Mentre la domanda energetica globale cresce e, con ogni probabilità, continuerà a crescere negli
anni a venire, i temi della limitazione delle emissioni di gas serra energy related e del cambiamento
climatico acquisiscono sempre più centralità nel dibattito pubblico. Nel 2018, in continuità con il
trend storico, la domanda energetica globale è arrivata a sfiorare i 14 miliardi di tonnellate di
petrolio equivalente (Tep). La crescita è avvenuta a un tasso doppio rispetto alla velocità media
degli ultimi anni: nel corso del 2018 sono stati aggiunti oltre 300 milioni di Tep – l’equivalente dei
consumi di due Paesi come l’Italia; le emissioni di CO2 sono aumentate dell’1,7% rispetto allo
scorso anno.
La sfida relativa al soddisfacimento della domanda energetica (che alimenta la crescita dei Paesi in
via di sviluppo e sostiene quella delle economie mature) e, in parallelo, al contenimento delle
emissioni non è di facile soluzione. La stessa misura delle emissioni può dare risposte diverse a
seconda degli angoli di osservazione. Oggi le emissioni annue di CO2 si concentrano per il 60% in
quattro regioni del Mondo (Cina, USA, Europa e India): sarebbe facile concludere che occorre
concentrare gli sforzi proprio in queste regioni. Ma, per arrivare a una giusta conoscenza del
fenomeno, comprenderne a fondo la complessità e prendere le giuste decisioni, occorre tener conto
anche di altri fattori e considerare diversi punti di vista, quali le emissioni pro-capite, che in un
certo senso restituiscono una misura indiretta dello stile di vita degli abitanti di un Paese, il
percorso storico che ha contribuito all’accumulo di CO2 in atmosfera, nonché le emissioni indotte
dai consumi di un Paese su altri mercati (effetto delle importazioni e della delocalizzazione
produttiva).
La Svezia, per esempio, è un Paese virtuoso in termini ambientali (le emissioni di CO2
sono diminuite ad un tasso del 2,5% all’anno negli ultimi 10 anni) ma, a causa delle importazioni,
necessarie a sostenere l’alto tenore di vita del cittadino medio svedese, genera e sostiene emissioni
altrove, ad esempio nei mercati asiatici, che in effetti sono esportatori di CO2. ( Mi piace ricordare che l'auto elettrica non produce CO2 dove si trova, ma indirettamente produce CO2 dalla centrale termica che realizza l'energia eletrica necessria all'auto elettrica ndr).
Si tratta dunque di un problema molto complesso già nella fase di misurazione, ancor prima di
addentrarsi nelle modalità, nei tempi e nei costi relativi alla transizione. Basti pensare che, per
rispettare la curva di emissioni necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici, al 2040
occorrerebbe registrare emissioni pari a quelle del 1977, quando il Pianeta (in termini di
popolazione, ricchezza prodotta e consumi energetici) era decisamente più piccolo di oggi e, a
maggior ragione, di quanto lo sarà nel 2040.
Non si tratta di un invito a rinunciare a trovare una soluzione – gli obiettivi sanciti da COP21 in
termini di contenimento delle emissioni di CO2 in atmosfera sono ancora tecnicamente
raggiungibili – quanto di un monito ulteriore, più che mai attuale, a diffidare di soluzioni semplici
a problemi complessi.
La lotta al problema del riscaldamento globale restituisce anche rimandi positivi. Negli ultimi 20
anni, precisamente dal 2000 ad oggi, le emissioni energy related sono passate da 23,1 Gt a quasi 34
Gt: un impressionante +43,5%.
Nei prossimi 20 anni, grazie alle misure messe in campo a seguito degli accordi di Parigi, la
traiettoria delle emissioni dovrebbe attestarsi sui 35,9 Gt, ossia un +8,4% rispetto ad oggi. Nel
frattempo la ricchezza prodotta cresce ad ritmo sempre più sostenuto: sempre dal 2000 ad oggi, il
PIL mondiale è cresciuto del 154%. Mentre dunque il PIL mondiale cresce costantemente, la curva
delle emissioni va rallentando la sua corsa: non si registra un vero decoupling, ma certamente due
diverse velocità.
