la donna più felice, più cara agli dei, e toccherò le stelle.
o se di qualcosa avrò paura, sarà per il mio sposo.
stai per commettere e, finché lo puoi, evita questo crimine!".
mentre la passione, sconfitta, già le voltava le spalle.
quando scorse il figlio di Esone e la fiamma sopita si riaccese.
d'ammirare un viso umano, tanto da non sapersene staccare.
ma dovrai mantenere le promesse allora". Sull'altare di Ècate,
sul successo della propria rischiosissima impresa giura.
ne apprende l'uso e tutto lieto si ritira nella tenda.
disponendosi sulle alture. Il re in persona, vestito di porpora,
s'asside in mezzo alla sua scorta, unico con lo scettro d'avorio.
rombano quelle gole arroventate. Ma il figlio di Esone
e frammisti a fumo riempiono il luogo di muggiti.
Gelano di paura i Minii. Lui, senza avvertire le vampate
dell'aratro per fendere quel campo che ignorava il vomere.
gli infondono coraggio. E lui allora da un elmo di bronzo
prende denti di serpente e li sparge nei solchi del campo.
e i denti fecondati crescono formando nuovi corpi.
e, per prodigio maggiore, nascono armate e scuotono le armi.
per la paura si perdono d'animo e sbiancano in volto.
recita ancora una formula e ricorre alle sue arti segrete.
cadendo in una lotta fratricida. Esultanti gli Achei
si stringono al vincitore e fanno a gara per abbracciarlo.
ti frena il pudore. Eppure vorresti, sì, abbracciarlo,
ma ti trattieni dal farlo per rispetto al tuo nome.
e ringrazi i sortilegi e gli dei da cui provengono.
era l'orrendo custode dell'albero su cui splendeva il vello.
così con la sua sposa toccò trionfante il porto a Iolco.
Qui, nell'Emonia, per il ritorno dei figli recavano offerte
i vecchi genitori, stemprando sul fuoco
manciate d'incenso; e per sciogliere i voti cadevano le vittime
con le corna fasciate d'oro. Ma fra i devoti mancava Esone,
stremato dalla vecchiaia e ormai alle soglie della morte.
Disse allora Giasone: "Sposa mia, a cui devo, lo riconosco,
la mia salvezza, è vero che tutto m'hai dato e che i tuoi meriti
sono tali e tanti da non potersi immaginare,
ma se è possibile (e cosa non possono i tuoi incantesimi?),
anni togli alla mia vita e aggiungili a quella di mio padre!".
E non seppe frenare il pianto. Commossa da quella pia preghiera,
Medea, pur d'animo così diverso, pensa al padre abbandonato;
ma senza rivelare i propri sentimenti gli ribatte:
"Quale empietà ti è mai uscita dalla bocca, sposo mio?
Credi ch'io possa trasferire a un altro una parte della tua vita?
Ecate me ne guardi: ingiusto è ciò che chiedi. Cercherò
però di farti un dono più grande di quello che chiedi, Giasone.
Con le mie arti, non con i tuoi anni, tenterò di prolungare
la vita di mio suocero, purché la dea triforme
acconsenta e m'assista in questa smisurata e folle impresa".
Mancavano tre notti perché la falce lunare si chiudesse
in un cerchio perfetto. Quando la luna rifulse piena
e con tutto il fulgore del suo disco si volse verso la terra,
Medea uscì di casa indossando una veste sciolta,
a piedi nudi e capo scoperto, i capelli sparsi sulle spalle,
e nel cuore della notte, in quel silenzio di tomba, senza meta,
sola si mise a vagare. Una quiete profonda assopiva
uomini, uccelli e fiere. Non un brusio fra le siepi;
tacciono immobili le fronde, tace l'aria umida;
palpitano solo le stelle. E a loro lei tende le braccia,
gira tre volte su sé stessa, tre volte spruzza i capelli
con acqua di fiume, tre volte spalanca la bocca
in grida lamentose e, caduta in ginocchio sulla dura terra:
"O Notte," invoca, "fedele custode di misteri; astri d'oro,
che a fianco della luna vi alternate ai bagliori del giorno;
e tu, Ecate tricipite, che della mia impresa sei conscia
e porgi aiuto agli incantesimi e all'arte dei maghi;
o Terra, che ai maghi procuri erbe prodigiose;
e voi brezze, venti e monti, voi fiumi e laghi,
dèi tutti dei boschi, dèi tutti della notte, voi tutti assistetemi!
Grazie a voi, quando voglio, i fiumi tornano, fra lo stupore
delle rive, alla loro sorgente; per incanto sconvolgo il mare
in bonaccia, placo quello in burrasca, dirado le nubi
e le addenso, allontano i venti o li sollecito;
recitando le mie formule squarcio la gola alle vipere,
dalla loro terra sradico e smuovo pietre vive,
querce e selve, ordino ai monti di tremare,
al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri.
A me attiro anche te, Luna, sebbene i bronzi di Tèmesa
t'allevino l'agonia; e anche il cocchio di mio nonno impallidisce
ai miei sortilegi, e impallidisce l'Aurora con i miei veleni.
Voi m'avete soffocato le fiamme dei tori, aggiogato
all'aratro ricurvo i loro colli insofferenti;
voi avete spinto gli esseri nati dal serpente a battersi
fra loro, avete addormentato il guardiano insonne; eludendo
la sua vendetta, avete rimesso l'oro alle città della Grecia.
Ora occorrono filtri, perché la vita di un vecchio si rinnovi
e recuperi la gioventù, tornando a fiorire.
E voi me li darete. Non hanno brillato invano gli astri,
non m'attende invano un cocchio aggiogato a draghi alati!".
E un cocchio sceso dal cielo era lì ad aspettarla.
Appena lei vi salì ed ebbe accarezzato il collo imbrigliato
di quei draghi e con le mani n'ebbe scosso le redini leggere,
fu trasportata in cielo e, scorta sotto di sé la tessala Tempe,
fece calare i serpenti sui luoghi che aveva fissato.
Esaminò le erbe che crescono sull'Ossa, quelle in cima al Pelio,
all'Otri, al Pindo e sull'Olimpo che sovrasta il Pindo:
quelle che servivano in parte le strappò dalle radici,
in parte le recise con la lama curva d'una falce.
