Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
La cronaca quotidiana ci pone sempre all'attenzione atti di infanticidio, di femminicidio, di uxoricidio che sono stati analizzati e sudiati da scuole di psichiatri; in particolare l'infanticidio. Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo se osservato da solo non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale. La maternità è un periodo spesso idealizzato, dove il male deve essere tenuto lontano. La collettività dipinge, infatti, il periodo della gestazione, del parto e dei primi periodi di vita del neonato come un periodo idilliaco, come un momento che deve appartenere a tutte le donne, un desiderio innato che non si apprende.
Ma si può davvero parlare di istinto materno? In realtà, sarebbe meglio parlare di sentimento materno, in quanto culturalmente e non biologicamente determinato. Così come tutti i momenti della propria vita, la maternità si caratterizza per la compresenza di spinte aggressive e spinte libidiche, se vogliamo parlare coi termini di Freud. È il giusto equilibrio tra queste due spinte emotive a renderci sani. L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente, che ignorano e minimizzano quanto la neo mamma sta attraversando. I cosiddetti momenti bui, come spesso sono definiti nei racconti successivi al fatto dalle mamme che hanno commesso figlicidio, arrivano senza che nessuno se ne accorga. I sentimenti negativi non possono essere espressi o comunicati perché diventare madre deve essere bellissimo.
La porzione più piccola nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla Sindrome o Complesso di Medea, dove l’omicidio del figlio è compiuto per vendetta, e richiama il mito greco di Medea. Il fattore scatenante è la conflittualità con il marito, il compagno o l'amante. In altre parole, il bambino è utilizzato come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l’attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità, spesso acuita prima dell’atto omicida da una feroce lite.
Un altro tipo di figlicidio riguarda quello accidentale, in cui non vi è l’intento di uccidere, ma è l’atto estremo come risultante dell’evoluzione della Sindrome del Bambino Maltrattato, la Batter Child Sindrome, un comportamento impulsivo spesso in risposta al pianto, alle urla o all’applicazione della disciplina. La categoria del figlicidio accidentale è la più grande o la seconda più grande nei campioni studiati in letteratura insieme ad un’altra tipologia di figlicidio caratterizzata da una patologia psichiatrica. Le madri che commettono un figlicidio di tipo accidentale hanno spesso un disturbo di personalità, una modesta intelligenza, irritabilità e un’incapacità a mantenere un lavoro stabile. Sono anche donne che provengono da famiglie numerose e/o che a loro volta sono state più probabilmente vittime di maltrattamenti nella loro infanzia. Queste esperienze possono condurre all’incapacità di sviluppare un sicuro legame di attaccamento nei confronti dei propri figli, fino a portarle nei casi estremi a commettere l’omicidio. Arshad e Anasseril hanno affermato che esiste una sostanziale differenza tra le madri figlicide e quelle abusanti. Le prime infatti, soffrono di un grave disturbo psichiatrico al momento dell’atto e hanno avuto più frequentemente in passato una malattia mentale, facendo rientrare i figli nei propri deliri. Raramente, inoltre, hanno abusato del figlio prima di ucciderlo e loro stesse hanno meno probabilmente una storia di abuso alle spalle.
Al contrario, le madri abusanti hanno una significativa assenza di un disturbo mentale sia al momento della valutazione, sia nel loro passato. Sono spesso però già segnalate ai servizi, sia nel presente come madri abusanti, sia nel passato come vittime di abuso da parte dei propri genitori.
Tra i casi di maltrattamento velato troviamo la Sindrome di Munchausen per Procura, in cui la madre inventa sintomi o segni che il bambino non ha o che lei stessa gli procura somministrandogli farmaci ad esempio, esponendolo di conseguenza a una serie di accertamenti od operazioni, più o meno invasive, fino a procurargli la morte nei casi estremi. Il comportamento adottato da queste madri è amichevole, collaborante e cordiali e difficilmente portano i medici a pensare di trovarsi di fronte a una madre maltrattante. Il padre in questi casi è una figura piuttosto debole, ai margini della scena, assente sia fisicamente che emotivamente. La letteratura sembra essere concorde nel negare una grave patologia mentale in queste madri, più spesso portatrici di un disturbo di personalità (Borderline, Istrionico, Paranoide) come accade per le altre mamme maltrattanti. Nell’anamnesi si possono poi ritrovare condotte autolesive, utilizzo di sostanze, abusi o maltrattamenti.
