COMMENTO DEL CANTO XXVI
Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero vantarsi della fama che ha acquistato in ogni luogo e persino all'Inferno, dove il poeta ha visto (nella VII Bolgia) ben cinque ladri fiorentini che lo fanno vergognare e non danno onore alla città. Ma se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la punizione che molti le augurano.
Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte roccioso nel punto dove erano scesi a fatica, quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le mani. Giunti al culmine del ponte, Dante guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a freno il proprio ingegno, perché non agisca senza l'aiuto della virtù e perché il poeta così facendo non si privi del bene che un destino favorevole gli ha concesso. Come il contadino, che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella valle sottostante tante lucciole, altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta Eliseo vide il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante vede solo le fiamme muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. Il poeta si sporge dal ponte per vedere, protendendosi al punto che cadrebbe di sotto se non si aggrappasse a una sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede così attento, gli spiega che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è come fasciato dalle fiamme.
Dante ringrazia il maestro della spiegazione quindi gli chiede chi ci sia dentro il fuoco che si leva con due punte, simile al rogo funebre di Eteocle e Polinice. Virgilio risponde che all'interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono insieme nel peccato e ora scontano insieme la pena. I due sono dannati per l'inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia e per il furto della statua del Palladio. Dante chiede se i dannati possono parlare dentro il fuoco e prega Virgilio di far avvicinare la duplice fiamma, tanto è il desiderio che lui ha di parlare coi dannati all'interno. Virgilio risponde che la sua domanda è degna di lode, tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che sia lui a interpellare i dannati, perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante.
Quando la fiamma giunge abbastanza vicina ai due poeti, Virgilio si rivolge ai due dannati all'interno e prega uno di loro di raccontare le circostanze della sua morte. La punta più alta della fiamma inizia a scuotersi, come se fosse colpita dal vento, quindi emette una voce come una lingua che parla. Ulisse racconta che dopo essersi separato da Circe, che l'aveva trattenuto più di un anno a Gaeta, né la nostalgia per il figlio o il vecchio padre, né l'amore per la moglie poterono vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo in viaggio, insieme ai compagni che non lo avevano lasciato neppure in questa occasione; si erano spinti con la nave nel Mediterraneo verso ovest, costeggiando la Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo fino allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose colonne.
Ulisse si era rivolto ai compagni, esortandoli a non negare alla loro esperienza, giunti ormai alla fine della loro vita, l'esplorazione dell'emisfero australe della Terra totalmente disabitato; dovevano pensare alla loro origine, essendo stati creati per seguire virtù e conoscenza e non per vivere come bestie. Il breve discorso li aveva talmente spronati a proseguire che Ulisse li avrebbe trattenuti a stento: misero la poppa della nave a est e proseguirono verso ovest, passando le colonne d'Ercole e dando inizio al loro folle viaggio. La notte mostrava ormai le costellazioni del polo meridionale, mentre quello settentrionale era tanto basso che non sorgeva più al di sopra dell'orizzonte. Il plenilunio si era già ripetuto cinque volte (erano passati cinque mesi) dall'inizio del viaggio, quando era apparsa loro una montagna (il Purgatorio), scura per la lontananza e più alta di qualunque altra avessero mai visto. Ulisse e i compagni se ne rallegrarono, ma presto l'allegria si tramutò in pianto: da quella nuova terra sorse una tempesta che investì la prua della nave, facendola ruotare tre volte su se stessa; la quarta volta la inabissò levando la poppa in alto, finché il mare l'ebbe ricoperta tutta.
Il Canto si svolge interamente nella VIII Bolgia dell'VIII Cerchio, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti, e il protagonista assoluto è Ulisse, attraverso il cui personaggio Dante intende svolgere un importante discorso relativo alla conoscenza. La struttura dell'episodio è in parte simile a quella del Canto XXIV, con un'apertura che commenta quanto si è visto nel passo precedente (l'invettiva contro Firenze, che non può andare fiera della presenza di cinque suoi cittadini nella Bolgia dei ladri), un lento avvicinamento alla Bolgia successiva con la faticosa salita lungo le rocce e il ponte, la descrizione delle fiamme che costellano il fondo della fossa e infine la presentazione del protagonista dopo una lunga attesa.
