Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l' Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, mi dedico ora al Crizia.
COMMENTO
Il Crizia è uno degli ultimi dialoghi di Platone. Strutturato come una continuazione del Timéo (stessi personaggi, e quindi stessa data drammatica), si tratta di un dialogo incompiuto, che si conclude con la narrazione del mito di Atlantide, che probabilmente doveva rappresentare la parte centrale dell'opera. Secondo alcuni studiosi sarebbe seguito un ipotetico terzo dialogo intitolato Ermocrate a completamento della trilogia. Per quanto riguarda lo stile, il Crizia si presenta come un lungo monologo di Crizia (lo zio di Platone, leader dei Trenta Tiranni), a cui cede la parola Timeo, protagonista dell'omonimo dialogo. Nel suo lungo discorso, Crizia narra le origini dell'Attica secondo la testimonianza di Solone, cogliendo l'occasione per alcune riflessioni di filosofia politica che, molto probabilmente, avrebbe dovuto poi sviluppare nella seconda parte, mai scritta. Inoltre, stando a quanto afferma Socrate, alcuni commentatori ipotizzano che a questo sarebbe dovuto seguire un terzo dialogo, in cui avrebbe avuto la parola Ermocrate.
Riprendendo le conclusioni a cui era giunto con il suo discorso precedente, Timeo lascia la parola a Crizia, che dovrà continuare il ragionamento parlando delle cose umane. Si tratta di argomenti sui quali tutti sono molto esigenti, poiché bisogna parlare di uomini agli uomini: per questo motivo, Crizia chiede e ottiene che i suoi interlocutori siano indulgenti, e lo stesso viene concesso anche a Ermocrate, che parlerà dopo di lui.
Sono passati 9000 anni – ricorda Crizia riprendendo quanto detto nel Timeo – da quando scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano le due parti delle Colonne d'Ercole, sotto la guida delle città di Atene e Atlantide. Le origini di ciò sono molto antiche, e risalgono all'epoca in cui gli dèi si spartirono la terra in base a criteri razionali, senza le contese di cui parla la mitologia. Atena ed Efesto, affini sia perché fratelli sia perché entrambi amanti della sapienza e dell'arte, ebbero in comune il dominio sull'Attica, terra congeniale alla virtù e al pensiero, in cui sarebbero stati generati uomini retti. Le due divinità provvidero anche all'ordinamento politico della regione, dividendo i cittadini, uomini e donne, in due classi, distinguendo nettamente i guerrieri dagli altri. Essi infatti facevano vita comune, non possedevano beni privati, non maneggiavano metalli preziosi e mangiavano solo il necessario per vivere. Inoltre, l'Attica era una terra fertile e rigogliosa, e i suoi confini geografici erano ben diversi da quelli attuali, poiché parte dei territori originari sono scomparsi, inghiottiti dalle acque a seguito di cataclismi avvenuti nel corso dei secoli.
A Poseidone, invece, toccò in sorte Atlantide. Il dio si innamorò di Clito, una fanciulla dell'isola, e «recinse la collina dove ella viveva, alternando tre zone di mare e di terra in cerchi concentrici di diversa ampiezza, due erano fatti di terra e tre d'acqua», rendendola inaccessibile agli uomini, che all'epoca non conoscevano la navigazione. Rese inoltre rigogliosa la parte centrale, occupata da una vasta pianura, facendovi sgorgare due fonti, una di acqua calda e l'altra di acqua fredda. Poseidone e Clito ebbero dieci figli, il primo dei quali, Atlante, sarebbe divenuto in seguito il governatore dell'Impero. La civiltà atlantidea divenne una monarchia ricca e potente e l'isola fu divisa in dieci zone, ognuna governata da un figlio del dio del mare e dai relativi discendenti. La terra generava beni e prodotti in abbondanza, e sull'isola sorgevano porti, palazzi reali, templi e altre maestose opere. Al centro della città vi era il santuario di Poseidone e Clito, lungo uno stadio, largo tre plettri ed alto in proporzione, rivestito di argento al di fuori e di oricalco, oro e avorio all'interno, con al centro una statua d'oro di Poseidone sul suo cocchio di destrieri alati, che arrivava a toccare la volta del tempio.
Ognuno dei dieci re governava la propria regione di competenza, ed erano legati gli uni agli altri dalle disposizioni previste da Poseidone e incise su una lastra di oricalco posta al centro dell'isola, attorno a cui si riunivano per prendere decisioni che riguardavano tutti. Crizia descrive anche il rituale da eseguire prima di deliberare, che prevedeva una caccia al toro armati solo di bastoni e una libagione con il sangue dell'animale ucciso, seguita da un giuramento e da una preghiera. La virtù e la sobrietà dei governanti durò per molte generazioni, finché il carattere umano ebbe il sopravvento sulla loro natura divina. Caduti preda della bramosia e della cupidigia, gli abitanti di Atlantide si guadagnarono l'ira di Zeus, il quale chiamò a raccolta gli dèi per deliberare sulla loro sorte.
Le notizie che Platone narra di Atlantide provengono molto probabilmente dalla tradizione greca, da Creta e forse dall'Egitto e da altre fonti a noi perdute, il tutto reinterpretato letterariamente dal filosofo. È anzitutto evidente il punto di vista da cui viene narrato il mito, che pone al centro la città di Atene, simbolo di sobrietà e rigore. Ma oltre all'immediato paragone con la polis corrotta dell'epoca di Platone, è riscontrabile nel dialogo una proposta utopica, che si esprime nella contrapposizione delle due città, a cui corrispondono due diverse concezioni del modello divino.
Sia l'Atene primitiva, suddivisa in aree da coltivare e abitata da contadini e artigiani, sia la ricca e potente Atlantide sono infatti rappresentazioni del modello divino tratteggiato nel Timeo, a cui la città “storica” deve guardare nella sua organizzazione politica ed economica; la loro decadenza invece, sentenziata da cataclismi naturali e, nel caso di Atlantide, dovuta alla cupidigia degli uomini, è un palese richiamo alla corruzione degli Stati già descritta nella Repubblica. In analogia con la struttura del Timeo, la seconda parte del Crizia avrebbe dovuto descrivere la realtà intermedia tra il logos e il disordine, con un chiaro riferimento alla situazione delle poleis nel decennio tra il 360 e il 350 a.C., caratterizzata da scontri tra un centro e l'altro per il controllo dei traffici commerciali: decaduta anch'essa dopo la scomparsa della città rivale, l'Atene del mito avrebbe potuto salvarsi dall'inesorabile declino solo rivolgendosi a leggi ispirate al Bene.
TESTO DEL CRIZIA
TIMEO
Con quanta gioia, o Socrate, come se riposassi dopo un lungo cammino, mi libero ora volentieri del corso del ragionamento. [1] Quel dio, [2] nato un tempo nella realtà e ora nato da poco a parole, io prego che ci garantisca la conservazione, tra tutto ciò che è stato detto, di quelle cose che sono state dette con misura, e se, senza avvedercene, dicemmo qualcosa di stonato su di loro, di infliggere la giusta pena. Ma giusta punizione è rendere intonato colui che stona; affinché dunque in futuro facciamo discorsi corretti sull'origine degli dèi, preghiamo di fornirci la conoscenza, potentissimo ed efficacissimo tra i rimedi. Dopo aver così pregato, lasciamo, conformemente a quanto convenuto, il seguito del ragionamento a Crizia.
CRIZIA
[3] Ebbene, Timeo, accetto; tuttavia la preghiera a cui anche tu all'inizio facesti ricorso, chiedendo comprensione giacché avresti parlato di grandi cose, ebbene, Questa stessa preghiera la formulo anch'io adesso, ma chiedo di ottenere una comprensione ancora maggiore per le cose che stanno per essere dette. Sebbene io sappia più o meno che la richiesta è molto ambiziosa e che sto per farla in modo più rozzo di come avrei dovuto, tuttavia devo farla. Del resto, quale uomo dotato di senno oserebbe affermare che le tue parole non sono state dette bene? D'altra parte il fatto che ciò che sarà detto ha bisogno di maggior comprensione in quanto più difficile, questo in qualche modo bisogna cercare di spiegarlo. Perché, caro Timeo, quando si dice qualcosa degli dèi agli uomini è più facile dare l'impressione di parlarne esaurientemente che non quando a noi si parla dei mortali. Infatti l'inesperienza e la totale ignoranza degli ascoltatori costituiscono un'ampia risorsa per chi intenda parlare di quelle cose sulle quali chi ascolta si trova in siffatta condizione: quanto agli dèi poi conosciamo la nostra situazione. Per chiarire maggiormente ciò che vado dicendo, seguitemi per questa via. Imitazione e rappresentazione bisogna che in qualche misura siano i discorsi pronunciati da tutti noi: [4] la riproduzione di immagini fatta dai pittori, atta a rappresentare i corpi divini e i corpi umani, consideriamola per la facilità e la difficoltà a sembrare, a coloro che la guardano, un'imitazione soddisfacente, e riconosceremo che terra e monti e fiumi e boschi, tutto il cielo e le cose che in esso sono e si muovono in un primo momento potrebbero soddisfarci, se uno è in grado di riprodurre anche in piccola parte qualcosa per somiglianza; ma poi, dal momento che di tali cose non sappiamo nulla di preciso, non esaminiamo né critichiamo le pitture, e ci serviamo di un chiaroscuro indistinto e ingannevole per questi stessi oggetti; invece quando uno tenta di rappresentare i nostri corpi, poiché percepiamo distintamente ciò che viene trascurato, per via della osservazione costante e familiare, diventiamo giudici terribili di chi non renda in maniera completa tutte le somiglianze. Questa stessa cosa bisogna notare che avviene anche per i discorsi, e cioè ci riteniamo soddisfatti se gli argomenti celesti e divini vengono esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, mentre le cose mortali e umane le sottoponiamo ad attento esame. Ebbene se, in ciò che stiamo dicendo ora improvvisando, non saremo capaci di rendere perfettamente quel che conviene, bisogna avere indulgenza: perché si deve pensare che le cose mortali non sono facili ma difficili da rappresentare rispetto all'aspettativa. Ho detto tutto questo, o Socrate, perché volevo ricordarvi questi fatti, e chiedere un'indulgenza non minore, bensì maggiore per le cose che stanno per essere dette. Se dunque sembra che a buon diritto io chieda tale dono, concedetemelo di buon grado.
SOCRATE
Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da parte nostra concesso anche al terzo, a Ermocrate. [5] è chiaro infatti che tra poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi; e dunque per far sì che possa preparare un altro inizio e non sia costretto a pronunciarne uno uguale, parli convinto di avere, per quel momento, la nostra indulgenza. Tuttavia, caro Crizia, ti espongo preventivamente il pensiero dell'uditorio: il poeta che ti ha preceduto gode di una fama straordinaria presso questo uditorio, cosicché avrai bisogno di una buona dose di indulgenza, se è tua intenzione poterti procurare questi stessi riconoscimenti.
ERMOCRATE
Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed effettivamente uomini privi di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e, rivolta l'invocazione a Peone e alle Muse, [6] proclamare e celebrare le virtù degli antichi cittadini.
CRIZIA
Caro Ermocrate, tu sei stato assegnato all'ultima fila [7] e hai un altro davanti a te, ed è per questo che sei ancora pieno di baldanza. Di che natura sia dunque questa impresa, presto sarà essa stessa a chiarirtelo: bisogna quindi prestare ascolto alle tue esortazioni e ai tuoi incoraggiamenti e oltre agli dèi che tu hai menzionato dobbiamo invocare anche gli altri e soprattutto Mnemosine. [8] Infatti quello che, per così dire, è l'aspetto più importante delle nostre parole dipende interamente da questa divinità: se abbiamo sufficiente memoria e avremo riferito più o meno ciò che sia stato detto dai sacerdoti e riportato qui da Solone, [9] io sono più o meno sicuro che a questo uditorio daremo l'impressione di aver svolto adeguatamente i nostri compiti. Questo dunque è ciò che bisogna fare e non indugiare oltre. Per prima cosa ricordiamoci che in totale erano novemila anni [10] da quando, come si racconta, scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne di Eracle e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra bisogna ora descriverla compiutamente.
[11] A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città, che sostenne la guerra per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il comando dei re dell'isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, [12] era a quel tempo più grande della Libia e dell'Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile [13] che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre. Quanto ai numerosi popoli barbari e a tutte le stirpi greche che esistevano allora, per ciascuna lo sviluppo del discorso nel suo svolgersi mostrerà ciò che accadde; quanto invece alla stirpe degli Ateniesi di allora e degli avversari contro i quali guerreggiarono, è necessario innanzi tutto esporre da principio la potenza di ciascuno e le loro costituzioni. E tra questi stessi popoli dobbiamo dare la priorità, nel racconto, a quelli che abitarono qui. Gli dèi infatti un tempo si divisero a sorte tutta quanta la terra secondo i luoghi - non per contesa: [14] sarebbe difatti un ragionamento non giusto pensare che gli dèi ignorino ciò che conviene a ciascuno di loro e che poi, conoscendo ciò che conviene meglio ad altri, avessero cercato di procurarselo per se stessi a forza di contese - ottenendo dunque con sorteggi di giustizia ciò che era loro gradito, prendevano dimora in quelle regioni e, dopo esservisi stabiliti, come i pastori le greggi, ci allevavano beni propri e proprie creature, senza usare violenza sul corpo con la forza fisica, come i pastori che conducono al pascolo le bestie sotto i colpi della sferza, [15] ma nel modo in cui, in particolare, si tratta un animale docile, guidando da poppa, attaccandosi all'anima con la persuasione come un timone, secondo il loro disegno: in questo modo guidavano e governavano tutto il genere umano.
