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Dante, Purgatorio, Canto XVII, Ancora gli iracondi

INTRODUZIONE
Il Canto XVII è strettamente legato al successivo, rispetto al quale presenta una struttura sostanzialmente speculare: infatti alla prima parte narrativa del XVII (l'uscita dei due poeti dalla III Cornice e l'accesso alla IV, dopo le visioni di ira punita) ne segue una seconda didascalica (la spiegazione da parte di Virgilio della struttura morale del secondo regno), mentre il Canto XVIII vedrà una prima parte didascalica che completa le parole del maestro seguita da una narrativa (gli accidiosi della IV Cornice). Le quattro parti sono di lunghezza pressoché equivalente e le prime due sono divise dall'indicazione dell'ora, proprio come la terza e la quarta (è fondata l'ipotesi che i due Canti siano stati pensati unitariamente, come parte di un dittico: del resto l'ampia parentesi dottrinale a cavallo di entrambi è coerente sul piano dei contenuti).
L'uscita di Dante dal fumo della III Cornice è un ritorno alla luce, descritto con la similitudine del viandante sorpreso dalla nebbia in montagna che intravede la luce del sole, mentre alla fine dell'episodio precedente Marco Lombardo aveva preannunciato il fulgore che indicava la fine del denso fumo. Il poeta riacquista la vista in tempo per essere nuovamente rapito in estasi e avere nuove visioni di esempi di ira punita, che sono tre come gli esempi di mansuetudine del Canto XV, ma di cui due sono tratti dalla tradizione classica e uno solo da quella biblica: l'esempio di Progne tramutata in usignolo dopo essersi vendicata del marito Tereo e quello della regina Amata morta suicida e compianta dalla figlia Lavinia sono intervallati da quello di Aman, il ministro di Assuero che progettò di far crocifiggere Mardocheo e fu a sua volta messo in croce; il personaggio mostra nella morte la stessa protervia che aveva in vita, con analogie rispetto a Capaneo e Caifas (incluso il particolare che tutti e tre sono in qualche modo inchiodati, i primi due al suolo infernale e il terzo alla croce). L'esempio di Amata è tratto ovviamente dall'Eneide, con qualche lieve differenza rispetto al testo virgiliano in cui la regina si impicca per il rimorso di aver causato la guerra, non per la morte di Turno e il matrimonio imminente della figlia con Enea.

aman
Ammon chiede grazia a Ester alla presenza di Assuero - GIOVAN BATTISTA SPINELLI

