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Inferno Canto XXVII. I consiglieri di frode.

COMMENTO DEL CANTO XXVII

Il canto ventisettesimo dell'Inferno si svolge nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i consiglieri di frode; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
«Canto XXVII, dove tratta di que’ medesimi aguatatori e falsi consiglieri d’inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.» (Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

Riprendendo dalla fine del Canto precedente, Dante scrive come la fiamma di Ulisse si era già acquietata, dopo essersi mossa come sottovento per poter profferire parola, e se ne era andata, licenziata da Virgilio. Ecco che già un'altra le viene dietro e richiama l'attenzione dei due poeti a causa di un suono confuso che ne usciva dalla cima: parafrasando, esso ricorda a Dante quello del bue siciliano che muggì la prima volta con il pianto del suo artefice - e fu giusto così - tale che, sebbene esso fosse di rame, parve un bue reale. La colta perifrasi si riferisce a Perillo, ateniese, che aveva costruito per il tiranno di Agrigento Falaride un sistema per trarre divertimento dai supplizi delle persone che andavano a morire: un bue di rame poteva ospitare una persona viva e dopo che esso veniva arroventato sotto da una pira, un particolare congegno nella gola dell'animale di metallo faceva apparire le grida dei suppliziati come muggiti.
Il tiranno per ringraziamento fece testare la diabolica invenzione proprio all'artefice stesso, e ciò secondo Ovidio fu cosa giusta (Ars amatoria I 655-656), dal quale riprese Dante. In questo caso l'Alighieri voleva solo indicare che il suono proveniva dalla punta della fiamma in maniera sinistra, non già come da bocca umana che profferisse parola. Poi però, quando la "lingua" di fuoco (nel gioco "lingua del dannato", "lingua di fuoco" sta tutto il contrappasso di questi consiglieri fraudolenti) dà un certo guizzo sulla punta, allora i suoni diventano parole che si possono udire. Da notare anche il parallelismo tra il bue arroventato che racchiude i corpi e la fiamma infernale che racchiude le anime. L'anima dannata ha sentito parlare Virgilio in lombardo ("Istra ten va, più non t'adizzo", usato per congedarsi da Ulisse) e gli chiede di restare un po' a parlare con lui, poiché a lui farebbe piacere, pur se deve stare lì fermo, ardente!
Il dannato, verrà detto tra poco, è il condottiero Guido da Montefeltro, un personaggio contemporaneo a Dante. Guido inizia a parlare chiedendo innanzitutto notizie della Romagna (sappiamo dal canto di Farinata degli Uberti che i dannati vedono il futuro ma non il presente), la dolce terra ricordata con affetto e malinconia. Poi dà una prima breve presentazione di sé come nativo del Montefeltro, regione tra la Valmarecchia e il monte della sorgente del Tevere (Monte Fumaiolo). Guido ha fatto la sua richiesta pensando che i due pellegrini fossero due anime dannate da poco e non c'è nessun elemento che indichi che questi dannati possano vedere con la vista: essi odono e proferiscono parola soltanto. Virgilio si rivolge allora a Dante, che è ancora appoggiato alla roccia-parapetto del ponticello e che ha bisogno di essere toccato sul fianco per richiamarne l'attenzione, e gli dice: "Parla tu; questi è latino".
Dante allora, che dice di aver già preparato la risposta, inizia a tracciare un aggiornatissimo quadro della Romagna nell'anno 1300, citando cinque città-feudo con una terzina ciascuna. Ma prima dice al dannato che la Romagna non fu mai senza guerre nel cuore dei suoi tiranni (così dispregiativamente Dante vedeva le nascenti signorie), ma ora nessun conflitto si sta manifestando palesemente. Dante non lo dice, ma la pace era frutto dell'intromissione di Bonifacio VIII, che aveva forzatamente fatto alleare i signori di Bologna con i marchesi di Ferrara, mentre le altre città si tenevano prudentemente dentro i confini del proprio territorio.
1 Ravenna:
La città sta come sta da molti anni, con l'aquila dello stemma dei Da Polenta che vi cova e che stende le sue ali sopra Cervia. Infatti la signoria di Guido il Vecchio da Polenta (padre di Francesca) durava ormai dal 1275 e sotto il pontificato di Martino IV aveva esteso il suo dominio alle saline di Cervia.
