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Dante, Purgatorio, Canto XV. Esempi di mansuetudine.

INTRODUZIONE
Il Canto XV è un intermezzo narrativo e dottrinale che introduce al passaggio nella Cornice successiva, attraverso i tre momenti dell'apparizione dell'angelo, della spiegazione di Virgilio, degli esempi di mansuetudine.
L'incontro con l'angelo della misericordia ricalca quello avvenuto nel Canto XII con l'angelo dell'umiltà, con la variante che qui Dante è abbagliato dal suo fulgore: Virgilio spiega che ciò è dovuto al fatto che la natura umana del poeta non gli consente di fissare lo sguardo nei messi celesti, proprio come non può guardare direttamente il sole che li colpisce di fronte, mentre più avanti ciò gli procurerà piacere (è il carattere del viaggio in Purgatorio come purificazione morale, per cui quanto più Dante sale tanto più si avvicina a Dio e si purga dai peccati: più avanti Virgilio dirà che l'angelo ha cancellato dalla sua fronte la seconda delle sette P).
La salita alla III Cornice lungo una scala meno ripida delle precedenti dà modo a Dante di chiedere spiegazioni circa una frase di Guido del Duca, che nel Canto XIV aveva parlato dei beni materiali come quelli il cui possesso esclude che siano condivisi con altri, il che suscita invidia negli uomini. Virgilio offre una spiegazione dottrinale, distinguendo tra i beni terreni che hanno questa caratteristica e quelli celesti che sono opposti, in quanto il loro godimento cresce quanto più numerosi sono coloro che li possiedono: la chiosa del maestro anticipa quelle che spesso Beatrice farà nella III Cantica, tali da suscitare altri dubbi nel poeta come avviene in questo caso, per cui Virgilio rimanda proprio alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice una volta che Dante l'avrà incontrata.
Virgilio sottolinea il carattere dei beni spirituali che sono concessi in misura maggiore quanto più forte è l'ardore di carità, il che riprende il suo duro rimprovero agli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male, fatto in chiusura del Canto XIV: interessante è la similitudine della luce che si riflette da uno specchio all'altro, che si collega a quella proposta da Dante riguardo alla luce dell'angelo che lo abbaglia, ricca di elementi scientifici e precisazioni geometriche (l'elemento della luce domina largamente questo episodio, evidentemente per contrasto col buio fitto che avvolge la III Cornice e in cui i due poeti si ritroveranno alla fine del Canto).
L'ingresso nella III Cornice degli iracondi è accompagnata dagli esempi di mansuetudine, questa volta attraverso visioni che Dante osserva in una sorta di rapimento estatico. I tre esempi sono ancora una volta tratti dalla tradizione bibilica (Maria che rimprovera Gesù al Tempio, S. Stefano che perdona coloro che lo hanno martirizzato in preda all'ira) e da quella classica (Pisistrato che rifiuta di punire il giovane che ha baciato sua figlia in strada, aneddoto che Dante ricava da Valerio Massimo con una citazione quasi letterale). La domanda di Virgilio a Dante quando è tornato in sé è puramente didascalica, con la funzione di sottolineare che gli esempi di mansuetudine devono aprire il cuore alle acque de la pace in grado di estinguere il foco d'ira punito in questa Cornice, oltre che spingere il discepolo ad affrettare il passo senza indulgere alla pigrizia (forse ciò anticipa il peccato punito nella Cornice successiva, ovvero l'accidia). Il Canto si chiude con l'ingresso nel buio d'inferno della Cornice che rappresenta il contrappasso degli iracondi, i quali agirono in vita con la mente ottenebrata e gli occhi chiusi alla luce dell'amore di Dio di cui il Canto ha celebrato le lodi.