L'accesso alla IV Cornice dopo l'incontro con l'angelo della mansuetudine coincide con il calare della sera, che provoca in Dante un momento di stanchezza e propizia la spiegazione di carattere dottrinale da parte di Virgilio, che prende spunto dalla domanda del discepolo sul peccato punito in questo luogo (l'accidia, ovvero lo scarso amore per il bene). La spiegazione della struttura morale del Purgatorio si rifà ovviamente alla dottrina cristiana della Summa Theologiae di san Tommaso d'Aquino, che si fonda sulla concezione dell'amore: ogni creatura prova amore naturale o d'animo, cioè dovuto alla scelta, e mentre il primo è sempre corretto il secondo può essere peccaminoso a seconda che sia diretto verso un malo obietto (causando superbia, invidia, ira), o che sia privo di vigore (accidia) o eccessivo verso i beni terreni (causando avarizia, gola, lussuria, se i beni troppo desiderati sono il denaro, il cibo, il piacere sensuale).
Questa tripartizione dei peccati capitali corrisponde almeno in parte a quella della topografia morale dell'Inferno, illustrata nel Canto XI della I Cantica che con questo episodio ha più di un'analogia, e ha suscitato qualche perplessità fra gli interpreti a causa di alcune incongruenze con i peccati puniti nel primo regno: Dante esclude qui i peccati di violenza e frode, che sono causati da malizia anziché da amore e sono puniti nel basso Inferno, il che spiega perché Virgilio neghi che si possa provare odio verso se stessi o Dio (cosa che accade coi suicidi e i bestemmiatori, come il caso di Capaneo prima evocato dimostra ampiamente).
Solo i peccati causati da amore possono essere purificati arrivando alla redenzione, come i peccati di incontinenza puniti nell'alto Inferno che corrispondono quasi perfettamente a quelli capitali che si scontano nelle Cornici del Purgatorio, con la sola differenza che i dannati non si sono pentiti prima della morte e i penitenti sì. Il maestro interrompe la spiegazione prima di illustrare i peccati puniti nelle Cornici soprastanti e invitando il discepolo a ricercare da sé la risposta, il che crea una pausa che coincide con la fine del Canto e rimanda alla successiva spiegazione all'inizio del successivo, quando Virgilio affronterà il delicato problema del rapporto tra amore e libero arbitrio: tale discorso completerà quello di Marco Lombardo del Canto XVI e si collegherà a un'ampia riflessione di Dante sulla concezione stessa dell'amore e i suoi rivolti letterari, preparando il terreno all'incontro coi poeti a cavallo dei Canti XXIV-XXVI prima dell'incontro con Beatrice (che è simbolo della grazia divina e quindi, in certo modo, dell'amore: Dante, come si vedrà, sottoporrà a una sorta di revisione il suo stesso Stilnovismo, cosa che peraltro aveva già fatto nel Canto V dell'Inferno nell'incontro con Francesca e culminerà nell'esaltazione dell'amore divino al centro della III Cantica, il solo degno di essere oggetto di trattazione poetica).
Dante inizia descrivendo, come al solito in modo molto attento e curato con tanto di similitudini realistiche con la vita quotidiana, il sole che tramonta sulla montagna del Purgatorio, visto all'uscita della densa nube di fumo nella quale era immersa la terza cornice. Gli compaiono quindi gli esempi di ira punita, conformemente alla consuetudine secondo cui all'uscita di una cornice vede esempi del peccato che vi si espiava (e all'inizio invece della virtù complementare), che egli vede in visione estatica come gli esempi di mansuetudine. Il primo esempio è quello di Progne, trasformata in usignolo (secondo il mito in rondine) per essersi vendicata del marito Tereo - che aveva violentato la sorella di lei Filomela - facendogli mangiare le carni del figlio Itis, episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Il secondo esempio è quello di Aman, ministro del re persiano Assuero (identificato con Serse I), crocifisso per aver voluto uccidere il giusto Mardocheo zio della regina Ester, episodio tratto dal Libro di Ester dell'Antico Testamento (nel quale Aman viene impiccato). Il terzo esempio è quello di Amata, madre di Lavinia suicidatasi per la rabbia provocatale dalla morte di Turno e dal fatto che quindi la figlia Lavinia dovrà sposare Enea, episodio tratto dall'Eneide XII, ma narrato secondo il punto di vista della fanciulla. In tutti e tre i casi notiamo come Dante non sia passivo nei confronti delle sue fonti, ma anzi le rielabori con libertà a seconda del particolare significato che vuole loro attribuire o semplicemente per esigenze poetiche. La visione estatica di Dante viene interrotta dal comparire di un essere luminosissimo, più forte della luce del sole: è la luce dell'angelo della