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Dante, Purgatorio, Canto XVI, Gli iracondi

INTRODUZIONE
Il Canto XVI è di argomento prevalentemente politico, prendendo le mosse da un dubbio di Dante che si ricollega alle parole con cui Guido del Duca nel XIV aveva criticato la decadenza morale della sua Romagna e quella politica di Toscana, mentre qui le accuse del protagonista Marco Lombardo saranno rivolte contro la Lombardia, ovvero la Pianura Padana da cui proveniva. Quella di Marco è una voce che Dante ascolta nel buio della Cornice, in cui procede come un cieco appoggiato a Virgilio: è chiaro il contrappasso della pena (l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti), così come la necessità di seguire strettamente la ragione, simboleggiata in questo caso dal poeta latino.
L'oscurità del fumo è descritta attraverso una serie di similitudini per contrasto, col dire che neppure un cielo notturno e privo di stelle, tutto coperto di nuvole, potrebbe rendere l'idea del buio della Cornice; Dante sente solo le voci degli iracondi, che intonano le prime parole dell'Agnus Dei che ben si adatta alla loro espiazione, dal momento che Cristo è invocato come esempio supremo di mansuetudine e prontezza al sacrificio, mentre i penitenti sembrano assolutamente concordi. L'incontro con Marco Lombardo dà modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, che secondo alcuni commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare anch'egli cortigiano presso signori di «Lombardia» e Romagna.
Può essere questa la chiave di lettura che spiega la scelta dell'interlocutore per affrontare il discorso sul libero arbitrio e poi la confusione dei due poteri, che come detto si riallaccia al lamento di Guido del Duca circa la decadenza delle virtù cavalleresche nell'attuale civiltà comunale. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cioè tale declino morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare di necessità le azioni umane, il che renderebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato.
Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno; se il mondo è dominato dal vizio la colpa è degli uomini, punto che naturalmente è centrale nell'architettura morale del poema come di tutto il pensiero religioso e dottrinale di Dante.
A conferma di ciò, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale: l'uomo è naturalmente portato a ricercare il proprio bene, il che spesso lo porta a peccare (ciò è spiegato attraverso la dottrina della creazione delle anime, in cui Dante segue san Tommaso e polemizza con la teoria platonica delle idee innate), per cui è necessario che vi siano le leggi che lo tengono a freno e correggono la sua condotta. Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore: ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come già aveva duramente affermato nei Canti VI e VII.
La responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ciò è causa, per Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema è una denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella è vuota e che viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa; Dante si rifà qui anche alla teoria dei «due soli» espressa in termini lievemente diversi nella Monarchia, dicendo cioè che il papa e l'imperatore brillano di luce propria e derivano entrambi la loro autorità da Dio, mentre nel trattato politico aggiungerà che l'imperatore deve semplicemente una certa deferenza al pontefice, come un figlio al proprio padre.
Nella visione di Dante diverso è il fine delle due autorità, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla felicità eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ciò può avvenire solo se le due autorità sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di governare senza averne le capacità (egli può rugumare, conoscere le Sacre Scritture, ma non ha l'unghie fesse, non distingue come dovrebbe i due poteri, finendo per dare un pessimo esempio ai fedeli che lo vedono correre dietro i beni terreni).
Il tema è di importanza centrale e sarà più ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso, nel Cielo di Giove dove trionfa la giustizia: qui Marco Lombardo cita l'esempio della sua terra come conferma di quanto ha detto, affermando che la Lombardia (nel senso di Italia del nord, di Pianura Padana) un tempo brillava per virtù cavalleresche, poi è caduta in decadenza dopo che la Chiesa e i Comuni guelfi diedero briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorità politica. Solo tre personaggi dimostrano le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente, tre vecchi che sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un passato che non esiste più, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili personaggi della Romagna antica, con la sola differenza che questi sono ancor vivi e non vedono l'ora di passare a miglior vita. Si è molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma è chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle virtù cavalleresche in cui essi si distinsero; in particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo indica come il padre di una certa Gaia, il che potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane è citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli (è, in fondo, lo stesso discorso già affrontato da Guido del Duca nel parlare della decadenza morale della Romagna, quindi non sorprende che qui Dante segua la stessa linea).