2 Forlì:
Questa terra ha subito un lungo assedio ed ha fatto un sanguinoso mucchio di francesi (pare un migliaio, dopo lo scontro tra le milizie ghibelline di Guido da Montefeltro stesso e quelle pontificie di Jean d'Eppe del 1282, noto come battaglia di Forlì), e ora si trova sotto artigli verdi (del leone dello stemma degli Ordelaffi).
3 Rimini:
I due mastini, vecchio e nuovo, da Verucchio fanno "succhiello" con i loro denti sulla città e rovinarono il ghibellino Montagna dei Parcitati. Essi sono Malatesta da Verucchio e suo figlio Malatestino Malatesta (padre e fratellastro di Gianciotto e Paolo Malatesta), che uccisero il capo della parte ghibellina Montagna. Il riferimento al mastino si trova solo in uno scudo secondario della casata e se Dante lo conobbe lo scelse per usare un paragone di ferocia e animalesco a questa serie di tiranni.
4 Faenza e Imola:
Indicate dai loro fiumi rispettivamente il Lamone e il Santerno, le due città stanno sotto quello che ha per scudo il leone in campo bianco, Maghinardo Pagani da Susinana, che muta parte da la state al verno, cioè che cambia da guelfo a ghibellino da stagione a stagione (infatti si comportava da guelfo con i fiorentini e da ghibellino con i romagnoli per questioni di convenienza politica).
5 Cesena;
Indicata dal fiume Savio che la bagna, così come la città è posta tra pianura e montagna, così vive tra tirannia e stato franco (libero comune). Infatti il suo signore Galasso da Montefeltro aveva ormai la carica di podestà e capitano del popolo da quattro anni (un periodo lunghissimo allora per cariche che si avvicendavano generalmente pochi mesi) ed era signore quindi di fatto ma non per legge.
Dopo questo preciso excursus Dante chiede allora all'anima del dannato di dire chi sia, e di non essere recalcitrante a parlare visto che egli (Dante) non lo fu a rispondere alla sua domanda.
Guido (ancora non è svelata l'identità e si sa solo che fu un nativo del Montefeltro), inizia con una premessa: quello che sta per dire è verso di lui infamante, però visto che all'Inferno non viene mai persona viva e nessuno può tornare nel mondo, lo dice, che altrimenti ben ferma starebbe la sua fiamma. Dante non accenna parola, è forse una frode la sua? In realtà no perché egli è assistito dalla grazia divina e se un'anima gli confida i suoi peccati, per quanto gravi e dannosi per la sua fama sulla terra, è qualcosa che ricade in un disegno divino più ampio.
Guido allora si presenta come già uomo d'armi poi frate (cordigliero, cioè provvisto della corda del saio), perché credeva con tale conversione di fare ammenda delle sue azioni; e questo suo scopo si sarebbe attuato se non fosse per il gran prete, a cui mal prenda!, che lo fece ricadere nella sua colpa. Adesso egli andrà a spiegare il come e il quare (il "perché"): quando egli era in vita l'opere mie / non furon leonine, ma di volpe, cioè astute; Inoltre egli conobbe tutti gli accorgimenti e le coperte vie, con tale maestria che in ciò la sua fama usciva oltre il confine della terra (frase di ascendenza biblica - Salmi, XVIII 4 - ripresa anche da Dino Compagni e da Papa Martino IV quando indisse la crociata contro Guido asserragliato a Forlì, episodio bellico citato da Dante pochi versi prima). Arrivato alla vecchiaia, a differenza del protagonista del canto precedente, Ulisse, egli calò le vele e ripiegò le sartie (un paragone marinaresco che lo oppone a Ulisse che diceva misi me per l'alto mare aperto / sol con un legno e Io è compagni eravam vecchi e tardi e si dispiacque di ciò che prima gli era piaciuto, si pentì e si confessò.
Giovato sarebbe, ma il Principe dei nuovi Farisei, cioè colui che è il massimo tra coloro che applicavano una religione puramente esteriore e ipocrita (Papa Bonifacio VIII), aveva da far la guerra in Roma ("al Laterano", sede del palazzo apostolico), contro i suoi simili cristiani: non con saraceni, né con giudei, né contro coloro che avevano cinto d'assedio San Giovanni d'Acri, ultima roccaforte cristiana in Terra Santa sconfitta nel 1291, né contro coloro che facevano commerci, sebbene fosse vietato, con il Sultano dei musulmani; e non guardò né al suo sommo officio di pontefice, né ai suoi ordini di sacerdote, né al cordone di fra' Guido, corda che un tempo cingeva vite ben più magre, per il precetto di povertà che oggi non è più così rispettato come un tempo (sul decadimento degli ordini monastici Dante ritornerà in altre occasioni, per ora egli lo indica come riflesso della viziosità del papato).