mansuetudine, che indica ai poeti la via per salire alla quarta cornice (ove viene espiata l'accidia) e con un battito d'ali toglie dalla fronte di Dante la terza P, cantando la settima beatitudine "Beati pacifici". I due iniziano quindi a salire, ma arrivati in cima alla scala si devono fermare perché è ormai troppo buio: come aveva spiegato Sordello nel canto VII, con le tenebre non si può proseguire nel cammino di espiazione. Virgilio ne approfitta allora per spiegare a Dante la teoria dell'amore su cui si basa la costruzione morale del Purgatorio. Nessuna creatura (cioè nessun uomo), così come il suo Creatore (Dio), fu mai senza amore, amore che può essere di due tipi: "naturale" oppure "d'animo". Nel primo caso esso è istintivo e quindi sempre giusto; nel secondo caso esso è d'elezione, di volontà, cioè scelto dal soggetto: questo amore può quindi essere sbagliato, per tre ragioni diverse: può peccare per "malo obietto", cioè perché rivolto al male, «o per troppo [vigore nei confronti dei beni terreni] o per poco di vigore [nei confronti di Dio]» (Purgatorio XVII,96). Finché l'amore è indirizzato al Primo Bene, cioè a Dio, e si mantiene nei giusti limiti verso gli altri beni, non può errare, ma quando si volge al male oppure eccede la misura (in troppo o in troppo poco), allora la creatura opera contro il Creatore. Ora, contro chi è rivolto l'amore per il male? Non contro sé stessi, perché nessuno può volere il male di ciò che ama (e si parte dal presupposto che nessuno può odiare sé stesso, cosa a cui hanno obiettato alcuni commentatori ricordando l'episodio dei suicidi che appunto compiono il male su di sé[1]), né contro Dio, dal momento che non si può concepire un Essere diviso dal Primo Essere, cioè nessuno può pensarsi diviso da Dio. Ne consegue che, se si ama il male, si ama il male del prossimo, e questo amore del male rivolto contro il prossimo nasce in tre modi:
nei superbi, nasce dal desiderio di sormontare gli altri, e quindi di opprimerli;
negli invidiosi, nasce dal timore di perdere fama o potere per il fatto che qualcun altro s'innalzi, e quindi si rallegra del suo male;
negli iracondi, nasce dallo sdegno per il male ricevuto e quindi dalla sete di vendetta.
Questi tre amori del male sono espiati nelle tre cornici appena passate; ora rimane l'amore che è volto verso il bene ma in modo sbagliato:
c'è l'amore del bene a cui ci si rivolge con pigrizia o con eccessiva lentezza, ed è l'accidia espiata nella cornice nella quale i due stanno per entrare;
c'è infine l'amore che si rivolge con eccessivo impeto al bene terreno, che si espia nelle ultime tre cornici che Dante vedrà in seguito (cioè l'amore rivolto al denaro, espiato dagli avari nei canti XIX, XX e XXI; l'amore rivolto al cibo, espiato dai golosi nei canti XXII, XXIII e XXIV; l'amore rivolto all'amore, espiato dai lussuriosi nei canti XXV e XXVI).
Note
- Al v. 3 talpe è sing. arcaico per «talpa».
- L'imagine del v. 7 indica la facoltà dell'immaginazione, proprio come l'imaginativa del v. 13 e la fantasia del v. 25. Tale concezione è tratta dalla filosofia scolastica, in particolare da san Tommaso (Summa Theologiae, I, qq. 12 e 78).
- L'esempio di Progne che, per vendicarsi del marito Tereo che aveva violentato la sorella Filomela, uccise il figlioletto Iti e ne imbandì le carni al padre, è lo stesso citato nel Canto IX, 13-15. Secondo il mito Progne fu mutata in rondine e Filomela in usignolo, ma in entrambi i passi Dante sembra affermare il contrario (Progne sarebbe stata trasformata in usignolo), anche perché le fonti a lui note (Ovidio, Virgilio...) non sono chiare.
- Aman (vv. 25-30) era il ministro del re persiano Assuero, da identificare con Serse I, che essendo adirato contro Mardocheo, zio della regina Ester, volle crocifiggerlo; Ester rivelò i suoi piani al re e questi fece crocifiggere a sua volta Aman. L'episodio è tratto da Est., III-VII, dove tuttavia il re non è definito grande, né Mardocheo giusto, né l'atteggiamento di Aman è dispettoso e fero una volta posto in croce (forse Dante si rifà a un testo diverso dalla Vulgata).
- Il verbo lutto (v. 38) vuol dire «piangere», «essere in lutto», pur non essendo di uso frequente.
- La rima del v. 55, ne la, è composta (cfr. Inf., VII, 28).
- Al v. 58 sego vuol dire «con se stesso» (da seco).
- I vv. 68-69 citano la settima beatitudine evangelica, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur («Beati i mansueti, perché saranno chiamati figli di Dio»); Dante modifica la seconda parte introducendo la distinzione tra ira buona e cattiva, che trae da san Tommaso (Summa Theol., II-IIaa, q. 168).
- Il primo ben citato al v. 97 è Dio, mentre i secondi (v. 98) sono i beni terreni.