Il girone degli iracondi Il fumo che si trova a dover affrontare Dante all'entrata della terza cornice viene paragonato e reso ancora peggio al buio dell'inferno e di una notte senza stelle oscurata dalle nuvole. Esso è talmente pungente che Dante non riesce a tenere gli occhi aperti e lo paragona ad un panno ruvido. Virgilio si avvicina dunque a Dante e gli offre la sua spalla, raccomandandogli di non perdersi. Man mano che avanza, Dante sente delle voci. Capisce che esse stanno pregando l'Agnello di Dio (Agnus Dei) per ottenere pace e misericordia. Il canto è intonato e tutte le voci cantano in completa armonia, diversamente da ciò che accade in terra. La preghiera è presa dal vangelo di Giovanni: Agnus dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, dona nobis pacem. Dante, a quel punto, non essendo in grado di vedere nulla, domanda a Virgilio se quelle che ode siano voci. La sua guida gli risponde affermativamente che stanno scontando i penitenti per peccato di iracondia. Agnello: figura di mitezza, in contrasto con l'iracondia, rappresentante il sacrificio di Gesù. Ira: secondo i padri della Chiesa è diversa dalla passione, che si può domare con la ragione. Una voce anonima domanda a Dante chi egli sia, avendo il presentimento che si tratti di un vivente ("che conti ancora il tempo in mesi"). Virgilio suggerisce a Dante di domandare allo spirito dove si trovi l'accesso più prossimo alla cornice successiva. Dante si rivolge a Lombardo iniziando il discorso con una captatio benevolentiae: egli si sta purificando e quindi avvicinando a Dio. Poi gli dice che avrebbe udito cose incredibili se l'avesse aiutato. Lo spirito risponde che, nonostante il fumo denso impedisca la vista, lo aiuterà, mantenendo il contatto con lui attraverso la voce. Dante racconta che, per volere di Dio, sta viaggiando attraverso il Purgatorio per poi arrivare a contemplare il Paradiso e infine gli domanda chi egli sia e come raggiungere la cornice successiva. Si tratta di Marco Lombardo. Considerandolo una sorta di alter ego, Dante gli affida la discussione riguardante il libero arbitrio, l'origine della corruzione nel mondo e il rapporto tra potere temporale e spirituale. Marco Lombardo, che si presenta come conoscitore di quella virtù che oramai non è più presente sulla terra, gli chiede in cambio di pregare per la propria ascesa in Paradiso. In tutta risposta Dante chiede a Lombardo di confermare un suo dubbio che, se prima era piccolo, ora all'udire le sue parole è raddoppiato: il mondo ora è privo di ogni virtù, come dichiara Lombardo, e pieno di malvagità. Dante lo prega di rivelargliene il motivo, in modo tale da poterlo raccontare alla fine del suo viaggio. Infatti c'è troppa confusione al riguardo sulla terra: alcuni ritengono che provenga dall'influsso che hanno gli astri sull'uomo, altri dal libero arbitrio. Prima di rispondere, Lombardo sospira (moto di commiserazione per la situazione umana) e poi geme per aver respirato un fumo così pungente. Incomincia il discorso chiamandolo fratello e dicendo che dalla sua affermazione era apparso chiaro che provenisse dalla terra; però la ragione umana, essendo offuscata, attribuisce la causa di tutto solamente al cielo. Secondo tale convinzione, le influenze astrologiche determinano ogni comportamento. Se così fosse, non ci sarebbe la giustizia divina che premia con la beatitudine chi ha agito bene e con la dannazione chi ha agito male (ragionamento per assurdo, con una premessa che fa giungere ad una conclusione inconcepibile - Boezio). Poi Marco Lombardo spiega che in realtà gli astri non possono influenzare del tutto l'animo umano, non la parte razionale in particolare (di natura spirituale poiché creata da Dio) e quindi non possono condizionare le decisioni di un individuo (Tommaso d'Aquino). La ragione ci è stata data da Dio per distinguere il bene (lumen-Paradiso) dal male (buio-Inferno) e, se viene correttamente condotta, resiste all'influenza degli astri (approfondimento con Stazio, canto XXV). Perciò, se il mondo non segue la retta via la colpa è solo negli uomini. L'anima è stata creata da Dio, che l'ha contemplata prima ancora della sua esistenza, e si comporta come una fanciulla, alternando momenti felici e momenti tristi senza motivo. Essa, ignara di tutto tranne di essere stata creata da Dio, si rivolge a tutto quello che le reca più felicità (filosofia scolastica e San Tommaso d'Aquino). All'inizio assapora i piaceri, poi, credendo di non poterne fare a meno, cerca in tutti i modi di raggiungerli se ciò non viene impedito da qualcuno che la rimandi sulla retta via, la via dell'amore. Per questo motivo, per frenare l'impulsività dell'animo e per guidarla verso il bene, sono state inventate le leggi (Imperatore) ed è necessario un supervisore che vegli sulla Chiesa (Papa). Quest'ultimo però "rugumar può, ma non ha l'unghie fesse", ovvero possiede la capacità di interpretazione delle scritture ma non possiede la "discretionem boni et mali", ovvero non riesce a distinguere il bene dal male. Da qui il popolo, che vede la sua guida nutrirsi di beni terreni, è tentato a seguire il suo pastore, autore della "mala condotta". Dei tanti uomini buoni che vi erano un tempo ne sono rimasti pochissimi, tutti vecchi, che rimproverano continuamente la condotta di vita dei giovani. Essi sperano di passare presto a miglior vita e sono: Corrado da Palazzo (ambasciatore di parte guelfa di Carlo d'Angiò, noto per la sua virtù), Gherardo (si tratta di Gherardo III da Camino, signore di Treviso che, nonostante fosse amico della famiglia dei Donati, viene lodato per la sua virtù da Dante – sarà anche ricordato nel Convivio) e Guido da Castello (guelfo, ancora vivo al momento della stesura dell'opera; ricordato anche nel Convivio), il quale è meglio conosciuto con il soprannome di "semplice Lombardo (leale)". Lombardo conclude il suo discorso affermando che la Chiesa, se vuole sia il potere spirituale sia quello temporale, che devono restare distinti, è destinata a cadere nel fango e a sporcare se stessa e il suo potere. Dante capisce che proprio per tale motivo i Leviti, una delle dodici tribù di Israele, sacerdoti, non potevano ereditare alcun bene materiale. Dante domanda chi sia Gherardo, che Lombardo aveva citato poco prima. Avendo riconosciuto dalla pronuncia il luogo di provenienza di Dante, Lombardo trova strano che non conosca Gherardo, noto in Toscana per i suoi rapporti con Corso Donati, in seguito capo dei Neri fiorentini. Non sa come spiegare chi sia se non dicendo che è il padre di Gaia. Poi gli dice Dominus vobiscum,"Dio sia con voi" poiché egli non può più accompagnarli, essendo arrivati al limite della cornice, oltre la quale non gli è concesso andare. Essi vedono in lontananza la luce oltre le tenebre e poi un angelo (davanti agli angeli che custodiscono le cornici gli spiriti non possono comparire se non dopo la purificazione). Poi Lombardo scompare, come aveva fatto improvvisamente Ciacco nell'inferno. I primi versi del XVI canto riconducono brutalmente all'atmosfera cupa e buia dell'Inferno, che, tra l'altro, è nominato direttamente al verso iniziale ("Buio d'inferno e di notte privata/ d'ogne pianeto, sotto pover cielo"): Dante e Virgilio si trovano infatti nella terza cornice del Purgatorio, dove scontano la loro pena gli iracondi. La loro punizione consiste nel vagare avvolti da un fumo denso, acre e irritante, che annebbia loro la vista. In loro si osserva la punizione per similitudine, poiché in vita furono "accecati" dall'ira. Dante stesso è partecipe di questa pena, essendo a sua volta ostacolato dal fumo; l'ira è infatti uno dei tre peccati (assieme alla lussuria e alla superbia) dei quali Dante ritiene di essersi macchiato e che il pellegrino, dopo la profezia della sua venuta in Purgatorio alla sua morte da parte di Caronte (Inf, c. III), condivide assieme ai purganti. In mezzo alla nuvola di fumo, Virgilio offre la sua spalla a Dante, invitandolo a non separarsi da lui mentre lo guida. Allegoricamente, ciò rappresenta che la Ragione può contrastare e addirittura vincere il sentimento