Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, le Leggi, mi dedico ora ai libri 2-10 della Repubblica.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
REPUBBLICA LIBRO IX
«Ora», ripresi, «ci resta da esaminare l'uomo tirannico: come avviene la sua trasformazione da quello democratico,
quali sono i suoi caratteri e che tipo di vita conduce, se infelice o beata».
«Sì , ci resta soltanto lui», disse.
«Sai però che cosa desidero ancora?», domandai.
«Che cosa?» «Non mi sembra che abbiamo definito in maniera esauriente quali e quanti sono i desideri. Il difetto di
questo punto renderà meno chiara la nostra ricerca».
«Ma non siamo ancora in tempo per questo?», chiese.
«Sicuro: considera appunto l'aspetto della questione che voglio analizzare, il seguente. Certi piaceri e desideri non
necessari mi sembrano illegittimi probabilmente nascono in tutti, ma se vengono repressi dalle leggi e dai desideri
migliori con l'aiuto della ragione, in alcuni uomini scompaiono completamente o restano pochi e deboli, in altri invece
sono più forti e numerosi».
«Di quali piaceri e desideri stai parlando?», domandò.
«Di quelli che si destano nel sonno», risposi, «quando la parte razionale e mite dell'anima, che esercita la sua autorità
sull'individuo, dorme, mentre la parte ferma e selvaggia, colma di cibo e di bevande, scalpita e rifiutando il sonno cerca di
andare a soddisfare i suoi istinti. Tu sai che in uno stato simile osa fare di tutto, come se fosse sciolta e libera da ogni
ritegno e autocontrollo. Non esita affatto a tentare, così almeno s'immagina, di unirsi alla madre o a un qualsiasi uomo,
dio e animale, a macchiarsi di ogni sorta di delitto e a non astenersi da alcun cibo; in poche parole, non si tira indietro da
nessuna azione stolta o indecente».(1) «Hai pienamente ragione», disse.
«Ma quando, credo, un uomo temperante e di sani princì pi va a dormire dopo aver destato la sua parte razionale e
averla nutrita di nobili argomentazioni e nobili ricerche, raggiungendo la pace interiore, e non tiene a digiuno né ingozza
la parte concupiscibile, affinché dorma e non turbi con le sue gioie o afflizioni la parte migliore, ma lascia quest'ultima
sola con se stessa a indagare, nel suo desiderio di conoscere ciò che ignora del passato o del presente o del futuro; e allo
stesso modo ammansisce la parte impulsiva e non dorme con l'animo sovreccitato perché si è adirato con qualcuno, ma si
mette a riposare dopo aver placato quelle due parti e stimolato la terza in cui ha sede il senno, allora sai che in tale stato
coglie al massimo grado la verità e non gli appaiono assolutamente quelle visioni immorali dei sogni».
« Credo proprio che sia così », disse.
«Ci siamo spinti troppo in là a parlare di queste cose. Ma ecco ciò che vogliamo constatare: in ciascun individuo,
anche in alcuni di noi che sembrano molto equilibrati, c'è una specie di desideri pericolosa, selvaggia e sfrenata, la quale
si manifesta appunto nei sogni.
Vedi un po' se la mia affermazione ti sembra sensata e se ne convieni».
«Sì , ne convengo».
«Ricordati dunque qual era, in base alla nostra descrizione, l'uomo democratico. Se non erro, era stato allevato sin da
giovane da un padre economo, che apprezzava solo i desideri affaristici e disprezzava quelli non necessari volti al
divertimento e all'esteriorità. Non è così ?» «Sì ».
«Ma una volta entrato in contatto con uomini più raffinati e pieni di quei desideri che abbiamo appena menzionato,
per odio verso la parsimonia del padre si è abbandonato a ogni eccesso e ha imitato il loro modo di vivere; ma poiché
possiede una natura migliore dei suoi corruttori, pur essendo tirato in entrambe le direzioni si è fermato a metà tra i due
caratteri, e nella convinzione di prendere con giusta misura dall'uno e dall'altro conduce una vita né meschina né
immorale, divenuto, da oligarchico che era, democratico».
«Questa», disse, «era in effetti la nostra opinione su di lui».
«Supponi ora», proseguii, «che a sua volta quest'uomo, divenuto ormai vecchio, abbia un giovane figlio allevato
secondo le sue abitudini».
«Lo suppongo».
«E metti anche che gli accadano le stesse vicende del padre: che sia spinto a una totale illegalità, chiamata dai suoi
istigatori piena libertà, e che il padre e il resto della famiglia vengano in aiuto dei desideri moderati, ma quelle altre
persone si oppongano.
Quando questi terribili maghi e creatori di tiranni perdono la speranza di dominare il giovane, meditano di insinuare in
lui un amore che guidi i desideri pigri e dispendiosi, un fuco grande e alato. O pensi che l'amore provato da gente simile
sia qualcosa di diverso?» «Nient'altro che questo», rispose.
«Quando dunque gli altri desideri, che gli ronzano attorno pieni di aromi, unguenti, corone, vini e piaceri dissoluti
propri di queste compagnie, fomentando e alimentando all'estremo il pungolo della mancanza lo infiggono nel fuco, allora
questa guida dell'anima e scortata dalla follia e si mette a smaniare, e se trova nel giovane opinioni o desideri ritenuti
onesti e ancora capaci di ritegno, li elimina e li caccia fuori da lui, fino a purgarlo della saggezza e a riempirlo di follia
acquisita».
«Tu descrivi perfettamente la nascita dell'uomo tirannico», disse.
«E non è forse per questo», feci io, «che da tempo Eros è chiamato tiranno?» «è probabile», rispose.
«Quindi, amico mio», domandai, «anche un ubriaco ha uno spirito tirannico?» «Sì lo ha» «E chi è folle e sconvolto
tenta e spera di poter comandare non solo sugli uomini, ma anche sugli dèi».
«Certo», disse.
«Eccellente amico», conclusi, «un uomo diventa un perfetto tiranno quando per natura o per abitudine o per entrambe
le ragioni è soggetto all'ebbrezza, all'amore e alla melancolia».
«Appunto».
«Così , a quanto pare, nasce quest'uomo. Ma come vive?» «Per usare la solita battuta, questo me lo dirai tu!»,(2) disse.
«Va bene, te lo dico. Credo che in seguito le persone in cui il tiranno Eros risiede e governa tutte le facoltà dell'anima
passino il loro tempo tra feste, bagordi, banchetti, etere e tutti gli altri piaceri di questo tipo».
«è inevitabile», disse.
«E non sono molti, terribili e assai pretenziosi i desideri che germogliano ogni giorno e ogni notte?» «Sono molti
davvero».
«Perciò, se hanno delle rendite, questi individui le consumano in fretta».
«Come no?» «Poi vengono i prestiti e il loro patrimonio si assottiglia».
«Senza dubbio».
«Ma quando è stato dato fondo a tutte le sostanze, non è inevitabile che i desideri annidatisi fitti e violenti nel loro
animo si mettano a gridare e che i nostri uomini, incalzati come dal pungolo degli altri desideri, ma in particolare dallo
stesso Eros, che capeggia tutti gli altri quasi fossero suoi satelliti, incomincino a smaniare e a vedere se c'è qualcuno a cui
poter sottrarre qualcosa con l'inganno e con la violenza?» «Certamente», rispose.
«Quindi l'uomo tirannico ha la necessità di prendere da ogni parte o di cadere in preda a gravi tormenti e travagli».
«è inevitabile».
«E come in lui i piaceri più recenti avevano la meglio su quelli vecchi e cancellavano le loro tracce, così anch'egli,
benché sia più giovane, pretenderà di sopraffare il padre e la madre e di spogliarli, se ha dilapidato la sua parte,
attribuendosi i beni paterni?» «Ma certo!», esclamò.