Come Costantino I convocò Papa Silvestro I al Monte Soratte per ricevere la guarigione dalla lebbra, così quel papa mi chiamò per guarire la sua superba febbre (da notare come nella similitudine la figura del papa sia paragonata a quella del laico imperatore). Tutta questa parte del canto è un'ulteriore accusa a Bonifacio, dopo la rivelazione della sua simonia nella bolgia di Niccolò III. Delle notizie che seguono Dante ebbe informazioni per vie traverse e a noi ignote: il colloquio che sta per descrivere tra Bonifacio e Guido fu probabilmente top secret, e se non fosse stato per la soffiata di Dante, il condottiero-frate avrebbe tutt'altra immagine, essendo egli morto in odore di santità (così si spiega la sua reticenza all'inizio del passo di raccontare la sua storia ad anima viva).
Bonifacio dunque chiese consiglio a Guido da Montefeltro, quale navigato uomo di guerra sebbene passato a vita religiosa, a proposito del da farsi per battere la fazione dei Colonnesi (rivali dei Caetani, la famiglia del papa), che avevano impugnato la sua elezione sul soglio papale e si erano barricati nell'imprendibile rocca di Palestrina, che nonostante l'assedio delle truppe papali non dava segni di cedimento.
Tornando alle parole di Guido, il papa gli chiese consiglio sul da farsi, e lui tacque perché le sue parole parver ebbre, da ubriaco. Ma Bonifacio suadente gli offrì l'assoluzione dalle sue colpe (Guido dopotutto aveva già ricevuto due scomuniche, sebbene revocate, che ancora gli dovevano pesare), in cambio di un consiglio su come "gettare in terra" (abbattere, espugnare) Palestrina. Dopotutto egli, il papa, possedeva le due chiavi del cielo (che il suo predecessore, Celestino V, secondo le parole riportate di Bonifacio non ebbe care), ma anche l'arma della scomunica, che fece minacciosamente intendere a Guido di applicare in caso di suo rifiuto. Al che Guido, in cambio del perdono del peccato nel quale sta per cadere, gli confida che "lunga promessa con l'attender corto / ti farà trïunfar ne l'alto seggio", cioè che promettere molto agli avversari mantenendo poco lo avrebbe fatto vincere.
Quando Guido morì vennero a prenderlo San Francesco, titolare del suo ordine, e un diavolo. La rappresentazione di forze angeliche e diaboliche che si contendono un'anima non ha riscontri teologici (Dante stesso in paradiso dirà che i santi conoscono la volontà di Dio, quindi a maggior ragione non andrebbero a disputarsi anime la cui sorte è già ineluttabilmente segnata), però ha un forte richiamo di sapore popolaresco, e la si trova in molte fonti scritte e iconografiche medievali; Dante la riuserà per il figlio di Guido, Bonconte da Montefeltro in Purgatorio.
Il diavolo redarguisce quindi Guido del perché diede il consiglio frodolente (ecco il punto dove è più chiaro che tipo di dannati siano puniti in questa bolgia, che altrove sembrano per lo più astuti generici), dopo il quale il demone in questione non ha fatto altro che stargli alle calcagna (ecco un'altra credenza popolare, che le persone malvagie fossero accompagnate sempre da un diavolo invisibile pronto a prender loro l'anima appena spirassero).
Non si può assolvere chi non si pente, né pentirsi e voler peccare insieme, per contraddizione: con questo corretto sillogismo il diavolo ghermisce l'anima di Guido, al quale dice in tono di beffa: "forse tu non pensavi ch'io löico (logico, sottilissimo ragionatore) fossi", cioè qualcosa che suona come: "Ti saresti mai aspettato un diavolo filosofo?".
Guido finì così davanti a Minosse, che attorse la coda otto volte (ottavo cerchio) e lo destinò a quelli "del foco furo", del fuoco che ruba i corpi, mordendosi poi la coda per la rabbia, probabilmente di non poter ancora avere davanti il terribile Bonifacio VIII. Guido chiude il suo racconto e riparte, mentre Dante e Virgilio passano il fosso entrando nella bolgia dove "si paga il fio / a quei che scommettendo acquistan carco.", a coloro cioè che acquistano colpe "sconnettendo", cioè provocando scismi e discordie.