Molte ne scelse anche sulle sponde dell'Apìdano,
molte su quelle dell'Anfriso, né l'Enìpeo gliene fu avaro;
e per alcune, con gli argini del lago Bebe, ricchi di giunchi,
contribuirono pure il corso del Peneo e dello Sperchìo.
Colse infine ad Antèdone in Eubea erba vivificante,
non ancora nota per aver mutato il corpo di Glauco.
E ormai nove giorni e nove notti l'avevano vista esplorare
tutte quelle campagne sul cocchio trainato dai draghi alati.
Fece ritorno. Solo un profumo d'erbe aveva sfiorato i draghi:
eppure persero la loro pelle invecchiata dagli anni.
Tornata, si fermò fuori della porta di casa
e altro tetto non volle che il cielo, evitò di giacere con gli uomini
ed eresse due altari di zolle, quello a destra
dedicato ad Ecate, l'altro a Giovinezza.
Dopo averli inghirlandati di verbene e fronde campestri,
scavò non lontano due buche nella terra
e fece un sacrificio: affondò un coltello in gola a un'agnella
di pelo nero e inondò di sangue l'incavo delle fosse.
Poi, spargendovi sopra coppe di limpido vino
e altrettante di latte tiepido, con le sue formule
magiche evocò le divinità del sottosuolo,
e implorò il re delle ombre, con la sposa da lui rapita,
di non privare anzitempo della vita le membra di quel vecchio.
Dopo averli placati col lungo mormorio delle sue preghiere,
ordinò che il corpo stremato di Esone fosse portato
all'aperto, lo immerse col suo canto in un sonno profondo
e lo distese, come un morto, sopra un letto d'erba.
Ordinò a Giasone e alla servitù di allontanarsi e a tutti
intimò di non guardare per non profanare quel rito occulto.
All'ordine si dispersero; e lei, Medea, con i capelli al vento,
come una Baccante, gira intorno agli altari che fiammeggiano,
immerge torce di sterpi nel sangue nero delle fosse
e, così intrise, le accende al fuoco degli altari; tre volte
purifica il vecchio con la fiamma, tre con l'acqua, tre con lo zolfo.
Intanto dentro una pentola, posta sul fuoco, bolle e ribolle
un filtro potente, che fermenta in una schiuma biancastra.
Lì Medea cuoce radici tagliate nella valle dell'Emonia
insieme a fiori, semi ed essenze eccitanti.
Vi aggiunge sassi che vengono dall'estremo Oriente,
e sabbia lavata dalla risacca dell'Oceano;
e ancora brina raccolta in una notte di luna piena,
ali immonde, con l'intera carcassa, di vampiro,
viscere di lupo mannaro, che è in grado di mutare il suo muso
selvaggio in volto d'uomo; e non manca nemmeno
la pelle fine e squamosa di un chelidro del Cìnife
e il fegato di un cervo nel fiore degli anni; al tutto aggiunge
testa e becco di cornacchia vissuta nove secoli.
Quando con queste cose e mille altre senza nome
ebbe la straniera approntato il dono promesso al vegliardo,
con un ramo di pacifico ulivo da tempo essiccato
rimestò il tutto mescolandolo dalla superficie al fondo.
Ed ecco che il vecchio legno, girato nella pentola bollente,
dapprima rinverdisce e poi di lì a poco si copre di foglie
e all'improvviso si carica d'olive mature.
Così ovunque il fuoco abbia fatto schizzare schiuma dalla bocca
della pentola e gocce calde sian cadute a terra, il suolo
si fa primaverile e spuntano fiori e morbidi letti d'erba.
Come lo vede, Medea impugna la spada, recide la gola
al vegliardo e, dopo aver lasciato uscire il sangue viziato,
lo sostituisce col suo filtro. Quando Esone se n'è imbevuto,
attraverso la bocca o la ferita, si dilegua la canizie
e barba e capelli riacquistano in breve il loro colore scuro.
Fugge sconfitta la macie, scompaiono pallore e sfinimento,
con il rassodarsi del corpo si colmano i solchi delle rughe
e l'aspetto rifiorisce. Esone si guarda sbalordito
e ricorda d'essere stato così solo quarant'anni prima.
Medea ringiovanisce Esone di Nicolas Andre Monsiau
Dall'alto vede questo inverosimile prodigio Bacco
e comprendendo di poter restituire alle proprie nutrici
così la giovinezza, ne sottrae il segreto a Medea.
Ma per non rinunciare alle sue arti, la donna del Fasi finse
di odiare il marito e fuggì alla reggia di Pèlia chiedendo asilo.
Anche costui era fiaccato dal peso degli anni e così lei
fu accolta dalle figlie. In poco tempo astutamente
se le ingraziò con la malia di una falsa amicizia;
ed enumerando i propri meriti, citò, fra i maggiori, quello
d'aver sottratto Esone allo sfacelo; insistendo sull'argomento
riuscì a insinuare nelle fanciulle la speranza
di poter ringiovanire con quelle arti il loro genitore.
E questo chiedono, invitandola a fissare lei stessa il compenso.
Medea per un po' tace, quasi incerta se accettare o no,
e, affettando un'aria grave, le tiene col cuore in sospeso.
Infine, dopo averglielo promesso: "Perché abbiate più fiducia
nel dono che vi faccio," dice, "prima trasformerò coi miei filtri
il più vecchio montone, che guida il vostro gregge, in agnello".
Subito, tratto per le corna attorte intorno al solco delle tempie,
le viene condotto un montone stremato da un'infinità d'anni.
Con un coltello d'Emonia la maga trafigge la gola flaccida
dell'animale (solo qualche goccia di sangue macchia la lama),
poi, insieme ai suoi succhi di rara virtù, ne immerge il corpo
in una caldaia di bronzo. I succhi rimpiccioliscono gli arti,
corrodono le corna e con le corna gli anni,
così che dal cuore della caldaia si ode un tenero belato.
È un lampo: fra lo stupore generale un agnello balza fuori
e saltellando corre via in cerca di poppe piene di latte.
Attonite le figlie di Pèlia, appurato che c'è da fidarsi
della promessa, insistono con foga ancor maggiore.
Tre volte Febo aveva tolto il giogo ai suoi cavalli immersi
nel fiume d'Iberia e alla quarta notte scintillavano radiose
le stelle, quando la perfida figlia di Eèta mise a bollire
sul fuoco ardente acqua fresca ed erbe senza alcun potere.