Dante si mostra subito molto interessato alla pena di questa categoria di dannati, probabilmente perché si sente in parte coinvolto nel loro peccato: come nel Canto V, quando aveva compreso subito chi fossero i dannati del II Cerchio, anche qui capisce da solo che dentro ogni fiamma c'è un peccatore. In effetti la colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e, soprattutto, all'uso della parola per tessere inganni, per cui il loro peccato è di natura intellettuale: Ulisse e Diomede scontano infatti una serie di imbrogli che avevano ordito attraverso un uso sapiente del linguaggio (specie l'inganno del cavallo di Troia, che come Dante leggeva nel libro II dell'Eneide era avvenuto grazie alle bugie di Sinone, istruito da Ulisse), così come nel Canto seguente Guido da Montefeltro espierà i consigli dati a Bonifacio VIII per sconfiggere i suoi nemici. Non è un caso, del resto, che Dante introduca i dannati della Bolgia con una sorta di ammonimento a se stesso, affinché tenga a freno l'ingegno usandolo sempre sotto la guida della virtù e per non gettare via il bene che un influsso astrale e la grazia divina gli hanno concesso: il peccato di Ulisse può essere definito di superbia intellettuale ed è metafora, come vedremo, di quello che probabilmente aveva condotto Dante nella selva oscura.
Il colloquio con Ulisse è scandito da tre momenti, che corrispondono al discorso che Virgilio rivolge ai due dannati, al racconto dell'eroe che culmina nel discorso fatto ai compagni, alla descrizione del viaggio. Dante arde dal desiderio di parlare con i peccatori avvolti dalla fiamma biforcuta, per cui prega vivamente il maestro di chiamarli a sé (e lo fa con una certa finezza retorica: assai ten priego / e ripriego, che 'l priego valga mille, con una replicazione simile a quelle di Inf., XIII, 25, 67-68). Altrettanto fine è l'allocuzione con cui Virgilio invita Ulisse a parlare: adducendo il pretesto che i due, essendo greci, sarebbero restii a parlare con Dante (nel Medioevo era diceria diffusa che i greci avessero un carattere scontroso), il maestro si rivolge loro con una captatio benevolentiae che invoca presunti meriti acquisiti in vita presso di loro, quando scrisse gli alti versi. Non è chiaro a cosa Virgilio si riferisca, dal momento che nell'Eneide i due personaggi sono citati solo di sfuggita, ma si è ipotizzato che egli si spacci in realtà per Omero approfittando del fatto che non possono vederlo, forse addirittura parlando greco, ingannandoli in modo simile a quanto Dante farà con Guido nel Canto seguente. Sta di fatto che il poeta latino chiede a Ulisse di raccontare le circostanze della sua morte e l'eroe acconsente scuotendo la fiamma che lo avvolge come una lingua che parla ed emette voce.
La narrazione del viaggio di Ulisse è estranea alla tradizione omerica e deriva probabilmente a Dante da un rimaneggiamento tardo dell'Odissea, che il poeta non poteva leggere nel testo originale. L'Ulisse dantesco è comunque simile a quello classico, dotato di insaziabile curiosità e abilità di linguaggio: giunto alle colonne d'Ercole, limite estremo delle terre conosciute, l'eroe rivolge ai compagni una orazion picciola che è un piccolo capolavoro retorico, una specie di suasoria con cui li esorta a non perdere l'occasione di esplorare l'emisfero australe totalmente invaso dalle acque, dove non abita nessun uomo (il mondo sanza gente, come Ulisse lo definisce consapevole del fatto che è un luogo deserto). Il che è ovviamente un inganno, dal momento che non è possibile seguir virtute e canoscenza, né diventare esperti de li vizi umani e del valore esplorando un mondo disabitato: Ulisse vuole solo soddisfare la propria curiosità fine a se stessa, quindi trascina i compagni in un folle volo che infrange i divieti divini e si concluderà con la morte di tutti loro.