dell'iracondia. Non potendo distinguere alcunché con la vista, Dante si affida al suo udito, e infatti per mezzo di esso il poeta ode delle voci che, con uguale tonalità, cantano assieme preghiere rivolte alla misericordia e alla pace dell'Agnello di Dio (i loro canti, infatti, iniziano tutti con le parole Agnus Dei). Dopo aver chiesto conferma a Virgilio che le voci udite appartengano a spiriti purganti, Dante ode la presentazione della prima anima di questa cornice: essa (di cui ancora non ci viene presentato il nome) riconosce subito Dante come persona appartenente al mondo mortale, poiché il poeta fende il fumo della cornice con il proprio corpo fisico e parla come se dividesse ancora il tempo in mesi, ossia come fanno gli uomini sulla terra: le anime dell'aldilà sono infatti tutte soggette alla dimensione temporale divina, completamente diversa da quella terrena. L'anima chiede dunque a Dante chi sia, ed egli, esortato a rispondere da parte di Virgilio, espone una breve captatio benevolentiae (vv. 31-33), invitando l'anima a seguirlo: dopo la risposta affermativa di quest'ultima, Dante racconterà del suo viaggio nell'aldilà infernale e domanderà all'anima quale sia la sua identità. Essa rivela di essere Marco Lombardo, uomo di corte del XIII secolo, conoscitore delle regole del mondo e cultore delle virtù morali. Egli, dopo aver indicato ai poeti la strada corretta per raggiungere la cornice successiva, chiede a Dante, come consuetudine tra le anime purganti, di intercedere per lui con delle preghiere, una volta che sarà giunto in Paradiso. Dante assicura di farlo, e dichiara di avere un duplice dubbio: è l'influsso degli astri o una natura insita nell'animo a controllare le azioni degli uomini, che in quest'epoca (il 1300) sembrano colme di disonestà? Ecco quindi presentato il tema portante del canto, ossia il libero arbitrio, e da qui comincia il discorso teologico di Marco Lombardo. Marco risponde avvalendosi della definizione tomistica, appresa da Dante dalla Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino. La teoria afferma, per utilizzare le parole del santo, che "astra inclinant non necessitant", ossia che gli astri danno effettivamente una prima influenza alle azioni umane, ma la volontà personale può vincerla: infatti, Dio ha conferito all'umanità la facoltà del libero arbitrio. Dunque, con il famoso ossimoro liberi soggiacete (v. 80) Marco Lombardo spiega che l'uomo, pur essendo soggetto a una forza invasiva superiore a quella astrale, ossia quella divina, ha comunque la possibilità di decidere il meglio per se stesso. Di conseguenza, la causa della corruzione del mondo è da cercare nell'animo umano, e non nel cielo. L'anima prosegue descrivendo la condizione dell'anima umana che, appena uscita dalle mani del suo creatore, che la pensa amorevolmente prima di darle un'identità, è ignara di tutto e tende naturalmente, come una bambina, verso ciò che le procura gioia: tuttavia, è possibile che ciò sia costituito anche da beni di poco conto, come i piaceri materiali, e quindi è necessaria un'autorità, quella regia, che torca la volontà dell'anima verso mete più nobili, per mezzo di un fren costituito dalle leggi. Da questo punto in poi, il discorso di Marco Lombardo passa da teologico a politico: l'autorità in questione è corrotta, essendo commissionata a quella papale; poiché quest'unione è forzata (infatti il papa detiene a forza il potere temporale), essa è inevitabilmente destinata a produrre conseguenze infauste. Ecco dunque la formulazione della famosa dottrina dei due soli: il potere imperiale e quello papale sono come due soli, ossia sono entrambi voluti da Dio, ma separati e indipendenti l'uno dall'altro. Vengono riprese qui da Dante le dottrine esposte nel terzo libro del De Monarchia, volte a risolvere l'annosa disputa sulla preminenza dell'uno o dell'altro potere manifestatasi sin dalla cosiddetta lotta per le investiture. Segue poi una lode a tre vecchi nella persona dei quali il nobile passato rimprovera aspramente l'incivile presente dantesco: essi sono Corrado da Palazzo, Guido da Castello e 'l buon Gherardo (da Camino), il quale non è riconosciuto da Dante, che chiede a Marco Lombardo di chiarire la sua identità. L'anima, stupita dalla disinformazione del toscano Dante, risponde di non conoscerlo con altri soprannomi, a meno che non li mutui dalla figlia del personaggio, Gaia. Infine, Marco Lombardo, in vista dell'angelo, si congeda bruscamente dai poeti, e torna alla sua pena d'espiazione.
Note
- Sotto pover cielo (v. 2) può indicare semplicemente un cielo oscuro perché privo di stelle, oppure dall'orizzonte limitato.
- La preghiera recitata dagli iracondi è l'espressione di Ioann., I, 29: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi, ripetuta tre volte e seguita due volte da miserere nobis e una volta da dona nobis pacem. Le parole sembrano adatte all'espiazione di questi peccatori, che in vita indulsero proprio all'ira.
- Le parole con cui Marco Lombardo si presenta (v. 46-48) sono retoricamente elevate: dopo il chiasmo del v. 46 (Lombardo fui... fu' chiamato Marco) c'è il parallelismo del v. 47 e la raffinata metafora del distendere l'arco (v. 48) per indicare la disabitudine al valore cortese.
- Anche ai vv. 50-51 c'è il poliptoto ti prego / che per me preghi, in enjambement.
- Nei vv. 85-90 Dante, attraverso le parole di Marco, illustra la creazione dell'anima seguendo la dottrina di san Tommaso, non la teoria delle idee platoniche (l'anima al momento della creazione è una tabula rasa, non ha idee innate); egli contrasta anche la dottrina della creazione delle anime una volta per tutte, sostenuta da Origene (Dio crea ciascuna anima volta a volta).
- La vera cittade citata al v. 96 è probabilmente la Civitas Dei, la cui prima attuazione deve realizzarsi sulla Terra; la sua torre può essere la giustizia terrena.
- I vv. 98-99 vogliono dire che il papa (il pastor che procede, che guida il gregge) può rugumar (ruminare), cioè conosce le Sacre Scritture, ma non ha l'unghia fessa, cioè non distingue l'autorità temporale dalla spirituale; la metafora è biblica e fa riferimento alla legge ebraica che vieta ai fedeli di mangiare carne di animali che non siano ruminanti o non abbiano l'unghia fessa. Ciò era stato interpretato in senso allegorico dai filosofi cristiani, intendendo la ruminazione come la capacità di interpretare la legge sacra, e l'unghia fessa come quella di distinguere tra bene e male; Dante con tutta probabilità intende quest'ultima come la capacità di distinguere tra i due poteri, quindi di governare politicamente.
- I due soli cui Dante si riferisce al v. 106 sono ovviamente il papa e l'imperatore, ma poiché egli dice che Roma era solita averli non è chiaro a cosa alluda: forse alla distinzione tra potere politico e sacerdotale nell'antico Impero romano, o forse all'Impero cristiano prima della presunta donazione di Costantino. L'espressione l'un l'altro ha spento (v. 109) indica che il papato ha soffocato l'autorità imperiale, quindi non ha valore reciproco come invece al v. 112.
- Il paese ch'Adice e Po riga (vv. 115) è la Lombardia, intesa più generalmente come la Pianura Padana attraversata dai due fiumi.
- I tre vecchi citati da Marco Lombardo (vv. 124-126) sono Corrado da Palazzo (bresciano, di cui si hanno scarse notizie, tranne che fu podestà a Firenze nel 1276 e che era lodato per la sua liberalità); Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso dal 1283 fino alla morte, avvenuta nel 1306, forse coinvolto nell'uccisione di Iacopo del Cassero da parte di Azzo VIII d'Este); Guido da Castello (ancor vivo nel 1315 e di cui sappiamo molto poco, citato da Dante in termini lusinghieri nel Convivio). Quest'ultimo era detto dai Francesi, secondo Marco, il semplice Lombardo perché «lombardo» era sinonimo di italiano ed era associato, Oltralpe, alla fama di mercante disonesto; Guido sarebbe un'eccezione a questa cattiva fama.
- Il v. 135 legge rimprovèro con accento sulla penultima sillaba, il che rende regolare la scansione dell'endecasillabo (altri leggono rimproverio).