Il canto, privo com'è di incontri con singoli personaggi, si presenta come passaggio narrativo e dottrinale. Passaggio narrativo, in quanto, come è evidente, segue il salire dei due poeti dal secondo al terzo girone, con il consueto apparire dell'angelo e l'altrettanto consueto mostrarsi di esempi di virtù opposta al vizio punito nel terzo girone, che è l'ira. Passaggio dottrinale, in quanto la riflessione suscitata in Dante dalle parole di Guido del Duca e sviluppata nell'ampia risposta di Virgilio tocca un tema assai delicato, ossia il rapporto tra l'uomo (creato dal bene, in cerca di bene) e i beni terreni. La spiegazione di Virgilio, condotta in termini filosofici, potrà essere approfondita alla luce della fede da Beatrice, ma già nelle parole del poeta latino la questione è messa chiaramente a fuoco: mentre i beni spirituali aumentano se messi in comunicazione fra gli uomini, i beni materiali diminuiscono. Da ciò il peccato dell'avarizia, al quale se ne collegano altri ugualmente gravi, come l'invidia e la superbia. I versi finali (139-145) segnano un deciso stacco e, con l'apparire di un fumo scuro come la notte, anticipano l'avvio del canto sedicesimo, dedicato agli iracondi. Prima, risalta il trittico degli esempi di mansuetudine: si tratta di visioni estatiche (non di sogni), che comportano un distacco dei sensi dal mondo circostante; la prima e la terza hanno origine nel Nuovo Testamento, mentre quella intermedia rimanda al mondo classico. Le vicende ben note del ritrovamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e di Stefano primo martire sono ricreate in modo tale da dare il maggiore rilievo alla mansuetudine (vv.88-89 e vv.112-114). Così pure l'esempio di Pisistrato, le cui parole misurate, che derivano dalla fonte medioevale (probabilmente Giovanni di Salisbury) sono accompagnate da un'espressione di benignità e mitezza. Il linguaggio del canto è caratterizzato da complessità sia nelle similitudini astronomiche o scientifiche (in particolare vv.16-24) sia nel tessuto logico-filosofico dell'argomentazione di Virgilio, svolta in due parti successive per l'interposizione di una seconda domanda di Dante (secondo un metodo che garantisce gradualità e dovrebbe agevolare la comprensione). È infine da sottolineare l'accenno a Beatrice, uno dei numerosi passi in cui Virgilio preannuncia l'intervento di colei che saprà dare risposte più complete ai dubbi di Dante.

gesù al tempio
Gesù discute con i dottori nel Tempio. Maria lo sgrida. Dipinto del PINTURICCHIO

Note e passi controversi
- I vv. 1-6 indicano che da quel momento al tramonto mancano tre ore, ovvero il percorso che il sole (la spera del v. 2) compie al mattino dalle 6 sino alla fine dell'ora terza, le 9; quindi in Purgatorio è il vespro, mentre in Italia è mezzanotte. Molto discusso il v. 3, che paragona il sole a un fanciullo che scherza: è forse un'allusione al movimento mutevole del sole che provoca il ciclo delle stagioni, mentre è improbabile che Dante con spera intenda il Cielo del Sole o l'eclittica.
- Il solecchio (v. 14) indica l'atto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano, dal lat. soliculus. Il soverchio visibile (v. 15) indica ciò che della visione eccede le facoltà visive, con terminologia aristotelica e scolastica.
- I vv. 16-21 descrivono il fenomeno della riflessione della luce, ovvero l'uguaglianza dell'angolo di incidenza e di quello di riflessione, per cui i due raggi (quello che cade sulla superficie riflettente e quello che sale riflesso) formano due angoli di eguale ampiezza rispetto alla verticale al piano (il cader de la pietra in igual tratta). Parecchio significa «uguale».
- L'espressione Godi tu che vinci (v. 39) non è molto chiara, anche se forse è una parafrasi delle parole con cui Cristo conclude le beatitudini: Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis (Matth., V, 12: «Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli»).
- I vv. 44-45 si riferiscono alle parole di Guido del Duca (XIV, 86-87).
- Il v. 69 si riferisce alla credenza della fisica del tempo di Dante, secondo cui la luce si dirigeva solo verso i corpi lucidi.
- Il verbo s'intende (v. 73) vuol dire «si ama» e deriva dal prov. s'entendre en; alcuni mss. leggono s'incende.
- I vv. 88-92 si rifanno a Luc., II, 41-48, il passo evangelico in cui Maria e Giuseppe smarriscono Gesù dodicenne nella folla di Gerusalemme e lo ritrovano tre giorni dopo al Tempio intento a disputare con i dottori; Maria lo rimprovera senza ira, dicendogli Fili, quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te (Dante traduce alla lettera).
- I vv. 94-105 si rifanno a Valerio Massimo (Mem., V, I), che narra l'aneddoto di Pisistrato, tiranno di Atene del VI sec. a.C.: un giovane aveva baciato sua figlia pubblicamente e la moglie, indignata, gli aveva chiesto di punirlo; il tiranno aveva risposto con mansuetudine (Si eos, qui nos amant, interficimus, quid iis faciemus quibus odio sumus?, ovvero: «Se uccidiamo coloro che ci amano, cosa faremo a quelli che ci odiano?»). La villa (v. 97) è Atene, per dare il nome alla quale ci fu una lunga contesa tra Nettuno e Minerva.
- Le visioni avute da Dante sono definite non falsi errori (v. 117), in quanto non esistenti fuori dalla sua anima, ma veritiere.
- Le larve citate da Virgilio (v. 127) sono le maschere dei latini; parve (v. 129) è un altro latinismo («piccole»).
- I vv. 134-135 non sono molto chiari, essendoci due possibili interpretazioni, a seconda che il v. 135 voglia dire «che non vede più quando il corpo giace morto», oppure «quando vede qualcuno che cade a terra svenuto».

