I Filamenti di galassie (che comprendono i sottotipi: Complessi di superammassi, Muri di galassie e Piani di galassie), sono tra le più grandi strutture dell'Universo. Sono enormi formazioni filiformi, con una lunghezza tipica di 50 a 80 Mpc (da 163 a 261 milioni di anni luce), e formano i confini tra grandi vuoti dell'universo. La maggior parte della materia visibile nell'universo si raccoglie in galassie, che a loro volta si aggregano in ammassi che possono contenere da 103 a 1016 masse solari. Successivamente questi si associano per formare gruppi più grandi, i superammassi, che risultano essere i maggiori elementi visibili dell'Universo, fino a raggiungere grandezze dell'ordine di decine di milioni di parsec. Questi superammassi sono collegati da filamenti luminosi di galassie, che separano zone scure di spazi vuoti che hanno dimensioni di decine di milioni di parsec. Nel loro insieme, i superammassi e i filamenti che li collegano fanno parte di un'unica struttura filamentosa. Tutti questi elementi sono disposti in modo tale da disegnare una forma che ricorda una spugna. Se consideriamo complessivamente questi elementi, si deduce che nell'Universo a grande scala tutta la materia, luminosa e oscura, è distribuita piuttosto omogeneamente. Nel modello standard dell'evoluzione dell'universo, i filamenti galattici si dispongono e seguono la ragnatela di stringhe della materia oscura. Si ritiene che proprio la materia oscura organizzi la struttura dell'Universo a larga scala. La materia oscura attira gravitazionalmente la materia barionica, e quest'ultima è ciò che vediamo sotto forma di grandi strutture come filamenti e superammassi. La scoperta delle grandi strutture si è sviluppata a partire dagli inizi degli anni '80. Nel 1987, l'astronomo R. Brent Tully dell'Università delle Hawaii individuò ciò che fu chiamato il Complesso di superammassi dei Pesci-Balena. Nel 1989 fu la volta della Grande Muraglia CfA2, seguito dal Sloan Great Wall nel 2003. Nel gennaio 2013, i ricercatori guidati da Roger Clowes dell'Università del Lancashire Centrale annunciarono la scoperta di un ammasso di quasar, lo Huge-LQG, che fece sembrare piccoli i filamenti galattici precedentemente scoperti. Nel novembre 2013, utilizzando il rilevamento di lampi di raggi gamma come punti di riferimento, astronomi ungheresi e americani hanno scoperto la cosiddetta Great GRB Wall (o Hercules-Corona Borealis Great Wall), un enorme filamento della lunghezza di oltre 10 miliardi anni luce.
Nel 2006, gli scienziati hanno annunciato la scoperta di EQ J221734.0+001701, formato da tre filamenti allineati che nell'insieme costituiscono una delle più grandi strutture conosciute attualmente, composta da un denso agglomerato di galassie e da enormi bolle di gas, note come Blob Lyman-alfa.
Istantanea di una tipica simulazione computerizzata dell’evoluzione dell’Universo in cui appare la struttura spugnosa del Cosmo. Di questa immensa ragnatela tridimensionale è artefice la materia oscura (in viola nell’immagine) che, con la sua azione gravitazionale, plasma i lunghi filamenti, li collega tra loro con nodi e obbliga la materia ordinaria a concentrarsi nelle regioni con densità più elevata. Le galassie (in bianco) si trovano dunque nei punti più densi della struttura e sono maggiormente concentrate nei nodi, dove si raggruppano in ammassi e superammassi. Interessante osservare come gran parte del “volume” dell’Universo sia occupato dalle immense regioni desolatamente vuote che si estendono tra i filamenti.
Le attuali teorie e i dati provenienti dallo studio della radiazione cosmica di fondo, il cosiddetto eco fossile del Big Bang, hanno suggerito quale potrebbe essere la composizione del Cosmo. Le misurazioni dell’osservatorio spaziale Planck diffuse nel 2013 hanno indicato che il nostro Universo è composto per il 68,3% da energia oscura, per il 26,8% da materia oscura e per il rimanente 4,9% dalla materia ordinaria, quella di cui sono fatti i pianeti e le stelle. Se per le prime due componenti, come ben denota l’aggettivo che le qualifica, brancoliamo nel buio (sappiamo cosa comporti la loro presenza, ma nulla della loro origine e composizione), anche la situazione che riguarda la materia ordinaria, la cosiddetta componente barionica, presenta un problema piuttosto strano.