E già il re, con il corpo abbandonato, e tutte le sue guardie
erano in preda a un sonno simile alla morte, un sonno
infuso per incanto in virtù della magia che hanno le parole.
Come ordinato, le figlie varcano la soglia con lei
e attorniano il letto. "Perché ora esitate e non agite?"
dice Medea. "Impugnate le spade e cavate il sangue invecchiato,
così ch'io possa riempire le vene esangui di giovani umori.
Nelle vostre mani sono la vita e la gioventù sua:
se avete un po' d'affetto e non rimuginate la speranza invano,
rendete a vostro padre questa grazia, cacciatene la vecchiaia
con la forza e fate uscire la sanie affondando il pugnale."
A questi sproni sono le più devote a farsi empie per prime,
e per evitare un delitto, lo commettono. Però nessuna
ha il coraggio di guardare mentre colpisce: distolgono gli occhi
e di spalle infliggono con mano crudele ferite alla cieca.
Malgrado grondi sangue, Pèlia riesce a levarsi sui gomiti,
mezzo squartato tenta di alzarsi dal letto
e tendendo fra tanti pugnali le braccia esangui:
"Che fate, figlie mie?" grida. "Chi mai vi arma contro la vita
di vostro padre?". Quelle si sentono mancare il cuore e le braccia.
E avrebbe detto di più, se Medea non gli avesse troncato in gola
la voce, affogandolo, così straziato, nell'acqua in fiamme.
>
L'assassinio di Pelia dipinto da Georges Moreau de Tours
Ma se non si fosse levata in volo con i suoi serpenti alati,
non avrebbe evitato la vendetta. Così fuggì nello spazio,
sorvolando gli anfratti del Pelio, dove vive il figlio di Fìlira,
l'Otri e i luoghi famosi per la vicenda del mitico Cerambo,
che al tempo di Deucalione, quando la terraferma fu sommersa
dalla piena del mare, riuscì, sollevato a volo in cielo
grazie alle ninfe, ad evitarne i flutti senza esserne travolto.
A sinistra Medea si lasciò Pìtane, in Eolia,
e l'effigie dell'enorme serpente trasformato in pietra;
il bosco dell'Ida, dove, sotto false spoglie di cervo,
Bacco nascose il giovenco rubato da suo figlio,
e dove sotto un velario di sabbia è sepolto il padre di Còrito;
le campagne che Mera atterrì con i suoi improvvisi latrati;
la città di Eurìpilo, dove alle donne di Coo, quando l'esercito
di Ercole lasciò l'isola, spuntarono le corna;
e Rodi sacra a Febo, e Iàliso abitata dai Telchini,
i cui occhi corrompevano ogni cosa col solo sguardo,
tanto che Giove indignato li travolse coi flutti del fratello.
E oltrepassò le mura di Cartea, nella remota Ceo,
dove Alcidamante si sarebbe un giorno stupito che dal corpo
della figlia potesse nascere una placida colomba.
Vide poi il lago d'Irie e la vallata di Cicno a Tempe,
che l'apparizione di un cigno rese famosa. Qui Fìllio,
per accontentare il ragazzo, aveva ammaestrato come dono
alcuni uccelli e un leone feroce; costretto a domare un toro,
domò anche quello, ma poi, sdegnato che respingesse il suo amore,
alla smania del toro come dono supremo, si rifiutò.
E Cicno impermalito: "Rimpiangerai di non avermelo dato!"
urlò, gettandosi giù da un picco. Si pensò che fosse caduto:
mutato invece in cigno, si librava in aria con ali di neve.
Ma Irie, la madre, non sapendo che si fosse salvato,
sciogliendosi in lacrime formò un lago che porta il suo nome.
Lì vicino c'è Pleurone, dove con ali trepidanti
Combe, l'Ofìade, sfuggì ai colpi dei figli.
Medea poi vide l'isola di Calauria, consacrata a Latona,
che ricorda la metamorfosi in uccello di un re e di sua moglie.
A destra c'è Cillene, dove come una bestia Menèfrone
si sarebbe un giorno accoppiato con la madre.
In lontananza scorse il Cefiso in lacrime per la sorte
del nipote trasformato da Apollo in una foca tumida,
e la dimora di Eumelo in lutto per il figlio che solca l'aria.
Infine, sull'ala dei serpenti, giunse a Èfire di Pirene:
qui, secondo un'antica leggenda, corpi d'esseri umani nacquero,
ai primordi del mondo, dai funghi spuntati con la pioggia.
E qui avvenne che la nuova moglie di Giasone fu bruciata
dai veleni di Medea, e i due mari videro la reggia in fiamme.
Dopo che il sangue dei propri figli lordò la sua spada sacrilega
per assurda vendetta, Medea si sottrasse all'arma di Giasone.
Medea uccide i figli di Eugene Delacroix
Portata via dai draghi del Sole, si rifugiò
nella rocca di Atene, che aveva visto volare insieme
la giustissima Fene e il vecchio Perifante,
e librarsi con ali novelle la nipote di Polipèmone.
L'accolse Egeo, solo per questo degno di condanna;
e ospitarla non basta: a lei si unì col vincolo del matrimonio.
Ed ecco che, dopo aver pacificato col suo valore l'Istmo
fra i due mari, giunge Teseo, ancora sconosciuto al padre.
Per farlo morire, Medea prepara con l'aconito,
che aveva portato con sé dalle terre di Scizia, una pozione.
È un'erba, questa, che si dice nata dai denti del cane
di Echidna. C'è una spelonca il cui ingresso è occultato
dalla foschia: da qui, lungo una via scoscesa, Ercole, l'eroe
di Tirinto, trascinò fuori, stretto in catene d'acciaio, Cerbero,
che s'impuntava e storceva gli occhi non sopportando
gli accecanti raggi del sole: dibattendosi come una furia
per la rabbia, il mostro riempì il cielo di un triplice latrato,
cospargendo l'erba dei campi di bava bianchiccia.
E si pensa che questa, coagulandosi, trovasse alimento
nella fertilità del suolo e divenisse un'erba velenosa,
che nasce rigogliosa in mezzo alle rocce, ed è chiamata per questo
acònito dai contadini. E ingannato dalla moglie, fu proprio
Egeo, il padre, a porgere al figlio la pozione, come a un nemico.
