettivi
torna in Odyssea, libro 8, verso 575, in bocca ad Alcinoo che chiede ad Odisseo fra quali uomini sia stato, quanti
fossero «feroci, selvaggi e ingiusti, e quanti ospitali e pii verso gli déi»; in Odyssea, libro 9, verso 175, ed è Odisseo,
davanti all'isola dei Ciclopi, che annuncia ai compagni di voler andare con la sua nave e la sua ciurma ad esplorare
quelle genti, «se sono violenti, selvaggi, ingiusti, oppure...»; e in Odyssea, libro 13, verso 201, quando Odisseo si
risveglia in patria, senza riconoscerla, e si chiede fra quali uomini sia giunto, «se violenti selvaggi e ingiusti, oppure...».
L'affermazione che Platone attribuisce ad Omero è in realtà una deduzione da quanto dice Omero: se Omero chiama
selvaggi gli ingiusti, allora chiamerà docili (addomesticati) i giusti.
61) A proposito dell'ostracismo di Cimone, cfr. la
nota 45.
62) Sull'ostracismo di Temislocle, cfr. la nota 13.
63) Su Milziade, cfr. la nota 45.
64) Sul pritano cfr. la nota 10.
65) Tearione era un celebre panettiere ateniese, citato anche da Aristofane. Lo scritto di Miteco a cui Platone allude
doveva essere un'Arte culinaria. Della cucina siciliana e in particolare siracusana (Miteco era di Siracusa), Platone parla
nella Repubblica (libro 3, 404d), come di una cucina sofisticata, che faceva largo uso di pentole e di condimenti (contro
l'austera cucina degli eroi omerici, che cuocevano i loro cibi alla brace, senza condimenti, e degli atleti che li
imitavano).
La Sicilia aveva fama di paese dissoluto e dedito ai piaceri della gola e della carne; della sua "dolce vita" e dei suoi
banchetti Platone ne parla nella Lettera 7, 326b-d, come di una vita «passata ad ingozzarsi».
Sarambo doveva essere l'oste di qualche commedia.
66) La Misia era una regione dell'Asia Minore. Nel Teeteto compare l'espressione «l'ultimo dei Misii», nel chiaro
senso di «l'uomo più spregevole» (209b). Gli schiavi di Misia dovevano essere considerati gentaglia senza dignità,
dediti alla più bassa adulazione.
67) Cfr. Omero, Ilias, libro15, verso 187 e seguenti, sulla spartizione del regno di Crono fra i suoi tre figli Zeus,
Posidone e Plutone (Ade).
68) Il Tartaro in Omero è il tenebroso regno dei morti. Nell'Iliade (libro 8, verso 13) Zeus minaccia di gettare nel
Tartaro chi fra gli dèi disobbedisca ai suoi ordini.
69) Il gigante, figlio di Giapeto e dell'oceanina Climene, è implicato
nel mito dell'acquisizione umana delle "arti" civilizzatrici. In Esiodo, Theogonia 507 e seguenti, Prometeo è definito
«dai vari espedienti» e «dai contorti pensieri», e la sua caratteristica è quella di «contendere contro i disegni di Zeus». Nelle Opere e i giorni Esiodo dice che se Prometeo non avesse disobbedito al divieto di
Zeus e non avesse rubato il fuoco per restituirlo ai mortali, l'uomo non sarebbe stato condannato al lavoro, e in un solo
giorno avrebbe potuto raccogliere di che vivere un anno senza fatica. Il nome Prometeo significa 'colui che pensa
prima', 'il previdente', 'il preveggente'. Qui, il Preveggente viene incaricato di togliere agli uomini la preveggenza.
70)
Secondo la mitologia, Minosse e Radamante erano figli di Zeus e di Europa (così nel Catalogo delle donne: frammento
19); Eaco era invece figlio di Zeus e di Egina.
