4. Il Benchmarking
Nel paragrafo 1., è stata fatta questa affermazione: da qualche parte c'è qualche impresa che fa meglio qualcosa e le tecniche di benchmarking ci possono aiutare a scoprirlo.
La ricerca di confronti con il mondo esterno può rivelarsi uno strumento molto importante, perché permette di comprendere quanto si dista dai concorrenti o dagli specialisti di una determinata funzione, ed, eventualmente, di condurre le azioni correttive atte al miglioramento del proprio vantaggio competitivo. Giova osservare che le imprese partecipanti a un meeting di benchmarking non sono necessariamente dello stesso settore industriale.
Imprese che hanno effettuato programmi di benchmarking riportano miglioramenti di redditività e, in un certo senso, anticipano il giudizio del mercato, perché comprendono, tempestivamente, e, analiticamente, dove sono migliori o peggiori dei concorrenti.
Le ragioni per le quali si iniziano programmi di benchmarking sono talvolta poco lodevoli:
- il vertice aziendale non si fida dei collaboratori e cerca dei modi per pungolarli verso interventi di maggior efficienza; uno di questi modi è di dimostrare che qualcun altro ha indici di efficienza migliori;
- i collaboratori vogliono dimostrare al vertice di essere "a posto" dal punto di vista dell'efficienza o dell'utilizzo di moderne metodologie di gestione.
La realizzazione corretta di un programma di benchmarking richiede il rispetto di alcune regole.
1. Assicurarsi che si stanno confrontando "mele con mele"; questo può sembrare semplice, ma generalmente richiede analisi approfondite per effettuare i necessari aggiustamenti nei dati rilevanti.
2. Arrivare a un livello di dettaglio che renda ovvio e consequenziale l'intervento necessario; limitarsi a rilevare che il costo della manodopera in un certo stabilimento è più elevato di quello di …, non è particolarmente utile.
3. Puntare all'obiettivo prospettico e non a quello attuale; tenere conto, quindi, del fatto che anche i concorrenti miglioreranno.
4. Assicurarsi di avere una visione complessiva dei costi e del valore per il cliente; tagliare costi in una parte del sistema ha poco senso se questi vengono solo trasferiti altrove.
5. Focalizzarsi sull'identificazione dei punti di debolezza, ma anche dei punti di forza, altrimenti il benchmarking potrebbe rivelarsi uno strumento di auto commiserazione.
6. Assicurarsi di avere qualche risultato pratico di successo, nel programma di benchmarking, per garantirne l'accettazione in azienda.
7. Assicurarsi che le valutazioni siano oggettive e basate su analisi affidabili; l'evidenza di eventuali deficienze verrà altrimenti rifiutata dalla struttura.
8. Dedicare adeguata attenzione ai sistemi di motivazione e di incentivazione per il raggiungimento degli obiettivi.
9. Assicurarsi un adeguato coinvolgimento del top management.
10. Misurare e controllare, nel tempo, il progresso verso il target e aggiornare periodicamente gli obiettivi.
I programmi di benchmarking più facili da realizzare sono quelli interni, nei quali si mettono a confronto le performance di unità della stessa impresa (questo vale, per lo più, per grandi imprese); non è inusuale scoprire significative differenze di efficienza, non spiegate da oggettive disomogeneità. In questi casi, gli interventi correttivi sono facili e immediati.
Più difficili da realizzare sono i programmi di benchmarking che coinvolgono imprese diverse, anche se, stranamente, si constata che le imprese sono, generalmente, disposte ad aprirsi e cioè sono disponibili a parlare delle proprie performance con esterni, talvolta anche con concorrenti.
La presenza di imprese a rete consente di effettuare con maggior facilità i programmi di benchmarking competitivo; le imprese coinvolte sono, infatti, orientate a creare valore insieme e quindi interessate a un miglioramento delle performance, che derivi dall'assemblaggio degli elementi di eccellenza che ciascuna impresa è un grado di comunicare e di mettere a fattor comune.
I programmi di benchmarking sono, a volte, impostati male per intrinseche difficoltà. Le imprese tendono, infatti, ad organizzarsi per processi (invece che per funzioni, come visto precedentemente), mentre il benchmarking tende a confrontare attività elementari, e quindi funzioni. È pur vero che i processi sono specifici di ciascuna realtà aziendale, e che quindi sono più difficili da confrontare rispetto alle attività funzionali, ma non è mai una buona ragione fare qualcosa solo perché è facile farlo, se ha minore rilevanza rispetto a qualcosa che richiede, invece, un impegno maggiore.