TESTO

Quanto tra l’ultimar de l’ora terza 
e ‘l principio del dì par de la spera 
che sempre a guisa di fanciullo scherza,                      3

tanto pareva già inver’ la sera 
essere al sol del suo corso rimaso; 
vespero là, e qui mezza notte era.                                   6

E i raggi ne ferien per mezzo ‘l naso, 
perché per noi girato era sì ‘l monte, 
che già dritti andavamo inver’ l’occaso,                         9

quand’io senti’ a me gravar la fronte 
a lo splendore assai più che di prima, 
e stupor m’eran le cose non conte;                               12

ond’io levai le mani inver’ la cima 
de le mie ciglia, e fecimi ‘l solecchio, 
che del soverchio visibile lima.                                       15

Come quando da l’acqua o da lo specchio 
salta lo raggio a l’opposita parte, 
salendo su per lo modo parecchio                                18

a quel che scende, e tanto si diparte 
dal cader de la pietra in igual tratta, 
sì come mostra esperienza e arte;                                 21

così mi parve da luce rifratta 
quivi dinanzi a me esser percosso; 
per che a fuggir la mia vista fu ratta.                               24

«Che è quel, dolce padre, a che non posso 
schermar lo viso tanto che mi vaglia», 
diss’io, «e pare inver’ noi esser mosso?».                  27

«Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia 
la famiglia del cielo», a me rispuose: 
«messo è che viene ad invitar ch’om saglia.               30

Tosto sarà ch’a veder queste cose 
non ti fia grave, ma fieti diletto 
quanto natura a sentir ti dispuose».                              33

Poi giunti fummo a l’angel benedetto, 
con lieta voce disse: «Intrate quinci 
ad un scaleo vie men che li altri eretto».                       36

Noi montavam, già partiti di linci, 
e ‘Beati misericordes!’ fue 
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.                                  39

Lo mio maestro e io soli amendue 
suso andavamo; e io pensai, andando, 
prode acquistar ne le parole sue;                                   42

e dirizza’mi a lui sì dimandando: 
«Che volse dir lo spirto di Romagna, 
e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».                        45

Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna 
conosce il danno; e però non s’ammiri 
se ne riprende perché men si piagna.                          48

Perché s’appuntano i vostri disiri 
dove per compagnia parte si scema, 
invidia move il mantaco a’ sospiri.                                 51

Ma se l’amor de la spera supprema 
torcesse in suso il disiderio vostro, 
non vi sarebbe al petto quella tema;                              54

ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’, 
tanto possiede più di ben ciascuno, 
e più di caritate arde in quel chiostro».                          57

«Io son d’esser contento più digiuno», 
diss’io, «che se mi fosse pria taciuto, 
e più di dubbio ne la mente aduno.                                60

Com’esser puote ch’un ben, distributo 
in più posseditor, faccia più ricchi 
di sé, che se da pochi è posseduto?».                         63

Ed elli a me: «Però che tu rificchi 
la mente pur a le cose terrene, 
di vera luce tenebre dispicchi.                                         66

Quello infinito e ineffabil bene 
che là sù è, così corre ad amore 
com’a lucido corpo raggio vene.                                     69