Gli dèi, avendo dunque ottenuto in sorte chi questi luoghi chi altri, li amministravano. Efesto e Atena, [16] che hanno una natura comune, sia in quanto fratello e sorella nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo fine per il loro amore della sapienza e dell'arte, così ricevettero entrambi un unico lotto, questa regione, come congeniale e naturalmente adatta per la virtù e il pensiero, e avendovi fatto nascere come autoctoni [17] uomini virtuosi, stabilirono nella loro mente l'ordinamento politico; i loro nomi sono conservati, ma le loro opere a causa delle distruzioni dei successori e per la lunghezza del tempo trascorso, sono svanite. Infatti la stirpe che sempre sopravviveva, come si è detto precedentemente, [18) rimaneva montanara e illetterata, e conosceva solo per sentito dire i nomi dei signori di quella regione e, oltre a questi, poche delle loro opere. Essi dunque, si accontentavano di assegnare questi nomi ai figli, ma ignoravano le virtù e le leggi dei predecessori, tranne alcune oscure informazioni su ognuno di loro e trovandosi, essi e i loro figli per molte generazioni, sprovvisti dei beni di necessità, rivolgendo la mente a ciò di cui mancavano, e a questo dedicando inoltre i loro discorsi, non si curavano dei fatti avvenuti nei tempi precedenti e anticamente.
Il racconto e la ricerca degli avvenimenti antichi infatti entrano nelle città insieme con il tempo libero, quando si comincia a vedere qualcuno già rifornito dei beni necessari per vivere, prima no. Così i nomi degli antichi si sono conservati, senza il ricordo delle loro opere. Dico questo basandomi sul fatto che tra le moltissime imprese che appunto si ricordano associate ai nomi di ciascuno, di Cecrope, Eretteo, Erittonio, Erisittone [19] e degli altri eroi anteriori a Teseo, [20] tra queste imprese Solone dice che i sacerdoti, menzionando per lo più i nomi di quei personaggi, raccontarono la guerra che si combatté a quel tempo, e allo stesso modo per i nomi delle donne. Quanto poi all'immagine e alla statua della dea, dal momento che a quel tempo le occupazioni militari erano comuni sia alle donne sia agli uomini, così, conformemente a quella consuetudine, essi avevano una statua votiva della dea armata, prova che tutti gli esseri viventi che vivono associati, femmine e maschi, sono per natura capaci di esercitare in comune la virtù che compete a ciascun sesso.
[21] A quel tempo dunque abitavano in questa regione le altre classi di cittadini impegnate nei mestieri e a trarre nutrimento dalla terra, mentre la classe dei guerrieri, fin dal principio distinta per volere di uomini divini, viveva separatamente, provvista di tutto ciò che fosse necessario per il sostentamento e per l'educazione; nessuno di loro possedeva nulla di proprio, ma consideravano tutto in comune, e non ritenevano giusto accettare nulla dagli altri cittadini che fosse più del nutrimento sufficiente ed esercitavano tutte le attività descritte ieri, che sono state menzionate a proposito dei guardiani che abbiamo ipotizzato. [22] Inoltre la storia che veniva riportata sulla nostra regione era credibile e vera: per prima cosa, per quel che concerne i confini a quel tempo arrivavano fino all'Istmo [23] e, nella parte lungo il resto del continente, fino alle cime del Citerone [24] e del Parnete, [25] scendevano poi avendo a destra l'Oropia [26] e a sinistra fino al mare escludendo l'Asopo: [27] questa nostra regione superava per fertilità tutte le altre, per cui a quel tempo poteva anche nutrire un grande esercito inoperoso nei lavori dei campi. Una valida prova del suo valore: ciò che ora resta di essa sostiene il confronto con qualunque terra, perché produce di tutto, molti frutti e abbondanti pascoli per tutti gli animali. A quel tempo invece, oltre alla fine qualità di quei frutti, ne produceva anche in grande abbondanza.
Come è possibile dunque questo e sulla base di quale residuo attuale della terra di allora può esser detto a ragione? Essa, staccata interamente dal resto del continente, giace allungandosi fino al mare come la punta di un promontorio; il bacino di mare che la comprende sprofonda rapidamente da ogni parte. Essendoci dunque stati molti e terribili cataclismi in questi novemila anni - perché tanti sono gli anni che intercorrono da quel tempo fino a oggi - la parte di terra che in questi anni e in tanti accidenti si è staccata dalle alture non accumulava sedimenti di terra di una certa consistenza, come in altri luoghi e, scivolando giù in un processo continuo tutt'intorno, scompariva nella profondità del mare; dunque, come avviene nelle piccole isole, a confronto con ciò che c'era a quel tempo, le parti che oggi restano sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la terra intorno, ciò che di essa era grasso e molle, è scivolata via, ed è rimasto soltanto, della regione, l'esile corpo. A quel tempo invece, quando era integra, aveva per monti colline e levate e ricche di terra grassa, le pianure oggi dette di Felleo, [28] e sui monti aveva vasti boschi, dei quali sussistono testimonianze visibili ancora oggi. E di quei monti ve ne sono alcuni che attualmente forniscono nutrimento soltanto alle api, ma non è poi moltissimo tempo che, ricavati dagli alberi tagliati via da qui per fare da riparo in costruzioni imponenti, si conservavano ancora i tetti.
Vi crescevano, numerosi, alti alberi coltivati, ma fornivano anche pascoli inesauribili per il bestiame. Inoltre ogni anno godeva dell'acqua che veniva da Zeus, e non la perdeva, come avviene ai nostri giorni, quando scompare defluendo via dalla terra spoglia fino al mare; poiché ne aveva in abbondanza la accoglieva nel suo seno, la teneva in serbo nella terra argillosa e impermeabile, lasciando poi cadere l'acqua dall'alto dalle alture fino alle cavità, offriva dappertutto abbondante flusso di sorgenti e di fiumi, e i santuari che ancora oggi rimangono presso le sorgenti che esistevano un tempo sono una testimonianza del fatto che i racconti odierni su di essa corrispondono a verità. Queste dunque le condizioni naturali del resto del paese. E, come conviene, era tenuta in bell'ordine, da veri agricoltori, che facevano proprio questo mestiere, amanti del bello e dotati di buone qualità, disponevano di terra eccellente, acqua in notevole abbondanza e, su quella terra, godevano di stagioni decisamente temperate.
Ed ecco come era abitata a quel tempo la città. Innanzi tutto la parte dell'acropoli non era allora come è oggi. Ci fu infatti una sola notte di pioggia, in cui piovve più di quanto la terra potesse sopportare, che l'ha liquefatta tutt'intorno e resa oggi terribilmente spoglia, e nello stesso tempo vi furono terremoti e una straordinaria alluvione, la terza prima della catastrofe di Deucalione; [29] ma precedentemente, in un altro tempo, per grandezza si estendeva fino all'Eridano e all'Ilisso, [30] abbracciava al suo interno la Pnice [31] e comprendeva, dalla parte opposta rispetto alla Pnice, il monte Licabetto, [32] ed era tutta di terra e, salvo che in un piccolo tratto sulla sommità, pianeggiante. Le zone periferiche, sotto i fianchi stessi dell'Acropoli, erano abitate dagli artigiani e dagli agricoltori che lavoravano la terra circostante; la zona superiore la abitava, intorno al santuario di Atena e di Efesto, la sola classe dei guerrieri, i quali l'avevano circondata da un muro come il giardino di un'unica dimora.
Abitavano i fianchi di questa rivolti a settentrione, in dimore comuni. Vi avevano allestito mense per i mesi invernali; tutto ciò che si addiceva alla vita in comune, per le loro costruzioni e per i santuari, essi lo possedevano, fatta eccezione per l'oro e l'argento - di questi metalli infatti non facevano assolutamente uso, e perseguivano piuttosto una via di mezzo tra sfarzo arrogante e illiberale spilorceria, abitando case dignitose, nelle quali essi stessi e i figli dei loro figli invecchiavano e che lasciavano via via in eredità ad altri uguali a loro [33] -, i fianchi esposti a sud invece, quando abbandonavano giardini, ginnasi e mense, ad esempio durante la stagione estiva, li utilizzavano per questi scopi. C'era una sola fonte, nel luogo dove oggi è l'acropoli, della quale, inaridita a causa dei terremoti, restano attualmente piccoli rivoli tutt'intorno, e che invece agli uomini di quel tempo forniva, a tutti, un flusso abbondante, ed era temperata sia in inverno sia in estate. Questo dunque il modo in cui abitavano la città, fungendo da custodi dei loro propri concittadini e d'altra parte da capi, liberamente accolti, degli altri Greci, sempre però vegliando che al loro interno fosse quanto più possibile lo stesso in tutti i tempi il numero degli uomini e delle donne, di quelli già in grado di combattere e di quelli che lo fossero ancora, circa ventimila al massimo.
[34] Tali dunque essendo questi uomini e in tal modo sempre amministrando secondo giustizia la propria città e la Grecia, erano stimati in tutta l'Europa e in tutta l'Asia per la bellezza del corpo e per ogni tipo dì virtù dell'animo, ed erano fra tutti gli uomini del loro tempo i più famosi. Quanto poi ai loro avversari, quali fossero le loro condizioni e come andassero le cose in origine, se in noi non è spento il ricordo di ciò che udimmo quando eravamo ancora bambini, ve lo spiegheremo: e ciò che sappiamo sia in comune [35] con gli amici. è d'uopo tuttavia, prima di iniziare il discorso, fornire ancora una breve chiarificazione, perché non vi sorprendiate di sentire pronunciare nomi greci per uomini barbari: ne apprenderete la causa. Solone, poiché aveva in mente di usare questo racconto per la sua poesia, cercando informazioni sul senso di questi nomi, trovò che quegli Egiziani che per primi avevano scritto questi nomi, li avevano tradotti nella propria lingua, e di nuovo egli, a sua volta, recuperando il significato di ciascun nome, li trascrisse trasferendoli nella nostra lingua.
E questi scritti appunto si trovavano in possesso di mio nonno, attualmente sono ancora in mio possesso, e me ne sono molto occupato quando ero un ragazzo. [36] Se dunque udrete tali nomi, simili a questi nostri, non vi sembri strano: ne conoscete la ragione. Ed ecco dunque qual era press'a poco l'inizio di questo lungo racconto. Come si è detto prima [37] a proposito del sorteggio degli dèi, che si spartirono tutta la terra, in lotti dove più grandi dove più piccoli, e istituirono in proprio onore offerte e sacrifici, così anche Poseidone, che aveva ricevuto in sorte l'isola di Atlantide, stabilì i propri figli, generati da una donna mortale, in un certo luogo dell'isola.
Vicino al mare, ma nella parte centrale dell'intera isola, c'era una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e garanzia di prosperità, vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa cinquanta stadi, [38] c'era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato. Questo monte era abitato da uno degli uomini nati qui in origine dalla terra, il cui nome era Euenore e che abitava lì insieme a una donna, Leucippe. Generarono un'unica figlia, Clito. La fanciulla era ormai in età da marito, quando la madre e il padre morirono.
Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, sì unì con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio, a partire dal centro dell'isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l'isola fosse inaccessibile agli uomini: a quel tempo infatti non esistevano né imbarcazioni né navigazione. Egli stesso poi abbellì facilmente, come può un dio, l'isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte, l'altra fredda; fece poi produrre dalla terra nutrimento d'ogni sorta e in abbondanza. Generò cinque coppie di figli maschi, [39] li allevò e dopo aver diviso in dieci parti tutta l'isola di Atlantide, al figlio nato per primo dei due più vecchi assegnò la dimora della madre e il lotto circostante, che era il più esteso e il migliore, e lo fece re degli altri, gli altri li fece capi e a ciascuno diede potere su un gran numero di uomini e su un vasto territorio. Diede a tutti dei nomi, a colui che era il più anziano e re assegnò questo nome, che è poi quello che ha tutta l'isola e il mare, chiamato Atlantico perché il nome di colui che per primo regnò allora era appunto Atlante; [40] il fratello gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l'estremità dell'isola verso le Colonne di Eracle, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica dal nome di quella località, in greco era Eumelo, mentre nella lingua del luogo Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la denominazione a questa regione. Ai due figli che nacquero nel secondo parto Poseidone diede, al primo, il nome Amfere e al secondo il nome Euemone; ai figli di terza nascita diede nome Mnesea, a quello nato per primo, Autoctone a quello nato dopo; dei figli di quarta nascita Elasippo fu il primo e Mestore il secondo; ai figli di quinta nascita fu dato il nome di Azae al primo, di Diaprepe al secondo.