TESTO DEL CANTO XXVII

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?3

Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’ hanno a tanto comprender poco seno.6

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente9

per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,12

con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie15

a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;18

e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.21

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.24

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.27

Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: "Or vedi com'io mi dilacco!30

vedi come storpiato è Mäometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.33

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.36

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,39

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.42

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?".45

"Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena",
rispuose ’l mio maestro, "a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,48

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’è ver così com’io ti parlo".51

Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.54

"Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,57

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve".60

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.63

Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,66

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,69

e disse: "O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,72

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.75

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,78

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.81

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.84

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,87

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco".90

E io a lui: "Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara".93

Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: "Questi è desso, e non favella.96

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse".99

Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!102

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,105

gridò: "Ricordera’ ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, ’Capo ha cosa fatta’,
che fu mal seme per la gente tosca".108

E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta";
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.111

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;114

se non che coscïenza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura.
117

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;120

e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: "Oh me!".123

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.126

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,129

che fuoro: "Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.132

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.135

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.138

Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.141

Così s’osserva in me lo contrapasso".

GUIDO DA MONTEFELTRO

Nacque nella prima metà del XIII secolo da Montefeltrano II da Montefeltro e, per quanto fosse nei primi anni malaticcio, ovvero gracile e debole, diede in vecchiaia prove di forza e di resistenza. Nel 1248 era già capo di numerose schiere di ghibellini faentini e forlivesi, al servizio dell'imperatore Federico II. Nel 1259 era podestà di Urbino. Nel 1263 Guido ricevette il titolo di Conte di Ghiaggiolo, che più tardi gli consentirà di ottenere il diritto di cittadinanza forlivese. Quando la Firenze guelfa cacciò i ghibellini, confiscò i loro beni, che furono divisi tra i vincitori. Dopo il 1267 i fuoriusciti, eletto per loro capo Selvatico di Dovadola, marciarono contro la parte avversa di cui era capo Guido. Quando i due eserciti si trovarono di fronte l'uno all'altro, la paura invase gli assalitori, che fuggirono ancora prima di iniziare il combattimento. Con pari fortuna Guido prese Senigallia. Per i meriti acquisiti sul