La terziarizzazione dell’economia, la spinta verso una maggiore efficienza energetica e un diverso
mix energetico – frutto dell’implementazione di politiche corrette – permettono di procedere nella
direzione giusta, ma non alla velocità desiderata.
Qualsiasi cambiamento si fonda in larga parte sulla costruzione degli asset indispensabili per
rendere il cambiamento stesso tecnicamente possibile. Il settore energetico globale sembra però che
stenti ad attirare gli ingenti capitali necessari per attuare la transizione. Gli investimenti globali
nell’OilandGas tradizionale sono diminuiti del 20% dai picchi del 2014 (anche se sono in lieve
ripresa), mentre quelli del power sector sono stazionari, in leggera discesa: entrambi hanno sfiorato
gli 800 miliardi di dollari nel 2018.
Anche se i dati preliminari del 2019 indicano una forte ripresa
negli investimenti in energie rinnovabili, l’impressione è che l’investitore stia adottando una
posizione attendista: il rischio concreto è che gli obiettivi di decarbonizzazione – basati su
tecnologie e modelli di business dai ritorni più bassi rispetto alle fonti tradizionali – siano poco
conciliabili con le richieste del mercato stesso in termini di ritorno degli investimenti.
Decarbonizzare e mantenere i ritorni attuali rischiano di essere due obiettivi difficilmente
conciliabili, quando invece il settore dovrebbe attirare ingenti capitali, necessari per rispondere alla
crescente domanda energetica e per realizzare il percorso di decarbonizzazione, attraverso
l’ammodernamento degli impianti esistenti e la costruzione di nuovi.
I meccanismi di mercato, unitamente ai limiti imposti dalla tecnologia oggi disponibile, possono
rappresentare un forte ostacolo al raggiungimento degli obiettivi energetico-climatici
internazionali e sottolineano una volta di più la complessità del problema, nonché il ruolo
fondamentale di policy maker e operatori energetici.
Un ruolo sicuramente primario è giocato dalle aziende dell’Oil and Gas, le quali sono spesso al centro
dell’attenzione in un’epoca di crescente sensibilità per il tema ambientale. Diverse major (specie
quelle europee) stanno agendo con successo per ritagliarsi un ruolo nella transizione energetica:
molti sono gli investimenti indirizzati a realizzare energie rinnovabili, spesso acquisendo start-up
innovative; lo scorso anno le operazioni di venturing di questo tipo da parte delle major sono stati
secondi solo a quelli relativi all’upstream tradizionale. Parimenti, grandi sforzi sono dedicati a
ridurre le emissioni derivanti dalla propria filiera.
Le major internazionali – certamente con impegni e strategie diverse – possiedono il know-how, i
mezzi (asset e risorse finanziarie) e la global footprint per imprimere quell’accelerazione necessaria
al processo di decarbonizzazione che, come osservato, procede troppo lentamente.
Il portafoglio stesso di produzione di idrocarburi si sta ribilanciando nella direzione della
decarbonizzazione: il gas naturale, grazie alle sue minori emissioni e alla complementarietà con le
fonti rinnovabili, è la fonte ideale per la transizione; non a caso la quota di produzione di gas
naturale sul totale idrocarburi delle oil companies internazionali è passata dal 30% al 40% dagli anni
‘80 ad oggi, ed è possibile che nei prossimi 15 anni essa superi il 50% sul totale della produzione.
La crescente domanda energetica impone gradualità nelle scelte. Gli analisti convergono
nell’indicare una sostanziale crescita della domanda di petrolio nei prossimi decenni, e anche gli
scenari più estremi non prevedono un azzeramento della stessa. La produzione di idrocarburi
permette alle major di creare ricchezza e realizzare, da un lato, gli investimenti necessari nel settore
energetico e, dall’altro, di generare valore aggiunto per i territori ospitanti, anche per compensare i
non trascurabili costi della transizione. Ed è proprio questa gradualità che determina la continua
importanza degli idrocarburi come fonti “ponte” verso un futuro sostenibile, e che proietta le major
petrolifere verso un ruolo di primo piano.