TESTO

Buio d’inferno e di notte privata 
d’ogne pianeto, sotto pover cielo, 
quant’esser può di nuvol tenebrata,                               3

non fece al viso mio sì grosso velo 
come quel fummo ch’ivi ci coperse, 
né a sentir di così aspro pelo,                                          6

che l’occhio stare aperto non sofferse; 
onde la scorta mia saputa e fida 
mi s’accostò e l’omero m’offerse.                                   9

Sì come cieco va dietro a sua guida 
per non smarrirsi e per non dar di cozzo 
in cosa che ‘l molesti, o forse ancida,                           12

m’andava io per l’aere amaro e sozzo, 
ascoltando il mio duca che diceva 
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».               15

Io sentia voci, e ciascuna pareva 
pregar per pace e per misericordia 
l’Agnel di Dio che le peccata leva.                                  18

Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia; 
una parola in tutte era e un modo, 
sì che parea tra esse ogne concordia.                          21

«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?», 
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, 
e d’iracundia van solvendo il nodo».                             24

«Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi, 
e di noi parli pur come se tue 
partissi ancor lo tempo per calendi?».                          27

Così per una voce detto fue; 
onde ‘l maestro mio disse: «Rispondi, 
e domanda se quinci si va sùe».                                   30

E io: «O creatura che ti mondi 
per tornar bella a colui che ti fece, 
maraviglia udirai, se mi secondi».                                 33

«Io ti seguiterò quanto mi lece», 
rispuose; «e se veder fummo non lascia, 
l’udir ci terrà giunti in quella vece».                                36

Allora incominciai: «Con quella fascia 
che la morte dissolve men vo suso, 
e venni qui per l’infernale ambascia.                             39

E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso, 
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte 
per modo tutto fuor del moderno uso,                           42

non mi celar chi fosti anzi la morte, 
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco; 
e tue parole fier le nostre scorte».                                  45

«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; 
del mondo seppi, e quel valore amai 
al quale ha or ciascun disteso l’arco.                            48

Per montar sù dirittamente vai». 
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego 
che per me prieghi quando sù sarai».                          51

E io a lui: «Per fede mi ti lego 
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio 
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.              54

Prima era scempio, e ora è fatto doppio 
ne la sentenza tua, che mi fa certo 
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.                             57

Lo mondo è ben così tutto diserto 
d’ogne virtute, come tu mi sone, 
e di malizia gravido e coverto;                                          60

ma priego che m’addite la cagione, 
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui; 
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».                     63

Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», 
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate, 
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.                           66

Voi che vivete ogne cagion recate 
pur suso al cielo, pur come se tutto 
movesse seco di necessitate.                                        69

Se così fosse, in voi fora distrutto 
libero arbitrio, e non fora giustizia 
per ben letizia, e per male aver lutto.                             72