Tanto si dà quanto trova d’ardore; 
sì che, quantunque carità si stende, 
cresce sovr’essa l’etterno valore.                                   72

E quanta gente più là sù s’intende, 
più v’è da bene amare, e più vi s’ama, 
e come specchio l’uno a l’altro rende.                           75

E se la mia ragion non ti disfama, 
vedrai Beatrice, ed ella pienamente 
ti torrà questa e ciascun’altra brama.                            78

Procaccia pur che tosto sieno spente, 
come son già le due, le cinque piaghe, 
che si richiudon per esser dolente».                              81

Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’, 
vidimi giunto in su l’altro girone, 
sì che tacer mi fer le luci vaghe.                                      84

Ivi mi parve in una visione 
estatica di sùbito esser tratto, 
e vedere in un tempio più persone;                                87

e una donna, in su l’entrar, con atto 
dolce di madre dicer: «Figliuol mio 
perché hai tu così verso noi fatto?                                  90

Ecco, dolenti, lo tuo padre e io 
ti cercavamo». E come qui si tacque, 
ciò che pareva prima, dispario.                                       93

Indi m’apparve un’altra con quell’acque 
giù per le gote che ‘l dolor distilla 
quando di gran dispetto in altrui nacque,                      96

e dir: «Se tu se’ sire de la villa 
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite, 
e onde ogni scienza disfavilla,                                         99

vendica te di quelle braccia ardite 
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». 
E ‘l segnor mi parea, benigno e mite,                          102

risponder lei con viso temperato: 
«Che farem noi a chi mal ne disira, 
se quei che ci ama è per noi condannato?».              105

Poi vidi genti accese in foco d’ira 
con pietre un giovinetto ancider, forte 
gridando a sé pur: «Martira, martira!».                          108

E lui vedea chinarsi, per la morte 
che l’aggravava già, inver’ la terra, 
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,                    111

orando a l’alto Sire, in tanta guerra, 
che perdonasse a’ suoi persecutori, 
con quello aspetto che pietà diserra.                            114

Quando l’anima mia tornò di fori 
a le cose che son fuor di lei vere, 
io riconobbi i miei non falsi errori.                                  117

Lo duca mio, che mi potea vedere 
far sì com’om che dal sonno si slega, 
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,                        120

ma se’ venuto più che mezza lega 
velando li occhi e con le gambe avvolte, 
a guisa di cui vino o sonno piega?».                            123

«O dolce padre mio, se tu m’ascolte, 
io ti dirò», diss’io, «ciò che m’apparve 
quando le gambe mi furon sì tolte».                             126

Ed ei: «Se tu avessi cento larve 
sovra la faccia, non mi sarian chiuse 
le tue cogitazion, quantunque parve.                            129

Ciò che vedesti fu perché non scuse 
d’aprir lo core a l’acque de la pace 
che da l’etterno fonte son diffuse.                                 132

Non dimandai "Che hai?" per quel che face 
chi guarda pur con l’occhio che non vede, 
quando disanimato il corpo giace;                                135

ma dimandai per darti forza al piede: 
così frugar conviensi i pigri, lenti 
ad usar lor vigilia quando riede».                                  138

Noi andavam per lo vespero, attenti 
oltre quanto potean li occhi allungarsi 
contra i raggi seròtini e lucenti.                                      141

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi 
verso di noi come la notte oscuro; 
né da quello era loco da cansarsi. 

Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.                          14

PARAFRASI

Quanto è lo spazio percorso dal sole, simile a un fanciullo che gioca, dall'inizio del giorno sino alla fine dell'ora terza, altrettanto doveva ancora percorrere fino all'inizio della sera; in Purgatorio era il vespro, mentre in Italia era mezzanotte.

E i raggi solari ci colpivano in pieno viso, poiché noi giravamo intorno al monte e procedevamo dritti verso occidente, quando io mi sentii abbagliare da un fulgore molto più intenso di prima ed ero stupito da quel fenomeno che non mi spiegavo;

allora sollevai le mani sopra le mie ciglia, proteggendo gli occhi dalla luce eccessiva rispetto alle capacità della mia vista.