«E se essi non glieli concederanno, non tenterà dapprima di derubare e ingannare i genitori?» «Senz'altro».
«Ma poi, se non ci riuscisse, li rapinerà usando loro violenza?» «Credo di sì », rispose.
«E se, mirabile amico, il vecchio e la vecchia opporranno resistenza, avrà forse riguardo per loro, evitando di
compiere qualche atto tirannico?» «Io non nutro molte speranze per i genitori di costui», rispose.
«Ma, per Zeus, non ti sembra, Adimanto, che un uomo simile arriverebbe a percuotere la madre, che da tanto tempo
gli è consanguinea (3) e cara, per un'etera a lui estranea della quale si è da poco ì nvaghito, e farebbe altrettanto col padre
in età avanzata, il suo più intimo e vecchio amico, per un bel giovane entrato di recente nelle sue grazie? E non credi che
asservirebbe i propri genitori a costoro, se li conducesse nella stessa casa?» «Sì , per Zeus!», rispose.
«A quanto pare, è proprio una grande fortuna generare un figlio tirannico!», esclamai.
«Senza dubbio!», confermò.
«Ma quando gli verranno a mancare le sostanze paterne e materne e lo sciame dei piaceri si sarà addensato dentro di
lui, non comincerà col mettere mano al muro di qualche casa o alla veste di uno che va in giro tardi di notte, per poi
ripulire qualche tempio? E in tutto ciò le vecchie opinioni sul bello e sul brutto che aveva sin da fanciullo e riteneva giuste
saranno sopraffatte da quelle appena affrancate dalla schiavì tù, quei satelliti e coadiutori di Eros che prima si liberavano
solo nel sonno, quando egli era ancora sottomesso alle leggi e al padre e aveva dentro di sé un regime democratico; ma
poiché la tirannia di Eros lo ha reso da sveglio esattamente come talvolta era in sogno, non si asterrà da alcun omicidio,
per quanto terribile, né cibo né azione, anzi Eros, che vive in lui da tiranno in totale anarchia e illegalità, esercitando una
signoria assoluta, spingerà il suo suddito, al pari di una città, a ogni audacia con cui poter alimentare se stesso e il suo
tumultuoso seguito, in parte entrato da fuori con una cattiva compagnia, in parte scatenato e liberata dentro di lui dalle sue
stesse abitudini. Non è questa la vita di una persona simile?» «Sì , è questa», rispose.
«Se in città», continuai, «questi individui sono una minoranza e il resto della popolazione si mantiene temperante,
vanno a fare da guardie del corpo a un altro tiranno o a servire come mercenari dove è in corso una guerra; ma se vivono
in tempi pacifici e tranquilli, causano un gran numero di piccoli guai lì in città».
«Di quali guai parli?» «Ad esempio rubano, forano i muri, borseggiano, rapinano, spogliano i templi, riducono in
schiavitù i cittadini; e se sono abili oratori, talvolta fanno i sicofanti, testimoniano il falso e si lasciano corrompere».
«Piccoli guai, tu li chiami, purché di costoro ce ne siano pochi!», esclamò.
«Ma le cose piccole», dissi, «sono tali rispetto alle grandi; e tutti questi malanni, come dice il proverbio, paragonati
alla malvagità di un tiranno e alla sventura di una città da lui governata, non colpiscono neanche vicino. (4) Quando
infatti in una città gli individui di questa risma e gli altri al seguito diventano molti e si rendono conto della loro
consistenza numerica, allora, con la complicità della stoltezza popolare, generano il tiranno, scegliendo chi di loro abbia
nell'anima il tiranno più forte e più grande».
«Ed è logico», disse, «perché lui sarà il tiranno più assoluto».
«Questo se la città cede spontaneamente; se invece non rimette il potere nelle sue mani, come prima puniva la madre e
il padre, così ora, se sarà in grado, punirà la patria introducendo nuovi compagni, ai quali manterrà asservita la "matria",
(5) come dicono i Cretesi, e la patria un tempo cara. E questa sarebbe la mèta cui aspira un uomo simile».
«Proprio questa, sì », disse.
«Quindi», proseguii, «costoro sono già così nella vita privata, prima ancora di prendere il potere: innanzitutto cercano
la compagnia di adulatori pronti a rendere ogni servigio, e se chiedono un favore a qualcuno si prostrano ai suoi piedi e
sostengono qualsiasi parte per fingersi amici, ma una volta ottenuto il loro scopo si comportano da estranei?» «E come!».
«Vivono dunque per tutta la vita senza essere mai amici di nessuno, sempre come padroni o schiavi di un altro; ma la
natura tirannica non gusta mai la libertà e l'amicizia vera».
«Appunto».
«E non avremo ragione a chiamare infidi tali individui?» «Come no?» «E quanto mai ingiusti, se la definizione della
giustizia sulla quale ci siamo accordati in precedenza era corretta».
«Certo che era corretta», disse.
«Ricapitoliamo un po'», conclusi, «le caratteristiche dell'uomo più malvagio. Se non erro, è colui che da sveglio si
comporta esattamente come l'abbiamo descritto in sogno».
«Precisamente».
«Tale diventa quindi chi ha una natura molto tirannica ed esercita un potere assoluto, e tanto più lo diventa quanto più
a lungo vive nella tirannide».
«è inevitabile», disse Glaucone, prendendo al parola.
«Ma l'uomo più malvagio», domandai, «non risulterà anche il più infelice? E chi avrà fatto il tiranno per il tempo più
lungo e nella maniera più completa, non diventerà veramente infelice nella maniera pì u completa e per il tempo più
lungo? Le opinioni del volgo in proposito sono tante».
«è inevitabile che sia così », rispose.
«Perciò», chiesi ancora, «l'uomo tirannico sarà modellato sulla città retta a tirannide, l'uomo democratico sulla città
retta a democrazia, e così per gli altri tipi di uomo?» «Certamente».
«Quindi la stessa differenza che passa tra una città e l'altra in relazione alla virtù e alla felicità esiste anche tra uomo e
uomo?» «Come no?» «E che differenza passa tra una città retta a tirannide e una città governata da una monarchia (6)
quale quella prima descritta?» «è tutto il contrario», rispose: «una è ottima, l'altra è pessima».
«Non starò a chiederti», proseguii, «a quale delle due ti riferisci, perché è evidente. Ma il tuo giudizio sulla felicità e
l'infelicità è lo stesso o è diverso? Non lasciamoci impressionare guardando il tiranno, che è uno solo, né le poche persone
del suo seguito, ma dal momento che occorre entrare e considerare la città nel suo insieme, penetriamo in tutta quanta la
città, scrutiamola bene e dopo esprimiamo il nostro parere».
«La tua esortazione è corretta», disse. «Ed è chiaro a chiunque che non esiste città più infelice di quella tirannica e
città più felice di quella monarchica».
« E non farei bene», ripresi, «a estendere lo stesso invito all'analisi dei singoli individui, pretendendo che esprima un
giudizio su di loro chi è in grado di penetrare con l'intelletto nell'indole di un uomo e non si limita a guardare dall'esterno,
facendosi impressionare come un bimbo dalla pompa che i tiranni assumono con gli estranei, ma sa discernere a fondo? E
non avrei ragione se ritenessi che tutti dobbiamo ascoltare chi è in grado di giudicare il tiranno, perché ha abitato con lui
nella stessa casa ed è stato testimone della sua condotta con ciascuno dei familiari nella vita domestica, cioè nelle
occasioni migliori in cui lo si può vedere spoglio dell'apparato tragico, e poi nei frangenti della vita pubblica, e dopo che
ha visto tutto ciò lo esortassi a riferire quale grado di felicità e infelicità possiede il tiranno rispetto agli altri?» «La tua
richiesta sarebbe giustissima!», esclamò.