Lo cielo i vostri movimenti inizia; 
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, 
lume v’è dato a bene e a malizia,                                   75

e libero voler; che, se fatica 
ne le prime battaglie col ciel dura, 
poi vince tutto, se ben si notrica.                                     78

A maggior forza e a miglior natura 
liberi soggiacete; e quella cria 
la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.              81

Però, se ’l mondo presente disvia, 
in voi è la cagione, in voi si cheggia; 
e io te ne sarò or vera spia.                                              84

Esce di mano a lui che la vagheggia 
prima che sia, a guisa di fanciulla 
che piangendo e ridendo pargoleggia,                         87

l’anima semplicetta che sa nulla, 
salvo che, mossa da lieto fattore, 
volontier torna a ciò che la trastulla.                               90

Di picciol bene in pria sente sapore; 
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, 
se guida o fren non torce suo amore.                            93

Onde convenne legge per fren porre; 
convenne rege aver che discernesse 
de la vera cittade almen la torre.                                     96

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? 
Nullo, però che ’l pastor che procede, 
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;                      99

per che la gente, che sua guida vede 
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta, 
di quel si pasce, e più oltre non chiede.                      102

Ben puoi veder che la mala condotta 
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, 
e non natura che ’n voi sia corrotta.                              105

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, 
due soli aver, che l’una e l’altra strada 
facean vedere, e del mondo e di Deo.                         108

L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada 
col pasturale, e l’un con l’altro insieme 
per viva forza mal convien che vada;                             111

però che, giunti, l’un l’altro non teme: 
se non mi credi, pon mente a la spiga, 
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.                           114

In sul paese ch’Adice e Po riga, 
solea valore e cortesia trovarsi, 
prima che Federigo avesse briga;                                117

or può sicuramente indi passarsi 
per qualunque lasciasse, per vergogna 
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.                         120

Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna 
l’antica età la nova, e par lor tardo 
che Dio a miglior vita li ripogna:                                     123

Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo 
e Guido da Castel, che mei si noma 
francescamente, il semplice Lombardo.                     126

Dì oggimai che la Chiesa di Roma, 
per confondere in sé due reggimenti, 
cade nel fango e sé brutta e la soma».                       129

«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti; 
e or discerno perché dal retaggio 
li figli di Levì furono essenti.                                           132

Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio 
di’ ch’è rimaso de la gente spenta, 
in rimprovèro del secol selvaggio?».                           135

«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta», 
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, 
par che del buon Gherardo nulla senta.                      138

Per altro sopranome io nol conosco, 
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia. 
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.                   141

Vedi l’albor che per lo fummo raia 
già biancheggiare, e me convien partirmi 
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia». 

Così tornò, e più non volle udirmi.                                145

PARAFRASI

Il buio dell'Inferno, o di una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo oscuro quanto può esserlo quello di una notte coperta da nubi, non velò la mia vista come quel fumo che lì ci avvolse, né mi irritò gli occhi al punto da non poterli tenere aperti; allora la mia saggia guida mi si avvicinò e mi offrì il suo braccio.

Come il cieco segue la sua guida per non perdersi e non urtare qualcosa che gli faccia del male o forse lo uccida, così io procedevo in quell'aria amara e oscura, ascoltando il mio maestro che mi diceva di continuo: «Fa' in modo di non separarti da me».

Io udivo delle voci, e ognuna sembrava pregare per la pace e la misericordia l'Agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo.

Le parole iniziali erano sempre 'Agnus Dei'; tutti dicevano la stessa cosa e in modo tale che sembrava esserci una totale concordia.

Io dissi: «Maestro, sono degli spiriti quelli che sento?» E lui a me: «Dici il vero, ed essi scontano la pena per la loro iracondia».

«E tu chi sei, che attraversi il fumo della nostra Cornice e parli di noi come se tu dividessi ancora il tempo (se fossi vivo)?»

Così fu detto da una voce; allora il mio maestro disse: «Rispondi, e chiedi se da questa parte si sale».

E io: «O anima che ti purifichi, per tornare bella a Colui che ti creò, se mi segui sentirai qualcosa di straordinario».

Rispose: «Io ti seguirò finché mi sarà permesso; e se il fumo non ci permette di vederci, il suono delle parole ci terrà uniti».

Allora iniziai: «Me ne vado in alto con quell'involucro (corpo) che la morte dissolve, e sono venuto qui attraverso l'Inferno.

E se Dio mi ha accolto nella sua grazia, al punto che vuol mostrarmi il suo regno in un modo del tutto diverso dall'uso moderno, non nascondermi il tuo nome prima della tua morte, ma dimmelo, e dimmi se vado nella giusta direzione verso l'accesso alla Cornice seguente; e le tue parole saranno la nostra guida».

«Io fui Lombardo, e il mio nome era Marco; conobbi il mondo e amai quella virtù cortese alla quale oggi ciascuno ha disteso l'arco (che ognuno ha abbandonato).

Per salire su, vai nella giusta direzione». Così rispose, e aggiunse: «Io ti prego di pregare per me, quando sarai in Paradiso».

E io a lui: «Io ti prometto che farò ciò che mi chiedi; ma io scoppio se non riesco a liberarmi di un dubbio che mi assilla.

Prima era un dubbio semplice, mentre ora è raddoppiato a causa delle tue parole, che mi confermano, qui e altrove, ciò che ho già udito (da Guido del Duca).

Il mondo è del tutto privo di ogni virtù cortese, come tu mi dici, e pieno di ogni malizia;

ma ti prego di indicarmene la causa, così che io la comprenda e la mostri agli altri; infatti alcuni la pongono nelle influenze celesti, altri nei comportamenti umani».

Dapprima emise un profondo sospiro, che poi si tramutò in «uhi!»; poi iniziò: «Fratello, il mondo è cieco e tu dimostri di venire da lì.

Voi che siete in vita riconducete la causa di tutto al Cielo, come se esso determinasse ogni cosa necessariamente.