Come quando il raggio luminoso viene riflesso dall'acqua o da uno specchio, così che il raggio che sale forma un angolo identico a quello del raggio che scende rispetto alla verticale al piano, conformemente a quanto l'esperienza e la scienza dimostrano;

così mi sembrò di essere colpito in quel punto da una luce riflessa, cosa che mi spinse a distogliere in fretta lo sguardo.

Io dissi: «Che cos'è quello, dolce padre, davanti al quale non posso proteggere la vista senza essere abbagliato, e che sembra muovere verso di noi?»

Mi rispose: «Non stupirti se gli angeli ti abbagliano ancora: quello è un messo celeste che viene a invitarci a salire.

Ben presto vedere certe cose non solo non ti darà fastidio, ma ti procurerà gioia per quanto la natura ti ha disposto a ciò».

Dopo che raggiungemmo l'angelo benedetto, egli disse con voce lieta: «Accedete qui ad una scala, meno ripida delle altre».

Noi salivamo, ormai allontanatici da quel punto, e dietro di noi fu cantato 'Beati i misericordiosi', e 'Godi tu che vinci'.

Il mio maestro e io, soli, salivamo entrambi; e io pensai, mentre salivo, di acquistare vantaggio grazie alle sue parole;

e mi rivolsi a lui domandandogli così: «Cosa volle dire lo spirito di Romagna (Guido del Duca) parlando di 'esclusione' e di 'compagni'?»

Allora mi rispose: «Egli conosce il danno del suo maggior peccato; dunque non ci si deve stupire se lo rimprovera, perché non se ne debba provare dolore.

L'invidia spinge a sospirare perché i vostri desideri si concentrano su quei beni il cui possesso diminuisce, quanti più sono coloro che li possiedono.

Ma se l'amore dell'Empireo indirizzasse il vostro desiderio verso l'alto, il petto non avrebbe quel timore;

infatti in Cielo, quanto più numerosi sono coloro che godono di un bene, tanto maggiore è il bene posseduto, e più carità arde in quel sacro luogo».

Io dissi: «Sono più lontano dall'essere soddisfatto che se non ti avessi chiesto nulla, e nella mia mente nutro ancora più dubbi.

Come può essere che un bene, distribuito fra più possessori, renda quelli più ricchi di sé che se fosse goduto da pochi?»

E lui a me: «Poiché tu pensi solo ai beni terreni, ricavi delle tenebre dalla vera luce.

Quel bene infinito e inesprimibile che è lassù in Cielo, corre all'amore proprio come il raggio luminoso va verso un corpo lucido.

Si concede tanto più, quanto più trova l'ardore di carità; cosicché, quanto si estende la carità di ognuno, tanto più aumenta in lui l'eterno bene.
E quanta più gente lassù si ama, tanto più bene vi è da amare e  tanto più si ama, e l'amore si riflette dall'uno all'altro come la luce da uno specchio.

E se il mio ragionamento non ti appaga, tu vedrai Beatrice e lei ti soddisferà pienamente questo e altri desideri.

Affrettati allora a cancellare le altre cinque P come lo sono già le prime due, che scompaiono grazie al tuo pentimento».

Mentre volevo dire 'Sono soddisfatto', mi vidi giunto nell'altra Cornice, così che i miei occhi desiderosi mi fecero tacere.

Lì mi sembrò di essere rapito in una visione estatica, e di vedere in un tempio molte persone;

e vedevo una donna (Maria), sulla porta, che diceva con l'atteggiamento dolce di una madre: «Figliolo mio, perché ti sei comportato così verso di noi?

stefano
Martirio di santo stefano di Giorgio VASARI

Ecco, io e tuo padre ti cercavamo addolorati». E non appena tacque, svanì il contenuto di quella visione.

Poi mi apparve un'altra donna, col volto rigato da lacrime causate dal dolore generato da una grande rabbia verso qualcuno, che diceva: «Se tu sei signore della città (Atene) sul cui nome ci fu una grande lite fra gli dei, e dalla quale deriva ogni scienza, vendicati di quelle braccia ardite che abbracciarono nostra figlia, o Pisistrato».

E mi sembrava che il signore, benevolo e mite, le rispondesse con viso equilibrato: «Che faremo a chi ci vuol male, se condanniamo coloro che ci amano?»

Poi vidi persone accese dal fuoco dell'ira, che uccidevano un giovane lapidandolo, gridando forte l'uno all'altro: «Uccidi, uccidi!»