Tutti costoro, essi stessi e i loro discendenti, per molte generazioni abitarono qui, esercitando il comando su molte altre isole di quel mare, ed inoltre, come si disse anche prima, governando regioni al di qua, fino all'Egitto e alla Tirrenia. La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorata, e poiché era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio dei suoi figli il potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in quantità tale quante mai ve n'erano state prima in nessun dominio di re, né mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d'altra parte potendo disporre di tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del paese. Infatti molte risorse, grazie al loro predominio, provenivano loro dall'esterno, ma la maggior parte le offriva l'isola stessa per le necessità della vita: in primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si conosce solo il nome - a quel tempo invece la sostanza era più di un nome, l'oricalco, [41] estratto dalla terra in molti luoghi dell'isola, ed era il più prezioso, a parte l'oro, tra i metalli che esistevano allora - sia tutto ciò che le foreste offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e nutriva poi a sufficienza animali domestici e selvaggi. In particolare era qui ben rappresentata la specie degli elefanti. Difatti i pascoli per gli altri animali, per quelli che vivono nelle paludi, nei laghi e nei fiumi e così per quelli che pascolano sui monti e nelle pianure, erano per tutti abbondanti e altrettanto lo erano per questo animale, nonostante sia il più grosso e il più vorace.
A ciò si aggiunga che le essenze profumate che la terra produce ai nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da fiori o da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora, forniva il frutto coltivato e quello secco [42] che ci fa da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo per fare il pane - tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo cereali - e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti e oli profumati, il frutto dalla dura scorza, usato per divertimento e per piacere, difficile da conservare, [43] così quelli che serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi è affaticato dalla sazietà: [44] tali prodotti l'isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli e meravigliosi, in una abbondanza senza fine. Prendendo dunque dalla terra tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali, i porti, i cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente modo. Le cinte di mare che si trovavano intorno all'antica metropoli per prima cosa le resero praticabili per mezzo di ponti, formando una via all'esterno e verso il palazzo reale. Il palazzo reale lo realizzarono fin da principio in questa stessa residenza del dio e degli antenati, ricevendolo in eredità l'uno dall'altro, e aggiungendo ornamenti a ornamenti cercavano sempre di superare, per quanto potevano, il predecessore, finché realizzarono una dimora straordinaria a vedersi per la grandiosità e la bellezza dei lavori. Realizzarono, partendo dal mare, un canale di collegamento largo tre plettri, [45] profondo cento piedi [46] e lungo cinquanta stadi fino alla cinta di mare più esterna: crearono così il passaggio dal mare fino a quella cinta, come in un porto, dopo aver formato un'imboccatura sufficiente per l'ingresso delle navi di maggiori dimensioni. Inoltre tagliarono le cinte di terra che dividevano tra loro le cinte di mare all'altezza dei ponti, tanto da poter passare, a bordo di una sola trireme, da una cinta all'altra, e coprirono i passaggi con tetti, in modo tale che la navigazione avvenisse al di sotto: e infatti le sponde delle cinte di terra si elevavano sufficientemente sul livello del mare.
La cinta maggiore, con la quale era in comunicazione il mare, era di tre stadi di larghezza e di pari larghezza era la cinta di terra a ridosso; delle due cinte successive quella di mare era larga due stadi, quella di terra aveva ancora una volta una larghezza pari alla cinta di mare; di uno stadio era invece la cinta di mare che correva intorno all'isola stessa, nel mezzo. L'isola, nella quale si trovava la dimora dei re, aveva un diametro di cinque stadi. Questa, tutt'intorno, e le cinte, e il ponte, largo un plettro, li circondarono da una parte e dall'altra con un muro di pietra, facendo sovrastare il ponte, da entrambe le parti, da torri e porte, lungo i passaggi che portavano al mare; tagliarono la pietra tutt'intorno, al di sotto dell'isola centrale, e sotto le cinte, nella parte esterna e in quella interna, bianca, nera, rossa, [47] e mentre tagliavano creavano all'interno due profondi arsenali la cui copertura era di quella stessa pietra. Quanto alle costruzioni, alcune erano semplici, mentre altre le realizzavano variopinte, mescolando, per il piacere della vista, le pietre: e così rendevano loro una grazia naturale; rivestirono tutto il perimetro del muro che correva lungo la cinta esterna con il bronzo, servendosene a guisa di intonaco, mentre quello della cinta interna lo spalmarono con stagno fuso, e infine quello che circondava la stessa acropoli con oricalco dai riflessi di fuoco. Il palazzo reale, all'interno dell'acropoli, era sistemato nel seguente modo. Al centro il santuario, consacrato in quello stesso luogo a Clito e a Poseidone, era lasciato inaccessibile, circondato da un muro d'oro, e fu là che in origine concepirono e misero al mondo la stirpe dei dieci capi delle dinastie reali; ed era ancora là che ogni anno venivano, da tutte e dieci le sedi del paese, le offerte stagionali per ognuno di quelle divinità.
Il tempio dello stesso Poseidone era lungo uno stadio, largo tre plettri, proporzionato in altezza a queste dimensioni, e aveva nella figura un che di barbarico. Rivestirono d'argento tutta la parte esterna del tempio, ad eccezione degli acroterii, e gli acroterii erano d'oro; quanto agli interni, il soffitto era a vedersi interamente d'avorio, variegato d'oro, argento e oricalco; tutte le altre parti, pareti, colonne e pavimento, le rivestirono di oricalco. Vi collocarono statue d'oro, il dio in piedi su un carro, auriga di sei cavalli alati, egli stesso tanto grande da toccare con la testa il soffitto del tempio, tutt'intorno cento Nereidi [48] su delfini - perché tante pensavano allora che fossero le Nereidi - e vi erano molte altre statue, doni votivi di privati. Intorno al santuario, all'esterno, si trovavano immagini d'oro di tutti, le donne e quei re che nacquero dai dieci, e molte altre offerte votive di grandi dimensioni, di re e privati, originari della città stessa e di altri paesi esterni, quelli sui quali governavano. L'altare, per la grandezza e la raffinatezza del lavoro, era in armonia con questo apparato, e la reggia, allo stesso modo, ben rispondeva da una parte alla grandezza dell'impero, dall'altra allo splendore del tempio stesso. Quanto alle fonti, quella della sorgente di acqua fredda e quella della sorgente di acqua calda, di generosa abbondanza, ognuna straordinariamente adatta all'uso per la gradevolezza e la virtù delle acque, le utilizzavano disponendo intorno abitazioni e piantagioni di alberi adatte a quelle acque e installandovi intorno cisterne, alcune a cielo aperto, altre coperte usate in inverno per i bagni caldi, da una parte quelle del re, dall'altra quelle dei privati, altre ancora per le donne, altre per i cavalli e per le altre bestie da soma, attribuendo a ciascuna la decorazione appropriata.
L'acqua che sgorgava da qui la portavano fino al bosco sacro di Poseidone, alberi d'ogni sorta, che avevano, grazie alla virtù della terra, bellezza ed altezza straordinarie, e facevano scorrere l'acqua fino ai cerchi esterni attraverso canalizzazioni costruite lungo i ponti. E qui erano stati costruiti molti templi, in onore di molte divinità, molti giardini e molti ginnasi, alcuni per gli uomini, altri per i cavalli, a parte, in ognuna delle due isole circolari. Inoltre, al centro dell'isola maggiore, per sé si erano riservati un ippodromo, largo uno stadio e tanto lungo da permettere ai cavalli di percorrere per la gara l'intera circonferenza. Intorno a questo, dall'una e dall'altra parte, vi erano costruzioni per le guardie, per la gran massa dei dorifori; [49] ai più fedeli era stato assegnato il presidio nella cerchia minore, che si trovava più vicino all'acropoli, mentre a coloro che fra tutti si distinguevano per fedeltà erano stati dati alloggi all'interno dell'acropoli, vicino ai re. Gli arsenali erano pieni di triremi e delle suppellettili necessari alle triremi, tutte preparate in quantità sufficiente.
E nel modo seguente erano poi sistemate le cose intorno alla residenza dei re: per chi attraversava i porti esterni, in numero di tre, a partire dal mare correva in cerchio un muro, distante cinquanta stadi in ogni parte dalla cinta maggiore e dal porto. Tale muro si chiudeva in se stesso in uno stesso punto, presso l'imboccatura del canale dalla parte del mare. Tutta questa estensione era coperta di numerose e fitte abitazioni, mentre il canale e il porto maggiore pullulavano di imbarcazioni e di mercanti che giungevano da ogni parte e che, per il gran numero, riversavano giorno e notte voci e tumulto e fragore d'ogni genere. Abbiamo dunque riferito ora press'a poco quanto a quel tempo si disse della città e dell'antica dimora; cerchiamo allora di richiamare alla mente quale fosse la natura del resto del paese e come fosse organizzato. In primo luogo tutto quanto il territorio si diceva che fosse alto e a picco sul mare, mentre tutt'intorno alla città vi era una pianura, che abbracciava la città ed era essa stessa circondata da monti che discendevano fino al mare, piana e uniforme, tutta allungata, lunga tremila stadi sui due lati e al centro duemila stadi dal mare fin giù. Questa parte dell'intera isola era rivolta a mezzogiorno e al riparo dai venti del nord. I monti che la circondavano erano rinomati a quel tempo, in numero, grandezza e bellezza superiori ai monti che esistono oggi, per i molti villaggi ricchi di abitanti che vi si trovano e d'altra parte per i fiumi, i laghi, i prati, capaci di nutrire ogni sorta di animali domestici e selvaggi, per le foreste numerose e varie, inesauribili per l'insieme dei lavori e per ciascuno in particolare.
Questa pianura in un lungo lasso di tempo, per opera della natura e di molti re, prese dunque la seguente sistemazione. Aveva, come ho già detto, la forma di un quadrilatero, rettilineo per la maggior parte, e allungato, ma là dove si discostava dalla linea retta lo raddrizzarono per mezzo di un fossato scavato tutt'intorno: ciò che si dice della profondità, larghezza e lunghezza di questo fossato non è credibile, che cioè opera realizzata dalla mano dell'uomo potesse essere di tali dimensioni, oltre agli altri duri lavori che aveva comportato. Bisogna tuttavia riferire ciò che udimmo: ebbene, era stata scavata per una profondità di un plettro, mentre la sua larghezza era in ogni punto di uno stadio, e poiché era stata scavata tutto intorno alla pianura, ne risultava una lunghezza di diecimila stadi. Riceveva i corsi d'acqua che discendevano dai monti e girava intorno alla pianura, arrivando da entrambi i lati fino alla città, da lì poi andava a gettarsi nel mare. Dalla parte superiore di questo fossato canali rettilinei, larghi circa cento piedi, tagliati attraverso la pianura, tornavano a gettarsi nel fossato presso il mare, a una distanza l'uno dall'altro di cento stadi. Ed era per questa via dunque che facevano scendere fino alla città il legname dalle montagne e su imbarcazioni trasportavano verso la costa altri prodotti di stagione, scavando, a partire da questi canali passaggi navigabili e tagliandoli trasversalmente l'uno con l'altro e rispetto alla città. Due volte l'anno raccoglievano i prodotti della terra, in inverno utilizzando le piogge, in estate irrigando tutto ciò che offre la terra con l'acqua attinta dai canali.
Quanto al numero degli uomini abitanti la pianura che fossero utili per la guerra, era stato stabilito che ogni lotto fornisse un capo: la grandezza di un lotto era di dieci stadi per dieci e in tutto i lotti erano sessantamila; per quel che concerne invece il numero degli uomini che venivano dalle montagne e dal resto del paese, si diceva che fosse infinito e tutti, secondo le località e i villaggi, venivano poi ripartiti in questi distretti, sotto il comando dei loro capi. Era dunque stabilito che il comandante fornisse per la guerra la sesta parte di un carro da combattimento fino a raggiungere il numero di diecimila carri, due cavalli e i relativi cavalieri, inoltre un carro a due cavalli senza sedile, che avesse un soldato capace all'occasione di combattere a piedi, munito di un piccolo scudo, e assieme al combattente un auriga per entrambi i cavalli; due opliti, due arcieri e due frombolieri, tre soldati armati alla leggera che lanciano pietre e tre lanciatori di giavellotto, quattro marinai per completare l'equipaggio di milleduecento navi. Questa era dunque l'organizzazione militare della città regia; diversa invece quella in ognuna delle altre nove province, che tuttavia sarebbe troppo lungo spiegare. Quanto alle magistrature e alle cariche pubbliche, furono così ordinate fin da principio. Ciascuno dei dieci re esercitava il comando nella propria parte e nella sua città sugli uomini e sulla maggior parte delle leggi, punendo e mettendo a morte chiunque volesse; ma il potere che avevano l'uno sull'altro e i rapporti reciproci erano regolati dalle prescrizioni di Poseidone, così come li avevano tramandati la tradizione e le lettere incise dai primi re su una stele di oricalco, che era posta nel centro dell'isola, nel santuario di Poseidone, dove ogni cinque anni e talvolta, alternando, ogni sei si riunivano, assegnando uguale importanza all'anno pari e all'anno dispari. In tali adunanze deliberavano degli affari comuni, esaminavano se qualcuno avesse trasgredito qualche legge e formulavano il giudizio. Quando dovevano giudicare, prima si scambiavano tra loro assicurazioni secondo il seguente rituale.