Ignaro Teseo aveva già afferrato la coppa che gli offriva,
quando sull'elsa d'avorio della sua spada Egeo scorse l'emblema
della propria stirpe, e a forza gli strappò dalla bocca il maleficio.
Medea sfuggì alla morte dentro una nube sorta per incantesimo.
Malgrado la gioia che il figlio fosse sano e salvo, Egeo
era ancora inorridito che solo per un caso
non si fosse commesso un delitto così mostruoso. Accende fuochi
sugli altari, colma d'offerte gli dei; e sui colli muscolosi
dei buoi, con le corna fasciate di bende, si abbattono le scuri.
Mai rifulse giorno di maggior festa per i discendenti
di Eretteo, così si dice. Dignitari e gente comune
festeggiano a banchetto e col talento ispirato dal vino
intonano canti: "Grandissimo Teseo, per l'uccisione
del toro cretese ti ammira Maratona, e se a Cromione
il contadino ara la terra senza paura di cinghiali,
questo è merito ed opera tua. Grazie a te la terra d'Epidauro
vide soccombere, armato di clava, il figlio di Vulcano,
la piana del Cefiso il crudele Procruste,
ed Elèusi, votata a Cerere, vide la morte di Cercione.
Morto è quel Sini che abusava della sua forza fuor di misura,
che era in grado di piegare tronchi, e curvava la cima dei pini
sino a terra per fare a brandelli le membra delle vittime.
Sicura e aperta è la strada per Alcàtoe, roccaforte dei Lèlegi,
da quando hai steso Scirone: alle ossa disperse del brigante
nega un ricetto la terra, lo nega il mare, e si racconta
che, a lungo sballottate, si siano col tempo pietrificate
in scogli, e sono gli scogli a cui è rimasto il nome di Scirone.
Se volessimo enumerare i tuoi anni e i tuoi meriti,
le gesta supererebbero gli anni. Per te, fortissimo eroe,
facciamo pubblici voti, e in tuo onore beviamo questo vino".
Di applausi unanimi e preghiere in suo favore risuona la reggia
e non vi è angolo in tutta la città dove alberghi la tristezza.
Tuttavia (è vero che la felicità perfetta non esiste
e che qualche inquietudine si frappone sempre alla gioia) Egeo
non può godersi in pace il piacere di riavere il figlio con sé.
Minosse prepara la guerra; e se è forte d'uomini e navi,
ben più determinato è nella sua ira paterna e con le armi
intende vendicare per giustizia la morte di Andrògeo.
Ma prima cerca alleanze e in volo con la sua flotta,
ritenuta imbattibile, percorre a destra e a manca il mare.
Così lega a sé Anafe e il regno di Astipalea,
la prima con le promesse, il secondo con la forza;
e così l'umile Mìcono, l'isola argillosa di Cimolo,
la fiorente Siro, Citno e l'uniforme Serifo,
la marmorea Paro e Sifno, che fu tradita dalla scellerata
Arne: ottenuto l'oro che aveva con avidità chiesto,
costei fu mutata in un uccello che sempre l'oro predilige,
in una gazza con le zampe nere, ammantata di penne nere.
Olìaro, Dìdime, Teno ed Andro, con Gìaro e Pepareto,
fiorente di rigogliosi ulivi, rifiutarono invece appoggio
alle navi di Cnosso. Piegando allora a sinistra,
Minosse si dirige a Enòpia, il regno di Èaco.
Enòpia era il nome antico, ma proprio Èaco
lo cambiò in Egina, dal nome di sua madre.
La gente accorre in folla, smaniosa di conoscere un uomo
così famoso. Gli vanno incontro i figli del re:
Telamone, il più giovane Peleo, e Foco, il terzogenito.
Attardato dal peso degli anni, anche Èaco
si affaccia e gli chiede ragione della sua venuta.
Richiamato al suo strazio di padre, Minosse,
re di cento popoli, sospira e così risponde: "Appoggia,
ti prego, questa guerra che intraprendo per mio figlio.
Partecipa a questa santa impresa: una tomba voglio vendicare".
Ma il nipote di Asopo: "Chiedi l'impossibile: la mia città
non può farlo", dice. "Non c'è terra più di questa legata
ai discendenti di Cècrope: questi fra noi sono i patti".
Triste se ne va Minosse: "Questi patti ti costeranno caro!"
gli ribatte; ma ritiene più conveniente minacciare guerra
che farla e logorare anzitempo lì le sue forze.
La flotta cretese è ancora in vista delle mura di Enòpia,
quando una nave ateniese arriva a vele spiegate
ed entra nel porto amico. Ne sbarca Cèfalo,
che reca un messaggio della sua patria. I figli di Èaco,
pur non avendolo visto da molto tempo,
lo riconoscono, gli stringono la mano e l'accompagnano
nella dimora paterna. L'eroe, degno di ammirazione
per l'aspetto che ancora recava i segni dell'antica bellezza,
fa il suo ingresso tenendo in mano un ramo d'ulivo
e avendo ai fianchi, lui più anziano, i due figli
di Pallante, i giovani Clito e Bute. Dopo essersi scambiati
i convenevoli consueti all'inizio di ogni incontro, Cèfalo
fa l'ambasciata a nome dei discendenti di Cècrope:
chiede aiuto, ricorda il patto d'alleanza stretto fra gli anziani,
e aggiunge che minacciata è la sovranità della Grecia intera.
Come termina di perorare con arte la causa affidatagli,
Èaco, con la sinistra posta sull'impugnatura dello scettro:
"Non chiedete aiuto," gli risponde, "ma prendetevelo, Ateniesi!
Non esitate a considerare vostre tutte le forze
che quest'isola possiede, e (speriamo che questo mio stato duri!)
le risorse non mancano: ho soldati abbastanza per me e il nemico.
Grazie agli dei, questo è un periodo felice e non ammette rifiuti".
E Cèfalo: "Speriamo che così sia! Auguro alla tua città
di diventare ancor più popolosa. Arrivando mi ha rallegrato
che incontro mi venisse una gioventù così bella,
così simile d'età. Eppure direi che manchino tanti
che vidi quando fui accolto nella vostra città l'altra volta".
Èaco geme e con voce triste gli risponde:
"A dolorosi inizi è seguito un miglior destino.