Atroci omicidi di oggi sono gli stessi che i tragici greci ci hanno lasciato nelle loro opere (anche le uccisioni di genitori o nonni da parte di figli e nipoti); la differenza tra ieri ed oggi è che oggi si parla di disturbi della mente, ieri si incolpavano gli dei che interferivano nelle vicende umane.In questo articolo parlo di Euripide. Come mostrano gli stessi titoli, al centro delle tragedie di Euripide si trova spesso una figura femminile:
– la sposa fedele e affettuosa pronta a sacrificare la sua vita per l’uomo che ama (Alcesti);
– la donna tradita che pur di vendicarsi giunge a uccidere i figli avuti dall’uomo che l’ha abbandonata (Medea);
– la donna vittima di una insana passione d’amore (Fedra nell’Ippolito);
– l’anziana madre che, per vendicare la morte del figlio ucciso dall’uomo al quale lei lo aveva affidato, uccide i figli di questi (Ecuba);
– l’anziana e affranta regina di Troia che vede il suo regno distrutto, le sue figlie fatte schiave, il suo nipotino barbaramente ucciso (Ecuba nelle Troiane);
– la donna astuta che salva se stessa e chi le è caro da situazioni di grave pericolo (Ifigenia in Ifigenia in Tauride ed Elena nell’Elena);
– la fanciulla abbrutita dal dolore la cui unica ragione di vita è punire gli assassini di suo padre (Elettra).
Euripide (in greco antico: Euripídes) Salamina, 485 a.C. – Pella, 406 a.C.) è considerato, insieme ad Eschilo e Sofocle, uno dei maggiori poeti tragici greci. Nacque a Salamina intorno al 485 a.C., ma, secondo la tradizione, si fa risalire il suo giorno di nascita al giorno della famosa battaglia di Salamina per creare una linea di continuità tra i tre maggiori tragediografi greci (Eschilo fu combattente a Salamina, mentre Sofocle diresse il peana per la vittoria).
Nacque da una famiglia ateniese rifugiata sull'isola per sfuggire ai Persiani e il suo nome verrebbe dall'Euripe, il canale dove si svolse la battaglia. Aristofane, comunque, suggerisce a più riprese nelle sue commedie la bassa estrazione sociale del poeta, confermata da Teofrasto: tuttavia, la sua cultura dimostra una educazione raffinata, acquisita dallo studio presso sofisti come Protagora, che non sarebbe stata possibile senza una condizione sociale agiata, come dimostrato anche dal fatto che avrebbe messo insieme una ricca biblioteca, una delle prime di cui si faccia menzione. Contemporaneo di Socrate, ne divenne amico.
Euripide si propose pubblicamente come tragediografo a partire dal 455 a.C.: la sua prima opera, Le Peliadi, ottenne il terzo premio. Divenne presto popolare, pur avendo ottenuto solo cinque vittorie, di cui una postuma: infatti Plutarco racconta, nella Vita di Nicia, come nel 413 a.C., dopo il disastro navale di Siracusa, i prigionieri ateniesi in grado di recitare una tirata di Euripide venissero rilasciati.
Verso il 408 a.C., sfiduciato dagli insuccessi, Euripide si ritirava a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove sarebbe morto, si dice, sbranato dai cani (ma la notizia è quantomeno dubbia) o ucciso da alcune donne mentre, di notte, si stava recando dall'amante di Archelao, Cratero. Solo dopo la sua morte gli ateniesi gli dedicarono nel 330 a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso.