«Vuoi dunque», domandai, «che fingiamo di essere anche noi tra quelli che sanno giudicare e hanno già incontrato
persone simili, in modo da avere chi risponda alle nostre domande. » «Ma certo!».
«Su», dissi, «procedi in questo modo. Tenendo a mente la somiglianza tra la città e l'individuo, esamina prima l'una e
poi l'altro nei particolari e riferiscimi sulla loro condizione».
«Quale condizione?», chiese.
«Prendendo le mosse dalla città», incominciai, «chiamerai quella tirannica libera o schiava?» «Schiava al massimo
grado», rispose.
«Eppure vedi in essa dei padroni e degli uomini liberi».
«Sì , ne vedo», ribatté, «ma sono una minoranza; nel suo insieme, per così dire, la parte più rispettabile è schiava in
modo disonorevole e triste».
«Se dunque», domandai, «l'individuo è simile alla città, non è inevitabile che anch'egli abbia la stessa disposizione e
che la sua anima sia colma di grande schiavitù e bassezza proprio nelle sue parti più nobili, mentre una parte piccola, la
più malvagia e folle, la fa da padrona?» «è inevitabile», rispose.
«E un'anima simile la definirai schiava o libera?» «Schiava, senza alcun dubbio».
«Quindi una città schiava e retta a tirannide non fa per nulla ciò che vuole?» «No di certo».
«Di conseguenza l'anima tirannica, nel suo complesso, non farà assolutamente ciò che vuole, ma, sempre trascinata
con violenza da un pungolo, sarà piena di turbamento e di rimorso».
«Come no?» «E la città tirannica dovrà essere per forza ricca o povera?» «Povera».
«Allora anche un'anima tirannica sarà per forza sempre povera e insaziabile».
«è così », disse.
«E non è inevitabile che una tale città e un tale individuo siano pieni di paura?» «Sì , e tanta!».
«Credi forse di trovare da qualche altra parte una maggior quantità di lamenti, gemiti, pianti e dolori?» «Da nessuna
parte».
«E pensi che qualcun altro presenti mali di tal genere in misura maggiore di quest'uomo tirannico reso folle dai
desideri e dalle passioni amorose?» «Come sarebbe possibile?», disse.
«Osservando dunque tutti questi difetti e altri analoghi, credo, tu hai giudicato la più infelice delle città... » «E non
avevo forse ragione?», interruppe.
«E come!», esclamai. «Ma alla luce delle stesse considerazioni, che cosa dici a proposito dell'uomo tirannico?» «Che
è di gran lunga il più infelice di tutti».
«Su questo punto però non hai ragione», obiettai.
«Ma come?», protestò.
«Secondo me», dissi, «non è ancora lui che tocca il massimo livello d'infelicità».
«Ma allora chi è?» «Forse quest'altro ti sembrerà ancora più infelice di lui».
«Chi?» «Chiunque», risposi, «sia dotato di una natura tirannica e non viva da privato cittadino, ma abbia la sfortuna di
diventare tiranno in seguito a qualche disgrazia».
«Da quanto si è detto prima deduco che hai ragione», assentì .
«Sì », ripresi, «tuttavia queste affermazioni non vanno date per certe, ma devono essere sottoposte a un esame molto
rigoroso, poiché l'indagine verte sulla questione più importante: la vita buona e la vita cattiva».
«Giustissimo», disse.
«Considera dunque se il mio ragionamento è sensato. Mi sembra che l'analisi del problema debba partire da questo
punto».
«Quale?» «Da tutti quei privati che in città possiedono ricchezze e molti schiavi. Costoro hanno in comune con i
tiranni la signoria su molte persone; la differenza però sta nel numero».
«Sì , la differenza è questa».
«Sai dunque che essi vivono tranquilli e non temono i servi?» «E perché mai dovrebbero temerli?» «Certo che non
dovrebbero», risposi: «ma ne intuisci il motivo?» «Sì : perché la città intera soccorre ogni cittadino privato».
«Ben detto!», feci io. «Ma se un dio prelevasse dalla città un uomo che possiede cinquanta schiavi o anche di più e
trasportasse lui, la moglie e i figli, con il resto dei suoi averi e dei suoi servi, in un deserto dove nessun uomo libero
potesse venirgli in aiuto, quale e quanta paura, secondo te, avrebbe di essere ucciso dai servi assieme ai figli e alla
moglie?» «Una paura tremenda!», esclamò.
«Non sarebbe quindi costretto a lusingare alcuni degli stessi schiavi, a far loro molte promesse e a liberarli senza
averne la necessità, e non apparirebbe anch'egli un adulatore dei suoi servi?» «Dovrebbe per forza agire così », rispose,
«altrimenti verrebbe ucciso».
«Ma che cosa accadrebbe», proseguii, «se la divinità lo circondasse di molti vicini non disposti a tollerare che uno
pretenda di comandare su un altro, ma pronti a punire con le pene più gravi chi sorprendessero a compiere una simile
azione?» «Penso», rispose, «che si troverebbe in un guaio ancora peggiore, perché sarebbe circondato e sorvegliato da
persone che gli sono tutte nemiche».
«E il tiranno non si trova forse legato in un carcere simile, se per natura è come l'abbiamo descritto, pieno di molte
paure e passioni d'ogni genere? Non è forse l'unico in città che, pur essendo avido nell'anima, non può viaggiare in altri
luoghi o contemplare tutto cio che gli altri uomini liberi desiderano, ma se ne sta rintanato in casa e passa la maggior parte
della sua vita come una donna, invidiando gli altri cittadini che viaggiano all'estero e vedono qualcosa di buono?»
«Proprio così », rispose.
«Maggiori sono dunque le disgrazie come queste delle quali gode l'uomo mal governato dentro di sé, l'uomo tirannico
che tu ora hai giudicato il più infelice, quando non vive da privato cittadino, ma è costretto dalla sorte a fare il tiranno e
tenta di comandare sugli altri, lui che non è padrone di se stesso, come se una persona dal corpo malato e senza forze
fosse costretta a passare la vita non appartata, ma gareggiando e lottando con altri».
«Il tuo paragone è quanto mai vero, Socrate!», esclamò.
«Quindi, caro Glaucone», domandai, «l'infelicità del tiranno non è forse totale, e la sua vita non è ancora più dura di
quella di chi, a tuo giudizio, vive nel modo più duro?» «Certamente», rispose.
«Pertanto, anche se qualcuno non la pensa così , il vero tiranno è un vero schiavo che tocca i peggiori livelli di
bassezza e di servilismo, un adulatore degli esseri più malvagi che non soddisfa neanche un poco i suoi desideri, ma
appare veramente privo di moltissime cose e povero agli occhi di chi sa contemplare la sua intera anima; inoltre è pieno di
paura, convulsioni e dolori per tutta la vita, se davvero la sua disposizione assomiglia a quella della città che governa. E in
effetti le assomiglia: o no?» «E come!», rispose.
«Oltre a questi mali, dunque, gli attribuiremo anche quelli menzionati prima, che inevitabilmente si trovano in lui e si
sviluppano ancor più di prima a causa dell'esercizio del potere: il fatto di essere invidioso, infido, ingiusto, privo di amici,
empio, di dare ricetto e alimento a ogni vizio, e come conseguenza di tutto ciò di toccare l'estrema infelicità e di rendere
uguale a sé anche chi gli sta accanto».
«Nessuna persona assennata lo negherà», disse.
«Su», proseguii, «a questo punto, come il giudice supremo pronuncì a la sua sentenza, così anche tu stabilisci un
ordine tra questi cinque tipi di uomo, in base al grado di felicità che a tuo parere ciascuno essi possiede: l'uomo regale,
timocratico, oligarchico, democratico, tirannico».
«Ma il giudizio è facile», rispose. «Come si fa con i cori, io li giudico in relazione alla virtù, al vizio, alla felicità e al
suo contrario secondo l'ordine in cui si sono presentati».