Era il 1992 quando Massimo Persic e Paolo Salucci, provando a fare i conti sulll’Universo, giungevano alla conclusione che il contributo della materia ordinaria visibile è meno del 10% del valore inferiore predetto dai modelli della nucleosintesi primordiale. Della materia barionica dell’Universo, insomma, riuscivamo a malapena a vederne un decimo. Una situazione piuttosto imprevista, visto che questa conclusione comportava che di tutto ciò che compone l’Universo il 99,5% sfuggiva alla nostra vista. Gli stessi autori suggerivano quali potessero essere le riserve nascoste di questa materia a noi invisibile, puntando il dito, per esempio, sul gas diffuso tra le galassie degli ammassi e dei superammassi, sulla presenza di idrogeno atomico freddo all’interno delle stesse galassie o addensato in aloni intorno a esse. Tutt’altro che semplice, però, individuare questa incredibile quantità di materia dalla quale non ci perviene alcun segnale. Il complesso calcolo di questa materia nascosta è stato ripetuto in tempi molto più recenti da Michael Shull (University of Colorado) e collaboratori: secondo le loro stime, nell’Universo locale mancherebbe all’appello circa il 30% della massa barionica.
È pur vero che molte possibili soluzioni sono state svelate. Qualche anno fa, per esempio, impiegando il telescopio spaziale Hubble, Nicolas Lehner e Christopher Howk dell’Università di Notre Dame (South Bend, Indiana) e Bart Wakker dell’Università del Wisconsin hanno osservato la luce di 18 quasar quasi allineati con la galassia di Andromeda per studiare la distribuzione della materia che compone l’alone gassoso che avvolge la galassia. Quando la luce proveniente da un quasar lontano attraversa l’alone che avvolge M31, viene inevitabilmente influenzata e questo comporta che, in un piccolo intervallo di lunghezze d’onda, il quasar mostri un calo di luminosità. Dalla misura di quell’oscuramento i tre astronomi hanno potuto dedurre quanto gas la radiazione avesse attraversato, derivando di conseguenza dimensioni e densità dell’alone stesso. Nello studio, pubblicato nel maggio 2015, i ricercatori riferiscono che questa sorta di bozzolo che avvolge Andromeda è circa 6 volte più grande e 1.000 volte più massiccio di quanto precedentemente supposto. Si tratterebbe insomma di una struttura gigantesca e pressoché invisibile che si estenderebbe fino a circa metà strada tra quella galassia e la Via Lattea. Se fosse visibile a occhio nudo, ha precisato uno dei ricercatori, le dimensioni in cielo di quell’alone sarebbero cento volte il diametro della Luna piena. Altrettanto stupefacente, comunque, anche la massa che caratterizza la struttura, equivalente a circa la metà della massa stellare di M31. Nello studio si suggerisce che la massa di quel tenue alone altamente ionizzato che avvolge Andromeda sarebbe almeno il 30% della massa barionica complessiva della galassia. Un notevole passo in avanti, dunque, nell’individuazione della materia ordinaria che manca all’appello.
Altri astronomi hanno rivolto la loro attenzione anche all’alone della nostra stessa Galassia, escogitando sistemi piuttosto ingegnosi per stimarne la densità. Alla fine del 2015, per esempio, è stato pubblicato lo studio condotto dal team coordinato da Munier Salem (Columbia University) e Gurtina Besla (University of Arizona) in cui la stima della densità dell’alone viene derivata studiando l’interazione tra la Via Lattea e la Grande Nube di Magellano, una delle sue galassie satellite. Analizzando con estrema attenzione il gas che questa galassia perde per strada nel corso del suo moto attraverso l’alone della Via Lattea, gli astronomi hanno calcolato che, in prossimità della Grande Nube di Magellano, l’alone della nostra Galassia ha una densità di 0,1 atomi per decimetro cubo. Densità sicuramente irrisoria per gli standard cui siamo abituati nella vita quotidiana, ma sufficiente ad aggiungere alla stima della materia barionica della Via Lattea circa 26 miliardi di masse solari, vale a dire qualcosa di molto prossimo alla metà della massa della sua componente stellare. Fatti tutti i conti, insomma, l’alone di gas individuato da Salem e Besla apporterebbe un ulteriore 15% al censimento globale della massa barionica della Via Lattea, lasciandone comunque un bel 35% ancora da scoprire.
La nostra Galassia e quella di Andromeda, dunque, sarebbero caratterizzate da un alone molto più denso e pronunciato di quanto supposto in precedenza, nascondiglio perfetto per una notevole quantità di materia ordinaria finora sfuggita all’osservazione. Si potrebbe però obiettare che quel bozzolo di gas che avvolge le due galassie possa essere una caratteristica locale e non riscontrabile in gran parte delle altre galassie del Cosmo. La particolare collocazione di Andromeda e della Via Lattea, membri più massicci di un raggruppamento di galassie piuttosto vicine tra loro (il cosiddetto Gruppo locale) potrebbe aver giocato un ruolo chiave nella formazione e nel mantenimento di simili aloni.