Delle 92 opere attribuite in antichità ad Euripide[6], ci sono giunte integre solo 19 (18 tragedie e 1 dramma satiresco): Alcesti (438 a.C.); Medea (431 a.C.); Ippolito (428 a.C.); Gli Eraclidi (fra il 430 e il 427 a.C.); Andromaca (fra il 429 e il 425 a.C.); Ecuba (424 a.C.); Le Supplici (422 a.C.); Eracle (415 a.C.); Le Troiane (415 a.C.); Elettra (413 a.C.); Ifigenia in Tauride (413 a.C.); Elena (412 a.C.); Ione (forse del 412 a.C.); Le Fenicie (fra il 411 e il 409 a.C.); Oreste (408 a.C.); Ifigenia in Aulide (405 a.C.); Le Baccanti (405 a.C.), il Ciclope, dramma satiresco di datazione molto incerta, forse del 427 a.C., e il Reso, una tragedia di scarso valore, scritta probabilmente da un imitatore nel IV secolo a.C.
Euripide mise in scena le sue tragedie nella seconda metà del quinto secolo (la prima da noi conosciuta, benché appartenente a una fase già matura della sua produzione, è l'Alcesti del 438; l'ultima Le Baccanti, messe in scena postume nel 403). Agli inizi del IV secolo a.C. erano conservate dunque in Atene tutte le opere del poeta di Salamina (come attestato dalla Suda e dal Bios kai genos premesso ad alcuni manoscritti): novantadue tragedie facenti parte di ventitré tetralogie. L'oratore ateniese Licurgo impose, alla fine del IV secolo a.C., che le compagnie teatrali si attenessero ai testi ufficiali: ciò conferma l'esistenza di veri e propri archivi dei testi scenici.
Un secolo e mezzo più tardi sopravvivono settantacinque tragedie, compresi otto drammi satireschi, e altre tre tragedie sicuramente spurie (Tenne, Radamanto, Piritoo): è sulla base di questo materiale che i filologi alessandrini approntarono (nello specifico Aristofane di Bisanzio), alla metà del III secolo, le proprie edizioni critiche, dotate di suddivisione colometrica, di commenti (generalmente su volume separato) e di hypotheseis (argumenta), cioè brevi premesse con il nome della tragedia e dell'autore, l'anno – se conosciuto – di messa in scena, il risultato dell'agone e il nome delle altre tragedie della serie. Aristofane di Bisanzio, nell’ipotesi della Medea, ammette che il dramma satiresco della tetralogia corrispondente non si è conservato. Probabilmente è in questa fase che vengono spezzate le tetralogie a favore di edizioni in ordine alfabetico (di cui il manoscritto Laurenziano di Demetrio Triclinio sarebbe, in definitiva, l'ultimo erede).
Durante l'età imperiale si procede ad una riorganizzazione del materiale ereditato dall'ellenismo, riducendo gli imponenti commenti a scoli o note a margine (quelli della Medea sono attribuiti a Didimo, di età augusta, e a Dionigi, posteriore a Didimo ma non facilmente identificabile), o, eventualmente, di glosse interlineari.
Ancora nel 1160 Giovanni Tzetzes dichiarava di aver letto cinquantaquattro tragedie di Euripide. Poi la IV Crociata e la presa di Costantinopoli determinarono l'incendio e il saccheggio della città, permettendo la sopravvivenza di una minima parte della tradizione classica ivi conservata.
La tradizione manoscritta euripidea, all'epoca della caduta di Bisanzio (1453), si divide in due rami: da un lato i codici di uso “scolastico” (corredati di scoli), suddivisi in gruppi di quattro o tre tragedie (Andromaca, Alcesti, Ippolito e Medea oppure Ecuba, Oreste e Fenicie, ed eventualmente Baccanti, Troiane e Reso); dall'altro altre nove tragedie, con iniziale appartenente al gruppo E H I K, individuabili sul manoscritto Laurenziano L XXXII, composto entro il 1320 dal dotto bizantino Demetrio Triclinio (L comprende anche tutte le altre tragedie del canone scolastico, con l'eccezione delle Troiane). Da questa copia di lavoro sarebbe stato tratto un volume più prezioso, il Palatino Vaticano 287 P (ma sui rapporti tra L e P il dibattito è ancora aperto).