Se fosse così, in voi non ci sarebbe più il libero arbitrio, e non sarebbe giusto essere premiati per la virtù, ed essere puniti per la colpa.

Il Cielo inizia i vostri movimenti, e neppure tutti; ma anche ammettendo ciò, voi siete in grado di distinguere il bene dal male, e avete il libero arbitrio; il quale, se anche incontra difficoltà nelle prime battaglie con gli influssi astrali, poi vince ogni cosa, purché venga ben nutrito.

Voi siete soggetti, liberi, a una forza maggiore e a una natura migliore (Dio); e quella crea in voi l'intelletto, che il cielo non ha in suo potere.

Perciò, se il mondo attuale pecca, la ragione è in voi e a voi deve essere attribuita; e io ora te ne darò una dimostrazione.

L'anima semplice, che non sa nulla, esce dalle mani di Colui (Dio) che la ama, prima di essere formata, come una fanciulla, che piange e ride senza saperne il motivo, salvo che, mossa da un lieto Creatore, torna volentieri a ciò che le dà piacere.

Dapprima sente il sapore dei beni di scarso rilievo; qui s'inganna e corre dietro ad essi, a meno che una guida o un freno non distolga il suo amore mal riposto.

Per questo fu necessario porre dei freni con le leggi; fu necessario avere un re che distinguesse almeno la torre della vera città.

Le leggi ci sono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che il pastore (il papa) che guida il gregge può ruminare, ma non ha le unghie fesse;

quindi la gente, che vede la sua guida ricercare quei beni terreni di cui essa è ghiotta, si nutre di quelli e non chiede nient'altro.

Puoi capire bene che la cattiva guida dei pontefici è la ragione che ha corrotto il mondo, non certo la vostra natura influenzata dai Cieli.

Roma, che costruì il mondo virtuoso, era solita avere due soli, che indicavano entrambe le strade, del mondo e di Dio.

L'uno ha spento l'altro; e la spada si è unita al pastorale, ed è inevitabile che le due cose stiano male insieme, unite in modo forzato;

infatti, uniti, l'un potere non teme l'altro: se non mi credi, pensa alla spiga (alle conseguenze), poiché ogni pianta si riconosce dal suo seme.

Nel paese (Pianura Padana) che è attraversato da Adige e Po, valore e cortesia erano soliti essere presenti, prima che Federico II fosse ostacolato (dalla Chiesa);

ora può passare di lì senza timore chiunque non volesse parlare con gli uomini virtuosi o avvicinarsi a loro, per vergogna.

Ci sono ancora tre vecchi in cui l'età antica rimprovera la nuova, e si augurano che Dio li faccia passare presto a miglior vita:

Corrado da Palazzo, il buon Gherardo (da Camino) e Guido da Castello, che i Francesi indicavano come il semplice Lombardo.

Concludi che ormai la Chiesa di Roma, per accentrare in sé i due poteri, cade nel fango e sporca sé e il suo incarico».

Io dissi: «O Marco mio, tu hai ragione; e adesso capisco perché i discendenti di Levi furono esclusi dall'eredità dei beni.

Ma chi è quel Gherardo che tu dici che è rimasto come esempio dell'antico popolo, come rimprovero del secolo decaduto?»

Mi rispose: «O le tue parole mi ingannano o mi stuzzicano; infatti, parlando con accento toscano, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo.

Io non lo conosco attraverso un altro soprannome, a meno di non indicarlo come il padre di Gaia. Dio sia con voi, perché non posso più seguirvi.

Vedi la luce che filtra attraverso il buio e già biancheggia, e io devo separarmi da voi prima che io appaia all'angelo, che è lì». Così se ne andò, e non volle più starmi a sentire.

MARCO LOMBARDO
Personaggio di cui si hanno scarse notizie, forse da identificare con un uomo di corte della Lombardia (intesa come la Pianura Padana), più precisamente della Marca Trevigiana, saggio e valente, vissuto nella seconda metà del XIII sec. Dante lo include fra gli iracondi , facendone il protagonista del Canto XVI. È il penitente a rivolgersi a Dante, chiedendogli chi sia dal momento che attraversa il fumo della Cornice da vivo, e il poeta gli risponde invitandolo a seguirlo. I due procedono nel fumo senza vedersi e Dante conferma di essere vivo, chiedendo poi allo spirito il suo nome: egli si presenta come Marco Lombardo e dichiara di aver coltivato in vita le virtù cavalleresche, ora abbandonate da quasi tutti. Dante ha un dubbio, che le parole di Marco accentuano dopo quelle con cui Guido del Duca (XIV, 37 ss.) aveva espresso il medesimo concetto: la mancanza di virtù nel mondo è colpa degli uomini o degli influssi celesti? Marco risponde con un'espressione di disappunto, poi spiega che se le azioni umane fossero determinate dal Cielo, il libero arbitrio sarebbe distrutto e non sarebbe giusto premiare la virtù e punire le colpe. Il Cielo può dare avvio alle azioni umane, ma poi queste sono il frutto di libere scelte individuali, per cui se il mondo è malvagio la colpa è tutta e solo degli uomini. Per confermare ciò, il penitente spiega che l'anima umana ricerca il piacere, il che la induce talvolta a rivolgersi ai beni materiali e al peccato; per questo esistono le leggi, ma non c'è un potere temporale in grado di farle rispettare con rigore. Questo avviene per la confusione tra potere spirituale e temporale, in quanto il papa pretende di governare e sottrae il potere all'imperatore, cosa che provoca i guasti del mondo presente. A conferma di ciò, Marco cita l'esempio di tre vecchi di Lombardia in cui rifulgono ancora le virtù del mondo antico, mentre ora in quella regione esse sono spente: si tratta di Corrado da Palazzo, Gherardo da Camino e Guido da Castello. Dante è soddisfatto della risposta, ma chiede maggiori ragguagli sull'identità di Gherardo. Marco è stupito che Dante, toscano, non lo conosca, e afferma che non saprebbe con quale soprannome indicarlo, se non dicendo che è il padre di Gaia. A questo punto il penitente scorge la luce (del sole, o forse dell'angelo) tra il fumo, per cui si congeda dai due poeti e si allontana da loro.