«Dobbiamo dunque assoldare un araldo», chiesi, «o io stesso proclamerò che il figlio di Aristone ha giudicato
sommamente felice l'uomo migliore e più giusto, ossia l'uomo più regale, in quanto regna su se stesso, e sommamente
infelice l'uomo peggiore e più ingiusto, ossia l'uomo più tirannico, in quanto esercita la massima tirannia su se stesso e
sulla città?» «Proclamalo pure», rispose.
«E devo anche aggiungere», continuai, «che non fa differenza se costoro appaiono o non appaiono tali agli uomini e
agli dèi?» «Aggiungilo pure», rispose.
«Bene», dissi. «Questa potrebbe essere la nostra prima dimostrazione; guarda ora se ti sembra valida la seconda».
«Qual è?» «Poiché la città», risposi, «è stata divisa in tre parti alle quali corrisponde una tripartizione anche nell'anima
di ogni individuo, a mio parere si potrà accettare anche un'altra dimostrazione».
«Quale?» «Questa. Se le parti sono tre, mi pare che siano tre anche i piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; lo
stesso vale per i desideri e le cariche».
«Che cosa vuoi dire?», domandò.
«La prima parte, lo ripetiamo, era quella con cui l'uomo apprende, la seconda quella per cui prova gli impulsi; quanto
alla terza, a causa della sua molteplicità non abbiamo saputo definirla con un nome appropriato, ma l'abbiamo denominata
in base al suo carattere più importante ed efficace: l'abbiamo chiamata concupiscibile, per l'intensità dei desideri relativi ai
cibi, alle bevande, ai piaceri amorosi e a tutti gli altri che si accompagnano a questi, e avida di ricchezze, perché questi
desideri vengono soddisfatti soprattutto grazie al denaro».
«Ed è giusto», disse.
«E se affermassimo che anche il suo piacere e il suo amore sono volti al guadagno, non faremmo poggiare il nostro
ragionamento su un unico punto capitale, così da chiarirci le idee quando parliamo di questa parte dell'anima, e non
avremmo ragione a chiamarla avida di ricchezze e di guadagno?» «A me pare di sì », rispose.
«E non diciamo che la parte impulsiva tende sempre tutta a dominare, a vincere e a ottenere buona fama?»
«Certamente».
«Sarebbe dunque appropriato chiamarla amante della vittoria e dell'onore?» «Quanto mai appropriato, sì ».
«Viceversa è chiaro a chiunque che la parte con la quale apprendiamo è sempre interamente rivolta a conoscere la
verità, ed è quella che meno di tutte si cura delle ricchezze e della fama».
«E di gran lunga!».
«Sarebbe dunque conveniente chiamarla amante dell'apprendimento e della sapienza?» «Come no?» «E l'anima degli
uomini», chiesi, «è governata o da questa parte o da una delle altre due, quella che capita?» «è così », rispose.
«Per questo affermiamo che esistono tre specie principali di uomini: quella amante della sapienza, quella amante della
vittoria e quella amante del guadagno?» «Precisamente».
«Ed esistono anche tre specie di piaceri, una per ogni specie di uomo?» «Certo».
«Ma lo sai», feci io, «che se volessi prendere questi tre uomini uno per uno e chiedere loro quale di queste vite è la più
piacevole, ciascuno esalterà soprattutto la propria? L'affarista dirà che il piacere di essere onorato o di apprendere non
vale nulla in confronto al guadagno, se non si tratta di attività che procurano denaro?» «è vero», confermò.
«E che cosa dirà l'ambizioso?», domandai. «Non ritiene forse volgare il piacere che si ricava dal denaro, e non giudica
fumo e chiacchiere quello che si ricava dall'apprendimento, a meno che non procuri onore?» «è così », rispose.
«E il filosofo», dissi, «come pensiamo che giudichi gli altri piaceri in confronto alla conoscenza e al continuo
apprendimento della verità? Non li riterrà ben lontani dal vero piacere?7 E non li chiamerà necessari nel vero senso della
parola, in quanto non ne avrebbe affatto bisogno, se una necessità non li imponesse?» «è una cosa che deve avere ben
chiara», assentì .
«Pertanto», continuai, «quando la discussione verte sui piaceri e sulla vita stessa di ciascuna categoria, non tanto sulla
condotta di vita più o meno bella, più o meno onesta, ma addirittura su quella più piacevole e più immune da affanni,
come possiamo sapere chi dei nostri tre uomini si avvicina di più alla verità?» «Io non so proprio dirlo», rispose.
«Tuttavia considera questo: con quale mezzo bisogna valutare ciò che dev'essere valutato attentamente? Non forse con
l'esperienza, l'intelligenza e la ragione? O esisterà un criterio migliore di questi?» «E come potrebbe?», disse.
«Allora fa' questo esame: dei tre tipi di uomini qual è il più esperto in tutti i piaceri che abbiamo menzionato? Ti
sembra forse che l'uomo avido, se apprende l'essenza stessa della verità, sia più esperto nel piacere che si trae dalla
conoscenza di quanto il filosofo lo sia nel piacere che si trae dal guadagno?» «C'è molta differenza», rispose. «Il filosofo
gusta per forza gli altri piaceri a cominciare dall'infanzia; ma non è detto che l'uomo avido, se apprende la natura degli
esseri reali, assaggi e sperimenti la dolcezza di questo piacere, anzi, malgrado i suoi sforzi, la cosa non gli risulta facile».
«Quindi», ripresi, « il filosofo supera di gran lunga l'uomo avido per esperienza in entrambi i piaceri».
«Sì , di gran lunga».
«E a paragone dell'ambizioso? Il filosofo è forse meno esperto nel piacere che si trae dagli onori di quanto costui lo sia
nel piacere che si trae dalla riflessione?» «Ma se realizzano lo scopo a cui tendono», rispose, «l'onore tocca a ciascuno di
loro, poiché sia il ricco sia il coraggioso sia il sapiente sono lodati dal volgo; di conseguenza tutti sperimentano il piacere
che si trae dall'onore, per quel che vale. Ma nessun altro, se non il filosofo, può gustare il piacere che procura la
contemplazione dell'essere».
«Quindi», proseguii, «data la sua esperienza, questi è l'uomo che sa giudicare meglio di tutti».
«E di gran lunga!».
«E sarà il solo in cui l'esperienza si associa all'intelligenza».
«Sicuro».
«Ma anche lo strumento con il quale si deve giudicare non appartiene all'uomo avido o ambizioso, bensì al filosofo».
«E qual è?» «Abbiamo detto che si deve giudicare con la ragione, vero?» «Sì ».
«E la ragione è lo strumento per eccellenza del filosofo».
«Come no?» «Ora, se il giudizio migliore fosse espresso con la ricchezza e il guadagno, la verità più alta si troverebbe
per forza nelle lodi e nelle critiche dell'uomo avido».
«Per forza, certo».
«Se invece si giudicasse in base all'onore, alla vittoria e al coraggio, le parole più vere non sarebbero quelle dell'uomo
ambizioso e amante del successo?» «è chiaro».
«Ma dal momento che si giudica in base all'esperienza, al senno e alla ragione?» «è inevitabile», rispose, «che la
verità più alta risieda in ciò che viene approvato da chi ama la sapienza e la ragione».
«Quindi, accertato che i piaceri sono tre, il più dolce sarà quello che concerne la parte dell'anima con la quale
apprendiamo, e la vita più dolce sarà quella di colui nel quale questa parte governa?» «E come può non esserlo?», rispose.
«L'uomo assennato che loda la propria vita ha tutto il diritto di farlo».
«E al secondo posto», domandai, «quale vita e quale piacere mette questo giudice?» «Quella dell'uomo guerriero e
ambizioso, è ovvio, in quanto si avvicina alla sua più di quella dell'affarista».