Oh, potessi dirvi di questo senza ricordare quelli!
Riandrò per ordine, ma per non tenervi a lungo in sospeso:
morti, ossa e cenere sono quelli che tu ricordi e non vedi.
E quanta parte delle mie fortune si è persa con loro!
Una peste tremenda, inflitta dall'ira di Giunone per l'astio
che un luogo portasse il nome della rivale, si abbatté sul popolo.
Finché parve un male naturale e oscura ci fu la causa
che provocava quell'immane strage, si lottò con l'arte medica;
ma il flagello prevalse su ogni cura, svilita dall'impotenza.
All'inizio una caligine densa calò sulla terra
dal cielo, che in quella cappa di nubi concentrò un'afa spossante,
e per tutto il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte
il suo disco congiungendo le corna, e decrescendo ad intaccarlo,
con le sue folate mortali soffiò un Austro soffocante.
Sappiamo che il contagio si propagò anche a fonti e laghi,
e che migliaia di serpenti, errando per i campi desolati,
contaminarono l'acqua dei fiumi coi loro veleni.
Fu con una strage di cani, uccelli, pecore, buoi e animali
selvatici che all'improvviso il morbo mostrò la propria violenza.
Con sgomento, durante l'aratura, il contadino per disgrazia
vede stramazzare e accasciarsi tra i solchi i tori più forti.
Alle greggi di pecore, che emettono lamentosi belati,
la lana cade da sola e i corpi si riempiono di piaghe.
Il cavallo, un tempo famoso per il suo ardore nell'arena,
si fa indegno di vittoria e, dimentico degli onori trascorsi,
geme nella sua stalla in attesa di una morte ingloriosa.
Il cinghiale non pensa più ad infuriarsi, la cerva a cercare
scampo nella fuga, gli orsi ad aggredire lo stuolo degli armenti.
Tutto languisce: nei boschi, sui campi, per le strade
giacciono corpi in sfacelo; da miasmi fetidi è appestata l'aria.
Ed è incredibile, neppure i cani, neppure gli uccelli ingordi
o i lupi grigi toccano quei corpi in decomposizione,
che con le loro esalazioni infette estendono l'epidemia.
Poi, con effetti ancor più gravi e infami, la peste giunge a colpire
i contadini e a imperversare fin tra le mura della città.
Prima s'infiammano i visceri, e sintomo della fiamma che cova
è un rossore della pelle e l'affanno febbrile dell'alito;
la lingua si fa gonfia e rugosa, la bocca inaridita
si spalanca all'afa del vento e in gola entra quell'aria malsana.
Non si tollera giaciglio, né veste quale sia;
ci si stende col ventre indolenzito sulla terra, e non è il suolo
a rinfrescare il corpo, ma il corpo ad arroventare quello.
Non c'è chi possa mitigare il male: il flagello scoppia spietato
anche fra i medici, che rimangono vittime dell'arte loro.
Chi è più a contatto col malato e con più tenacia l'assiste,
più in fretta cade in braccio alla morte. Svanita ogni speranza
di guarire, accertato che l'esito del morbo sarà la morte,
la gente si abbandona ai propri istinti, trascurando ciò che giova:
tanto, nulla può giovare. Lasciato ogni ritegno, gli uni e gli altri
si attaccano alle fonti, ai fiumi, ai pozzi più capaci, e a furia
di bere, la sete non si estingue che con la loro vita.
Così molti, non riuscendo ad alzarsi per il peso,
muoiono annegati: eppure c'è chi continua a bere!
Tanto insopportabile, fastidioso è il letto per quegli infelici,
che ne balzano fuori o, se non hanno la forza d'alzarsi,
si rotolano giù per terra, e tutti fuggono, fuggono via
di casa. A ognuno la propria dimora sembra foriera di lutti,
ed essendo ignota la causa, s'incrimina l'angustia del luogo.
Avresti potuto vedere delle larve errare per le strade,
finché si reggevano in piedi, ed altri piangere distesi a terra
e stralunare gli occhi stanchi, con un estremo sussulto:
tendevano le braccia verso gli astri del cielo opprimente,
esalando l'anima là dov'erano sorpresi dalla morte.
Quale emozione provai allora? E quale avrebbe dovuta essere,
se non l'odio per la vita e l'ansia di spartire la sorte loro?
Ovunque si volgessero gli occhi, c'erano a terra
corpi inanimati, come mele marce cadute
quando si agitano i rami, o ghiande quando si scuote il leccio.
Vedi, là di fronte, in cima a quella lunga scalinata, quel tempio?
È dedicato a Giove. Chi, senza averne riscontro, non ha offerto
incenso a quegli altari? Quante volte avvenne
che raccolto in preghiera, un uomo per la moglie, un padre
per il figlio, spirasse davanti a quegli altari impassibili
e gli si trovasse in mano un po' d'incenso ancora da ardere!
Quante volte avvenne che, mentre il sacerdote pronunciava
la formula di rito, spruzzando vino in mezzo alle corna, i tori
condotti al tempio stramazzassero senza attendere il colpo!
Io stesso stavo sacrificando a Giove per me, per la mia patria
e i miei tre figli, quando la vittima emise un tremendo muggito
e si accasciò all'improvviso senza essere colpita, macchiando
appena il coltello alla gola con qualche goccia di sangue.
Anche i tessuti infetti avevano perso le tracce che rivelano
la volontà degli dei: nelle viscere s'era infiltrato il morbo.
Ho visto cadaveri abbandonati davanti alle porte sacre;
proprio davanti agli altari, a rendere più odiosa ancora la morte,
v'è chi con un cappio tronca la sua vita e, scacciando con la morte
il terrore di morire, affretta una fine che incombe spietata.
I corpi dei defunti non sono inumati con le esequie
di rito: troppo anguste sono le porte di città per quel numero;
o insepolti giacciono al suolo o senza onori vengono gettati
in cima ai roghi. Ormai non c'è rispetto che valga: la gente
si azzuffa per un rogo e brucia i propri morti tra le fiamme altrui.
Non c'è chi pianga; senza un conforto vagano le ombre
di padri e figli, di giovani e vecchi: non c'è spazio
per i sepolcri e sufficiente non è la legna per fare fuoco.