Ragionamento valido anche per l’Italia. Il ruolo che le oil companies possono giocare nella
transizione a livello nazionale non è trascurabile. L’Italia ha infatti tutte le potenzialità per
continuare ad attrarre investimenti in questo senso: non è un caso infatti che tre delle cinque major
europee operino proprio in Italia.
Il “cruscotto della transizione” nazionale mostra segnali incoraggianti, in quanto negli ultimi 10
anni l’intensità energetica e le emissioni sono diminuite, mentre aumenta la share di rinnovabili.
Il mix generativo elettrico è tra i più performanti – in termini ambientali – d’Europa, essendo
dominato da gas naturale e rinnovabili. Anche in Italia gli ambiziosi obiettivi del Piano Nazionale
Integrato Energia e Clima (PNIEC) impongono una costante accelerazione sul tema della
transizione. In maniera non dissimile dalla situazione mondiale, anche il sistema Italia deve essere
in grado di attrarre investimenti per la realizzazione delle infrastrutture energetiche necessarie a
rendere concreto e sostenibile il settore energetico. Si stima che il solo sistema elettrico necessiti di
4,6 miliardi di euro di investimenti all’anno fino al 2030 – la maggior parte destinata allo sviluppo
delle fonti rinnovabili e in particolar modo fotovoltaico ed eolico – per raggiungere gli obiettivi
indicati dal PNIEC, che tuttora in più parti manca di indicazioni concrete su come raggiungere gli
obiettivi stessi.
Un altro elemento caratterizzante del PNIEC riguarda l’ambizione a ridurre la dipendenza
energetica del nostro Paese, unico tra i grandi in Europa ad importare i tre quarti dell’energia da
mercati esteri, per lo più extra-europei. Considerando che il 70% del mix energetico nazionale si
basa sugli idrocarburi, è indispensabile invertire il trend di decremento della produzione domestica
di idrocarburi: elemento questo che si ritrova nel PNIEC (tabella 48 del documento), che prevede
una seppur lieve inversione di tendenza (specie per il petrolio). Dal 1998 ad oggi la produzione di
idrocarburi nazionali si è dimezzata, specialmente – paradosso nel paradosso – nel gas naturale.
Nei prossimi 10 anni (al 2030) il PNIEC prevede un nuovo incremento della produzione nazionale
del 31%, per poi stabilizzarsi al 2040 su valori poco superiori a quelli odierni.
La direzione è corretta, ma necessita di interventi decisi, perché invertire dinamiche già in atto non
è mai un’operazione facile. Se il trend sopra descritto proseguisse sullo stesso piano inclinato, al
2030 la produzione nazionale si attesterebbe sotto le 4 milioni di tonnellate annue (contro le 10
Mtep di oggi), con un ulteriore aggravio della bilancia commerciale dovuta alle maggiori
importazioni che, ipotizzando consumi stabili (in realtà nell’ultimo anno sono in leggero aumento),
arriverebbero a costare 50 miliardi di euro annui: circa il 3,1% del PIL nazionale.
Nel 2018 la dipendenza energetica del Paese è scesa al 74%, dopo diversi anni consecutivi di
incremento. Un buon segnale, sostenuto dall’incremento della produzione di energia rinnovabile,
ma anche di petrolio domestico. Un’ulteriore conferma della necessità di massimizzare tutte le
fonti di energie disponibili nell’ottica di ridurre la dipendenza energetica e generare le risorse
necessarie affinché il Paese possa affrontare la fase di transizione e raggiungere gli ambiziosi
obiettivi energetico-climatici.
Per la precisione, il PNIEC prevede una diminuzione del consumo di energia e di idrocarburi nello specifico. Se gli
outlook disegnati dal Piano Nazionale si avverassero (minori consumi e maggiore produzione), il costo dell’import si
ridurrebbe notevolmente, passando dai 48 miliardi di euro attuali a 34 miliardi di euro nel 2030, con conseguente effetto
di miglioramento sia sulla bilancia energetica dei pagamenti, sia sul grado di dipendenza da mercati esteri.
08-12-19
https://www.aspeninstitute.it/interesse-nazionale/articolo/energia-e-clima-ottimizzare-la-produzione-nazionale-di-energia-nell%E2%80%99ott
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