«E per ultima mette quella dell'uomo avido, a quanto pare».
«Certamente», disse.
«Ecco due prove consecutive in cui l'uomo giusto avrebbe sconfitto per due volte quello ingiusto; quanto alla terza
prova, che secondo l'usanza olimpica dedicheremo a Zeus salvatore e Olimpio, (8) tieni presente che, ad eccezione del
saggio, il piacere degli altri uomini non è del tutto vero né puro, ma un'ombra illusoria, come mi sembra di aver udito da
un sapiente.(9) E proprio questa sarà la caduta più grave e decisiva».
«Senz'altro: ma che cosa vuoi dire?» «Risolverò la questione», risposi, «se mia ricerca sarà supportata dalle tue
risposte».
«Domanda pure», esortò.
«Dimmi, allora», incominciai: «non sosteniamo che il dolore è il contrario del piacere?» «Certamente».
«Quindi esiste anche una condizione in cui non si prova né piacere né dolore?» «Sì , esiste».
«Una certa pace dell'anima, uno stato intermedio tra queste due sensazioni? Non la intendi così ?» «Così », rispose.
«Ti ricordi», domandai, «i discorsi che fanno gli ammalati quando soffrono?» «Quali discorsi?» «Dicono che nulla è
più dolce della salute, ma prima di cadere ammalati non se ne erano resi conto».
«Me ne ricordo», rispose.
«E non senti dire da chi è in preda a una forte sofferenza che nulla è più dolce dell'avere tregua dal dolore?» «Lo sento
dire».
«E ti accorgi, sono convinto, che in molte altre situazioni analoghe gli uomini, quando soffrono, elogiano come la
condizione più dolce non il provare piacere, bensì l'assenza del dolore e la sua cessazione».
«Perché allora», disse, «la quiete forse diventa dolce e amabile».
«Ma quando si cessa di gioire», proseguii, «la quiete successiva al piacere sarà dolorosa».
«Forse», disse.
«Perciò la condizione che poco fa abbiamo definito intermedia tra le due, cioè la quiete, talvolta sarà insieme dolore e
piacere».
«Pare di sì ».
«Ma ciò che non è né l'una né l'altra cosa può forse diventare tutte e due le cose insieme?» «Non mi sembra».
«Eppure il piacere e il dolore che si manifestano nell'anima sono entrambi un movimento. O no?» «Sì ».
«E ciò che non è né dolore né piacere non è apparso poco fa uno stato intermedio di quiete?» «Sì , ci è apparso tale».
«Come può dunque essere giusto ritenere piacevole il non soffrire o molesto il non gioire?» «Non può esserlo in alcun
modo».
«Allora», dissi, «questa condizione di quiete sembra piacevole rispetto al dolore e dolorosa rispetto al piacere, ma in
realtà non lo è; e in queste apparenze non c'è nulla di buono rispetto alla verità del piacere, ma solo inganno».
«Così almeno dimostra il nostro ragionamento», rispose.
«Adesso», ripresi, «considera i piaceri che non provengono dai dolori, affinché alle volte tu non creda che in questi
casi il piacere consista per sua natura in una cessazione del dolore, e il dolore in una cessazione del piacere».
«Di quali casi e di quali piaceri stai parlando?», domandò.
«I piaceri», risposi, «sono molti e vari, ma tu, se vuoi, pensa in particolare a quelli dell'olfatto. Essi nascono
all'improvviso e con grande intensità senza essere preceduti da sofferenze e quando cessano non lasciano alcun dolore».
«Verissimo», disse.
«Perciò non dobbiamo credere che il piacere puro sia una liberazione dal dolore e viceversa».
«No di certo».
«Eppure», aggiunsi, «le sensazioni più intense che attraverso il corpo tendono all'anima e sono dette piaceri
appartengono per lo più a questa specie, ossia liberano dai dolori».
«Sì , è vero».
«E non sono uguali anche le sensazioni di piacere e dolore anticipato che nascono dall'attesa, prima del loro
manifestarsi?» «Uguali».
«Sai dunque quali sono e a che cosa soprattutto assomigliano?», ripresi.
«A che cosa?» «Tu credi», chiesi, «che in natura ci sia l'alto, il basso e il centro?» «Io sì ».
«Ora, se uno si muovesse dal basso verso il centro, quale impressione avrebbe, secondo te, se non quella di salire? E
se stesse fermo al centro guardando il punto da cui si è mosso, dove crederebbe di trovarsi se non in alto, dato che non ha
visto il vero alto?» «Per Zeus», rispose, «non credo proprio che la penserebbe diversamente».
«Ma se si muovesse all'indietro», continuai «non crederebbe, e a ragione, di scendere?» «Come no?» «E non
proverebbe tutte queste impressioni per la sua inesperienza di quello che è realmente l'alto, il centro e il basso?» «è
ovvio».
«Potrai dunque meravigliarti se le persone inesperte della verità, oltre ad avere opinioni sbagliate su molte cose, hanno
nei confronti del piacere, del dolore e dello stato intermedio una disposizione tale che, quando passano al dolore, la
sensazione che credono di provare è vera, perché soffrono realmente, quando invece passano dal dolore allo stato
intermedio sono fortemente convinte di essere vicine alla soddisfazione e al piacere, ma si ingannano, perché paragonano
il dolore all'assenza di dolore per inesperienza del piacere, come se paragonassero il grigio al nero per inespertenza del
bianco?» (10) «Per Zeus», esclamò, «non me ne meraviglierei proprio, anzi mi meraviglierei se non fosse così !».
«Rifletti allora su questo punto», ripresi: «la fame, la sete e i bisogni di questo genere non sono forse dei difetti nella
costituzione del corpo?» «Certo».
«E l'ignoranza e la stoltezza non rappresentano al contrario un difetto nella costituzione dell'anima?» «E come!».
«Perciò questi vuoti si potranno colmare in un caso con il nutrimento, nell'altro con l'intelletto?» «Come no?» «Ma il
soddisfacimento più vero riguarda il meno o il più?» «Il più, è ovvio!».
«Quali sono allora le specie che secondo te partecipano di più del puro essere: quelle ad esempio del cibo, della
bevanda, del companatico e del nutrimento in genere, o la specie della vera opinione, della scienza, dell'intelletto, in breve
di ogni virtù? Decidi in base a questo criterio: ciò che dipende dall'essere immutabile e immortale e dalla verità, e
presenta esso stesso tali caratteri fin dalla nascita, ti pare possieda un grado maggiore di essere rispetto a un qualcosa che
dipende da ciò che è sempre mutevole e mortale e presenta esso stesso tali caratteri fin dalla nascita?» «Ciò che dipende
dall'essere immutabile è di gran lunga superiore», rispose.
«E l'essenza di ciò che è sempre mutevole (11) partecipa dell'essere più che della scienza?» «Assolutamente no».
«E della verità?» «Neanche».
«E se è meno partecipe della verità, lo sarà anche dell'essere?» «Per forza».
«Insomma, le specie che riguardano la cura del corpo sono meno partecipi della verità e dell'essere di quelle che
concernono la cura dell'anima?» «E di molto!».
«E non pensi che tra corpo e anima esista lo stesso rapporto?» «Io sì ».
«Quindi ciò che si nutre di cose più reali ed è esso stesso più reale gode di una maggiore pienezza rispetto a ciò che si
nutre di cose meno reali ed è esso stesso meno reale?» «Come no?» «E se nutrirsi delle cose adatte alla propria natura è
piacevole, ciò che realmente si nutre delle cose più reali farà provare il vero piacere in maniera più reale e più vera,
mentre ciò che partecipa di cose meno reali riceverà un nutrimento meno vero e meno saldo e parteciperà di un piacere
meno sicuro e meno vero».
«è quanto mai inevitabile», disse.