campo, nel 1268 fu nominato deputato-senatore di Roma. L'acerrimo nemico di Guido in Romagna fu Malatesta da Verucchio (1212-1312), capostipite del casato malatestiano riminese ed esponente della parte guelfa. Il primo scontro tra i due avvenne nel 1271. Guido volle togliere l'assedio con cui Malatesta stava stringendo Rimini, ma fu catturato e fatto prigioniero (22 giugno). Nel 1275 Guido fu protagonista di un altro scontro tra guelfi e ghibellini: la nota battaglia di San Procolo. Il casus belli: la guelfa Bologna attaccò la ghibellina Forlì, ma il tentativo fallì. I ghibellini, sotto il comando di Guido da Montefeltro, di Maghinardo Pagani e di Teodorico degli Ordelaffi, attaccarono la stessa Bologna: le forze avversarie furono sconfitte presso il fiume Senio, al ponte di San Procolo. La rotta dei bolognesi fu tale che persero anche il Carroccio, portato da Guido in trionfo a Forlì assieme al Gonfalone. Il Carroccio fu poi conservato a lungo nella sala del Consiglio, mentre l'asta del Gonfalone venne esposta e poi conservata nella chiesa di San Giacomo dei Domenicani. Nell'estate dello stesso anno Guido conquistò Cervia, togliendo a Bologna la sua fonte primaria di sale. Poi riportò la sua prima vittoria su Malatesta da Verucchio a Roversano (5 km a sud della città), cacciando così i Malatesta da Cesena (settembre). Per i meriti acquisiti sul campo, Guido fu elevato all'onore di Capitano del popolo di Forlì e Faenza. Guido divenne così il capo dei Ghibellini di tutta la Romagna. Nel 1275 Guido da Polenta prese la signoria di Ravenna. I Da Polenta erano una famiglia guelfa. Guido ritenne che i Da Polenta avrebbero potuto espandersi; in questo caso la prima città ad essere attaccata sarebbe stata Faenza. Nel maggio 1277 raccolse le sue truppe e cinse d'assedio Bagnacavallo, paese situato a mezza strada tra le due città. L'azione proseguì per diverse settimane, per cui fu necessario costruire un campo base attrezzato. Guido fece costruire una bastia fortificata e la chiamò Cotignola. In seguito la bastia divenne un paese abitato. Nel maggio 1281 Guido fu raggiunto dalla scomunica comminatagli da papa Martino IV, che cercava in questo modo di sradicare il predominio ghibellino in Romagna. Il provvedimento fu inefficace, tant'è che Guido l'anno seguente riportò una delle sue maggiori vittorie nella battaglia di Forlì. L'impresa fu ricordata da Dante, che di Forlì dice: la terra che fe' già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio. Fu la vittoria, momentanea, nel 1282, sull'esercito di francesi comandato da Giovanni di Appia che papa Martino IV aveva inviato contro la città di Forlì, roccaforte dei ghibellini. Nella circostanza, Guido ebbe anche l'aiuto dell'astronomo, allora celeberrimo, Guido Bonatti. La città era stata cinta d'assedio l'anno prima. Guido, fingendo la resa della città, era riuscito a rompere l'assedio, poi colse alla sprovvista i nemici, li sconfisse e li massacrò. Ma nel 1283 l'esercito alleato del papa, con alla testa Guido di Monforte, riportò la vittoria definitiva. Come condizione per accettare la resa, i vincitori ottennero che Guido fosse allontanato da Forlì (maggio 1283). Si trincerò nel suo castello di Meldola, dove resistette alcuni mesi. Poi Guido, che per la presa di Forlì era stato colpito dalla scomunica papale, dovette far atto di sottomissione. Fu inviato al confino, prima a Chioggia e poi ad Asti. Rimase ad Asti inattivo per alcuni anni. Nel 1289, richiamato dai pisani, cercò di portare ordine e disciplina nello stato di cui era affidatario. Nel 1295, fatta la pace tra fiorentini e pisani, una delle condizioni era l'allontanamento di Guido. Ma questi si accattivò l'animo del nuovo papa Bonifacio VIII e fu investito della signoria di Forlì. L'anno precedente, Guido si era riappacificato con la Chiesa. Sul suo capo pendeva una scomunica datata 26 marzo 1282. Dinanzi a papa Celestino V, nell'autunno 1294 Guido rinunciò definitivamente a fare opposizione alla Santa Sede ed ottenne l'assoluzione da tutte le condanne. Durante il suo soggiorno a Forlì, ripensò al suo passato di sanguinario. Si convertì, il 17 novembre 1296 vestì l'abito francescano, poi si ritirò in convento ad Assisi, dove visse i suoi ultimi anni.