Alcuni tori [50] venivano lasciati liberi nel santuario di Poseidone, e i dieci re, rimasti soli, dopo aver rivolto al dio la preghiera di scegliere la vittima che gli fosse gradita, davano inizio alla caccia, armati non di armi di ferro, ma solo di bastoni e di lacci; il toro che riuscivano a catturare, lo conducevano davanti alla colonna e lì, sulla cima di questa, lo sgozzavano proprio sopra l'iscrizione. Sulla stele, oltre alle leggi, v'era inciso un giuramento che lanciava terribili anatemi contro i trasgressori. Così, compiuti i sacrifici conformemente alle loro leggi, quando passavano a consacrare tutte le parti del toro, mescolavano in un cratere il sangue e ne versavano un grumo per ciascuno, mentre il resto, purificata la stele, lo ponevano accanto al fuoco; dopodiché, attingendo con coppe d'oro dal cratere e offrendo libagioni sul fuoco, giuravano di giudicare conformemente alle leggi scritte sulla stele, di punire chi in precedenza tali leggi avesse trasgredito e, d'altra parte, di non trasgredire per precisa volontà in avvenire nessuna delle norme dell'iscrizione, che non avrebbero governato né obbedito a chi governasse se non esercitava il suo comando secondo le leggi del padre. Ciascuno di loro, dopo aver innalzato queste preghiere, per sé e per la propria discendenza, beveva e consacrava la coppa nel santuario del dio, poi attendeva al pranzo e alle occupazioni necessarie, e quando scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella quant'altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio, all'apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d'oro che dedicavano in ricordo insieme alle vesti. Vi erano altre leggi, numerose e particolari, che concernevano i privilegi di ciascun re, tra le quali le più importanti: che non avrebbero mai impugnato le armi l'uno contro l'altro e che si sarebbero aiutati vicendevolmente, e se uno di loro in qualche città tentava di cacciare la stirpe regia, avrebbero deliberato in comune, come i loro antenati, le decisioni che giudicassero opportuno prendere riguardo alla guerra e alle altre faccende, affidando il comando supremo alla stirpe di Atlante.
Un re non era padrone di condannare a morte nessuno dei consanguinei senza il consenso di più della metà dei dieci. Tanta e tale potenza, viva allora in quei luoghi, il dio raccolse e diresse poi contro queste nostre regioni, dietro siffatto pretesto, come vuole la tradizione. Per molte generazioni, finché fu abbastanza forte in loro la natura divina, erano obbedienti alle leggi e bendisposti nell'animo verso la divinità che aveva con loro comunanza di stirpe: avevano infatti pensieri veri e grandi in tutto, usando mitezza mista a saggezza negli eventi che di volta in volta si presentavano e nei rapporti reciproci. Di conseguenza, avendo tutto a disdegno fuorché la virtù, Stimavano poca cosa i beni che avevano a disposizione, sopportavano con serenità, quasi fosse un peso, la massa di oro e delle altre ricchezze, e non vacillavano, ebbri per effetto del lusso e senza più padronanza di sé per via della ricchezza; al contrario, rimanendo vigili, vedevano con acutezza che tutti questi beni si accrescono con l'affetto reciproco unito alla virtù, mentre si logorano per eccessivo zelo e stima e con loro perisce anche la virtù. Ebbene, come risultato di un tale ragionamento e finché persisteva in loro la natura divina, tutti i beni che abbiamo precedentemente enumerato si accrebbero. Quando però la parte di divino venne estinguendosi in loro, mescolata più volte con un forte elemento di mortalità e il carattere umano ebbe il sopravvento, allora, ormai incapaci di sostenere adeguatamente il carico del benessere di cui disponevano, si diedero a comportamenti sconvenienti, e a chi era capace di vedere apparivano laidi, perché avevano perduto i più belli tra i beni più preziosi, mentre agli occhi di coloro che non avevano la capacità di discernere la vera vita che porta alla felicità allora soprattutto apparivano bellissimi e beati, pieni di ingiusta bramosia e di potenza.
Tuttavia il dio degli dèi, Zeus, che governa secondo le leggi, poiché poteva vedere simili cose, avendo compreso che questa stirpe giusta stava degenerando verso uno stato miserevole, volendo punirli, affinché, ricondotti alla ragione, divenissero più moderati, convocò tutti gli dèi nella loro più augusta dimora, la quale, al centro dell'intero universo, vede tutte le cose che partecipano del divenire, e dopo averli convocati disse...
NOTE
1) Il riferimento è alla conclusione del Timeo, alla quale il presente dialogo direttamente si ricollega.
2) È il "dio sensibile" del Timeo.
3) Cfr. la Premessa al Timeo.
4) La teoria qui esposta sulla natura imitativa dell'arte compare nel libro 10 della Repubblica e nel Sofista.
5) Si tratta probabilmente del generale siracusano ammirato da Tucidide (libro 4, 58; libro 6, 32; 72; 76; libro 7, 73). Figura centrale nel congresso dei Sicelioti a Gela nel 424 a.C., Ermocrate difese la sua città dagli attacchi ateniesi nel 415-413. Dopo un periodo di esilio, successivo alla battaglia di Cizico, rientrò in Sicilia nel 408. Trovò la morte nel tentativo di conquistare Siracusa.
6) Peone ('Soccorritore') è epiteto di Apollo. Sull'invocazione ad Apollo e alle Muse cfr. Platone, Respublica 427b.
7) Crizia riprende la metafora militare che Ermocrate ha appena adottato.
Secondo la maggior parte dei commentatori qui si alluderebbe a un terzo dialogo intitolato ad Ermocrate.
8) Dea della memoria, figlia di Urano e della Terra: Crizia la invoca per ricordare i racconti riportati da Solone su Atlantide.
9) La famiglia di Crizia vantava una discendenza dal "ghénos" di Solone.
10) Cfr. Platone, Timaeus 23e.
11) Cfr. Platone, Timaeus 24e.
12) Cfr. Platone, Timaeus 24e-25d.
13) Cfr. Platone, Timaeus 25c-d.
14) Nell'Eutifrone (5 e seguenti) e nella Repubblica (libro 2, 378a-c) Platone formula un giudizio negativo sulle contese tra gli dèi per il possesso dì un territorio. Tuttavia nel Menesseno (237b-238a) Platone accetta il mito secondo cui Poseidone ed Atena si erano contesi l'Attica, con conseguente sconfitta del primo.
15) Cfr. Platone, Politicus 267e-272b.
16) In 112b Platone menziona un tempio ad Atene dedicato ad entrambe le divinità.
17) Sulla autoctonia degli Ateniesi cfr. Platone, Menexenus 237b; Respublica libro 3, 415d-e; Sophista 247c; Politicus 269b, 271a-c.
18) Cfr. Platone, Timaeus 22d-23d.
19) Mitici eroi dell'Attica. Probabilmente la loro menzione da parte di Platone tra gli eroi della storia mitica dell'Attica si spiega col fatto che essi nelle loro gesta ebbero in qualche modo a che fare con Poseidone, il fondatore di Atlantide.
20) Eroe civilizzatore dell'Attica, pendant ionico del dorico Eracle. Fonti principali sulle sue gesta sono la Vita dì Teseo di Plutarco e le notizie conservate in Apollodoro e Diodoro Siculo. A Teseo la tradizione attribuisce il sinecismo di Atene, l'istituzione delle Panatenee, la conquista di Megara.
21) Cfr. Platone, Respublica 451a-457e.
22) Cfr. Platone, Respublica 369e-374e; 375a-376e; 415a-417b.
23) L'istmo di Corinto.
24) Monte al confine tra l'Attica e la Beozia.
25) Monte al confine tra l'Attica e la Beozia.
26) Oropo, della quale è qui citato il territorio, è una città dell'Attica.
27) Fiume che nasce dal monte Citerone e sfocia nel golfo euboico. Platone fornisce qui coordinate geografiche che assegnano all'Attica un'estensione maggiore di quella che la regione aveva ai suoi tempi.
28) Il termine allude alla natura porosa del terreno ("phellós" in greco indica il 'sughero'), simile a una lava (cfr. Aristofane, Achamenses 273).
29) Il diluvio di Deucalione fu dunque il quarto. Nel Timeo si dice genericamente che "prima ve ne furono molti".
30) Fiumi dell'Attica.
31) Collina situata nell'area occidentale di Atene, luogo abituale di raduno dell'assemblea.
32) Monte a nord-est di Atene.
33) Cfr. Platone, Respublica 461d-417a; 419a-424c; Leges 679b-d; 742; 780c; 842b.
34) Si veda Platone, Leges 737d-e, dove il numero dei cittadini dello stato ideale viene fissato a 5040. Vedi anche Respublica 460a.
35) L'espressione ricorda il celebre "koinà tà tôn phílon" di ambito pitagorico. Cfr. Platone, Respublica 423e-424a; Leges 739c-d.
36) Cfr. Platone, Timaeus 26d-e, dove tuttavia non si fa allusione agli scritti, il nonno di Crizia, qui menzionato, era Crizia il Vecchio.
37) Cfr. 109b.
38) Lo stadio attico misurava metri 177,60.
39) Atlante ed Eumelo, Amfere ed Euemone, Mnesea e Autoctono, Elasippo e Mestore. Azae e Diaprepe. I nomi che Platone adotta sono noti dai poemi omerici, ma nulla hanno in comune con i personaggi dell'epos.
40) Questo personaggio non va confuso con il mitico Atlante, condannato a reggere il peso del mondo per aver preso parte alla guerra dei Titani contro Zeus.
41) La prima menzione di questo metallo compare nello Scudo pseudoesiodeo (verso 122); cfr. anche Erodoto, libro 6, 74; Aristotele, Respublica Atheniensium 7, 92b; Pseudo-Aristotele, Mirabilia 58, 834b). Filopono, nel suo commento agli Analitici aristotelici, sembra identificare l'oricalco con l'ottone. Questa identificazione tuttavia non convince e l'oricalco platonico conserva il suo alone di mistero.
42) Probabilmente si tratta dell'uva e del grano.
43) Difficile identificare questo frutto. Potrebbe trattarsi della mela (sulla base di Platone, Leges 819b-c).
44) Secondo alcuni sono le olive o forse i limoni.
45) Il plettro, equivalente a cento piedi, misura metri 29,60.
46) Il piede attico equivale a metri 0,296.
47) È una probabile allusione alle tecniche di decorazione dei templi cretesi. Una allusione alla abilità tecnica dei Cretesi nel canalizzare le acque compare inoltre in 117b.
48) Figlie di Nereo, divinità del mare, sono normalmente indicate in numero di cinquanta (cfr. Pindaro, Isthmia 6, 8).
49) I 'portatori di lancia'. Lo stato di Atlante si basa su una struttura militare, con un potere politico fortemente accentrato (cfr. Platone, Respublica 567d; 575b sull'impiego di guardie del corpo in regimi tirannici).
50) Il sacrificio del toro in onore di Poseidone è noto da Omero (Ilias, libro 20, verso 403) e dallo Pseudo-Esiodo (Scutum 104).
Il mito di Atlantide
Secondo il racconto di Platone, Atlantide sarebbe stata una potenza navale situata "oltre le Colonne d'Ercole", che avrebbe conquistato molte parti dell'Europa occidentale e dell'Africa novemila anni prima del tempo di Solone (approssimativamente nel 9600 a.C.). Dopo avere fallito l'invasione di Atene, Atlantide sarebbe sprofondata "in un singolo giorno e notte di disgrazia" per opera di Poseidone. Il nome dell'isola deriva da quello di Atlante, leggendario governatore dell'oceano Atlantico, figlio di Poseidone, che sarebbe stato anche, secondo Platone, il primo re dell'isola. La descrizione geografica sembra anche indicare le Americhe come un continente che circonda un vero mare, in contrapposizione al mar Mediterraneo, definito "un porto di angusto ingresso".
Essendo una storia funzionale ai dialoghi di Platone, Atlantide è generalmente vista come un mito concepito dal filosofo greco per illustrare le proprie idee politiche. Benché la funzione di Atlantide sembri chiara alla maggior parte degli studiosi, essi disputano su quanto e come il racconto di Platone possa essere ispirato da eventuali tradizioni più antiche. Alcuni argomentano che Platone si basò sulla memoria di eventi passati come l'eruzione vulcanica di Thera o la Guerra di Troia, mentre altri insistono che egli trasse ispirazione da eventi contemporanei come la distruzione di Elice nel 373 a.C. o la fallita invasione ateniese della Sicilia nel 415–413 a.C.
La possibile esistenza di un'autentica Atlantide venne attivamente discussa durante l'antichità classica, ma fu generalmente rigettata. Quasi ignorata nel Medioevo, la storia di Atlantide fu riscoperta dagli umanisti nell'era moderna. La descrizione di Platone ha ispirato le opere utopiche di numerosi scrittori rinascimentali, come La nuova Atlantide di Bacone. Al tema sono state dedicate alcune migliaia di libri e saggi.