«Pertanto coloro che non hanno esperienza della saggezza e della virtù e sono sempre occupati in banchetti e
divertimenti simili scendono in basso, a quanto pare, poi risalgono fino al punto intermedio, e così vagano per tutta la
vita. Essi non hanno mai levato lo sguardo e non si sono spinti verso la vera altezza superando questo limite, e neppure si
sono saziati del vero essere o hanno gustato il piacere saldo e puro, ma come animali, guardando sempre in basso, col
capo chino a terra e alle mense, si rimpinzano di pastura e si accoppiano; e per l'avidità insaziabile di questi piaceri si
uccidono scalciandosi e cozzando gli uni contro gli altri con corna e unghie di ferro, perché non nutrono di cose reali né la
vera parte di sé né il loro involucro».
«Tu, Socrate», disse Glaucone, «parli della vita della gente come un perfetto oracolo!».
«E per costoro non è inevitabile vivere tra piaceri mescolati a dolori, tra parvenze del vero piacere appena abbozzate e
scolorite dalla sovrapposizione reciproca, tanto che gli uni e gli altri risultano violenti e diventano oggetto di furiosi amori
e contese nel cuore degli stolti, come a Troia, secondo Stesicoro, per ignoranza del vero i guerrieri si contesero il
simulacro di Elena?» (12) «è assolutamente inevitabile che si tratti di qualcosa del genere», rispose.
«E non si verifica inevitabilmente lo stesso fenomeno anche nella parte impulsiva dell'anima, se uno la asseconda con
l'invidia provocata dall'ambizione, o con la violenza provocata dalla brama di vittoria, o con l'ira provocata da un cattivo
carattere, perseguendo lo scopo di saziarla di onori, vittorie e ira senza raziocinio e discernimento?» «è inevitabile che un
fenomeno simile si verifichi anche in questo caso», rispose.
«Ebbene», domandai, «vogliamo prendere il coraggio a due mani e affermare che anche riguardo alla brama di
guadagno e di vittoria tutti i desideri che seguono la scienza e la ragione, e con il loro aiuto conducono una ricerca
fruttuosa dei piaceri additati dalla saggezza, coglieranno, nei limiti del possibile, quelli più veri, dato che perseguono la
verità, e quelli a loro più propri, se è vero che per ciascuno il meglio è ciò che gli è più proprio?» «Certo», rispose. «è ciò
che gli è più proprio».
«Quando dunque l'intera anima segue l'elemento filosofico e non è turbata alla discordia, a ogni singola parte accade,
oltre che di assolvere il proprio compito e di essere giusta, anche di cogliere il frutto dei piaceri a lei propri, che sono i
migliori e, per quanto è possibile, i più veri».
«Senza dubbio».
«Quando invece domina una delle altre due parti, le accade di non raggiungere il piacere a lei proprio e di costringere
le altre a ricercare un piacere alieno e non vero».
«è così », disse.
«Quindi ciò che è più distante dalla filosofia e dalla ragione produrrà questo effetto nella massima misura?» «E
come!».
«Ma ciò che è più distante dalla ragione non lo è anche dalla legge e dall'ordine?» «è chiaro».
«E i desideri amorosi e tirannici non si sono rivelati i più distanti?» «Di gran lunga!».
«E quelli regali ed equilibrati i meno distanti?» «Sì ».
«Allora, penso, il tiranno sarà il più distante dal piacere vero a lui proprio, il re il meno distante».
«Per forza».
«E il tiranno», aggiunsi, «vivrà nel modo più spiacevole, il re nel modo più piacevole».
«è assolutamente inevitabile».
«Sai dunque quanto sarà più spiacevole la vita del tiranno rispetto a quella del re?», domandai.
«Se me lo dici tu!», rispose.
«Posto che, pare, esistono tre piaceri, uno legittimo e due spuri, il tiranno, dopo aver violato il confine di quelli spuri
ed essere fuggito dalla legge e dalla ragione, convive con piaceri servili che gli fanno da guardie del corpo; ma non è
affatto facile spiegare il suo grado di inferiorità, se non forse nel modo seguente».
«Come?».
«Il tiranno era terzo in distanza dall'uomo oligarchico, poiché in mezzo a loro c'era l'uomo democratico».
«Sì ».
«Quindi, se le affermazioni di prima erano vere, egli coabiterebbe con una parvenza di piacere tre volte lontana dalla
verità?» «è così ».
«Ma l'uomo oligarchico viene per terzo dopo l'uomo regale, se identifichiamo l'uomo aristocratico con quello regale».
«Sì , viene per terzo».
«E pertanto», osservai, «il tiranno è nove volte lontano dal vero piacere». (13) «Così risulta».
«Allora», ripresi, «il simulacro del piacere tirannico potrà, a quanto pare, essere espresso da un numero piano, in
funzione della sua lunghezza».
«Certo».
«E la distanza risulta evidente dalla sua elevazione al quadrato e al cubo».
«è evidente», disse, «per un matematico».
«E ancora, se, invertendo il calcolo, si volesse esprimere quanto dista il re dal tiranno in relazione al vero piacere, una
volta fatta la moltiplicazione si troverà che la sua vita è settecentoventinove volte più piacevole, e quella del tiranno
altrettante volte più dolorosa».
«Che calcolo straordinario», esclamò, «hai addotto per esprimere la differenza tra i due uomini, il giusto e l'ingiusto,
in relazione al piacere e al dolore!».
«Eppure», ribattei, «si tratta di un numero vero e rapportato alle loro vite, se esse si traducono in giorni, notti, mesi e
anni».
«Sì , c'è questa rispondenza», disse.
«Se dunque l'uomo buono e giusto supera di tanto l'uomo malvagio e ingiusto nel piacere, non sarà ancora più
straordinaria la sua superiorità nel decoro della vita, nella bellezza e nella virtù?» «Straordinaria davvero, per Zeus!»,
esclamò.
«Bene», ripresi. «Ora che siamo giunti a questo punto della discussione, riprendiamo le argomentazioni precedenti che
ci hanno condotto fin qui.
A suo tempo si era detto che all'ingiusto conviene essere tale, purché abbia la reputazione di uomo giusto;(14) non si
era detto questo?» «Sì , questo».
«Dunque», proseguii, «ora che ci siamo messi d'accordo sul valore che hanno l'essere ingiusti e l'agire secondo
giustizia, discorriamo un po' con chi si è espresso in questi termini».
«E come faremo?» «Plasmiamo con le parole un'immagine dell'anima, affinché chi diceva questo si renda conto delle
sue affermazioni».
«Quale immagine?», domandò.
«Una simile agli antichi mostri della mitologia», risposi: «la Chimera, Scilla, Cerbero (15) e vari altri esseri che, a
quanto si narra, erano costituiti da molte forme riunite in un unico corpo».
«In effetti si racconta questo», disse.
«Plasma dunque un mostro composito, con tutto intorno molte teste di animali domestici e selvaggi, capace di mutare
aspetto e generare tutte queste forme da se stesso».
«Quest'opera richiede un artista straordinario!», esclamò.
«Tuttavia, dato che la parola è più malleabile della cera e delle altre materie di questo tipo, plasmiamolo!».
«Poi modella la forma di un leone e di un uomo; la prima però sia molto più grande di queste due, e quella del leone
venga per seconda».
«Questo è più facile», disse: «eccotele plasmate».
«Ora attaccale tutte e tre assieme, in modo che siano connesse l'una all'altra».
«Sono connesse», rispose.
«Ricoprile dall'esterno di una sola immagine, quella umana: così a chi non può vedere l'interno, ma scorge solo
l'involucro esterno, appariranno come un unico essere, un uomo appunto».
«Eccoti modellato l'involucro», disse.