E vedevo lui che si chinava a terra ormai quasi morente, ma rivolgeva gli occhi verso il cielo e pregava il Signore, nonostante tanta violenza, di perdonare i suoi persecutori, con quell'aspetto che genera pietà.

Quando la mia anima tornò in sé e percepì le cose reali all'esterno, io riconobbi di aver avuto visioni dal contenuto veritiero.

Il mio maestro, che mi vedeva simile a un uomo che esce poco alla volta dal sonno, disse: «Che cos'hai, che non ti reggi in piedi e hai camminato per più di mezza lega (per molta strada) con gli occhi velati e le gambe impacciate, come qualcuno gravato dal vino o dal sonno?»

Io dissi: «O dolce padre mio, se mi ascolti io ti dirò ciò che mi è apparso quando le gambe non mi reggevano».

E lui: «Se tu avessi cento maschere sopra il volto, i tuoi pensieri, per quanto minimi, non mi sarebbero nascosti.

Ciò che hai visto voleva indurti a non rifiutare di aprire il cuore alle acque della pace (alla mansuetudine), che sono versate dalla fonte eterna (l'amore di Dio).

Non ti chiesi cosa avessi come fa quello che guarda con l'occhio corporeo che non vede, quando il corpo giace esanime;

ma te lo chiesi per accelerare il tuo passo: così bisogna pungolare i pigri, lenti a muoversi quando tornano svegli».

Noi camminavamo nel vespro, fissando gli occhi davanti a noi per quanto ce lo consentivano i raggi del sole, bassi e luminosi.

Ed ecco poco a poco avanzare verso di noi un fumo, oscuro come la notte, dal quale non era possibile scansarsi; questo ci accecò e ci tolse l'aria pura.

PISISTRATO
Imparentato al celebre legislatore ateniese Solone, Pisistrato è una delle figure più affascinanti della storia greca poiché riuscì in poco tempo a istaurare una tirannide senza eguali. Ottenuti 300 uomini dall’assemblea, Pisistrato occupò militarmente l’acropoli di Atene, il che provocò l’aspra reazione degli altri due capi delle fazioni politiche allora emergenti, Licurgo e Megacle. Questi ultimi si coalizzarono e lo costrinsero all’esilio. Ma Pisistrato poco dopo cercò di allacciare un accordo con Megacle a danno di Licurgo. I due capi politici, infatti, si accordarono per allontanare dalla scena politica la fazione capeggiata da Licurgo e suggellarono il patto con la concessione della mano della figlia di Megacle al nuovo alleato. Il rientro di Pisistrato ad Atene fu un vero e proprio spettacolo: egli mandò a chiamare una bella fanciulla e la fece abbigliare con i tipici abiti e i connotati della dea Atena e insieme ad essa salì su un carro per sfilare in tutta la città. Gli antichi erano facilmente suggestionabili da scene di questo tipo e la visione di quella donna simile alla dea li convinse a credere che Pisistrato era protetto dagli dei. Così tra acclamazioni e meraviglie Pisistrato rientrò nella sua città non da uomo esiliato che chiede mestamente di potervi riaccedere, ma da uomo trionfante a cui viene chiesto di ritornare. Tuttavia l’amicizia con Megacle non poteva durare a lungo e il pretesto per romperla fu proprio quello che l’aveva creata: il matrimonio tra Pisistrato e la figlia di Megacle. Lo storico Erodoto di Alicarnasso ci dice, infatti, che la ragazza si lamentasse dell’inadempienza dei doveri coniugali di Pisistrato, il quale evitava attentamente di generare una discendenza che avesse il sangue degli Alcmeonidi, da cui appunto discendeva Megacle. Così nel 566 a.C. Megalce ruppe l’alleanza e costrinse Pisistrato a ritornare in esilio. Durante il periodo che passò fuori Atene, Pisistrato strinse rapporti con gli Eretriesi. Questi ultimi gli fornirono un esercito con cui sconfisse quello ateniese e rioccupò la città. Atene era ormai nelle sue mani e ne deterrà il potere fino al 528 a.C., anno della sua morte.

AUDIO

Eugenio Caruso - 03-12-2020


Tratto da

1

www.impresaoggi.com