Comunque, a parte le 19 tragedie giunteci, abbiamo frammenti consistenti, tra citazioni e papiri, di: Alessandro (415 a.C., rappresentato con le Troiane); Andromeda (circa 412 a.C.); Antiope (data sconosciuta)[10]; Bellerofonte (data sconosciuta); Cresfonte (data sconosciuta); Eretteo (422 a.C.); Fetonte (circa 420 a.C.); Filottete (prima del 431 a.C.); Ipsipile (circa 410 a.C.); Palamede (415 a.C., era il secondo dramma della cosiddetta "Trilogia Troiana", formata da Alessandro, Palamede e Troiane, più il dramma satiresco Sisifo. Euripide ottenne il secondo posto, dietro Senocle[11]); Telefo (438 a.C., rappresentato con l'Alcesti).
Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono, da un lato, la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e, dall'altro, la maggiore attenzione che egli presta alla descrizione dei sentimenti, di cui analizza l'evoluzione che segue il mutare degli eventi narrati.
La struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e ricca di novità rispetto al passato, soprattutto per effetto di nuove soluzioni drammatiche, per un maggiore utilizzo del deus ex machina, in particolare nelle tragedie più tarde, e per la progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro, che tende ad assumere una funzione di pausa nell'azione. Anche lo stile risente della ricerca euripidea di rompere con la tradizione, mediante l'inserimento di parti dialettiche per allentare la tensione drammatica e l'alternanza delle modalità narrative.
La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e di Sofocle, ma sovente una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori, le cui motivazioni inconsce vengono portate alla luce ed analizzate.
Proprio lo sgretolamento del tradizionale modello eroico porta alla ribalta del teatro euripideo le figure femminili. Euripide però dava delle connotazioni negative a queste donne, infatti molti studiosi delle sue opere, lo definirono "misogino" , mentre altri pensavano che lui considerasse le donne perfette, e con questi testi voleva riuscire a trovare quel poco di peccatrice che c'è in loro. Le protagoniste dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione.
Euripide espresse le contraddizioni di una società che stava cambiando: nelle sue tragedie spesso le motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere e con i vecchi valori fondanti della polis. Il personaggio di Medea, ad esempio, arriva a uccidere i propri figli pur di non sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con Glauce, figlia di Creonte re di Corinto. Aristofane, il maestro riconosciuto della commedia, ci offre ne Le rane la cronaca del tempo riguardo alla disputa fra i tragediografi, e del pubblico che parteggiava per l'uno o per l'altro, presentando Euripide come un rozzo portatore di nuovi costumi.
Il teatro di Euripide va, dunque, considerato come un vero e proprio laboratorio politico, non chiuso in se stesso ma, al contrario, affine ai mutamenti della storia fino all'accettazione ultima del regno di Macedonia. Nel seguito la trama di alcune opere.
Alcesti
Nel prologo, Apollo narra di essere stato condannato da Zeus a servire in qualità di schiavo nella casa di Admeto, re di Fere in Tessaglia, per espiare la colpa di aver ucciso i Ciclopi colpevoli, a loro volta, di aver fabbricato le folgori con le quali Zeus stesso aveva ucciso Asclepio, il figlio di Apollo.
Apollo era stato accolto benevolmente da Admeto e per mostrargli la sua riconoscenza aveva ottenuto dalle Moire che il re potesse sfuggire alla Morte, a condizione che qualcuno si sacrificasse per lui. Gli anziani genitori rifiutano entrambi. È la giovane Alcesti, madre di due bambini, a offrirsi di morire al posto del consorte e sta per esalare l’ultimo respiro mentre il dio racconta l’antefatto.
Dopo la morte di Alcesti, giunge alla casa di Admeto Eracle, che, veduti tristi e manifesti segni di lutto, ne chiede spiegazione ad Admeto. La risposta ambigua non è rettamente interpretata dall’eroe, che si pone allegramente a gozzovigliare.
Terminato il lauto pasto, Eracle ricompare sulla scena dopo un violento diverbio nel quale Admeto ha rimproverato al padre Feres di non essersi voluto, lui vecchio, sacrificare per il figlio, mentre Feres ha rinfacciato al figlio la sua viltà, in quanto non ha voluto affrontare la morte. Eracle comprende finalmente, dalle aperte parole di un servo, che è morta Alcesti.
Per ricambiare la generosa ospitalità Eracle decide di scendere nell’Ade per riportare in vita la giovane. La strappa infatti a Thanatos (la morte) e la restituisce al marito.