71) Il giudizio di Minosse è rappresentato in Omero, Ilias, libro 11, verso 568. Vengono descritti i supplizi di Tizio: disteso a terra, due avvoltoi, annidati ai suoi fianchi, gli rodevano il fegato), di Tantalo (versi 582-592:
immerso in uno stagno e assetato, quando si piegava per bere l'acqua spariva, e sopra il suo capo pendevano rami
carichi di frutti, che il vento levava in alto quando Tantalo si protendeva a toccarli) e di Sisifo (versi 593-600: cercava
di spingere un masso sulla cima di una rupe, e quando stava per raggiungere la sommità, lo travolgeva una forza
violenta e precipitava al piano).
72) La ricchezza di Tantalo era un'espressione proverbiale. Ateneo, 281b, dice che nel poema del ciclo epico Il
ritorno degli Atridi Tantalo, giunto presso gli dèi e soggiornando presso di essi, ottenne da Zeus la facoltà di chiedere
qualsiasi cosa desiderasse; ed egli, insaziabile com'era di piaceri, fece richiesta di questi e di vivere come vivevano gli
dèi. Zeus si sdegnò, e, non potendo mancare alla promessa, soddisfece la sua richiesta, ma fece in modo che vivesse in
eterno turbamento, appendendo sopra il suo capo una pietra, che gli impediva di raggiungere le cose piacevoli che
erano lì vicine.
73) Sisifo è menzionato nel Catalogo delle donne (frammento 4), dove è chiamato «Sisifo astuto» ed è
detto figlio di Eolo, «re che amministra giustizia». In Omero, Ilias, libro 6, versi152-154, si dice che Sisifo visse in
Efira, città nella valle di Argo, ed è detto «il più astuto degli uomini». Nell'Odissea (libro 11, versi 593-600) viene
descritto il suo supplizio (cfr. la nota 72), ma non viene spiegato il motivo della sua condanna. Secondo altre fonti,
Sisifo sarebbe stato un celebre predone.
è citato da Platone insieme ad Odisseo nell'Apologia di Socrate 41c, come esempi di personaggi che Socrate sarebbe
felice di incontrare e di interrogare nel mondo di là. L'astuzia è ciò che accomuna Sisifo ed Odisseo.
74) Tizio figlio di Gaia, secondo Omero, Odyssea, libro 7, verso 324, abitava nell'Eubea. Il suo supplizio viene
descritto nell'Odissea (libro 11, versi 576-581; cfr. la nota 72), punito nell'Ade per aver usato violenza a Letò.
75)
Tersite è il personaggio descritto da Omero, Ilias, libro 2, versi 216-221, come «il più brutto degli uomini a Ilio venuti:
era sbilenco, zoppo d'un piede; inoltre le spalle incurvate, contratte sul petto; e aguzza sopr'esse si levava la testa,
fiorita di rada peluria.
Odiosissimo egli era, in specie ad Achille e Odisseo, ché li pungeva spesso» (traduzione di Mario Giammarco). Era
maldicente e godeva ad offendere i re, sparlando di essi «con lingua confusa». Odisseo lo chiama «arguto oratore»
(cfr. 5. 246). Platone lo menziona anche nel mito di Er (Respublica, libro 10, 620c), dove l'anima di Tersite «il
buffone», sorteggiata fra le ultime a compiere una scelta, sceglie la vita di una scimmia.
76) Su Aristide figlio di
Lisimaco, cfr. Erodoto, libro 8, 79-82; Tucidide, libro 1, 91 e soprattutto la Vita di Aristide di Plutarco.
77) Cfr. Omero, Odyssea, libro 11, veerso 569.
78) Si riferisce ad Eaco (cfr. la nota 70).
79) Benché non pare che qui si tratti di una citazione, questo concetto,
nella Repubblica (libro 2, 361b) è espresso con le parole di Eschilo.
Septem 592-594: «l'uomo giusto (...) non vuole sembrare buono, ma esserlo davvero».
Eugenio Caruso 8-10-2019
Tratto da