I dialoghi di Platone, Timeo e Crizia, scritti intorno al 360 a.C., contengono i primi riferimenti ad Atlantide. Platone introduce Atlantide nel Timeo:
«Davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, Colonne d'Eracle, c'era un'isola. Tale isola, poi, era più grande della Libia e dell'Asia messe insieme, e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta, intorno a quello che è veramente mare. [...] In tempi successivi, però essendosi verificati terribili terremoti e diluvi, nel corso di un giorno e di una notte, tutto il complesso dei vostri guerrieri di colpo sprofondò sotto terra, e l'Isola di Atlantide, allo stesso modo sommersa dal mare, scomparve.»
I quattro personaggi che compaiono in entrambi i dialoghi di Platone sono due filosofi, Socrate e Timeo di Locri, e due politici, Ermocrate e Crizia, benché il solo Crizia parli di Atlantide. Nelle sue opere Platone fa ampio uso dei dialoghi socratici per discutere di posizioni contrarie nel contesto di una supposizione. Nel Timeo all'introduzione segue un resoconto della creazione e della struttura dell'universo e delle antiche civiltà. Nell'introduzione Socrate riflette sulla società perfetta, già descritta in Platone nella Repubblica, chiedendo se lui e i suoi ospiti possano ricordare una storia che esemplifica tale società. Crizia menziona un racconto storico che presumibilmente avrebbe costituito l'esempio perfetto e prosegue descrivendo Atlantide, come riportato nel Crizia. Nel suo racconto, l'antica Atene sembra costituire la "società perfetta" e Atlantide la sua avversaria, che rappresentano l'antitesi dei tratti "perfetti" descritti nella Repubblica.
Secondo Crizia, le antiche divinità divisero la Terra in modo che ogni dio potesse avere un lotto; a Poseidone fu lasciata, secondo i suoi desideri, l'isola di Atlantide. L'isola era più grande dell'antica Libia (Nord Africa) e dell'Asia Minore (Anatolia) messe assieme, ma in seguito venne affondata da un terremoto e diventò un banco di fango impraticabile, impedendo di viaggiare in qualsiasi parte dell'oceano. Gli Egiziani, affermava Platone, descrivevano Atlantide come un'isola composta per lo più di montagne nella parte settentrionale e lungo la costa, "mentre tutt'intorno alla città vi era una pianura, che abbracciava la città ed era essa stessa circondata da monti che discendevano fino al mare, piana e uniforme, tutta allungata, lunga tremila stadi [circa 555 km] sui due lati e al centro duemila stadi [circa 370 km] dal mare fin giù. [...] a una distanza di circa cinquanta stadi [9 km], c'era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato [...] L'isola, nella quale si trovava la dimora dei re, aveva un diametro di cinque stadi" [circa 0,92 km.].
Nel Timeo si racconta di come Solone, giunto in Egitto, fosse venuto a conoscenza da alcuni sacerdoti egizi di un'antica battaglia avvenuta tra gli Atlantidei e gli antenati degli Ateniesi, che avrebbe visto vincenti i secondi. Secondo i sacerdoti, Atlantide era una monarchia assai potente, con enormi mire espansionistiche. Situata geograficamente oltre le Colonne d'Ercole, politicamente controllava l'Africa fino all'Egitto e l'Europa fino all'Italia. Proprio nel periodo della guerra con gli Ateniesi un immenso cataclisma fece sprofondare l'isola nell'Oceano, distruggendo per sempre la civiltà di Atlantide.
Nel dialogo successivo, il Crizia, rimasto incompiuto, Platone descrive più nel dettaglio la situazione geopolitica di Atlantide, collocando il tutto novemila anni prima.
Crizia racconta che il dio Poseidone s'innamorò di Clito, una fanciulla dell'isola, e «recinse la collina dove ella viveva, alternando tre zone di mare e di terra in cerchi concentrici di diversa ampiezza, due erano fatti di terra e tre d'acqua», rendendola inaccessibile agli uomini, che all'epoca non conoscevano la navigazione. Rese inoltre rigogliosa la parte centrale, occupata da una vasta pianura, facendovi sgorgare due fonti, una di acqua calda e l'altra di acqua fredda. Poseidone e Clito ebbero dieci figli, il primo dei quali, Atlante, sarebbe divenuto in seguito il governatore dell'impero. La civiltà atlantidea divenne una monarchia ricca e potente e l'isola fu divisa in dieci zone, ognuna governata da un figlio del dio del mare e dai relativi discendenti. La terra generava beni e prodotti in abbondanza, e sull'isola sorgevano porti, palazzi reali, templi e altre maestose opere. Al centro della città vi era il santuario di Poseidone e Clito, lungo uno stadio (177 metri), largo tre plettri e alto in proporzione, rivestito di argento al di fuori e di oricalco, oro e avorio all'interno, con al centro una statua d'oro di Poseidone sul suo cocchio di destrieri alati, che arrivava a toccare la volta del tempio.
Ognuno dei dieci re governava la propria regione di competenza, e tutti erano legati gli uni agli altri dalle disposizioni previste da Poseidone e incise su una lastra di oricalco posta al centro dell'isola, attorno a cui si riunivano per prendere decisioni che riguardavano tutti. Crizia descrive anche il rituale da eseguire prima di deliberare, che prevedeva una caccia al toro armati solo di bastoni e una libagione con il sangue dell'animale ucciso, seguita da un giuramento e da una preghiera. La virtù e la sobrietà dei governanti durò per molte generazioni, finché il carattere umano ebbe il sopravvento sulla loro natura divina. Caduti preda della bramosia e della cupidigia, gli abitanti di Atlantide si guadagnarono l'ira di Zeus, il quale chiamò a raccolta gli dei per deliberare sulla loro sorte.
Le notizie che Platone narra di Atlantide provengono molto probabilmente dalla tradizione greca, da Creta e forse dall'Egitto e da altre fonti a noi perdute, il tutto reinterpretato letterariamente dal filosofo.
È anzitutto evidente il punto di vista da cui viene narrato il mito, che pone al centro la città di Atene, simbolo di sobrietà e rigore, ma oltre all'immediato paragone con la polis corrotta dell'epoca di Platone, è riscontrabile nel dialogo una proposta utopica, che si esprime nella contrapposizione delle due città, a cui corrispondono due diverse concezioni del modello divino.
Sia l'Atene primitiva, suddivisa in aree da coltivare e abitata da contadini e artigiani, sia la ricca e potente Atlantide sono infatti rappresentazioni del modello divino tratteggiato nel Timeo, a cui la città "storica" deve guardare nella sua organizzazione politica ed economica; la loro decadenza invece, sentenziata da cataclismi naturali e, nel caso di Atlantide, dovuta alla cupidigia degli uomini, è un palese richiamo alla corruzione degli Stati già descritta nella Repubblica. In analogia con la struttura del Timeo, la seconda parte del Crizia avrebbe dovuto descrivere la realtà intermedia tra il logos e il disordine, con un chiaro riferimento alla situazione delle poleis nel decennio tra il 360 e il 350 a.C., caratterizzata da scontri tra un centro e l'altro per il controllo dei traffici commerciali: decaduta anch'essa dopo la scomparsa della città rivale, l'Atene del mito avrebbe potuto salvarsi dall'inesorabile declino solo rivolgendosi a leggi ispirate al Bene.
Al di fuori dei dialoghi Timeo e Crizia di Platone, non esiste alcun riferimento antico di prima mano su Atlantide, il che significa che tutti gli altri riferimenti paiono rifarsi, in una maniera o nell'altra, a Platone. Nonostante alcuni nell'antichità avessero ritenuto un fatto storico il racconto riportato da Platone, il suo allievo Aristotele non diede peso alla cosa, liquidandola come un'invenzione del maestro. Ad Aristotele è infatti attribuita la frase "L'uomo che l'ha sognata, l'ha anche fatta scomparire."
Alcuni autori antichi videro Atlantide come frutto dell'immaginazione mentre altri credettero fosse reale. Il primo commentatore di Platone, il filosofo Crantore da Soli, allievo di Senocrate, a sua volta allievo di Platone, è spesso citato come esempio di autore che ritenne la storia un fatto autentico, in quanto gli fu riferito di cronache su Atlantide scritte sulle stele dell'antico tempio di Sais in Egitto. Proclo riferisce in proposito:
«Con tutto il rispetto per l'intero racconto di Atlantide, alcuni affermano che è storia vera: questa è l'opinione di Crantore, il primo commentatore di Platone, il quale sostiene che il filosofo venne deriso dai suoi contemporanei per non essere lui l'inventore della Repubblica, essendosi sempre limitato a trascrivere ciò che gli Egiziani avevano scritto sull'argomento. [...] Crantore aggiunge che questo è confermato dai profeti degli Egiziani, i quali affermano che i particolari, così come li ha narrati Platone, sono incisi su alcune colonne che si conservano ancora.»
L'opera di Crantore, un commento al Timeo di Platone, è perduta, ma essa ci è nota grazie alla suddetta testimonianza di Proclo, che ne scrisse sette secoli dopo.[ Un altro studioso dell'antichità che credette nell'esistenza del luogo mitico citato da Platone fu Posidonio di Rodi (II-I secolo a.C.), secondo quanto riferisce Strabone.
Il racconto di Platone sull'Atlantide può inoltre avere ispirato imitazioni parodiche: scrivendo solo pochi decenni dopo il Timeo e Crizia, lo storico Teopompo di Chio narrò di una terra in mezzo all'oceano conosciuta come Meropide (ovvero terra di Merope). Questa descrizione era inclusa nel libro VIII della sua voluminosa Filippica, che contiene un dialogo tra re Mida e Sileno, un compagno di Dioniso. Sileno descrive i Meropidi, una razza di uomini che crescevano al doppio dell'altezza normale e abitavano due città sull'isola di Meropis: Eusebes ("città pia") e Machimos ("città combattente"). Egli inoltre scrive che un'armata di dieci milioni di soldati attraversarono l'oceano per conquistare Iperborea, ma abbandonarono tale proposito quando si resero conto che gli Iperborei erano il popolo più fortunato del mondo. Heinz-Günther Nesselrath ha argomentato che questi e altri dettagli della storia di Sileno sono intesi come imitazioni ed esagerazioni della storia di Atlantide, allo scopo di esporre al ridicolo le idee di Platone.
Zotico, un filosofo neoplatonico del III secolo a.C., scrisse un poema epico basato sul racconto di Platone.
Diodoro Siculo (I secolo a.C.) - confermato sostanzialmente da Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) - collocava la capitale di Atlantide a Kerne, avamposto cartaginese sulla costa atlantica dell'Africa fondato da Annone il Navigatore: probabilmente nel Río de Oro, ex Sahara spagnolo.
Lo storico romano del IV secolo d.C. Ammiano Marcellino, dissertando sulle perdute opere di Timagene, uno storico attivo nel I secolo a.C., scrive che i Druidi della Gallia riferirono che parte degli abitanti di quella terra erano migrati lì da isole lontane. Alcuni hanno inteso che si parlasse di sopravvissuti di Atlantide giunti via mare nell'Europa occidentale, ma Ammiano in realtà parla di "isole e terre oltre il Reno", un'indicazione che gli immigrati in Gallia vennero dal Nord (Britannia, Olanda o Germania). Secondo Diodoro Siculo, comunque, i Celti che venivano dall'oceano adoravano gli dei gemelli Dioscuri che apparvero loro provenienti dall'oceano.
Riscoperta dagli umanisti nell'era moderna, la storia di Platone ha ispirato le opere utopiche di numerosi scrittori dal Rinascimento in poi. La scoperta dell'America, inoltre, pose subito il problema di una qualche sua conoscenza previa, e dunque anche il problema della discendenza e dell'origine della umanità americana del tutto inaspettata nella cultura europea dell'epoca.
Bartolomé de Las Casas sostenne che la stessa impresa di Cristoforo Colombo era stata sollecitata dal desiderio di vagliare il mito dell'esistenza di Atlantide. Nel capitolo ottavo della sua Historia de las Indias, Las Casas scriveva che Colombo sperava di raggiungere le Indie anche appoggiandosi a isole che erano ciò che restava del mitico continente. In generale, con la scoperta dell'America il mito platonico venne utilizzato, con indirizzi diversi, per rispondere alla questione della legittimità dei possedimenti coloniali, nonché al problema dell'inquadramento storico delle popolazioni native. Agustín de Zárate (1514-1560) (Historia del descubrimiento y conquista de la provincia del Perú, 1555) opinò che il racconto platonico andasse preso alla lettera e che, di conseguenza, Francisco Pizarro derivasse la propria autorità di governatore del Perù dalla corona spagnola e non da una cessione di diritti da parte dei capi indigeni. Ammettere l'autenticità del continente di Atlantide significava infatti concepire la possibilità di un passaggio, tramite esso, dei discendenti di Noè dall'Europa all'America. Viceversa, Francisco López de Gómara (1511-1566) (Historia general de las Indias, 1552-1553), nell'intento di difendere la legittimità delle conquiste messicane di Hernán Cortés, identificava Atlantide con il Nuovo Mondo. Infatti, su terre così antiche poteva vantare un diritto dinastico solo chi le aveva conquistate. In tal modo, però, l'origine delle popolazioni che le abitavano risultava scarsamente ricollegabile al ceppo di Adamo ed Eva, e ciò lasciava spazio a un pericoloso poligenismo.