Nell’impossibilità di verificare quanto sia fondata una simile obiezione, gli astronomi hanno rivolto la loro attenzione ad altri possibili depositi invisibili di materia ordinaria: i giganteschi ponti di materia che si estenderebbero tra le galassie. Le simulazioni sempre più affidabili dell’evoluzione delle strutture del Cosmo mettono in evidenza che la materia è organizzata in una complessa struttura filamentosa innescata dalla materia oscura, che avrebbe poi vincolato anche la materia ordinaria a riprodurre lo stesso andamento. Una struttura che il termine ragnatela cosmica descrive in modo davvero significativo e i cui punti nodali coinciderebbero con le regioni del Cosmo in cui si troviamo concentrate, raggruppate in ammassi e superammassi, le galassie.
Quei lunghi filamenti tra le galassie potrebbero insomma essere un perfetto ricettacolo per la parte di materia ordinaria che ancora sfugge a ogni osservazione. Indagare su queste strutture, però, è tutt’altro che semplice. Non solo l’eventuale gas di materia ordinaria presente nei filamenti sarebbe troppo tenue per essere colto dai telescopi ottici, ma anche se avesse temperature sufficientemente elevate da fargli emettere radiazione X, questa non sarebbe alla portata degli attuali osservatori spaziali.
Due team indipendenti di ricercatori, uno coordinato da Hideki Tanimura presso l’Istituto di Astrofisica spaziale di Orsay (Francia) e l’altro guidato da Anna de Graaff presso l’Università di Edimburgo, hanno però trovato il modo di sondare la presenza di materia ordinaria in quei filamenti e hanno pubblicato online i risultati raggiunti.
Nell’impossibilità di una individuazione diretta, i due team hanno fatto ricorso al fenomeno noto come effetto Sunyaev-Zel'dovich, un fenomeno che riguarda il comportamento dei fotoni a bassa energia della radiazione cosmica di fondo quando si trovano ad attraversare gas caldo e ricevono un po' di energia dagli elettroni lì presenti con i quali interagiscono. Si tratta di un effetto molto debole e dunque di difficile individuazione, ma gli astronomi hanno trovato il modo di renderlo evidente.
Attingendo ai dati della Sloan Digital Sky Survey, infatti, i ricercatori hanno preso in considerazione un grandissimo numero di coppie di galassie potenzialmente collegate da filamenti di materia: il team di Tanimura ha considerato 260 mila coppie di galassie, mentre il team di de Graaff ne ha valutato un milione. Sovrapponendo le immagini sono riusciti a far emergere la presenza dell’effetto Sunyaev-Zel’dovich provando dunque l’esistenza di materia ordinaria diffusa nei filamenti che uniscono le coppie di galassie. Dato che le galassie prese in esame dai due gruppi di ricerca non erano alla stessa distanza, era logico attendersi differenze nelle rilevazioni; una volta che si è tenuto conto di questo fattore, però, le rilevazioni dei due team si sono mostrate in ottimo accordo.
Dalle analisi è emerso che la densità della materia barionica dei filamenti sarebbe da tre a sei volte maggiore della densità media del vuoto circostante. Secondo i calcoli dei ricercatori, questa maggiore densità sarebbe in grado di rendere conto di circa il 30% della materia ordinaria mancante. Notevole, dunque, l’importanza dei due studi: oltre a ridurre in modo significativo l’ammontare di materia ordinaria sfuggita finora all’osservazione, infatti, confermano i modelli evolutivi che emergono dalle simulazioni.
Ovviamente in attesa che una prossima generazione di telescopi per la radiazione X, più grandi e molto più sensibili di quelli attuali, riesca finalmente a individuare la tenue radiazione emessa dal gas ionizzato ed estremamente caldo che guizza in quei filamenti.
Panoramic view of the entire near-infrared sky reveals the distribution of galaxies beyond the Milky Way. The image is derived from the 2MASS Extended Source Catalog (XSC)—more than 1.5 million galaxies, and the Point Source Catalog (PSC)--nearly 0.5 billion Milky Way stars. The galaxies are color coded by redshift (numbers in parentheses) obtained from the UGC, CfA, Tully NBGC, LCRS, 2dF, 6dFGS, and SDSS surveys (and from various observations compiled by the NASA Extragalactic Database), or photo-metrically deduced from the K band (2.2 µm). Blue/purple are the nearest sources (z < 0.01); green are at moderate distances (0.01 < z < 0.04) and red are the most distant sources that 2MASS resolves (0.04 < z < 0.1). The map is projected with an equal area Aitoff in the Galactic system (Milky Way VIA LATTEA at center).
IMPRESA OGGI - 2020
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