TESTO

Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe 
ti colse nebbia per la qual vedessi 
non altrimenti che per pelle talpe,                                   3

come, quando i vapori umidi e spessi 
a diradar cominciansi, la spera 
del sol debilemente entra per essi;                                6

e fia la tua imagine leggera 
in giugnere a veder com’io rividi 
lo sole in pria, che già nel corcar era.                             9

Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi 
del mio maestro, usci’ fuor di tal nube 
ai raggi morti già ne’ bassi lidi.                                       12

O imaginativa che ne rube 
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge 
perché dintorno suonin mille tube,                                 15

chi move te, se ‘l senso non ti porge? 
Moveti lume che nel ciel s’informa, 
per sé o per voler che giù lo scorge.                              18

De l’empiezza di lei che mutò forma 
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta, 
ne l’imagine mia apparve l’orma;                                   21

e qui fu la mia mente sì ristretta 
dentro da sé, che di fuor non venìa 
cosa che fosse allor da lei ricetta.                                  24

Poi piovve dentro a l’alta fantasia 
un crucifisso dispettoso e fero 
ne la sua vista, e cotal si morìa;                                      27

intorno ad esso era il grande Assuero, 
Estèr sua sposa e ‘l giusto Mardoceo, 
che fu al dire e al far così intero.                                     30

E come questa imagine rompeo 
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla 
cui manca l’acqua sotto qual si feo,                              33

surse in mia visione una fanciulla 
piangendo forte, e dicea: «O regina, 
perché per ira hai voluto esser nulla?                           36

Ancisa t’hai per non perder Lavina; 
or m’hai perduta! Io son essa che lutto, 
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».                         39

Come si frange il sonno ove di butto 
nova luce percuote il viso chiuso, 
che fratto guizza pria che muoia tutto;                            42

così l’imaginar mio cadde giuso 
tosto che lume il volto mi percosse, 
maggior assai che quel ch’è in nostro uso.                 45

I’ mi volgea per veder ov’io fosse, 
quando una voce disse «Qui si monta», 
che da ogne altro intento mi rimosse;                           48

e fece la mia voglia tanto pronta 
di riguardar chi era che parlava, 
che mai non posa, se non si raffronta.                          51

Ma come al sol che nostra vista grava 
e per soverchio sua figura vela, 
così la mia virtù quivi mancava.                                      54

«Questo è divino spirito, che ne la 
via da ir sù ne drizza sanza prego, 
e col suo lume sé medesmo cela.                                57

Sì fa con noi, come l’uom si fa sego; 
ché quale aspetta prego e l’uopo vede, 
malignamente già si mette al nego.                              60

Or accordiamo a tanto invito il piede; 
procacciam di salir pria che s’abbui, 
ché poi non si poria, se ‘l dì non riede».                       63

Così disse il mio duca, e io con lui 
volgemmo i nostri passi ad una scala; 
e tosto ch’io al primo grado fui,                                       66

senti’mi presso quasi un muover d’ala 
e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati 
pacifici, che son sanz’ira mala!’.                                     69

Già eran sovra noi tanto levati 
li ultimi raggi che la notte segue, 
che le stelle apparivan da più lati.                                  72

’O virtù mia, perché sì ti dilegue?’, 
fra me stesso dicea, ché mi sentiva 
la possa de le gambe posta in triegue.                        75

Noi eravam dove più non saliva 
la scala sù, ed eravamo affissi, 
pur come nave ch’a la piaggia arriva.                            78

E io attesi un poco, s’io udissi 
alcuna cosa nel novo girone; 
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:                              81

«Dolce mio padre, dì , quale offensione 
si purga qui nel giro dove semo? 
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».                 84

Ed elli a me: «L’amor del bene, scemo 
del suo dover, quiritta si ristora; 
qui si ribatte il mal tardato remo.                                    87

Ma perché più aperto intendi ancora, 
volgi la mente a me, e prenderai 
alcun buon frutto di nostra dimora».                              90

«Né creator né creatura mai», 
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, 
o naturale o d’animo; e tu ‘l sai.                                      93

Lo naturale è sempre sanza errore, 
ma l’altro puote errar per malo obietto 
o per troppo o per poco di vigore.                                   96

Mentre ch’elli è nel primo ben diretto, 
e ne’ secondi sé stesso misura, 
esser non può cagion di mal diletto;                             99

ma quando al mal si torce, o con più cura 
o con men che non dee corre nel bene, 
contra ‘l fattore adovra sua fattura.                                102

Quinci comprender puoi ch’esser convene 
amor sementa in voi d’ogne virtute 
e d’ogne operazion che merta pene.                            105