Medea
Medea e Giasone si sono rifugiati a Corinto dopo varie peregrinazioni in seguito alla conquista del vello d’oro. Dal loro matrimonio sono nati due figli. Quando i figli sono ancora piccoli, Giasone decide di ripudiare la moglie per sposare Glauce, la figlia di Creonte, il re di Corinto.
Creonte, temendo che Medea, sdegnata, possa costituire un pericolo per i due futuri sposi, ordina l’esilio per lei e per i figli. Medea riesce, astutamente, a commuoverlo e a rimandare di un giorno la partenza, giorno che le servirà per attuare la sua vendetta. Giunge frattanto a Corinto Egeo, re di Atene, al quale Medea strappa una promessa di aiuto e di asilo per il futuro.
Medea, decisa nel suo proposito vendicativo, finge così di riappacificarsi con Giasone e invia addirittura i suoi figli con doni di nozze per Glauce: un peplo e un diadema, entrambi imbevuti di un potente veleno che fa morire atrocemente la giovane donna e suo padre, invano accorso in aiuto. La morte di Glauce e di Creonte non placa la collera di Medea che, per annientare completamente Giasone, trova la forza di uccidere anche i figli, i cui cadaveri porterà via con sé, in fuga sul carro alato di suo nonno Eolo, il dio Sole, invocando per Giasone una vecchiaia straziata dal dolore e dal rimorso.
Ippolito
In Trezene, nella reggia di Pitteo, Fedra, la moglie di Teseo, si è innamorata perdutamente del figliastro Ippolito, nato da Teseo e dall’amazzone Ippolita.
Il giovane, appassionato cacciatore, ha suscitato lo sdegno di Afrodite rivolgendo ogni sua attenzione alla sua dea preferita, Artemide. L’innamoramento di Fedra è appunto la vendetta della dea, da Ippolito troppo superbamente trascurata.
Dopo un festoso ritorno di Ippolito e dei compagni dalla caccia e un elogio del giovane all’indirizzo di Artemide che egli dichiara sua unica dea (invano i compagni e il coro lo ammoniscono a non trascurare una dea potente come Afrodite), compare sulla scena Fedra, la quale, affranta e consunta dalla passione, finisce col far comprendere la natura e la causa del suo male alla nutrice che la sta amorevolmente sorreggendo e curando. La vecchia, credendo di fare il bene della padrona, rivela tutto a Ippolito, il quale prorompe in una sdegnata requisitoria contro la matrigna e contro tutta la stirpe delle donne.
Fedra ha udito tutto e, sentendosi svergognata e, insieme, offesa dallo sdegnoso rifiuto del figliastro, prende una tragica decisione: il suicidio. Ma prima di morire scrive una lettera nella quale, per vendetta, accusa Ippolito di aver attentato al suo onore.
Teseo, che ritorna in quel momento dall’Ade, apprende dallo scritto di Fedra la causa della sua morte e quindi scaccia il figlio e invoca su di lui vendetta dal padre Poseidone. Il dio del mare ascolta ed esaudisce la preghiera del figlio Teseo: fa uscire dai flutti un toro mostruoso che spaventa e fa imbizzarrire i cavalli aggiogati al cocchio sul quale Ippolito, esule, si sta recando ad Epidamno. Sfuggiti al controllo del giovane i cavalli fanno infrangere il cocchio e trascinano per lungo tratto Ippolito impigliato nelle briglie.
Condotto agonizzante davanti a Teseo, Ippolito viene discolpato da Artemide ex machina e mentre Teseo, nel pianto, maledice se stesso, Ippolito nobilmente lo perdona e muore felice di contemplare la sua dea adorata.
Ecuba
L’ombra di Polidoro, il più giovane figlio di Priamo e di Ecuba, compare in sogno alla madre, ormai prigioniera dei Greci dopo la distruzione di Troia, e le narra come Polimestore, il re di Tracia presso il quale Priamo aveva fatto fuggire il figlio, l’abbia ucciso, per impadronirsi dell’oro che portava con sé.