Sconvolto da un cumulo così immenso di calamità:
"O Giove," gridai, "se non si tramanda il falso
quando si dice che a Egina, la figlia di Asopo, ti sei unito,
se tu, padre degli dei, non ti vergogni d'essermi genitore,
restituiscimi i miei o spedisci anche me nella tomba!".
E lui con un lampo e un tuono mi diede un segno di assenso.
"Ti sono debitore," dissi allora, "e m'auguro che ciò significhi
la tua benevolenza. Questi presagi li considero un pegno".
Per caso lì vicino, rarissima per la vastità dei rami,
c'era una quercia della specie di Dodona, consacrata a Giove.
Qui noi scorgemmo una fila di formiche in cerca di semi,
che portavano grandi fardelli con la bocca minuta
e seguivano un loro sentiero fra le rughe della corteccia.
Sbalordito dal loro numero: "Tu che sei il migliore dei padri,"
dissi, "colma il vuoto delle mura e dammi altrettanti cittadini".
L'alta quercia fremette e i suoi rami stormirono senza che un alito
di vento li muovesse. Un brivido di spavento percorse
le mie membra e mi si rizzarono i capelli; baciai tuttavia
la terra e la pianta, senza confessare la mia speranza,
ma speravo, accarezzando in cuore i miei voti.
Scende la notte e il sonno invade il corpo sfinito da tanti assilli.
Davanti agli occhi mi appare la stessa quercia,
con altrettanti rami e altrettanti insetti sui rami,
che sembra fremere e agitarsi come prima, facendo cadere
sul campo ai suoi piedi uno stuolo di formiche, e che d'un tratto
queste crescano, diventando man mano sempre più grandi,
e si alzino da terra, rizzandosi in piedi a busto eretto,
e che perdano l'esilità, gran parte delle zampe e il colore
che hanno nero, per assumere nelle membra aspetto umano.
Svanisce il sonno: desto, faccio un fascio delle mie visioni,
lamentando che gli dei non m'aiutino. Ma nella reggia
c'era un grande brusio e mi sembra d'udire voci umane
ormai a me desuete. Mentre mi chiedo se anche queste
non siano un sogno, ecco che Telamone in corsa spalanca le porte
e grida: "Padre, vedrai cose che superano speranza e fede!
Vieni fuori!". Esco, e come mi è parso di vederli in sogno,
tali e quali ora vedo esseri umani in fila, e li riconosco
mentre si fanno avanti a salutare il loro re.
Sciolgo i miei voti a Giove, divido la città e i campi,
lasciati dai contadini scomparsi, fra questi uomini nuovi,
e li chiamo Mirmìdoni, perché il nome ne ricordi l'origine.
L'aspetto fisico l'hai visto; il carattere è sempre quello
che avevano prima: una stirpe parca, resistente alle fatiche,
che con tenacia accumula e mette da parte ciò che accumula.
Saranno questi, tutti uguali per età e per coraggio a seguirti
in guerra, quando l'Euro, che senza affanni qui t'ha condotto,"
(con l'Euro era infatti arrivato) "si sarà mutato in Austro".
Con questi ed altri discorsi riempirono l'intera
giornata. L'ultimo sprazzo di luce fu dedicato a un banchetto,
la notte al sonno. E già era spuntato il sole coi suoi raggi d'oro;
l'Euro soffiava ancora, sbarrando alle vele la via del ritorno.
I figli di Pallante raggiungono Cèfalo, più anziano
di loro, e insieme, Cèfalo e i figli di Pallante, si recano
dal re. Ma costui era ancora immerso in un sonno profondo.
A riceverli sulla soglia viene Foco, uno dei suoi figli;
Telamone e il fratello adunavano intanto truppe per la guerra.
Foco conduce gli eredi di Cècrope all'interno del palazzo,
in un bel luogo appartato, e si siede in loro compagnia.
E vede che il nipote di Eolo stringe in mano un giavellotto,
fatto col legno di una strana pianta e con la punta d'oro.
Prima parla del più e del meno, poi, mentre si conversa, dice:
"Io m'interesso di foreste e di caccia agli animali selvatici,
ed è già un po' che mi chiedo da quale pianta sia tagliata
l'asta che impugni: è chiaro che se fosse frassino,
sarebbe bionda di colore; se corniolo, avrebbe qualche nodo.
Donde venga, non so; ma un'arma da lancio più bella
di questa, i miei occhi non l'hanno ancora vista".
Uno dei due fratelli ateniesi interviene e dice: "L'uso
di quest'arma è ancora più incredibile della sua bellezza:
raggiunge qualunque bersaglio, in una corsa che non è guidata
dal caso, e sporca di sangue, ritorna in volo all'avvio senza aiuti".
Allora davvero il giovane Nereide vuole sapere tutto:
perché l'abbia, donde venga, a chi debba un dono così grande.
Questo chiede, e Cèfalo racconta, ma per vergogna di narrare
a qual prezzo l'abbia avuta, arrossisce, e tormentato dal ricordo
della moglie perduta, con le lacrime agli occhi così comincia:
"Questo giavellotto, o figlio di una dea, chi lo crederebbe?,
mi fa e mi farà piangere a lungo, se a lungo di vivere
mi concede il destino: morte ha inflitto alla mia amata sposa
e a me con lei. Oh, non mi fosse mai stato donato!
La mia Procri, se per caso alle orecchie tue è giunta fama
piuttosto di Oritìa, che fu rapita, era sua sorella;
ma a voler paragonare la bellezza e l'indole delle due,
più degna era lei d'essere rapita. A me l'unì il padre Eretteo;
l'unì a me l'amore. Mi dicevano felice e io lo ero;
forse lo sarei ancora, se l'avessero voluto gli dei.
Era il secondo mese che trascorreva dopo il rito nuziale,
quando un rosso mattino Aurora, scacciate le tenebre, mi vide
sulla cima più alta dell'Imetto sempre in fiore,
mentre ai cervi dalle corna ramose tendevo le reti,
e contro la mia volontà mi rapì. Lasciatemi dire il vero,
con buona pace della dea: sarà incantevole fin che si vuole
col suo roseo viso, sorveglierà il confine fra il giorno e la notte,
si nutrirà con lacrime di nèttare; ma io amavo Procri:
in cuore avevo Procri, sulle labbra solo e sempre Procri.
M'appellavo alla santità delle nozze contratte di recente,
ai primi amplessi, ai vincoli accesi in quel letto abbandonato.