La nuova Atlantide di Francesco Bacone del 1627 descrive una società utopica, chiamata Bensalem, collocata al largo della costa occidentale americana. Un personaggio del libro sostiene che la popolazione proveniva da Atlantide, fornendo una storia simile a quella di Platone e collocando Atlantide in America. Non è chiaro se Bacone intendesse l'America settentrionale o quella meridionale.
Lo scienziato Olaus Rudbeck (1630 – 1702) scrisse nel 1679-1702 Atlantica (Atland eller Manheim), un lungo trattato dove sostenne come la propria patria, la Svezia, fosse la perduta Atlantide, la culla della civiltà, e come lo svedese fosse la lingua di Adamo da cui si sarebbero evoluti il latino e l'ebraico.
The Chronology of the Ancient Kingdoms Amended (1728, postumo) di Isaac Newton studia una varietà di collegamenti mitologici con Atlantide.
Verso la fine del Settecento l'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly tornò a parlare di Atlantide, nelle sue opere più importanti, tra cui l'Histoire de l'astronomie ancienne (1775) e le Lettres sur l'Atlantide de Platon (1779). Egli unì la tradizione di Atlantide al mito di Iperborea, una leggendaria civiltà nordica di cui Erodoto e altri storici antichi avevano lasciato testimonianze. Bailly sosteneva infatti la tesi secondo cui un'Atlantide nordica fosse la civiltà originaria del genere umano, che essa avesse inventato le arti e le scienza e che avesse "civilizzato" i cinesi, gli indiani, gli egizi e tutti i popoli dell'antichità. Egli posizionò questo popolo primordiale nel lontano nord dell'Eurasia, nell'isola di Spitzbergen, nei pressi della Siberia, argomentando che quelle dovevano essere state le prime terre abitabili quando la Terra, originariamente incandescente e inospitale alla vita secondo le ipotesi paleoclimatiche teorizzate da Buffon e Mairan, aveva incominciato a raffreddarsi. Il costante raffreddamento della Terra le aveva però, successivamente, rese inabitabili e aveva seppellito l'ancestrale territorio di questa civiltà sotto delle lastre di ghiaccio, in modo da perdere completamente le tracce degli Atlantidei, e obbligando i loro discendenti a spostarsi più a sud per colonizzare le altre zone del globo.
Alla metà e nel tardo Ottocento numerosi rinomati studiosi, a partire da Charles-Etienne Brasseur de Bourbourg, tra i quali Edward Herbert Thompson e Augustus Le Plongeon proposero l'idea che Atlantide fosse in qualche maniera correlata alla civiltà Maya e alla cultura azteca.
La pubblicazione nel 1882 di Atlantis: the Antediluvian World di Ignatius Donnelly stimolò un notevole interesse popolare per Atlantide. Donnelly prese seriamente il resoconto di Platone su Atlantide e tentò di stabilire che tutte le antiche civiltà conosciute discendessero da questa progredita cultura del Neolitico.
Nel corso della fine dell'Ottocento le idee sulla natura leggendaria di Atlantide si combinarono con storie di altre ipotetiche "terre perdute" nate nel frattempo come Mu e Lemuria. La teosofa Helena Blavatsky, riprendendo parzialmente e sviluppando le tesi di Bailly, scrisse nel suo libro La dottrina segreta (1888) le informazioni contenute in un antico manoscritto perduto intitolato Le Stanze di Dzyan, tra cui le storie degli Atlantidei nordici che sarebbero stati eroi culturali (mentre Platone li descrive dediti principalmente alle arti militari), e che erano la quarta "razza radicale" (Root Race) dopo quella polare, iperborea e lemurica, a cui sarebbe ora succeduta la quinta e attuale "razza ariana": questa sarebbe dunque composta da persone che avrebbero già vissuto, in vite precedenti, su quel continente remoto.
Le rivelazioni della Blavatsky e di altri teosofi come Annie Besant, Charles Webster Leadbeater, Rudolf Steiner, derivanti da indagini nell'akasha condotte tramite presunte capacità chiaroveggenti, contribuirono a diffondere una concezione di Atlantide come del luogo primordiale della sapienza e della civiltà umane. Tra i punti in comune delle loro tesi vi era la suddivisione della razza atlantidea in sette sotto-razze, a cui corrispondono sette epoche di sviluppo e di progressiva evoluzione del genere umano. Esse sono:
I Rmoahals, il cui nome deriva dal loro grido di guerra, furono la prima sotto-razza atlantidea: dominati da impulsi e sentimenti collettivi, i Rmoahals avevano una grande capacità mnemonica con cui compensavano la mancanza di pensiero logico. Animati da una profonda venerazione per la natura, erano capaci di utilizzarne le forze vitali per trasformarle in energie motrici. La condivisione delle memorie collettive portò i primi Atlanti allo sviluppo del linguaggio: la parola, originariamente dotata di potere magico e sacrale (in grado di far guarire dalle malattie e agire sulla crescita delle piante), fece così la sua comparsa tra gli uomini.
I Tlavatli, succeduti ai Rmoahals, svilupparono ulteriormente la forza evocativa della memoria ma anche deviandola verso l'ambizione: si cominciarono a venerare gli antenati e le gesta delle persone ritenute valorose.
I Tolteki, terza sotto-razza atlantidea, presero a unirsi in gruppi accomunati non più da simpatie naturali, ma dal ricordo dei propri eroi e condottieri, le cui qualità venivano trasmesse per via ereditaria ai discendenti. Nacquero fiorenti comunità, insieme con un nuovo culto della personalità, incoraggiata dai maestri delle scuole iniziatiche, che godevano allora di una venerazione sconfinata, essendo diretti portavoce degli dei. Lo splendore della civiltà tolteka è quella narrata nei dialoghi di Platone.
I Turani primitivi svilupparono a tal punto l'ambizione da tramutarla in egoismo: la capacità atlantidea di dominare le forze della natura venne abusata con conseguenze nefaste. L'uso sfrenato del potere a fini personali degenerò in pratiche di magia nera che, opponendosi l'un l'altra, condussero alla distruzione di Atlantide in un solo giorno e una sola notte come riferito da Platone.
I Protosemiti riuscirono in parte ad arginare i devastanti effetti delle forze scatenate dalla sotto-razza precedente grazie al primo sviluppo del pensiero logico, in grado di tenere a freno i desideri egoistici. Nacque la facoltà di giudizio, e l'impulso all'azione venne distolto dalla natura esterna, cominciando a essere vagliato interiormente, producendo il germe dell'umanità attuale.
Gli Accadi svilupparono ulteriormente la forza del pensiero, perdendo così il dominio sui poteri vitali delle piante, acquisendo soltanto il controllo su quelli minerali. L'ordine e l'armonia degli stati non si ressero più su ricordi comuni, ma sull'elaborazione di leggi in grado di sottomettere il dispotismo individuale. Si dette importanza all'intelligenza e alla capacità di innovazione delle persone, anziché alla vividezza delle loro imprese passate.
I Mongoli, settima e ultima sotto-razza di Atlantide, raggiunse uno sviluppo del pensiero in grado di connettersi con la potenza degli elementi vitali, su cui si era comunque perso ogni controllo. La caratteristica di abbandonarsi alle forze occulte della vita è quella che si sarebbe in parte mantenuta nelle attuali popolazioni asiatiche, secondo la Besant discendenti dei Turani primitivi che si erano rifugiati in Cina dopo la catastrofe.
Le prime tre razze furono definite rosse, le altre quattro invece bianche. Da un piccolo gruppo della quinta sotto-razza Protosemita, inoltre, il supremo iniziato dell'Oracolo del Sole, conosciuto nella letteratura teosofica come Manu, avrebbe scelto alcuni individui particolarmente progrediti nel pensiero logico per separarli dagli altri e condurli all'interno dell'Asia, dove dare vita alla nuova razza-radicale dell'umanità, quella attuale.
Si è sostenuto che prima del tempo di Eratostene (250 a.C. circa), autori greci avessero collocato le Colonne d'Ercole nello Stretto di Sicilia, ma non ci sono prove di tale ipotesi. Secondo Erodoto (c. 430 a.C.) una spedizione fenicia circumnavigò l'Africa con il benestare del faraone Necho II, navigando a sud sotto il mar Rosso e l'oceano Indiano e verso nord nell'Atlantico, facendo ritorno nel Mediterraneo attraverso le Colonne d'Ercole. La sua descrizione dell'Africa nord-occidentale rende molto chiaro che localizzò le Colonne d'Ercole precisamente dove sono oggi. Malgrado questo, la credenza che le Colonne fossero collocate nello Stretto di Sicilia prima di Eratostene è stata citata in alcune ipotesi sulla collocazione di Atlantide
Da quando la deriva dei continenti divenne largamente accettata nel corso degli anni sessanta, la popolarità di buona parte delle teorie sul "continente perduto" di Atlantide incominciò a svanire, mentre si cominciava ad accettare ampiamente la natura immaginaria degli elementi della storia di Platone. La studiosa di Platone Julia Annas ha avuto modo di dire al riguardo:
«La continua industria della scoperta di Atlantide illustra il pericolo di leggere Platone. Perché egli sta chiaramente usando quello che divenne un meccanismo narrativo tipico nelle opere di fantasia: stirare la storicità di un evento (e la scoperta di autorità fino ad ora sconosciute) come un'indicazione di ciò che segue nell'opera d'immaginazione. L'idea è che dovremmo utilizzare la storia per esaminare le nostre idee sul governo e sul potere. Abbiamo sbagliato sulla questione se invece di pensare a questi temi usciamo ad esplorare il fondo marino. Il continuo fraintendimento di Platone come storico ci permette qui di vedere perché la sua diffidenza sulla scrittura d'immaginazione è talvolta giustificata.»
Kenneth Feder fa notare che la storia di Crizia nel Timeo fornisce un indizio importante. Nel dialogo, Crizia dice, riferendosi alla società ipotetica di Socrate:
«(...) mentre ieri tu parlavi dello Stato e degli uomini che delineavi, rimanevo meravigliato richiamando alla memoria proprio le cose che ora ho raccontato e osservando che per una incredibile coincidenza avevi in gran parte perfettamente aderito con quelle cose che disse Solone.»
Feder cita A. E. Taylor, che scrive "Non ci potrebbe essere detto in modo più chiaro che l'intera narrazione della conversazione di Solone con i sacerdoti e la sua intenzione di scrivere il poema su Atlantide sono un'invenzione dell'immaginazione di Platone".
Gli Atlantidei avrebbero posseduto facoltà di chiaroveggenza oggi scomparse, in virtù del fatto che all'epoca il loro corpo fisico era piuttosto separato dalle altre componenti spirituali. Questa costituzione favoriva la possibilità che entità più progredite si incarnassero nei loro corpi per guidarli come maestri spirituali all'interno delle scuole iniziatiche, cosa che gli Arcangeli mettevano in pratica agendo direttamente in questo modo, oppure che facessero la conoscenza di divinità superiori così come oggi si parla con un'altra persona. La percezione delle cose e pertanto il gusto erano diversi, tanto che allora la musica e il canto erano sviluppati su accordi di settima, oggi considerati non musicali.
Nei primi tempi, la consistenza particolarmente "molle" del corpo umano consentiva loro, ad esempio, di allungare elasticamente un arto o le dita a loro piacimento, mentre la vista era meno sviluppata, consentendo di vedere gli oggetti con contorni poco definiti. Il pensiero logico non era ancora sviluppato, ma i suoi limiti erano compensati da un'incredibile memoria con cui gli Atlantidei tenevano a mente ogni dato di esperienza. Steiner fa l'esempio della capacità di risolvere semplici calcoli grazie alla memoria esperenziale.
«Il veggente che esaminasse la connessione fra il corpo eterico e quello fisico dell'uomo dell'Atlantide, arriverebbe a una ben strana scoperta. Mentre nell'uomo attuale la testa eterica combacia con una certa approssimazione con la parte fisica della testa, sporgendone appena un poco, la testa eterica di un uomo dell'Atlantide si protendeva molto al di sopra di quella fisica; con più precisione, sporgeva di molto la parte frontale della testa eterica. Esiste un punto nel cervello fisico, fra le sopracciglia e circa un centimetro all'interno, cui corrisponde oggi un punto nella testa eterica. Negli Atlantidei quei due punti erano ancora molto distanti l'uno dall'altro, e l'evoluzione consistette appunto nel riavvicinarli sempre di più. Nel quinto periodo atlantico il punto della testa eterica si avvicinò al cervello fisico, e per il fatto che i due punti combaciavano si svilupparono alcune caratteristiche dell'umanità attuale: il calcolare, il contare, la facoltà di giudizio e in genere la capacità di formare concetti, l'intelligenza. Prima gli Atlantidei avevano solo una memoria sviluppatissima, ma non ancora la facoltà di connettere i pensieri, e qui abbiamo proprio l'inizio della coscienza dell'io.»