I Greci, a loro volta, vedono comparire l’ombra di Achille che reclama sulla sua tomba il sacrificio di Polissena, la più giovane delle figlie di Ecuba.
Odisseo viene a prelevare Polissena che segue, decisa al sacrificio, l’eroe greco. La disperazione di Ecuba, che non ha trovato pietà per la propria figlia neanche in Odisseo, il quale pure le deve la vita, è grande e straziante.
Mentre Taltibio, araldo di Agamennone, annuncia, descrivendolo, l’avvenuto sacrificio di Polissena, ecco che giungono sulla scena dei servi recanti il cadavere di Polidoro, il giovane figlio di Ecuba e Priamo, che, gettato in mare da Polimestore, era stato portato dalle onde sino alla spiaggia di Troia.
Ecuba ora è furente e rabbiosa e chiede ad Agamennone il permesso di vendicarsi di Polimestore, suo alleato. Agamennone glielo concede.
Polimestore, fatto chiamare, giunge al campo delle prigioniere troiane con i due giovani figli e cade nel tranello tesogli da Ecuba e dalle altre donne: i figlioletti stessi vengono uccisi e lui stesso è accecato.
Disperato, mentre la flotta salpa con a bordo le prigioniere, Polimestore predice ad Ecuba che sarà trasformata in una cagna e ad Agamennone, che ha permesso che tutto accaddesse, trucidato in Argo insiema a Cassandra, la figlia di Priamo ch’egli s’è preso come preda scelta dal bottino di Troia.
Andromaca
Andromaca, la vedova di Ettore, è divenuta concubina del suo nuovo signore, Neottolemo, re dell’Epiro e figlio di Achille. È odiata da Ermione, figlia di Menelao e di Elena e moglie legittima di Neottolemo. Andromaca è dunque costretta a fuggire con Molosso, il figlio avuto dal re, e si rifugia nel tempio di Teti.
Neottolemo intanto si è recato a Delfi a compiere un solenne sacrificio espiatorio al dio da lui precedentemente offeso. In sua assenza, Ermione, con l’aiuto del padre, decide di uccidere Andromaca e Molosso.
Ermione e Menelao quindi raggiungono Andromaca che si è rifugiata presso un altare sacro alla dea Teti. Andromaca sta per essere spietatamente uccisa, quando giunge in scena – mandato a chiamare da Andromaca tramite una fida ancella – Peleo, padre di Achille e, quindi, nonno di Neottolemo. Peleo riesce a far liberare Andromaca e Molosso e si allontana con essi.
Ermione vorrebbe uccidersi per la disperazione, ma viene salvata da Oreste. Oreste è figlio di Agamennone e Clitennestra e un tempo era stato promesso sposo di Ermione. Oreste conduce Ermione con sé, a Delfi. A Delfi, Oreste vuole uccidere Neottolemo che, a suo tempo, gli ha strappato la sposa (Ermione) a lui promessa da Menelao.
A Delfi, Oreste riesce a sobillare il popolo contro Neottolemo, che viene ucciso all’uscita dal tempio.
Il vecchio Peleo è disperato perché vede estinta la sua stirpe. Viene consolato dalla sua divina sposa, Teti, che gli predice che Molosso, sua progenie, darà inizio alla stirpe degli Eacidi, che dominerà sulla terra dei Molossi. Lo stesso Peleo godrà di vita immortale presso la sua sposa nella casa di Nereo, padre di Teti, e potrà anche rivedere, nell’isola di Leuce nel mar Nero, l’adorato suo figlio Achille.
Troiane
Le donne di Troia, fatte prigioniere dai Greci dopo la caduta della città, attendono di conoscere a quale Acheo la sorte le abbia destinate come schiave. Giunge Taltibio – araldo di Agamennone – e comunica a Ecuba di essere stata assegnata a Odisseo, mentre Cassandra è stata prescelta da Agamennone e Andromaca da Neottolemo.
Cassandra compare dinanzi ad Agamennone invasata da Apollo e predice la sua stessa sorte che costerà la vita ad Agamennone su cui, in tal modo, sarà vendicata la caduta di Troia.