PARAFRASI

hi mai potrebbe, anche in prosa e reiterando la narrazione, descrivere pienamente il sangue e le piaghe che io vidi?

Ogni lingua verrebbe certamente meno, a causa del nostro linguaggio e della nostra mente che hanno poca capacità di comprendere tutto questo.

Se anche si radunasse tutta la gente che nella terra travagliata dell'Italia del sud versò il proprio sangue per i Romani e nella lunga guerra che produsse un gran bottino di anelli, come scrive Livio che non sbaglia,

con quella gente che fu dolorosamente colpita per opporsi a Roberto il Guiscardo, e con l'altra gente le cui ossa ancora si raccolgono a Ceprano, là dove ogni barone pugliese fu traditore, e là a Tagliacozzo dove il vecchio Alardo vinse con la sua saggezza;

e se ognuno mostrasse le sue membra trafitte o mozzate, non sarebbe sufficiente a eguagliare l'aspetto orrendo della IX Bolgia.

Una botte, priva delle doghe del fondo, non è bucata così come io vidi un dannato tagliato dal mento fin dove si scorreggia (ano).

Gli pendevano le interiora tra le gambe; si vedevano gli organi interni e il ripugnante sacco (stomaco) che trasforma in escrementi ciò che si mangia.

Mentre io fissavo lo sguardo su di lui, egli mi guardò a sua volta e si aprì il petto con le mani, dicendo: «Adesso vedi come sono squarciato!

Vedi come è mutilato Maometto! Davanti a me se ne va piangendo Alì, col volto squarciato dal mento sino alla fronte.

E tutti gli altri che tu vedi in questo luogo, furono in vita seminatori di scandalo e scisma, e perciò sono così mutilati.

Qua dietro c'è un diavolo che ci acconcia così crudelmente, sottoponendo di nuovo al taglio della spada ciascun dannato di questa schiera, una volta che abbiamo completato il triste giro della Bolgia; infatti, prima che ognuno torni di nuovo davanti a lui, le ferite sono rimarginate.

Ma che sei tu, che ti attardi sul ponte forse per indugiare di sottoporti alla pena che ti è inflitta per le tue colpe?»

Il mio maestro gli rispose: «Questi non è ancora morto, né alcuna colpa lo conduce qui ai tormenti; ma io, che sono morto, devo condurlo attraverso l'Inferno di Cerchio in Cerchio per mostrargli pienamente questo luogo, e ciò è vero come il fatto che ti parlo».

Ci furono più di cento dannati che, quando lo sentirono, si fermarono nel fossato a guardarmi meravigliati, dimenticando la loro pena.

«Allora tu, che forse tra poco tornerai sulla Terra, di' a fra Dolcino che se non vuole raggiungermi presto si procuri molti viveri, così che un inverno rigido non porti ai Novaresi una vittoria che altrimenti sarebbe difficile da ottenere».

Dopo che ebbe alzato in aria un piede per andarsene, Maometto mi disse queste parole; quindi lo posò a terra per allontanarsi.