Or, perché mai non può da la salute 
amor del suo subietto volger viso, 
da l’odio proprio son le cose tute;                                 108

e perché intender non si può diviso, 
e per sé stante, alcuno esser dal primo, 
da quello odiare ogne effetto è deciso.                        111

Resta, se dividendo bene stimo, 
che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso 
amor nasce in tre modi in vostro limo.                         114

È chi, per esser suo vicin soppresso, 
spera eccellenza, e sol per questo brama 
ch’el sia di sua grandezza in basso messo;               117

è chi podere, grazia, onore e fama 
teme di perder perch’altri sormonti, 
onde s’attrista sì che ‘l contrario ama;                         120

ed è chi per ingiuria par ch’aonti, 
sì che si fa de la vendetta ghiotto, 
e tal convien che ‘l male altrui impronti.                       123

Questo triforme amor qua giù di sotto 
si piange; or vo’ che tu de l’altro intende, 
che corre al ben con ordine corrotto.                            126

Ciascun confusamente un bene apprende 
nel qual si queti l’animo, e disira; 
per che di giugner lui ciascun contende.                     129

Se lento amore a lui veder vi tira 
o a lui acquistar, questa cornice, 
dopo giusto penter, ve ne martira.                                 132

Altro ben è che non fa l’uom felice; 
non è felicità, non è la buona 
essenza, d’ogne ben frutto e radice.                             135

L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, 
di sovr’a noi si piange per tre cerchi; 
ma come tripartito si ragiona,

tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».                        139

PARAFRASI

Ricorda, lettore, se mai ti ha sorpreso la nebbia in montagna così da non farti vedere nulla come una talpa con gli occhi coperti dalla pelle, come il sole penetra debolmente attraverso i vapori umidi e spessi quando questi iniziano a diradarsi;

e la tua immaginazione potrà facilmente comprendere come io rividi all'inizio il sole, che era ormai vicino al tramonto.

Così, adeguando i miei passi a quelli fidati del mio maestro, uscii fuori da quel fumo e rividi i raggi solari, già vicini all'orizzonte.

O immaginazione, che talvolta ci estrani da quello che ci accade intorno al punto che uno non si accorge neppure che suonano mille trombe, chi ti genera se non trai origine da una sensazione? Ti genera una luce che nasce nel Cielo, di per sé o per la volontà divina che la porta verso la Terra.

Nella mia immaginazione apparve la figura di colei (Progne), empia, che si trasformò nell'uccello che più si diletta a cantare (usignolo);

progne
Progne davanti a Tereo con la testa del figlio Iti in un dipinto di Pieter Paul Rubens


e qui la mia mente si concentrò a tal punto che dall'esterno non proveniva nulla che fosse in grado di distogliermi.

Poi nella mia profonda fantasia vidi un uomo crocifisso (Aman), con aspetto pieno di amaro disdegno, che moriva in questo modo;

intorno a lui c'era il grande re Assuero, sua moglie Ester e il giusto Mardocheo, che fu così integro nelle parole e nelle azioni.

E non appena questa immagine svanì di per se stessa, come una bolla che viene meno perché sotto di essa non c'è più acqua, apparve nella mia mente una fanciulla che piangeva disperata, e diceva: «O regina (Amata), perché a causa della tua ira hai voluto distruggerti?


turno
Enea sconfigge Turno e sposa Lavinia di Luca Giordano


Ti sei suicidata per non perdere Lavinia; ora mi hai davvero perduta! Io sono qui che mi addoloro, madre, per la tua rovina prima che per quella di altri».

Come il sonno si interrompe, quando d'improvviso una luce colpisce gli occhi chiusi, così che esso scompare gradualmente poco alla volta;

così la mia immaginazione cessò non appena il viso fu colpito da una luce, assai più intensa di quella cui siamo abituati.

Io mi giravo per vedere dove mi trovavo, quando una voce disse: «Qui si sale» ed essa mi distolse da ogni altro intento;

e mi riempì di un tale desiderio di guardare chi stesse parlando, che non si sarebbe mai quietato senza soddisfarlo.

Ma la mia facoltà visiva era insufficiente a questo, come lo sarebbe a guardare il sole che abbaglia i nostri occhi e non ci permette di vederlo per troppa luminosità.