La dea cedette: "Smettila, ingrato, con i tuoi piagnistei:
tienti la tua Procri! Ma se prevede il vero la mia mente,
ti pentirai d'averla voluta!". E irata mi rimandò da lei.
Mentre tornavo, rimuginando l'ammonimento della dea,
cominciai a temere che mia moglie non avesse rispettato
la fedeltà coniugale. La sua bellezza e l'età sua
rendevano attendibile un tradimento, il suo carattere no.
La morte di Procri dipinto da Joao Marques de Olivera
Io però ero stato assente, quella che stavo lasciando
non era esempio di fedeltà, e gli amanti temono ogni cosa.
Decido, a mio tormento, d'indagare, insidiandone fedeltà
e virtù con qualche dono. Asseconda Aurora questi miei sospetti
e muta (credo d'essermene accorto) il mio aspetto.
Irriconoscibile penetro in Atene, la città di Pallade,
ed entro in casa, che proprio non presenta traccia di colpa:
ovunque si vive innocenza ed ansia per il padrone scomparso.
Solo a stento e con mille astuzie riesco ad incontrare la mia sposa.
Come la vidi, rimasi estasiato al punto da scordarmi quasi
il piano d'insidiarla. A fatica mi trattenni dal rivelarle
la verità e dal baciarla, come avrei dovuto.
Era triste (ma nessuna avrebbe potuto di lei triste
essere più bella) e si struggeva di nostalgia per il marito
che le era stato strappato. Pensa che meraviglia
di donna era, o Foco, se il dolore, anche il dolore, l'abbelliva!
Perché raccontare quante volte il suo pudore respinse
i miei approcci? Quante volte mi disse: "Per uno solo
io mi serbo; a lui solo, ovunque sia, riservo il mio amore!".
Per chi, col senno, non sarebbe stata sufficiente questa prova
di fedeltà? Io non m'accontento e mi danno a infliggermi
ferite, promettendole una fortuna per una notte sola,
e infine, a furia di aumentare l'offerta, l'induco ad esitare.
Esplodo: "Per disgrazia hai di fronte un impostore, un adultero,
che in realtà è tuo marito! testimone della tua perfidia!".
Lei niente; vinta dalla vergogna, senza una parola, fuggì
da quella casa insidiosa, da quel marito infame,
e detestando per l'affronto inflittole qualsiasi uomo,
se ne andò a vagare sui monti, per votarsi alla scuola di Diana.
Quando mi vidi abbandonato, un fuoco più violento penetrò
nelle mie ossa: imploravo perdono, ammettendo d'aver sbagliato
e che di fronte a tutti quei doni, se mi fossero stati offerti,
anch'io avrei potuto cedere e commettere la stessa colpa.
Ammesso questo, ed essendosi ormai vendicata lei dell'offesa,
ritornò e con me trascorse in dolce armonia anni d'amore.
E come se donandomi sé stessa non m'avesse dato nulla,
mi regalò un cane, consegnatole dalla sua Diana
con queste parole: "Nella corsa vincerà tutti".
Mi regalò anche un giavellotto che, come vedi, impugno ancora.
Vuoi conoscere la sorte del primo dono?
Ascolta: è un fatto così straordinario da lasciar sbalorditi.
Il figlio di Laio aveva risolto l'enigma che prima
nessuno aveva compreso, e l'ambigua profetessa,
gettatasi nel vuoto, giaceva immemore delle sue ambagi.
Ma è chiaro che la grande Temi non lascia queste cose impunite.
Subito sull'aonia Tebe si abbatté un altro flagello:
una bestia che molta gente di campagna dovette temere
per la vita propria e delle greggi. Noi, giovani dei luoghi accanto,
ci gettammo a cingere di reti tutta quella pianura.
Ma quella con agili balzi scavalcava in un lampo le reti,
passando sopra le funi che le avevamo teso.
Si sguinzagliano i cani, che si lanciano all'inseguimento,
ma lei sfugge e li semina, così veloce che pare un uccello.
Allora tutti mi chiedono in coro Lèlape (questo era il nome
del cane avuto in dono), che già da tempo si dibatteva,
tendendo il collo, per sfilarsi dal guinzaglio che lo tratteneva.
Appena liberato, già ignoravamo dove fosse:
la polvere recava ancora le impronte fresche delle sue zampe,
ma lui era ormai sparito: non spicca più veloce il volo
una lancia, un proiettile scagliato dal vortice di una fionda,
o una freccia sottile che scocca dall'arco di Gortina.
Dalla cima di un colle si domina tutt'intorno la campagna:
vi salgo e di lassù assisto al prodigio di una corsa incredibile,
in cui la belva sembra a volte presa ed altre sgusciar via nell'atto
d'essere ghermita; furba com'è, non fugge in linea retta
per la pianura, ma si sottrae alle fauci dell'inseguitore,
sfrecciando a dritta e a manca per eludere lo slancio del nemico.
E lui le incombe alle spalle, corre come lei, sembra che l'afferri,
ma non l'afferra, e addenta a vuoto l'aria coi suoi morsi.
Stavo già per ricorrere al giavellotto, ma mentre con la destra
lo libravo, mentre tentavo d'inserire le dita nel cappio,
distolsi gli occhi, e quando tornai ad appuntarli laggiù,
prodigio!, in mezzo ai campi vedo due statue di marmo:
una diresti che fugga, l'altra che latri.
Evidentemente un dio decise che nessuno dei due
vincesse l'altro in quella corsa, se mai vi assistette un dio".
A questo punto tacque. "Ma il giavellotto che male ha fatto?"
chiese Foco; e Cèfalo così raccontò che colpe aveva:
"Le gioie, o Foco, sono la fonte del mio dolore: parlerò
prima di quelle. Quanto è dolce ricordare, Foco mio,
il tempo beato in cui, com'è giusto, i primi anni
ero io felice con mia moglie e lei col suo uomo:
le stesse premure per entrambi, gli stessi vincoli d'amore.
Neppure l'unirsi a Giove avrebbe lei preferito al mio amore,
e mai nessuna, fosse pure Venere, avrebbe potuto
sedurre il mio cuore: uguale fiamma ci ardeva in petto.