Intanto i Greci, per consiglio di Odisseo, hanno deciso di uccidere il piccolo Astianatte, il figlio che Andromaca ha avuto da Ettore, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare la morte del padre. Astianatte viene strappato via dalle braccia della madre, tra il pianto dirotto di Ecuba, di Andromaca e del coro.
Giunge sulla scena Menelao desideroso di punire Elena. Ma dopo una lunga accusa di Ecuba, che ritiene Elena colpevole dello scoppio della guerra perché fuggita con Paride, attratta dal lusso e dall’adulterio, e un’altrettanto lunga e abile autodifesa di Elena, che ricorda il giudizio di Paride e l’intervento di Afrodite, Menelao stabilisce di rimandare la decisione a quando saranno di nuovo in Argo.
Riappare Taltibio, che guida alcuni soldati recanti sullo scudo di Ettore il corpo esanime di Astianatte. Mentre si scioglie il pietoso e commovente lamento funebre di Ecuba sul piccolo cadavere, l’araldo guida le donne verso le navi.
Sullo sfondo c’è l’incendio che i Greci hanno appiccato a Troia per distruggerla interamente.
Ione
Creusa partorisce un figlio, Ione, dopo essere stata sedotta da Apollo. Creusa lo abbandona e Apollo lo accoglie nel suo tempio a Delfi. Ione viene dunque allevato dalla Pizia e assegnato agli uffici di ministro del tempio.
Creusa, divenuta moglie del re di Atene Xuto, giunge al tempio assieme al consorte per interrogare il dio circa le cause della loro sterilità. Creusa e Ione si incontrano. Ione le rivela di non aver mai conosciuto sua madre. Creusa lo compiange, ma gli cela di aver avuto un figlio da Apollo. Gli dice invece che una sua amica, sedotta dal dio, ha partorito un piccolo e lo ha poi abbandonato. Ora lo crede perduto per sempre e se ne dispera. Il giovane avrebbe appunto l’età di Ione.
Sopraggiunge Xuto, che interroga l’oracolo e ne riceve una lieta risposta: lui un figlio lo ha già avuto e la prima persona che incontrerà uscendo dal tempio sarà in realtà proprio suo figlio. Uscendo dal tempio, Xuto incontra Ione e lo abbraccia chiamandolo figlio.
Xuto conduce Ione ad Atene. Creusa trama la morte di Ione, perché lo crede figlio di un’altra donna e di Xuto. Creusa viene scoperta e il popolo infuriato vuole ucciderla. Solo l’intervento della Pizia risolve le cose e permette il riconoscimento tra madre e figlio. La Pizia, infatti, mostra a Creusa la cesta contenente le fasce in cui aveva avvolto Ione quando lo aveva abbandonato.
Infine, appare Atena ex machina che suggerisce a Creusa di tenere Ione come erede al trono, lasciando che Xuto continui a credere che sia suo figlio.
Quest’opera preannuncia i caratteri della commedia nuova di Menandro.
Elettra
L’argomento è lo stesso delle Coefore di Eschilo e dell’Elettra di Sofocle, cioè il matricidio perpetrato da Oreste e dalla sorella Elettra.
Dopo l’assassinio di Agamennone, la nuova coppia regale formata da Egisto e Clitennestra ha allontanato da casa Oreste e, per preservarsi da possibili vendette di eredi, ha dato Elettra in moglie a un umile contadino. La ragazza consuma un’esistenza misera, confortata solo dalla speranza dell’arrivo di Oreste, ormai sufficientemente adulto per vendicare il padre.
Giunge il giorno agognato. Oreste, accompagnato dall’amico Pilade, ritorna in patria sotto mentite spoglie, ma viene però riconosciuto dal vecchio pedagogo che lo aveva allevato. Oreste si incontra con la sorella, che accertatasi della sua disposizione d’animo, organizza la vendetta.
Oreste sorprende Egisto mentre sta organizzando una cerimonia religiosa e lo uccide. Clitennestra viene chiamata alla casa di Elettra dal falso annunzio che la figlia ha partorito. Giunta nella modesta casa di Elettra, Clitennestra viene spietatamente uccisa da Oreste.