CORRADO DA PALAZZO
Figlio di Giacomo, attestato nel 1206 come membro del Consiglio di credenza del Comune di Brescia, apparteneva a una famiglia nobile di parte guelfa, ben inserita in città ma con forti interessi anche nel contado (i possedimenti si concentravano particolarmente nel pievato di Cividate). Dei suoi primi anni non si conosce pressoché nulla. Esponente della pars ecclesie e fedele a Carlo I d'Angiò, il 24 febbraio 1265, con Federico Lavellolongo e Inverardo Bornati, fu procuratore degli estrinseci bresciani che, riunitisi a Milano, fondarono una lega con questa città, la famiglia della Torre, Azzo VII d'Este, il conte di Verona e i Comuni di Mantova e Ferrara. L'alleanza aveva lo scopo di propugnare l'intervento militare di re Carlo in Italia e venne confermata l'indomani con un solenne giuramento, durante il quale Corrado venne definito «sindaco e procuratore» dei fuoriusciti bresciani. Mantenne la stessa carica quando, il 27 marzo 1265, stipulò assieme ad altre personalità legate all'Angiò una «perpetuam amicitiam» con cui i fuoriusciti bresciani avrebbero favorito il passaggio del re in Lombardia in cambio dell'aiuto nella ripresa della loro città. Probabilmente partecipò ai successivi eventi militari e il 22 febbraio 1266 (o addirittura all'indomani della sollevazione del 30 gennaio) era tornato a Brescia con gli altri concittadini guelfi. Coerentemente con la sua politica, il 22 maggio 1270 firmò la dedizione della città a Carlo d'Angiò. Nel periodo successivo partecipò alla guerra che oppose la sua parte agli espulsi ghibellini e quindi alle trattative di pace organizzate da papa Gregorio X che videro la conclusione di un accordo nell'ottobre 1272 a Coccaglio. Nel 1276 venne nominato podestà a Firenze e vicario di Carlo d'Angiò. Durante questo periodo avvenne il processo patrimonale tra la famiglia Alighieri e la chiesa di San Martino che si concluse con la sentenza del giudice Matteo «d. Curradi de Palazzo, regii vicari in regimine Florentiae»; questo spiegherebbe perché Dante avesse un giudizio positivo di Corrado, tanto da citarlo nel sedicesimo canto del Purgatorio come uno dei tre vecchi (gli altri erano Gherardo III da Camino e Guido da Castello) rappresentanti di quella Lombardia in cui «solea valore e cortesia trovarsi / prima che Federigo avesse briga». Terminato il mandato, il 15 dicembre 1276, successe a Giovanni da Pescarolo nella carica di capitano della Massa dei Guelfi. Concluso anche questo incarico, verosimilmente tornò a Brescia per potenziare il partito filoangioino, ma non recise i legami con la Toscana. Non è un caso, dunque, se nel primo semestre del 1279 fosse stato nominato podestà di Siena; durante il mandato venne conclusa la pace con Firenze e la città fu colpita da un grave incendio. Tra il 1283 e il 1284, nuovamente a Brescia, fu impegnato nella riconquista di alcuni centri gardesani (Limone, Tremosine, Tignale), occupati tempo addietro dal vescovo di Trento.Il 6 giugno 1287, divenuto capitano del Popolo di Milano, firmò la nomina del procuratore per la conclusione di un accordo con Amedeo V di Savoia. L'8 giugno prese parte alla ratifica dell'alleanza e il 22 giugno partecipò al giuramento. Ritornato in patria, represse la rivolta della Valcamonica grazie all'aiuto dei Visconti. Nel 1289 fu nominato podestà di Piacenza, facilitando l'ascesa di Alberto Scotti alla signoria della città e la sconfitta della parte ghibellina capitanata dai Landi. Dopo questo evento di lui non si hanno notizie. Stando al racconto dantesco, doveva essere ancora vivo nel 1300.

Brescia, Palazzo d'Ercole. Costruita nel XII secolo dalla famiglia Palazzi all'incrocio tra il decumano massimo e il cardo su antiche rovine romane, venne fatta mozzare da Ezzelino da Romano nel 1258, dopo aver conquistato la città.

palazzo

GUIDO DA CASTELLO
ROBERTI da Castello, Guido da Castello. – Nacque probabilmente a Reggio (in Emilia) tra il 1233 e il 1238 (Malaguzzi, 1878, p. 19). Non se ne conosce la paternità. Fu comunemente noto come Guido da Castello, in quanto appartenente all’omonimo ramo della consorteria reggiana dei Roberti (gli altri erano quelli dei da Tripoli e dei da Forno), discendente dal consorzio familiare dei Figli di Manfredo. Pochi sono i documenti storici che lo riguardano e nella maggior parte sono relativi al suo coinvolgimento nella vita politica reggiana della seconda metà del Duecento, quando i guelfi, dal 1252 incontrastati padroni di Reggio, nel 1284 si divisero in due fazioni: Superiori e Inferiori e i primi, corrispondenti ai Neri in Firenze, furono espulsi. Un documento bolognese di quello stesso anno elenca Roberti tra i 36 reggiani di quella parte, esuli nella città felsinea (Malaguzzi-Valeri, 1887, pp. 232-234). Come è stato con una certa plausibilità ipotizzato alcuni anni orsono, forse fu in questo torno di anni che Dante Alighieri (presente a Bologna almeno nel 1286-87) poté incontrarlo o avere contezza di lui: infatti lo menzionò due volte nelle sue opere, nei decenni successivi, e forse lo incontrò nuovamente nel 1306. La figura di Roberti appare oggi tutto sommato abbastanza evanescente, anche se di un certo rilievo a livello locale; ma l’Alighieri come è noto si riferisce a lui con grande apprezzamento (in Convivio IV, XVI, 6 e Purgatorio XVI, 121-126), e questo lascia pensare che il nobile reggiano abbia goduto di un credito notevole nella vita pubblica dell’Italia centro-settentrionale fra Due e Trecento. Nel Convivio, scritto per questa parte attorno al 1306-08, Dante sostiene che «nobilitade» significa «perfezione di propria natura in ciascuna cosa», e contrapponendo Roberti ad Alboino della Scala combatte l’opinione secondo la quale essere «nobile» vale «essere da molti nominato e conosciuto». In Purgatorio XVI, scritto verosimilmente non molto prima del 1313, per bocca di Marco Lombardo Roberti è incluso con Corrado da Palazzo di Brescia e Gerardo da Camino di Treviso nella terna dei vecchi superstiti di una generazione, ispirata ai valori di virtù militare e di liberalità, già allora definitivamente tramontata e in netto contrasto con la decadenza della generazione presente. I primi commentatori della Commedia e la critica posteriore hanno interpretato la definizione di Roberti – detto «francescamente, il semplice Lombardo» – come il riconoscimento «alla maniera francese» dell’onestà, della sincerità di Guido da Castello, contrapposte alla cattiva fama degli italiani in Francia. Più difficile è verificare ciò che scrive L’Ottimo sulla sua disponibilità e cortesia dimostrate nei confronti di «valenti uomini che passavano per lo cammino francesco, e molti ne rimise in cavalli ed armi, che di Francia erano passati di qua»: questa prodigalità gli avrebbe procurato «tanta fama» Oltralpe.