Nell'ora in cui i primi raggi del sole lambiscono le cime,
io me ne andavo, come fanno i giovani, a caccia nei boschi,
e non permettevo che mi seguissero servitori, cavalli,
cani da fiuto o che fossero stesi grovigli di reti.
Col mio giavellotto ero tranquillo, e quando il mio braccio
era stanco d'uccidere selvaggina, chiedevo il fresco all'ombra
e la brezza che sale dalla brina delle valli.
Cercavo una folata d'aria in mezzo alla calura,
e l'attendevo con ansia per dar ristoro alla fatica.
"Aura, aura, vieni", mi ricordo ero solito cantare;
"portami aiuto, mia diletta, entra nel mio petto
e allevia, ti prego, come sai fare tu, l'ardore che mi brucia".
Forse avrò aggiunto, spinto dal mio destino,
altre dolci parole e forse mi sarà sfuggito:
"Tu sei la mia sola gioia, tu mi risani con le tue carezze,
tu m'induci ad amare i boschi, i luoghi solitari,
e mai di bere il tuo respiro si stanca la bocca mia".
Tendendo l'orecchio a queste ambigue confessioni, qualcuno
le fraintese: pensò che il nome 'aura', tante volte invocato,
fosse quello di una ninfa e credette ch'io ne fossi innamorato.
Incauto delatore di una colpa immaginaria, subito
corre da Procri e bisbigliando le riferisce ciò che ha udito.
Crede a tutto l'amore: fulminata dal dolore,
cadde, come mi dissero, svenuta e solo dopo lungo tempo
tornata in sé, si proclama infelice, maledetta dal destino,
lamenta il mio tradimento e, sconvolta da una colpa inesistente,
teme ciò che non è, teme un nome che non ha corpo;
e soffre, la sventurata, come se avesse una rivale vera.
Ma a volte dubita e spera, nell'infelicità sua, di sbagliarsi,
ricusa la delazione e si rifiuta di condannare
la colpa del marito, se non l'accerta prima coi propri occhi.
Il giorno dopo, quando il brillio dell'alba ebbe scacciato la notte,
io uscii e mi recai nel bosco. Errando, appagato dalla caccia:
"Aura, aura mia, vieni," implorai, "porta sollievo alla mia fatica",
e a quel punto, tra una parola e l'altra mi parve d'udire un gemito,
non so quale, e tuttavia ripetei: "Vieni, vieni, dolcezza mia!".
E questa volta un ramo, spezzandosi, mandò un lieve scricchiolio:
pensai che fosse una belva e come un lampo scagliai il giavellotto.
Era Procri, che colpita in pieno petto gridava:
"Ahimè!". Quando riconobbi la voce della mia fedele
compagna, corsi come un pazzo a precipizio verso quella voce.
La trovo in fin di vita, con la veste a brandelli intrisa di sangue,
mentre dalla ferita cerca di estrarre, ahimè, ciò che m'ha donato.
Dolcemente sollevo fra le braccia quel corpo, che più del mio
mi è caro e, strappato dal petto un lembo della veste, lego
l'orrenda ferita, cercando di fermare il sangue,
e l'imploro di non morire, lasciandomi in cuore quell'infamia.
Ormai priva di forze, in punto di morte, con un ultimo sforzo
riesce ancora a mormorarmi: "Per il vincolo che ci unisce,
per gli dei del cielo e per quelli a cui ora appartengo, per i meriti
che posso verso te vantare e per l'amore che ti porto
anche ora che muoio, ed è causa della mia morte, ti scongiuro,
t'imploro: non permettere ad Aura di prendere il mio posto!".
Così mi disse, e solo allora compresi che si trattava
di un malinteso. Glielo spiegai, ma a che serviva spiegare?
Vien meno, e col sangue fuggono via le sue ultime forze.
Finché poté guardare, guarda me, e nelle mie braccia,
sulle mie labbra esala la sua anima infelice.
Ma sembra morir tranquilla, col volto più sereno".
Fra la gente in lacrime, questo ricordava Cèfalo piangendo;
ed ecco entrare Èaco con i due figli e le truppe appena
arruolate: di tutto punto armate, in forza le prende l'eroe.
PROCRI
Procri sposò Cefalo, dal quale ebbe Arcesio, padre di Laerte e nonno di Ulisse. Ma la bellezza del marito attrasse Eos, la dea dell'aurora, condannata da Afrodite ad innamorarsi di continuo per aver condiviso il talamo con Ares. L'aurora cercò di attirare con generose profferte d'amore Cefalo, ma lui dichiarò che era fedele a Procri e che, se anche si fosse trattato di Afrodite in persona, non avrebbe consentito a diventare il suo amante. Eos, non rinunciando a lui, gli chiese di mettere alla prova la fedeltà della moglie, poi sparì. Cefalo, turbato dal pensiero che Procri lo tradisse in sua assenza, sotto mentite spoglie si presentò alla moglie e le offrì molti monili d'oro, in cambio di una notte con lei. Sulle prime Procri non cedette né all'oro, né al marito travestito, poi, vinta dalla sua insistenza, accettò. Allora il marito si rivelò, e lei, piena di vergogna, travestitasi da giovinetto, fuggì a Creta, dove divenne l'amante di Minosse. Il re di Creta donò a Procri una lancia magica che non mancava mai il bersaglio e un cane, di nome Lelapo, che riusciva sempre a catturare le prede, doni che aveva avuto da Artemide, la quale si irritò molto. In seguito Procri tornò da Creta e rincontrò Cefalo, che, notando i regali fatti da Minosse a Procri, le chiese cosa volesse in cambio della lancia e di Lelapo, e lei rispose che glieli avrebbe ceduti in cambio di una notte d'amore. I due sposi si riconobbero nell'intimità e si riconciliarono. Vissero ancora dei momenti di lussuria insieme, ma Artemide, che non aveva mai tollerato che i suoi regali venissero passati di mano in mano per le gioie del sesso, decise di vendicarsi. Un giorno Procri, pensando che Cefalo fosse ancora innamorato di Eos, durante una battuta di caccia si nascose in un cespuglio per spiare l'amato. Cefalo, sentendo un fruscio nel cespuglio e pensando che vi si nascondesse una fiera in agguato, afferrò la lancia che non mancava mai il bersaglio e la lanciò contro il cespuglio, uccidendo la moglie.
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Eugenio Caruso - 12 - 01 - 2021
Tratto da