Un retaggio del modo in cui appariva un individuo di Atlantide, con la parte eterica della testa più evoluta, sovrastante l'aspetto fisico ancora animalesco, secondo Steiner sarebbe visibile tuttora nelle sculture delle Sfingi dell'antico Egitto: la Sfinge rappresenterebbe lo sviluppo incompiuto dell'essere umano, il cui corpo attende di essere modellato dalla testa già compiuta. Gli Atlantidei vivevano a stretto contatto con la natura, le stesse abitazioni erano formate da oggetti naturali trasformati. L'uomo viveva in piccoli gruppi con un forte senso gerarchico dell'autorità e tenuti assieme da affinità di sangue. Essi possedevano dei veicoli che sfruttavano la combustione delle piante con cui trasformavano la forza vitale in energia in grado di far volare i velivoli. Tuttavia le condizioni in cui si realizzavano tali possibilità tecniche sarebbero state diverse da oggi in quanto sia la densità dell'aria sia la fluidità dell'acqua erano diverse e pertanto di difficile riproducibilità oggi.
Atlantide sarebbe stata distrutta da catastrofi idriche e glaciali, tuttavia gruppi di Atlantidei sopravvissero tramite migrazioni partite dalle aree dell'attuale Irlanda verso sud. Steiner inoltre sostenne che un grande iniziato atlantideo scelse gli individui più progrediti ed emigrò in oriente nella regione dell'odierno Tibet. «La ricerca di Atlantide colpisce le corde più profonde del cuore per il senso della malinconica perdita di una cosa meravigliosa, una perfezione felice che un tempo apparteneva al genere umano. E così risveglia quella speranza che quasi tutti noi portiamo dentro: la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che certamente chissà dove, chissà quando, possa esistere una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia, dove noi, da quelle povere creature che siamo, potremmo essere felici...»
(L. Sprague de Camp).
Sulla scorta di Aristotele e per la mancanza di fonti prima di Platone, si ritiene in genere che il mito di Atlantide sia solo una finzione letteraria, interamente elaborata dal filosofo greco a partire da riferimenti mitologici e dalle proprie idee politiche e filosofiche. Seppure Atlantide in quanto tale appaia solo raramente nei testi greci o latini (e solo come rielaborazione a partire dal racconto di Platone), miti e leggende di continenti o città sommersi sono ricorrenti e, come quello del Diluvio universale, appartengono a numerose antiche civiltà e culture. La tradizione antica è in effetti piena di eventi catastrofici.
Alcuni tuttavia hanno cercato di immaginare Atlantide come un luogo realmente esistito, o quantomeno di identificare gli elementi storici e geografici che possono avere originato il racconto di Platone.
Dai tempi di Donnelly, ci sono state dozzine - o meglio centinaia - di proposte di localizzazione per Atlantide, al punto che il suo nome è divenuto un concetto generico, indipendente dal racconto di Platone. Questo è riflesso dal fatto che, in effetti, molti dei siti proposti non sono affatto nell'ambito dell'oceano Atlantico. Si tratta a volte di ipotesi di accademici o archeologi, mentre altre si devono a sensitivi o ad altri ambiti parascientifici. Molti dei siti proposti condividono alcune delle caratteristiche della storia originale di Atlantide (acque, fine catastrofica, periodo di tempo rilevante), ma nessuno è stato né può essere dimostrato come la "vera" Atlantide storica o platonica.
Le ipotesi sull'effettiva collocazione di Atlantide sono le più svariate. Se è vero che Platone nei suoi due dialoghi parla esplicitamente di "un'isola più grande della Libia e dell'Asia Minore messe insieme" (cioè il Nord Africa conosciuto al tempo e l'Anatolia) oltre le Colonne d'Ercole (che si suppone fossero sullo Stretto di Gibilterra), alcuni studiosi, vista l'effettiva difficoltà nell'immaginarsi un'isola-continente nell'Atlantico scomparsa in breve tempo senza lasciare pressoché nessuna traccia, hanno scelto collocazioni alternative.
Dapprima si è pensato all'America, che in effetti è un continente in mezzo all'oceano (Atlantico) che però ai tempi di Platone non era per nulla conosciuto e che, per quanto se ne sappia, non ha conosciuto cataclismi recenti.
Alcuni hanno voluto vedere, male interpretando le mappe turche dell'America meridionale del primo Cinquecento come la mappa di Piri Reìs, la rappresentazione di Atlantide nell'estremo Sud, proprio dopo la Terra del Fuoco, fra l'America meridionale e l'Antartide. Secondo costoro infatti è probabile che l'Antartide, un tempo terra fertile e rigogliosa, sia stata la sede di Atlantide. I sostenitori di questa ipotesi parlano di resti di vegetazione datati all'analisi al carbonio 14 come risalenti a 50.000 anni fa, lasciando supporre che l'Antartide fosse sgombro dai ghiacci, ma questi dati sono riconosciuti come pseudoscientifici e mai replicati, anche perché tutta la ricerca sull'Antartide (e in particolare i carotaggi nei depositi glaciali) conferma come 50.000 anni fa il continente di ghiaccio fosse prossimo al picco glaciale, e quindi notevolmente più freddo di oggi. Tutta la ricerca storico-scientifica ha visto nelle stesse mappe solo delle rappresentazioni dell'America meridionale, con alcuni errori (anche voluti) assai ben spiegabili nella prassi dell'epoca. Infine altri ancora identificherebbero Atlantide con un altro ipotetico continente perduto, Lemuria, situato fra l'Africa e l'India. <br />
Alcuni, sulla base dell'assonanza dei nomi e di una somiglianza etimologica, hanno accostato Aztlán, la leggendaria terra d'origine degli Aztechi, all'Atlantide narrata da Platone. Il Codice Boturini descrive Aztlán come "un'isola in mezzo a una distesa d'acqua". La teoria, come molte altre analoghe, non ha avuto alcun riscontro scientifico.
Altra ipotetica collocazione è, secondo alcuni tra cui il sensitivo Edgar Cayce, nel mar dei Sargassi: i Fenici, secondo lui, conoscevano le Azzorre e lungo la faglia atlantica non sono sconosciuti casi di emersione e affondamento di isole, anche in tempi storici recenti; si tratta comunque di piccole isole e non di continenti che potessero ospitare fiumi navigabili come nel racconto di Platone.
Il geologo inglese Jim Allen sostiene che Atlantide si trovasse in Bolivia, nell'area dell'Altiplano, basandosi sulla presenza di una piana rettangolare corrispondente alle dimensioni specificate da Platone e di depressioni concentriche ad arco di cerchio subito a est della città di Pampa Aullagas, da lui identificate con i canali della capitale. In Brasile l'archeologo e antropologo francese Marcel Homet indagò sui resti di un antico popolo che egli riteneva discendere dalla civiltà di Atlantide.
Il primo a elaborare l'ipotesi di un'Atlantide nordica fu, molto probabilmente, lo svedese Olaus Rudbeck che, nel XVII secolo, posizionò - soprattutto per motivi nazionalistici - il continente perduto in Svezia. Le sue idee furono riprese, modificate e razionalizzate dall'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly che, nella seconda metà del Settecento, arrivò a posizionare Atlantide nelle remote regioni siberiane, in prossimità dell'isola di Spitzbergen.
Dopo aver descritto dettagliatamente il rapporto di Platone nel Timeo sul continente perduto di Atlantide, e dopo aver considerato quanto era stato detto su questo argomento sia da Sancuniatone, per quanto riguardava la storia dei Fenici, sia da Diodoro Siculo, per la storia greca, Bailly procedette nella sua indagine per dimostrare "scientificamente" che Atlantide non si trovasse né su di un'isola opposta alle colonne d'Ercole e immersa nell'oceano Atlantico (di cui le isole Madeira si supponeva fossero i resti) — come voleva la tradizione — né tra le Canarie e nemmeno nel continente americano. Il popolo Atlantideo avrebbe invece abitato, secondo Bailly, le regioni brulle e ghiacciate della Siberia, che - a suo giudizio - in epoche remotissime dovevano essere moderatamente temperate e abbastanza fertili, mentre un caldo torrido affliggeva il resto del globo rendendolo praticamente inabitabile. Tutto questo era previsto dalle ipotesi paleoclimatiche di Mairan e Buffon, secondo cui in passato il clima era globalmente più caldo a causa della maggiore "incandescenza" che la Terra doveva avere primitivamente. Questa "incandescenza" primitiva era poi diminuita nel corso del tempo causando un lento e globale raffreddamento del pianeta. Bailly abbracciava questa teoria che, a suo giudizio, costituiva una prova infallibile alle sue ipotesi sul posizionamento di Atlantide.
La Siberia infatti, secondo l'ipotesi di Bailly, anticamente doveva essere ben più calda e quindi abitabile, mentre le zone equatoriali dovevano essere praticamente incandescenti, inabitabili e quindi inabitate. Perciò non poteva che ricercarsi a nord l'origine dell'umanità e dunque l'origine delle scienze.
Le remote regioni tartariche, o quelle artiche furono di conseguenza la sede primitiva della scienza, la dimora della più antica razza umana, i celebri Atlantidei che, nei secoli successivi, discendendo a sud dalle pianure della Scizia, attraversarono le steppe caucasiche e portarono con loro nell'Asia meridionale i rudimenti delle arti e delle scienze e il culto del sole e del fuoco, che, come asseriva Bailly, poteva essersi originato soltanto in una zona dal clima freddo, e dunque nel «freddo impero della notte polare». Si capisce dunque perché Bailly individuasse negli Atlandidei anche la popolazione degli Sciti che abitava le zone settentrionali dell'Asia. Supporre altre possibilità, concepire ad esempio che questi culti si fossero originati in Persia, in India, o in altri regni orientali — dove il sole anticamente «bruciava le foglie e consumava i vegetali» e dove il sole stesso era raffigurato mentre «cavalcava un leone che nella sua furia divorava tutto ciò che gli capitava a tiro» — nell'opinione di Bailly era letteralmente «assurdo». Bailly finì dunque per unire in un tutt'uno mitologico la tradizione di Atlantide con quella della leggendaria terra nordica di Iperborea, narrata e tramandata da storici come Erodoto, Pindaro ed Esiodo.
L'eredità lasciata da Bailly continuò a vivere anche dopo la sua morte. La sua tesi di una "Atlantide Iperborea" era stata comunque sonoramente respinta in un primo momento. Ad esempio lo stesso Jules Verne in qualche modo voleva anche prendere in giro Bailly in Ventimila leghe sotto i mari (1869), quando i suoi personaggi scoprirono la "vera" Atlantide nell'oceano Atlantico. Malgrado tutto, vi furono altri teorici che sostennero le stesse tesi di Bailly: ad esempio nel 1885 William Fairfield Warren, allora professore di teologia sistematica presso la Boston University, scrisse un libro, Paradise Found: The Cradle of the Human Race at the North Pole, per promuovere l'ipotesi secondo la quale il nucleo originario del genere umano provenisse anticamente dal Polo Nord. In questo lavoro Warren collocò Atlantide al Polo Nord, così come il Giardino dell'Eden, il Monte Meru, Avalon e Iperborea.
Anche un'esoterista, Helena Blavatsky, prese molto sul serio le idee di Bailly. Blavatsky fu una delle teorizzatrici della teosofia, una dottrina mistico-filosofica, il cui credo era precisato nel suo libro La dottrina segreta (1888). In quest'opera ermetica, Blavatsky rispolverò la teoria di Bailly (citandolo addirittura ventidue volte), e incorporò l'ipotesi di una "Atlantide Iperborea" all'interno di una pseudostoria (o storia fantastica) che coinvolgeva vari continenti e varie razze umane e semiumane. Atlantide era rappresentata da Blavatsky come un continente polare che si estendeva dall'attuale Groenlandia fino alla Kamcatka e il cui destino si legò indissolubilmente a quello di una razza particolarmente controversa: gli ariani, che secondo Blavatsky erano una razza superiore, seconda in ordine cronologico tra le razze umane, costituita da giganti androgini dalle fattezze mostruose. Nell'ipotesi pseudostorica di Blavatsky, quando gli ariani migrarono a sud verso l'India, scaturì da loro una "sotto-razza", quella dei semiti. Il mito di una "Atlantide Iperborea" fece così ingresso all'interno delle ideologie ariane e antisemite della fine del XIX secolo.
La teoria di Bailly-Blavatsky trovò sostegno tra alcuni degli ideologi ariani viennesi più fantasiosi. Furono proprio questi circoli, come la società Thule (che prendeva proprio il nome della mitica capitale di Iperborea), a derivare molte teorie antisemite e ariane dal lavoro mitologico di Blavatsky, e indirettamente da Bailly (il quale, in realtà, nei suoi lavori, mostrava chiare posizioni antirazziste). I membri della società Thule, in particolare, prestarono un aiuto fondamentale ad Adolf Hitler (che probabilmente aveva letto alcuni libri dei teosofi ariani viennesi quando viveva in Austria) nel fondare il NSDAP, il partito nazista. Uno di loro, Alfred Rosenberg, compagno vicino a Hitler durante gli anni in cui questi stette a Monaco di Baviera, aveva posto il mito di un'Atlantide Iperborea al cuore di un suo voluminoso tomo dottrinale: Il mito del XX secolo (Der Mythus des 20. Jahrhunderts), pubblicato nel 1930. Rosenberg, infatti, incominciò quest'opera assumendo come vera la passata esistenza di Atlantide nel lontano nord e riproponendo quasi integralmente la tesi baillyiana. La tesi di Bailly fu anche ripresa dal filosofo italiano Julius Evola il quale identificava, in Atlantide, un riferimento sulla sede di Iperborea.