Un altro dannato, che aveva la gola squarciata, il naso mozzo fin sotto le ciglia ed era privo di un orecchio, fermatosi a guardarmi stupito come gli altri, prima degli altri aprì la canna della gola che fuori da ogni parte era rossa di sangue ,

e disse: «O tu che non sei dannato da alcuna colpa e che io conobbi in Italia, se un'eccessiva somiglianza non mi inganna, ricordati di Pier da Medicina, se mai tornerai a vedere la dolce pianura che digrada da Vercelli a Marcabò.

E fa' sapere ai due migliori uomini di Fano, a messer Guido del Cassero e anche ad Angiolello da Carignano, che, se la nostra preveggenza non è vana, saranno scaraventati fuori della loro nave e gettati in un sacco legato a una pietra presso Cattolica, per il tradimento di un feroce tiranno (Malatestino di Verrucchio).

Nettuno non ha mai visto un così grave delitto in tutto il Mediterraneo (tra Cipro e Maiorca), non commesso da pirati o da predoni di Argo (Greci).

Quel traditore che vede solo con un occhio (Malatestino) e che governa la terra (Rimini) che un dannato qui con me vorrebbe non avere visto mai, li indurrà a venire a parlare con lui; poi farà in modo che a loro non servano preghiere e voti contro i venti di Focara».

E io a lui: «Mostrami e dimmi, se vuoi che parli di te sulla Terra, chi è colui che fu danneggiato dall'aver visto Rimini».

Allora mise la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: «È questo qui, e non parla.

Questi, scacciato da Roma, spense ogni dubbio in Cesare, affermando che chi è pronto ad agire riportò sempre danni nell'attendere».

Oh, quanto mi sembrava sbalordito Curione, con la lingua mozzata nella gola, lui che fu così pronto a parlare!

E un altro, che aveva entrambe le mani mozzate e levava i moncherini in aria facendo ricadere il sangue sul suo volto, gridò: «Ti ricorderai anche di Mosca dei Lamberti, che disse - ahimè! - "Cosa fatta capo ha", che causò tanto male alla gente di Toscana».

E io aggiunsi: «E causò anche la fine della tua famiglia»; e allora lui, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò come una persona triste e fuori di sé.

Ma io rimasi a guardare la schiera delle anime, e vidi una cosa che avrei timore a riferire da solo, senza addurre altre prove;

se non che sono confortato dalla mia buona fede, che accompagna l'uomo e lo rende coraggioso proteggendolo con la difesa dell'avere la coscienza pura.

Io vidi di certo, e mi sembra di vederlo ancora, un tronco privo del capo che procedeva insieme agli altri di quel tristo gregge;

e teneva la testa mozzata per i capelli, penzoloni come una lanterna, e quella ci guardava e diceva: «Ahimè!»

Faceva lume a se stesso con una parte di sé (la testa) ed erano due individui e uno solo al tempo stesso: come può avvenire questo, lo sa Colui (Dio) che lo rende possibile.

Quando fu presso il ponte, alzò il braccio con tutta la testa per rivolgerci le sue parole, che furono queste: «Ora vedi la mia pena dolorosa, tu che visiti i morti da vivo: vedi se ce n'è un'altra grande come questa!

E affinché tu porti notizie di me, sappi che sono Bertran de Born, quello che diede al giovane re (Enrico III) i cattivi consigli.

Io spinsi il figlio contro il padre: Achitofel non fece cosa diversa con Assalonne e David, con malvagi incitamenti.

E poiché io ho diviso persone così unite, porto il mio cervello (me misero!) diviso dal midollo spinale che è in questo troncone. Così in me è evidente il contrappasso».


VIDEO HD https://www.youtube.com/watch?v=3ninSQbbvcM

GASSMAN https://www.youtube.com/watch?v=3fDpaGhyiM0

Struttura dell'inferno

inferno

Eugenio Caruso - 29 novembre - 2019

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