Impostare correttamente il benchmarking richiede l'aver presente che il limite teorico del costo di qualsiasi attività aziendale è zero: un processo gestionale ben progettato potrebbe autogestirsi senza carte o personale. Il limite teorico del costo di produzione è praticamente il valore della materia prima contenuta nel prodotto.
L'atteggiamento mentale giusto è quello di immaginare quale è il minor rapporto costo/performance teoricamente raggiungibile e poi ingegnarsi a realizzarlo; spesso, invece, ci si accontenta di porre come traguardo aziendale l'indice già raggiunto da qualcun altro. Scopo del benchmarking è sì imparare dai migliori, ma non è, necessariamente, raggiungere le performace di un concorrente, ma confrontarsi sempre con il futuro e con le proprie ambizioni.
5. Disintegrazione verticale delle aziende
Un modo intelligente per superare un periodo negativo o di crisi delle economie mondiali è cogliere l'occasione per ristrutturare l'impresa; a esempio si può pensare all'impresa come a un insieme di centri di business e non come un insieme di funzioni e centri di costo. Il reparto produttivo, la rete commerciale, la funzione amministrativa, il sistema logistico, possono essere pensati tutti come centri di business; infatti esistono operatori che si concentrano unicamente su tali attività e che forniscono prodotti o servizi per terzi, con profitto.
Citiamo due casi esemplificativi.
- Nel settore degli apparati elettronici e di telecomunicazioni si sono affermati gli specialisti della produzione per conto terzi: Motorola e Cisco, a esempio, non hanno interesse ad avere all'interno dell'impresa la produzione, perché i volumi produttivi sono molto variabili e quindi gli stabilimenti sarebbero sempre in posizione di carenza o eccesso di capacità. Meglio affidarsi a terzi, che possono compensare i cicli negativi di un produttore con quelli positivi di un altro.
- Nel settore amministrativo si stanno affermando gli specialisti che fanno, per le grandi imprese, quello che il commercialista fa per le piccole, e cioè tenere la contabilità e preparare il reporting. Uno specialista ha sistemi informativi che può mettere a disposizione di varie imprese, personale qualificato con buone prospettive di carriera nella propria funzione, costi normalmente non elevati (perché ha stipendi più bassi e un maggior controllo del funzionamento). Oggi, inoltre, è possibile mettere a disposizione dell'impresa le informazioni di cui ha bisogno producendole a distanza (la cosiddetta modalità ASP: Application System Provider), il che permette di ridurre ulteriormente i costi di struttura (affitti, licenze d'uso dei software).
L'impresa può essere ripensata come un aggregato di centri di business che si possono esternalizzare. Idealmente, l'imprenditore può costruire la propria impresa facendo fare il progetto dei prodotti a una società di ingegneria, facendo produrre presso terzi, facendo accordi con specialisti per la vendita e l'assistenza. Ma anche la contabilità, la gestione di paghe e stipendi, il sistema informativo, la gestione degli uffici e del parco macchine possono essere forniti come servizi da parte di specialisti.
In alcuni casi l'imprenditore può addirittura vendere parti della propria azienda agli specialisti ottenendo in cambio, sia liquidità, che può investire per acquisire un concorrente o semplicemente per crearsi una riserva che gli consenta di superare la crisi senza dover aumentare l'indebitamento, sia un servizio migliore a minor costo.
L'impresa non è più, necessariamente, un aggregato di centri di costo che devono stare sotto lo stesso tetto; può essere una partnership di imprenditori diversi, che hanno in comune lo scopo di creare valore. Questo modo di concepire l'impresa è sempre esistito nella piccola e media impresa, che non avendo capitali o competenze sufficienti per fare tutto ha impostato il proprio modo di essere all'insegna della terziarizzazione.
Oggi il concetto si estende, per necessità, anche alla grande impresa, facilitato dal fatto che con l'informatica e le telecomunicazioni è diventato possibile fornire servizi alle imprese senza necessariamente stare sotto lo stesso tetto; anzi è molto più efficiente farlo da lontano, in quanto, così, si possono sfruttare sinergie fra business differenti.
La terziarizzazione dell'impresa offre anche l'opportunità di creare nuovi imprenditori; quello che prima era un reparto o una funzione aziendale può essere venduto a uno specialista, che diventa imprenditore in quel particolare settore. Non è difficile creare una nuova impresa utilizzando parti di un'impresa esistente; bisogna volerlo e saperlo fare.