GHERARDO DA CAMINO
Secondogenito di Biaquino II e India da Camposampiero, nacque presso il castello di famiglia a Credazzo, o a Padova. Alla morte del padre, avvenuta nel 1274, diventa l'unico erede maschio della famiglia essendo morto in precedenza il fratello maggiore Tiso. Già nel 1262 risulta sposato con la vicentina Ailice da Vivaro che gli darà due figli: Rizzardo e Agnese. Nel 1263 appartiene al nuovo Consiglio dei Trecento di Treviso insieme a Guecellone VI dei Caminesi di sotto e al padre. Nel 1266, gli viene offerta dal vescovo di Feltre e Belluno Adalgerio di Villalta la signoria delle due città, carica che aveva avuto già il padre e che lui stesso eserciterà ininterrottamente fino alla morte. In questo modo il vescovo poté assicurarsi una protezione guelfa contro l'espansionismo dei ghibellini della regione. In seguito il raggio di azione di Gherardo si espande ben oltre i suoi territori nel Bellunese e nel Trevigiano, venendo eletto prima arbitro in una contesa territoriale tra il patriarca di Aquileia e il Conte di Gorizia (1274) e poi conclude un'alleanza a suo favore con le città guelfe di Padova, Cremona, Brescia, Parma, Modena e Ferrara contro la ghibellina Verona (1278). Per i meriti in seguito acquisiti fu nominato cittadino di Padova. Rimasto vedovo, sposa la nobile milanese Chiara della Torre, la quale morirà nel 1299. Si trattava di un matrimonio dal preciso scopo politico, fruttuosa strategia che Gherardo porterà avanti combinando in seguito i matrimoni dei propri congiunti. In questo periodo Gherardo medita di impossessarsi di Treviso, città già in mano al padre e che stava attraversando un periodo di pace dopo la cacciata dei da Romano. Per raggiungere l'obbiettivo si scontra con i da Castelli, potente famiglia trevigiana a capo del partito dei Ghibellini. Lo scontro tra le due famiglie avviene nel 1283, dopo mesi di preparazione con alleanze e potenziamenti militari. Il 15 novembre Rambaldo di Collalto, con al seguito i suoi alleati, espelle i Ghibellini dalla città con una battaglia esaltata dalle cronache agiografiche successive, ma che in realtà fu poco più di un tafferuglio abilmente orchestrato dallo stesso Gherardo che, col potere delle armi, fu immediatamente proclamato Capitano Generale della città a vita all'unanimità dai consigli cittadini. Allo stesso fu attribuito il potere di modificare a piacimento gli statuti del Comune. La prima mossa di Gherardo fu attaccare le fortezze di Asolo, Cornuda e Monleopardo di proprietà dei Castelli e, in seguito, con una trappola, di radere al suolo la loro casa in città. Ai Ghibellini rimasti in città fu poi vietata ogni forma di associazione. Sistemati i nemici Ghibellini, ricompensò tutti coloro che lo avevano aiutato nell'impresa: in particolare restituì Camino e Oderzo ai cugini Tolberto III e suo fratello Biaquino VI appartenenti al ramo cosiddetto "inferiore" della famiglia. La cessione fu dichiarata illegittima dal Comune di Treviso: per sistemare la disputa fu indetto il cosiddetto "processo di Oderzo" (1285). Non si sa come finì, ma di certo peggiorò le già difficili relazioni tra i due rami della famiglia. Tolberto e Biaquino infatti si tutelarono mettendosi sotto la protezione della Serenissima Repubblica alla quale cedettero, solo formalmente, la città di Motta di Livenza. Avevano dato così il via, il 6 luglio 1291, all'espansione in terraferma di Venezia. Gherardo pensò intelligentemente di riappacificarsi con i cugini, concludendo al breve il matrimonio della celebre figlia Gaia con Tolberto III (1291). Gherardo infatti stringerà nuove alleanze anche combinando il matrimonio dei propri congiunti: la figlia Beatrice andrà in sposa a Enrico II di Gorizia; la figlia Agnese sposerà Niccolò de' Maltraversi, mentre il figlio Rizzardo prenderà in sposa la nobildonna carinziana Caterina di Ortenburg. Porterà avanti buoni rapporti anche con i Padovani, i Veneziani e i Fiorentini (tra cui Corso Donati, capo dei Guelfi Neri e acerrimo nemico di Dante).

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Eugenio Caruso - 14-12-2020


Tratto da

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www.impresaoggi.com