«Ora, se uno afferma che a quest'uomo conviene essere ingiusto e non gli serve agire secondo giustizia,
rispondiamogli che ciò equivale a dire che gli conviene pascere e rendere forte il mostro multiforme assieme al leone e al
suo seguito, e per contro far morire di fame e indebolire l'uomo al punto che si lasci trascinare dovunque lo conduca l'una
o l'altra delle due fiere, senza abituare queste nature alla convivenza e all'amicizia reciproca, ma lasciando che si
mordano, si combattano e si divorino a vicenda».
«Chi lodasse l'ingiustizia», disse, «sosterrebbe proprio questo».
«Chi invece sostenesse l'utilità della giustizia, non affermerebbe che bisogna agire e parlare in modo che l'uomo
interiore abbia la massima padronanza dell'essere umano, sorvegli la bestia dalle molte teste, così come un contadino
coltiva con amore le piante domestiche e impedisce che crescano quelle selvatiche, e garantendosi l'alleanza con la natura
del leone abbia cura di allevare tutte le nature insieme e di renderle amiche l'una dell'altra e di se stesso?» «Chi loda la
giustizia afferma senz'altro questo».
«Sotto ogni aspetto, insomma, chi elogiasse la giustizia direbbe il vero, chi elogiasse l'ingiustizia mentirebbe. Che si
abbia come obiettivo il piacere, la buona fama o l'utilità, chi loda la giustizia è nel vero, mentre chi la biasima non dice
nulla di sano e non sa neppure che cosa biasima».
«Mi sembra proprio che lo sappia affatto!», esclamò.
«Vediamo dunque di persuaderlo con le buone maniere, dato che il suo errore è involontario, (16) chiedendogli:
"Beato uomo, non dovremo dire che i concetti tradizionali di bello e di brutto sono nati in virtù di questa distinzione? Il
bello è ciò che sottomette all'uomo, o forse meglio al divino, la parte animalesca della sua natura, il brutto è ciò che
asservisce la parte mansueta a quella selvaggia?". Sarà d'accordo o no?» «Se mi darà retta, sì », rispose.
«Ebbene», domandai, «in base a questo ragionamento c'è qualcuno a cui giova appropriarsi ingiustamente di denaro,
se davvero accade che nel momento in cui si appropria del denaro la sua parte migliore viene asservita a quella più
malvagia? Se poi, appropriandosi del denaro, rende schiavo il figlio o la figlia, per di più di uomini selvaggi e disonesti, a
queste condizioni non gli gioverebbe neanche prenderne una grande quantità; se invece asservisce senza pietà la parte più
divina di sé a quella più empia e scellerata, non è forse un miserabile e non si fa corrompere dall'oro a un prezzo ben più
funesto di Erifile, che accettò la collana in cambio della vita dello sposo?» (17) «Sì , ben più funesto», disse Glaucone.
«Risponderò io per lui».
«Non credi dunque che anche l'intemperanza sia da tempo biasimata perché in una tale condizione viene lasciata libera
più del dovuto la natura pericolosa, quel mostro grande e multiforme?» «è chiaro», rispose.
«E non si biasimano la prepotenza e la scontrosità quando l'elemento leonino e quello serpentino crescono e si
gonfiano senza armonia?» «Certamente».
«E non si biasimano il lusso e la mollezza proprio perché questo elemento fermo si rilassa e cede, quando nasce in
esso la viltà?» «Sicuro».
«E l'adulazione e la grettezza non vengono forse coperte di biasimo quando la parte impulsiva dell'anima viene
assoggettata al mostro turbolento e abituata sin da giovane, per l'insaziabile avidità di denaro, a umiliarsi e a divenire
scimmia anziché leone?» «E come!», esclamò.
«Per quale motivo pensi che il lavoro degli artigiani e degli operai sia disdicevole? Non diremo che ciò è dovuto
unicamente al fatto che la loro parte migliore è per natura debole, al punto che non sa dominare gli animali che ha in sé,
ma si mette al loro servizio ed è capace soltanto di imparare come blandirli?» «Così pare», rispose.
«E non diciamo che anche l'artigiano, per essere retto da un principio analogo a quello che governa l'uomo migliore,
deve assoggettarsi all'uomo migliore, che ha in sé la reggenza del principio divino, non perché riteniamo che la sua
sottomissione debba risolversi in un danno, come pensava Trasimaco dei sudditi,(18) ma perché per ognuno è meglio
essere governato da ciò che è divino e assennato, soprattutto se tale principio è connaturato in lui, o altrimenti, se esercita
la sua autorità dall'esterno, per essere il più possibile tutti uguali e amici, obbedienti alla stessa guida?» «E lo diciamo con
ragione!», esclamò.
«Anche la legge», continuai, «rivela questa intenzione, in quanto è alleata dì tutti i cittadini. Lo stesso discorso vale
per l'autorità sui fanciulli: non permettiamo che siano liberi finché dentro di loro non stabiliamo una costituzione come in
una città e non passiamo le consegne di guardiano e di governante alla loro parte migliore, dopo averla sviluppata tramite
l'elemento analogo presente in noi. Soltanto allora li lasciamo liberi».
«Sì , rivela questa intenzione», confermò.
«Allora in che modo, Glaucone, e con quale fondamento diremo che conviene essere ingiusti o intemperanti o
compiere azioni riprovevoli, se per questo comportamento l'uomo diverrà più malvagio, pur acquistando maggiori
ricchezze o altro potere?» «In nessun modo», rispose.
«E quale utilità attribuiremo all'ingiustizia commessa senza essere colti sul fatto e pagarne il fio? Non è ancora più
malvagio chi non si fa sorprendere, mentre la parte ferma di chi non sfugge alla pena viene placata e ammansita, e quella
domestica liberata, e l'intera anima, reintegrata nella natura migliore, acquistando temperanza e giustizia unite a
intelligenza assume uno stato più prezioso del corpo che acquisisce forza e bellezza unite a buona salute, tanto quanto
l'anima è più preziosa del corpo?» «Proprio così », disse.
«Quindi l'uomo assennato vivrà con tutte le sue forze rivolte innanzitutto a onorare le discipline che renderanno tale la
sua anima, trascurando le altre?» «è ovvio», rispose.
«Inoltre», dissi, «nell'orientare la sua vita in questa direzione non solo non affiderà il buono stato e l'educazione del
corpo al piacere fermo e irrazionale, ma neppure penserà alla salute e si preoccuperà di essere forte o sano o bello, se ciò
non dovrà contribuire a renderlo anche saggio, anzi, sarà sempre evidente che la sua cura dell'armonia fisica mira a
conseguire quella spirituale».
«Certamente», disse, «se vorrà essere un vero musico».
«E non perseguirà», domandai, «l'ordine e l'armonia anche nel possesso delle ricchezze? E non vorrà accrescere a
dismisura la mole dei suoi beni a costo di procurarsi infinite disgrazie, facendosi impressionare dal volgo che lo stima
beato?» «Credo di no», rispose.
«Al contrario», dissi, «rivolgendo attenzione al regime che ha in sé e badando a non creare turbamento nel suo
equilibrio interiore con un eccesso o una scarsità di sostanze, incrementerà e consumerà il suo patrimonio nella misura
che gli sarà possibile».
«Senz'altro», assentì .
«E allo stesso scopo acconsentirà a partecipare e a gustare di alcuni onori, quelli che a suo giudizio lo renderanno
migliore, ma eviterà sia in privato sia in pubblico quegli onori che secondo lui distruggeranno la condizione in cui si
trova».
«Ma se ha questa preoccupazione», obiettò, «non vorrà impegnarsi nella politica».
«Corpo d'un cane!», esclamai. «Se ne occuperà, e come, nella sua città, ma nella sua patria forse no, a meno che non si
verifichi un qualche caso divino».
«Capisco», disse. «Tu intendi nella città di cui abbiamo descritto la fondazione, ma che esiste solo nei nostri discorsi,
poiché credo che non si trovi da nessuna parte al mondo».