Sebbene la maggior parte delle ipotesi su cui si fonda la tesi di un'Atlantide nordica siano ritenute pseudoscientifiche o palesemente inconsistenti sia dalla scienza sia dalla storiografia contemporanee, alcuni isolati scienziati e ricercatori, come il russo Valery Dyemin, Ph.D., ritengono che Iperborea «sia esistita davvero» nel Circolo Polare Artico.
La maggior parte delle ipotesi avanzate di recente indicano la collocazione della mitica isola non più nell'oceano o in altri luoghi troppo remoti (ormai scartati per motivi geologici, cronologici e storici), ma più vicino, nel Mediterraneo o nei suoi immediati dintorni, dove Platone più probabilmente poteva avere tratto i vari elementi per costruire il suo racconto. Le conoscenze geografiche dei greci all'epoca di Platone erano infatti molto vaghe e limitate al bacino del Mediterraneo, ed erano in realtà sufficientemente precise solo nell'ambito dell'Egeo.
È stato ipotizzato che Platone potesse avere tratto qualche ispirazione dai terremoti e maremoti che non molti anni prima, nel 373 a.C., avevano ingoiato le isole di Elice e Bura. Fu distrutta anche un'isola di nome Atalante, vicino a Locri in Calabria.
Altri studiosi hanno ravvisato somiglianze con il racconto omerico della guerra di Troia, tra i quali Eberhard Zangger che nel 1992 ha elaborato la tesi secondo cui la narrazione di Platone sarebbe un riassunto della storia di Troia dal punto di vista egiziano.
Alcuni identificano con l'isola di Cipro i resti del continente di Atlantide. Altri hanno pensato al Sahara, che in periodi molto remoti (30 000 anni fa) non era desertico ma ricoperto da foreste lussureggianti e che fu abitato fin dalla preistoria, ma che non trova particolari corrispondenze nel racconto di Platone.
Una tra le teorie più singolari, studiata e approfondita nella prima metà del Novecento, sostiene che il mito di Atlantide non sarebbe altro che la memoria, deformata e ingigantita, della Civiltà minoica (civiltà cretese dell'età del bronzo), che ebbe fine intorno al 1450 a.C., in circostanze non ancora ben chiarite. La causa potrebbe essere l'esplosione del vulcano dell'isola di Tera o Thera, attualmente Santorini, che provocò lo sprofondamento parziale dell'isola e giganteschi terremoti: l'esplosione di Thera avrebbe propagato nel Mediterraneo un terrificante maremoto in grado di spazzare via gli insediamenti lungo le coste (le onde si sarebbero diffuse in tutto il bacino dell'Egeo in sole due ore, raggiungendo un'altezza di circa trenta metri), a cui sarebbero seguite entro due-tre giorni le ceneri riversate dall'esplosione vulcanica. Uno studio recente ha inoltre evidenziato delle analogie letterarie tra il testo platonico su Atlantide e alcuni canti dell'Odissea di Omero. Altri studiosi ritengono comunque improbabile il riferimento al vulcano di Thera, perché mille anni sono troppi per mantenere il ricordo preciso di un evento.
Ulteriore teoria è stata avanzata da Costantino Cattoi ex colonnello della Regia Aeronautica, collaboratore di Gabriele D'Annunzio e stimato amico di Italo Balbo. Lo studioso, nel 1955, riportò alla luce una serie di opere pre-etrusche, fra le quali un'enorme roccia alta una decina di metri con i lineamenti del volto distintamente abbozzati e il classico copricapo egizio, ritenuta legata alla figura del dio Thot. I ritrovamenti, ritenuti importanti dagli esperti del settore, portarono Cattoi a collaborare con l'antropologo statunitense George Hunt Williamson, l'esoterico peruviano Daniel Ruzo e il francese Denis Saurat, che pur lavorando in modo autonomo, giunsero alle medesime conclusioni, collegando le sculture rupestri italiane, alle simili scoperte a Marcahuasi in Perù, rafforzando la loro convinzione sull'esistenza di un legame tra il promontorio dell'Argentario, quale parte superstite di Atlantide, e il lontano Perù.
Una teoria analoga è stata avanzata anch'essa dal giornalista italiano Sergio Frau nel suo libro Le colonne d'Ercole (2002): le "colonne" di cui parla Platone andrebbero identificate con il canale di Sicilia (che è assai turbinoso, come Platone descrive le Colonne), dunque l'isola di Atlantide sarebbe in realtà la Sardegna: il popolo che edificò gli oltre 7 000 nuraghi coinciderebbe allora con il misterioso popolo dei Shardana o Šerden (dai quali appunto si vorrebbe che la Sardegna abbia preso il nome), citati tra i "popoli del Mare" che secondo le cronache degli antichi Egizi tentarono di invadere il Regno d'Egitto. Un passo della descrizione platonica si vuole coincida con la forma della Sardegna: "Una pianura (il Campidano) che attraversa l'isola in senso longitudinale (ha coste ad est e ad ovest), situata tra due zone montuose a nord e a sud; le coste sono alte e rocciose, scoscese". Del resto, la Sardegna possiede ancora oggi zone pianeggianti situate alcuni metri sotto il livello del mare e ciò farebbe pensare che, essendo una terra geologicamente troppo antica per subire o aver subito catastrofi naturali di dimensioni catastrofiche, possa invece esser stata soggetta in passato a cataclismi legati al mare, il cui territorio probabilmente non avrebbe potuto respingere a causa appunto dell'altezza della sua superficie rispetto a quella marina. Oltretutto la mancanza di terremoti avrebbe permesso una grande espansione edilizia all'interno dell'isola, che all'epoca sarebbe potuta apparire in maniera notevolmente diversa. La "fine" di Atlantide viene anche fatta coincidere con la diffusione della malaria nell'isola.
Tra i numerosi luoghi in cui viene collocata la formidabile minaccia marittima di Atlantide ve ne sono due che riguardano da vicino la Sicilia: l'omonimo canale e Malta. Questa vicinanza ha indotto il maltese Giorgio Grognet de Vassé - fautore della teoria che vede in Malta un residuo di Atlantide - ad asserire che nel museo di Siracusa si conservava un reperto di Atlantide: un capitello. Grognet de Vassé era infatti convinto che gli Atlantidei dopo la distruzione della loro isola si fossero divisi in colonie (lo stesso Antico Egitto, secondo il maltese, non era altro che una colonia atlantidea) e quel capitello richiamava il particolare stile egizio (a suo dire prova inconfutabile della presenza atlantidea in quei luoghi).
Al dialogo Crizia avrebbe dovuto seguire l'Ermocrate; in ordine di successione il terzo protagonista del dialogo platonico. L'Ermocrate siracusano (i pareri intorno alla sua identificazione sono pressoché unanimi) viene accennato nel Crizia e gli sarebbe stato affidato un compito ancora da scoprire:
«Crizia: Amico Ermocrate, tu vieni dopo e ce n'è un altro prima, ecco perché tu sei ancora pieno di coraggio. Ad ogni modo quanto sia difficile il tuo compito, esso stesso fra non molto te lo dimostrerà [...]»
(Il Crizia 108 B-C-D)
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la trilogia di Atlantide venisse elaborata da Platone durante il suo primo soggiorno alla corte di Dionisio I; suo mecenate. Il fine ultimo sarebbe stato un messaggio politico divulgato dinanzi alla società greca. Ma la morte del tiranno e la mancata organizzazione del festival culturale avrebbero bloccato la stesura della trilogia, rimasta per questo incompiuta. I dialoghi pervenuti vennero infine resi noti, in maniera postuma, dall'accademico Crantore di Atene.
Siracusa viene presa in esame per dimostrare come il filosofo ateniese avesse modellato Atlantide e l'avesse idealizzata in base alla sua esperienza politica e sociale in Sicilia. Una conseguenza dei suoi viaggi in Sicilia.
Lo svedese Gunnar Rudberg, specialista platonico, agli inizi del XX secolo elaborò per primo tale teoria; seguito da numerosi altri studiosi.] Ad esempio per Phyllis Young Forsyth solamente Siracusa e la Sicilia offrono dei convincenti parallelismi con Atlantide. Viceversa, Muccioli, autore di un'approfondita opera sul tempo di Dionisio II, ritiene più plausibile l'ipotesi secondo la quale Atlantide va identificata con la decadenza di Atene, mentre ritiene improbabile un'eco della crisi siracusana di IV sec. a.C.
Konrad Gaiser appoggia l'identificazione di Forsyth ma non condivide l'ipotesi secondo cui lo scopo di Platone era di ammonire Dionisio II mostrandogli la cruenta fine di Atlantide: se egli non avesse attuato lo Stato ideale, alla sua città sarebbe toccato quell'infelice destino.
Affine è il pensiero di Mary Louise Gill, la quale sostiene che la serie del Timeo-Crizia-Ermocrate (lasciata intenzionalmente incompiuta da Platone) doveva dare un forte messaggio politico alla società greca del suo tempo, ormai in declino: Atlantide e Atene degenerarono nella corruzione; anche Siracusa si sarebbe dovuta aspettare la punizione di Zeus, poiché era stata corrotta dal potere.
A favore di tale identificazione vi sono molteplici coincidenze tra l'Atlantide platonica e la Siracusa dionisiana:
Il punto di forza di Atlantide era il controllo dei mari con le sue navi. Siracusa era temuta dai Greci per lo stesso motivo.
Atlantide controllava l'Africa, bloccandosi al confine dell'Egitto, e l'Europa fino al mar Tirreno. La Siracusa dionisiana aveva fondato colonie sull'Adriatico e sul Tirreno. Sempre acceso fu inoltre il conflitto con le forze africane dei Punici.
La descrizione fisica dell'isola di Atlantide: vi era un vulcano identificabile con l'Etna; una fertile piana circondava la capitale, qui identificabile con la piana di Catania; la capitale di Atlantide si estendeva su quattro cerchi concentrici, allontanandosi dal palazzo del potere che era posto sull'isola centrale, così come la Siracusa dionisiana poneva il palazzo dei tiranni nell'isola di Ortigia e - pur senza cerchi concentrici - divideva la propria area urbana in quattro città diverse (Neapolis, Tiche, Acradina, Epipoli), ciascuna protetta da proprie fortificazioni.
L'estrema varietà di armamenti e reparti militari che caratterizzavano l'esercito di Atlantide, sarebbe stata ispirata dall'esercito, prettamente mercenario, di Dionisio I, nel quale le milizie di ciascun popolo erano esortate a usare le armi tipiche dei propri paesi di provenienza.
La potenza di Atlantide trovò infine la sua nemesi in Atene (l'altra società perfetta di Platone); quando decise di conquistarla ne fu sconfitta. Atene fu la rivale di Siracusa (le due capitali della grecità; le due mete politiche di Platone) ma Atene cercò lo scontro con Siracusa, non venne da questa attaccata.
Mary Louise Gill (che non identifica una città precisa con Atlantide) intravede la possibile spiegazione nel terzo dialogo platonico (perduto o mai scritto) volto idealmente nell'epoca di Ermocrate: l'Atlantide corrotta rappresentava l'Atene di Alcibiade, mentre Siracusa rappresentava l'Atene ancora pura che sconfisse le mire espansionistiche di Atlantide. Ma come l'Atene antica, anche Siracusa si fece a sua volta corrompere dal potere, mettendo al comando i tiranni.
Una tra le molte teorie collocherebbe Atlantide in Spagna, precisamente in Andalusia, vicino a Cadice. È l'opinione dello studioso tedesco Rainer Kuehne che si avvale di rilevazioni satellitari, attribuite però a Georgeos Dìaz-Montexano. Qualcosa combacia, come la forma delle strutture rilevate e l'ambientazione vicino a montagne (in questo caso la Sierra Morena e la Sierra Nevada), come le descrizioni di Platone, in cui sono anche presenti ricche miniere di rame. Tuttavia, se avesse ragione Kuehne, non si tratterebbe di un'isola, come vuole la tradizione, e le dimensioni rilevate dal satellite non combaciano con quelle di Platone.
Un'altra teoria vuole Atlantide nelle isole Canarie nell'oceano Atlantico (che sono effettivamente oltre le Colonne d'Ercole ovvero lo Stretto di Gibilterra), malgrado la più antica civiltà di quell'arcipelago sia stata quella neolitica.
Comunque sia, ovunque la si voglia situare, Atlantide affascina soprattutto per i miti che avvolgono il suo popolo e la sua fine.
AUDIO https://www.youtube.com/watch?v=zzzwSxO3gh8
Eugenio Caruso 1- 12 -2019
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