6. Evitare la trappola della complessità
Le imprese crescono, normalmente, per piccoli passi secondo uno sviluppo, detto incrementale; un impianto viene aggiunto a quelli esistenti, si lancia una nuova versione di un prodotto, si apre un nuovo mercato. Ogni decisione sembra appropriata, nel momento in cui la si prende; ogni euro di fatturato in più contribuisce a migliorare il margine lordo e, se anche fa aumentare i costi fissi, il bilancio complessivo sembra positivo.
Un altro modello di sviluppo, che potrebbe essere utile, ma che nasconde, però, grandi pericoli, è quello di sfruttare le marginalità. Si può vendere con sconti a clienti che non possono pagare il prezzo pieno, si può saturare la capacità produttiva con prodotti che non pagano gli ammortamenti, ma dànno un contributo ai costi fissi, si può utilizzare il personale eccedente per produzioni di minor pregio.
Di queste decisioni si vede l'effetto positivo immediato, ma si trascura spesso l'effetto indiretto successivo, che può essere negativo: i clienti "normali" pretendono lo stesso prezzo degli altri e si perde sulla politica del prezzo di equilibrio, alcuni impianti diventano dei colli di bottiglia e bisogna, quindi, investire per ampliarne la capacità produttiva, a scapito, probabilmente, degli oneri finanziari, il personale, impiegato in attività marginali, che esce per limiti di età, deve essere sostituito per poter far fronte agli impegni, perdendo l'occasione di tagliare i costi del personale.
Sia le decisioni di tipo incrementale, che quelle di tipo marginale portano ad avere molti prodotti, molti impianti, grandi magazzini, molti clienti, tutti con forti interazioni e, quindi, a una gestione con un elevato grado di complessità. D'altra parte, può essere arduo ripercorrere a ritroso la strada percorsa, perché l'eliminazione di qualche elemento comporta una perdita di margine, e non permette, contestualmente, di ridurre il costo complessivo del sistema. In breve, quando un'impresa ha imboccato la strada della crescita, potrebbe trovarsi a dover gestire una maggiore complessità, compito per il quale l'impresa potrebbe non essere preparata, inoltre la situazione nella quale, conseguentemente, viene a trovarsi l'impresa potrebbe non consentire un arretramento, se mai un ulteriore potenziamento.
È necessario un approccio di tipo discontinuo per scoprire come aumentare i profitti riducendo, al contempo, la complessità. Un modo pratico per analizzare un'impresa è di ripensare da zero come la si costruirebbe se si avessero tutti i gradi di libertà: quali impianti tenere aperti e quali chiudere, quali prodotti eliminare, quali clienti abbandonare. Successivamente si può immaginare come potrebbe essere la struttura necessaria per gestire solo la parte ritenuta utile del sistema aziendale e calcolare quali costi, ricavi e circolante si otterrebbero nella nuova configurazione; normalmente si constata che il profitto potrebbe essere molto più alto.
L'aumento della complessità della gestione, che può rientrare in una logica imprenditoriale, a piccole dosi, diventa illogico quando se ne considera l'insieme. Se anche a tavolino si possono calcolare nuovi schemi di funzionamento, nella realtà si scopre che non si possono chiudere gli impianti perché non sono stand alone, ma sono collegati ad altri, oppure che non si può chiudere uno stabilimenti vetusto perché, in un momento di euforia, è stato localizzato in quello stabilimento un impianto nuovo e redditizio.
Se proprio è impossibile eliminare qualche elemento l'esperimento sarà servito per capire l'importanza dei piani, sia nell'assetto produttivo che nella definizione dei prodotti; se non si può chiudere qualcosa, almeno si ha un'idea di cosa si dovrebbe fare e tendere a quel target con gradualità.
Il tema della complessità comprende anche un dilemma classico: è meglio fare investimenti graduali e tenere sempre aggiornato lo stabilimento, oppure fare investimenti a gradini? La tendenza degli imprenditori è per la gradualità, ma la discontinuità offre l'opportunità di investire un giorno in un impianto world class, oppure di non investire per niente, se il business non è più profittevole.
Rimane il problema di come liberarsi delle incrostazioni non produttive che sono state identificate attraverso l'analisi dei costi diretti e indiretti della complessità; il modo migliore sarebbe avere idee di espansione vincenti che permettano di assorbire il personale in eccesso, ma una tale raccomandazione è poco agibile perché le idee vincenti non vengono a comando, e i manager che si sono lasciati illudere dalle trappole delle decisioni incrementali non avranno probabilmente idee vincenti in altri campi. Avere comunque ben presente quanto della propria impresa è inutile serve per avere un obiettivo chiaro per il futuro. Senza un obiettivo chiaro e senza la consapevolezza che la complessità costa, l'impresa può trovarsi intrappolata e nell'impossibilità, di andare avanti, o di tornare indietro.