Lungi dall'essere quindi un eroe positivo della conoscenza, Ulisse è per Dante l'esempio negativo di chi usa l'ingegno e l'abilità retorica per scopi illeciti, dal momento che superare le colonne d'Ercole equivale a oltrepassare il limite della conoscenza umana fissato dai decreti divini, quindi il viaggio è folle in quanto non voluto da Dio e per questo punito con il naufragio che travolge la nave nei pressi della montagna del Purgatorio. È chiaro allora che Dante si sente personalmente coinvolto nel peccato commesso da Ulisse, perché anch'egli forse ha tentato un volo altrettanto folle cercando di arrivare alla piena conoscenza con la sola guida della ragione, senza l'aiuto della grazia: è il peccato di natura intellettuale che è all'origine dello smarrimento nella selva, e che va probabilmente ricondotto a un allontanamento dalla teologia avvenuto in seguito alla morte di Beatrice, quando il poeta si era dato agli studi filosofici.
È arduo ipotizzare in cosa esattamente consistesse il cosiddetto «traviamento» di Dante, ma in Purg., XXX, 109 ss. Beatrice rimprovererà aspramente il poeta di essersi allontanato da lei dopo la sua morte, seguendo imagini di ben... false e discostandosi da ciò che era stato nella sua giovinezza, aiutato da benigni influssi astrali e da larghezza di grazie divine. Il viaggio di Ulisse nell'emisfero australe sembra allora metafora del viaggio altrettanto folle tentato da Dante negli anni precedenti e che aveva rischiato di concludersi anche per lui in un naufragio, portandolo a smarrirsi nella selva da cui Virgilio, inviato da Beatrice, lo aveva salvato; nella prospettiva dell'uomo medievale alla conoscenza umana c'è un limite invalicabile rappresentato dai decreti divini e chi tenta di valicarlo confidando presuntuosamente nella sola ragione commette un peccato destinato a portarlo alla dannazione.
In questo senso Ulisse non è affatto quell'eroe positivo quale fu descritto dai critici ottocenteschi, né la sua esortazione a seguir virtute e canoscenza deve essere presa alla lettera, dal momento che egli ha condotto se stesso e i compagni non alla virtù ma alla follia e alla morte.
Particolarmente potente, infine, la chiusa del Canto che è stata giustamente accostata ad altri passi simili del poema: infin che 'l mar fu sovra noi richiuso, un verso che «sembra scritto su una lapide funeraria» e che suggella in modo perentorio e definitivo il discorso al centro dell'episodio: è un severo ammonimento all'uomo medievale che non può oltrepassare i limiti imposti da Dio alla sua condizione umana, se non vuole perdere irrimediabilmente ogni speranza di raggiungere la salvezza e finire dannato come è successo a Ulisse, e come poteva succedere a Dante.
TESTO DEL CANTO XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!3
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.6
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.9
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.12
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;15
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.18
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,21
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.24
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,27
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:30
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.33
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,36
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:39
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.42
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.45
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso".48
"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:51
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?".54
Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;57
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.60
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta".63
"S’ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,66
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!".69
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.72
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".75
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:78
"O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco81
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi".84
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;87
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando90
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,93
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,96
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;99
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.102
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.105
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi108
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.111
"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia114
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.117
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".120
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;123
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.126
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.129
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,132
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.135
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.138
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,141
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".
Video HD https://www.youtube.com/watch?v=qy_HTEdtGSg
Gassman https://www.youtube.com/watch?v=6rOqr1qG-eQ
PARAFRASI
Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è conosciuto persino all'Inferno!
Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che a me viene vergogna e tu certo non acquisti onore.
Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri, di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che tutte le città, anche quelle piccole come Prato, ti augurano.
E se anche accadesse già, sarebbe comunque tardi. Potesse allora succedere, dal momento che è inevitabile! Quanto più invecchierò, tanto più questo castigo mi sarà insopportabile.
Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a scendere, e mi portò con sé;
e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli spuntoni e le schegge della roccia.
Allora provai dolore, e lo provo anche adesso pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più del solito affinché non agisca senza la guida della virtù; così che, se un benigno influsso astrale o qualcosa di più importante (la grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso non me lo sottragga.
Quante sono le lucciole che il contadino, quando si riposa sulla collina nella stagione (estate) in cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua faccia, nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli vendemmia e ara;
altrettante fiamme risplendevano nella VIII Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il fondo era visibile.
E come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli si levarono alti nel cielo, e non lo poteva seguire con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma, che saliva su come una nuvoletta:
così sul fondo della Bolgia si muove ciascuna fiamma, in modo tale che nessuna mostra l'anima nascosta all'interno, e ogni fiamma cela un peccatore.
Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al punto che, se non mi fossi aggrappato a una sporgenza rocciosa, sarei caduto in basso senza essere urtato.
E il maestro, che mi vide così attento, disse: «Dentro quei fuochi ci sono delle anime; ognuna è fasciata dalla fiamma che la avvolge».
Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne sono più certo; ma avevo già intuito che fosse così e volevo chiederti:
chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta, tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove Eteocle fu messo col fratello (Polinice)?»
Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e Diomede, e sono dannati insieme come insieme commisero i loro peccati;
e nella loro fiamma espiano l'inganno del cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il nobile seme dei Romani.
Vi è punito anche l'imbroglio per cui Deidamia, anche se è morta, ancora si rammarica di Achille, e si sconta anche il furto del Palladio».
Io dissi: «Se essi in quelle fiamme possono parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti prego ancora, così che la preghiera valga per mille, che tu non mi neghi di aspettare che quella fiamma a due punte venga qui; vedi che mi piego verso di essa dal desiderio!»
E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a freno la tua lingua.
Lascia parlare me, dal momento che so bene quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci, potrebbero essere restii a rivolgerti la parola».
Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al mio maestro parve opportuno il tempo e il luogo, lo sentii parlare in questo modo:
«O voi che siete in due dentro una sola fiamma, se ho acquisito meriti nei vostri confronti quand'ero vivo, se ho acquisito meriti grandi o piccoli presso di voi quando, sulla Terra, scrissi gli alti versi, non andate via; ma uno di voi (Ulisse) racconti dove è andato a morire in un viaggio senza ritorno».
La punta più alta di quell'antica fiamma cominciò a scuotersi mormorando, come quella colpita dal vento;
quindi, volgendo la cima da una parte e dall'altra, come una lingua che parlasse, gettò fuori la voce e disse:
«Quando mi allontanai da Circe, che mi tenne più di un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea desse questo nome al promontorio,
né la tenerezza per mio figlio, né la devozione per il mio vecchio padre, né il legittimo amore che doveva fare felice Penelope poterono vincere in me il desiderio che ebbi di diventare esperto del mondo, dei vizi e delle virtù degli uomini;
i in viaggio in alto mare solo con una nave e con quei pochi compagni dai quali non fui abbandonato.
Vidi entrambe le sponde del Mediterraneo fino alla Spagna, al Marocco e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate da quel mare.
Io e i miei compagni eravamo vecchi e deboli quando giungemmo a quello stretto (di Gibilterra) dove Ercole pose le colonne, limite oltre il quale l'uomo non deve procedere: a destra avevamo Siviglia, a sinistra Ceuta.
Dissi: "O fratelli, che siete giunti all'estremo ovest attraverso centomila pericoli, non vogliate negare a questa piccola veglia che rimane ai vostri sensi (ai vostri ultimi anni) l'esperienza del mondo disabitato, seguendo la rotta verso occidente.
Pensate alla vostra origine: non siete stati creati per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e la conoscenza".
Con questo breve discorso resi i miei compagni così smaniosi di mettersi in viaggio, che in seguito avrei stentato a trattenerli;
e volta la poppa a est, facemmo dei remi le ali al nostro folle volo, sempre proseguendo verso sud-ovest (a sinistra).
La notte ormai mostrava tutte le costellazioni del polo australe, mentre quello boreale era tanto basso che non emergeva dalla linea dell'orizzonte.
La luce dell'emisfero lunare a noi visibile si era già spenta e riaccesa cinque volte (erano passati circa cinque mesi), dopo che avevamo intrapreso il viaggio, quando ci apparve una montagna (il Purgatorio) scura per la lontananza, e mi sembrò più alta di qualunque altra io avessi mai vista.
Noi ci rallegrammo, ma l'allegria si tramutò presto in pianto: infatti da quella nuova terra nacque una tempesta che colpì la nave a prua.
La fece girare su se stessa tre volte, in un vortice; la quarta volta fece levare in alto la poppa e fece inabissare la prua, come piacque ad altri (Dio), finché il mare si fu richiuso sopra di noi».
Struttura dell'inferno
Eugenio Caruso - 25 novembre - 2019
Tratto da