«Questo è uno spirito divino (un angelo), che senza bisogno di pregarlo ci indirizza sulla via per salire e col suo fulgore cela il proprio aspetto.

Si comporta con noi come l'uomo fa con se stesso; infatti, chi vede il bisogno e aspetta di essere pregato, si prepara malignamente a negare il suo aiuto.

Ora affrettiamoci a raccogliere il suo invito; cerchiamo di salire prima che faccia buio, poiché dopo sarebbe impossibile prima che il giorno ritorni».

Così disse il mio maestro, e insieme a lui volsi i miei passi a una scala; e non appena fui sul primo gradino, sentii vicino al viso un battito d'ali e un soffio di vento, mentre una voce diceva: 'Beati i mansueti, che sono privi di ira malvagia!'.

Gli ultimi raggi del sole che è seguito dalla notte erano tanto alti sopra di noi che le stelle apparivano da molti lati.

Io dicevo fra me e me: 'O mia virtù, perché mia abbandoni così?', poiché mi sentivo venir meno la forza delle gambe.

Noi eravamo là dove la scala non saliva oltre, ed eravamo fermi come una nave giunta all'approdo.

Io aspettai un poco, per sentire qualcosa di nuovo in quella Cornice; poi mi rivolsi indietro al mio maestro e dissi: «Dolce padre mio, dimmi, quale colpa si sconta nella Cornice dove ci troviamo? Se i piedi stanno fermi, non cessi il tuo insegnamento».

E lui a me: «Qui si espia l'amore del bene, quando è mancante del suo dovere; qui si ribatte il remo che fu troppo lento in vita.

Ma affinché tu comprenda ancora più chiaramente, rivolgi a me la tua attenzione e avrai qualche buon frutto dalla nostra sosta».

Cominciò: «Né il Creatore (Dio), nè alcuna creatura, figliolo, fu mai senza amore, o naturale o d'elezione, e lo sai bene.

L'amore naturale è sempre corretto, mentre l'altro può errare perché rivolto a un oggetto sbagliato, oppure per vigore scarso o eccessivo.

Finché l'amore è diretto verso il primo bene (Dio) ed è equilibrato verso gli altri (i beni terreni), non ci può essere alcun piacere peccaminoso;

ma quando si indirizza al male o corre al bene con minore o maggiore sollecitudine di quanto dovrebbe, allora la creatura opera contro il suo Creatore (pecca).

Da ciò puoi capire che l'amore necessariamente in voi è causa di ogni virtù e di ogni azione meritevole di essere punita.

Ora, poiché l'amore non può mai agire contro la salvezza del proprio soggetto, le creature sono sicure rispetto all'odio verso se stesse;

e poiché nessuna creatura può essere separata da Dio né stare per se stessa, è impossibile odiare Dio.

Resta, se la mia classificazione è esatta, che l'amore mal diretto vuole il male del prossimo; e questo amore nella vostra natura nasce in tre modi diversi.

Vi è chi spera di primeggiare calpestando il suo vicino, e solo per questo desidera che quello perda la sua grandezza;

vi è chi teme di perdere potere, favore, onore e fama se un altro lo supera, per cui si rattrista al punto da desiderare l'opposto;

e vi è chi sembra adombrarsi per aver ricevuto un'offesa al punto di desiderare la vendetta, e quindi predispone il male altrui.

Questo triplice amore è punito nelle Cornici sottostanti; ora voglio che tu pensi all'altro, che corre al bene in modo sbagliato.

Ognuno concepisce in modo confuso un bene supremo, tale da soddisfare l'anima, e lo desidera; ognuno cerca quindi di raggiungerlo.

Se siete indotti a cercarlo o a raggiungerlo con un amore troppo debole, questa Cornice ve ne fa scontare la giusta pena, dopo il pentimento.

Vi sono altri beni che non rendono felice l'uomo; non è la vera felicità, non è la buona essenza che è frutto e radice di ogni bene.

L'amore che si abbandona eccessivamente a questi beni (terreni) è punito nelle tre Cornici soprastanti; ma non ti dico in che modo esso è tripartito, in modo che tu lo ricerchi di tua iniziativa».

AUDIO

Eugenio Caruso - 22-12-2020


Tratto da

1

www.impresaoggi.com