«Ma forse», aggiunsi, «se ne erge un modello su in cielo, per chi vuole vederlo e fondare se stesso su questa visione.
Non importa però se esiste o esisterà da qualche parte: egli si occuperebbe solo di questa città, e di nessun'altra».
«è naturale», disse.
NOTE: REPUBBLICA IX483 provevoli, se per questo comportamento l'uomo diverrà più malvagio, pur acquistando
maggiori ricchezze o altro potere?» «In nessun modo», rispose.
«E quale utilità attribuiremo all'ingiustizia commessa senza essere colti sul fatto e pagarne il fo? [591b] Non è ancora
più malvagio chi non si fa sorprendere, mentre la parte ferma di chi non sfugge alla pena viene placata e ammansita, e
quella domestica liberata, e l'intera anima, reintegrata nella natura migliore, acquistando temperanza e giustizia unite a
intelligenza assume uno stato più prezioso del corpo che acquisisce forza e bellezza unite a buona salute, tanto quanto
l'anima èpiù preziosa del corpo?» «Proprio così », disse.
-[591c] «Quindi l'uomo assennato vivrà con tutte le sue forze rivolte innanzitutto a onorare le discipline che
renderanno tale la sua anima, trascurando le altre?» «E ovvio», rispose.
«Inoltre», dissi, «nell'orientare la sua vita in questa direzione non - solo non affiderà il buono stato e l'educazione del
corpo al piacere fermo e irrazionale, ma neppure penserà alla salute e si preoccuperà di essere forte o sano o bello, se ciò
[591d] non dovrà contribuire a renderlo anche saggio, anzi, sarà sempre evidente che la sua cura dell'armonia fisica mira a
conseguire quella spirituale».
«Certamente», disse, «se vorrà essere un vero musico».
«E non perseguirà», domandai, «l'ordine e l'armonia anche nel possesso delle ricchezze? E non vorrà accrescere a
dismisura la mole dei suoi beni a costo di procurarsi infinite disgrazie, facendo sì impressionare dal volgo che lo stima
beato?» «Credo di no», rispose.
[591e1 «Al contrario», dissi, «rivolgendo attenzione al regime che ha in sé e badando a non creare turbamento nel suo
equilibrio interiore con un eccesso o una scarsità di sostanze, incrementerà e consumerà il suo patrimonio nella misura
che gli sarà possibile».
«Senz'altro», assentì .
[592a1 «E allo stesso scopo acconsentirà a partecipare e a gustare dì alcuni onori, quelli che a suo giudizio lo
renderanno migliore, ma eviterà sia in privato sia in pubblico quegli onori che secondo lui distruggeranno la condizione in
cui si trova».
«Ma se ha questa preoccupazione», obiettò, «non vorrà impegnarsi nella politica».
«Corpo d'un cane!», esclamai. «Se ne occuperà, e come, nella sua città, ma nella sua patria forse no, a meno che non si
verifichi un qualche caso divino».
«Capisco», disse. «Tu intendi nella città di cui abbiamo descritto la fondazione, ma che esiste solo nei nostri discorsi,
poiché credo che non si trovi [592b] da nessuna parte al mondo».
«Ma forse», aggiunsi, «se ne erge un modello su in cielo, per chi vuole vederlo e fondare se stesso su questa visione.
Non importa però se esiste o esisterà da qualche parte: egli si occuperebbe solo di questa città, e di nessun'altra».
«E naturale», disse.
NOTE
1) L'approccio di Platone al sogno precorre sotto certi aspetti l'indagine psicanalitica; non a caso il passo è
stato ricordato da Freud nell'opera L'interpretazione dei sogni. Platone però ignora ancora la complessa simbologia onirica
e crede a uno stretto legame tra il sogno e il controllo razionale che l'individuo esercita su se stesso quando è sveglio;
dimostra comunque di aver compreso il carattere fondamentalmente irrazionale e trasgressivo del sogno, la cui
manifestazione più evidente è l'inconscio desiderio di incesto (cfr. anche Sofocle, Oedipus rex, versi 981-982), e più in
generale la pulsione erotica.
2) Espressione usata per indicare una domanda che presuppone una risposta scontata.
3) Platone gioca sul significato di "anagkaios", 'necessario', in riferimento alla suddivisione dei piaceri, e 'parente',
'consanguinco'.
4) Cfr. Corpus paroemiographorum Graecorum, secondo, 43 Leutsch-Schneidewin.
5) Per mantenere il parallelismo tra i due genitori Platone associa i sinonimi "metris" (termine di origine cretese) e
"patris".
6) Con questo termine s'intende il governo dei filosofi che regge la città ideale.
7) Pur nella sua brachilogia, la frase ha un senso plausibile se si accetta la lezione "tes alethines edones", o si ricava
implicitamente la nozione di "vero piacere" dalla frase precedente. Discostandoci da Burnet, diamo alla successiva
risposta di Glaucone un valore affermativo.
8) Nei banchetti si dedicava la prima libagione a Zeus Olimpio, la seconda alla Terra e agli eroi, la terza a Zeus
Salvatore. La formula assume una particolare pregnanza per l'ambiguità di "tò tríton", che può indicare tanto la terza
libagione quanto la terza prova contro l'ingiusto; coerente con questa immagine è anche il riferimento ai giochi olimpici,
poiché nella lotta un atleta era proclamato vincitore solo dopo che aveva atterrato l'avversario per tre volte consecutive.
9) Forse qualche esponente della scuola orfico-pitagorica.
10) Nella simbologia platonica il nero rappresenta il dolore, il bianco il piacere, il grigio, che risulta da una
mescolanza di questi due colori, all'assenza di dolore.
11) La lezione dei codici "aeì omoíou" è contraddittoria; la correzione di Adam "aeì anomoíou" è volta a dare alla
frase un senso coerente con le battute successive, ma non elimina del tutto l'incertezza nella progressione concettuale del
passo, che probabilmente presenta una breve lacuna.
12) Stesicoro, poeta lirico corale del sesto secolo a.C., secondo una leggenda denigrò in un suo carme Elena e per
questo fu accecato dai Dioscuri, fratelli di lei; allora compose la Palinodia (cioè 'Ritrattazione'), nella quale sosteneva che
Paride aveva condotto a Troia non la vera Elena, ma un suo fantasma, e riacquistò la vista; cfr. anche Platone, Phaedrus,
243a.
13) Il calcolo non è esatto, perché il tiranno viene al quinto posto dopo il re, l'uomo timocratico, l'uomo oligarchico e
l'uomo democratico, ed è quindi cinque volte lontano dal vero piacere, non nove. Ma a Platone interessa ottenere il
numero 729, cioè 9 elevato al cubo, che equivale alla somma dei giorni e delle notti dell'anno secondo il calcolo del
pitagorico Filolao.
14) Cfr. libro 2, 361a.
15) La Chimera aveva testa di leone che vomitava fuoco, corpo di capra e coda di serpente; fu uccisa da Bellerofonte.
Scilla, il mostro marino che assieme a Cariddi faceva naufragare le navi che attraversavano lo stretto di Messina, aveva
volto e petto di donna, fianchi di cane, sei teste e dodici piedi. Cerbero era il cane tricipite custode dell'Ade.
16) Secondo l'etica socratica il male viene compiuto involontariamente, per ignoranza del bene.
17) Cfr. Omero, Odyssea, libro 11, verso 326. Erifile, corrotta da Polinice con il dono di una collana, rivelò il
nascondiglio del marito Anfiarao, che non voleva partecipare alla guerra contro Tebe, pur sapendo che egli sarebbe morto
nella spedizione; per questo fu a sua volta uccisa dal figlio Alcmeone.
18) Cfr. libro 1, 343a.
Eugenio Caruso ... 27- 01-2020