Sopraggiungono i Dioscuri (qui ex machina), Castore e Polluce, fratelli di Clitennestra, che profetizzano ogni cosa: Elettra, della quale il contadino ha sempre avuto il più riverente rispetto, sposerà Pilade, fedele amico di Oreste e figlio del re della Focide; Oreste perseguitato dalle Erinni (le dèe della vendetta) andrà ad Atene e lì verrà assolto dal sacro tribunale dell’Areopago; Egisto sarà sepolto in Argo e Clitennestra a Nauplia, dalla sorella Elena.
Ciò fatto i Dioscuri escono di scena per correre a proteggere una grande spedizione navale degli Ateniesi. Essa allude evidentemente alla poi sfortunata spedizione in Sicilia contro Siracusa intrapresa dagli Ateniesi per volere di Alcibiade.
Elena
La guerra di Troia volge al termine. Elena, per un prodigio operato da Era, si trova in Egitto mentre a Ilio è andato semplicemente un suo simulacro.
Il violento e dispotico Teoclimeno, figlio del buon re Proteo, che protesse Elena fino alla morte, ora vuole che Elena diventi sua moglie. Per sfuggirgli Elena si è rifugiata supplice presso la tomba di Proteo.
Sopraggiunge Teucro, di ritorno da Troia, e racconta a Elena (senza riconoscerla) la triste sorte di Menelao: egli è perito nei flutti insieme alla moglie. Elena disperata vorrebbe uccidersi, ma per consiglio del coro decide di interrogare prima la profetessa Teonoe, sorella di Teoclimeno. Questa le dice che Menelao è ancora vivo ed Elena torna alla tomba di Proteo.
Giunge, frattanto, scampato miracolosamente dal naufragio, Menelao, il quale apprende dalla custode della reggia che Elena è lì viva. Menelao non comprende, in quanto ha lasciato in una antro il simulacro che aveva condotto con sé da Troia e che egli riteneva essere appunto Elena in carne e ossa. Elena, a sua volta, riconosce Menelao e viene finalmente da lui riconosciuta.
Ora bisogna pensare alla fuga. Elena, assunta acconciatura di lutto, convince Teoclimeno a consentirle di rendere al marito gli onori funebri sul mare. Saliti sulla nave posta a loro disposizione da Teoclimeno (esultante perché pensa che finalmente potrà avere Elena in sposa), Menelao e alcuni compagni (ovviamente con Elena) appena giunti al largo si sbarazzano degli uomini di Teoclimeno e fanno vela verso la Grecia.
Teoclimeno, infuriato per l’inganno in cui è ingenuamente caduto, vorrebbe uccidere Teonoe, che ha aiutato i fuggitivi. Il coro, però, lo convince a risparmiare la sorella. Ella, in sostanza, gli ha impedito di compiere un atto empio, come gli dicono i Dioscuri che compaiono sulla scena, ex machina, a concludere la tragedia. Essi annunziano che Elena, alla fine della vita, diverrà una dea, mentre Menelao dimorerà felice nelle isole dei beati.
Baccanti
Dioniso è giunto – come egli stesso dice nel prologo – a Tebe per dimostrare la sua divinità alle sorelle della madre Semele, le quali negano che egli sia figlio di Zeus. Per punizione il dio le ha invasate insieme a tutte le altre donne di Tebe che ora stanno baccheggiando sul monte Citerone.
Anche il vecchio re Cadmo – che ha ceduto il potere al nipote Penteo – e il vecchissimo sacerdote Tiresia si stanno avviando, in abito da baccanti, alla celebrazione del rito orgiastico in onore del nuovo dio.
Penteo intende opporsi alla follia generale e ordina alle guardie di catturare e di portargli dinanzi quello straniero, distruttore della società civile, che diffonde riti osceni.
Lo straniero non si oppone e si lascia arrestare. Condotto davanti a Penteo ne ascolta con calma le infuriate accuse e accetta di buon grado di lasciarsi chiudere in carcere, dicendosi sicuro che Dioniso (ma è ovviamente il dio stesso che sta parlando in sembianze umane) lo libererà facilmente.
Ecco, infatti, subito dopo, che la terra trema, crolla la reggia di Penteo, un fulmine di Zeus fiammeggia sopra la tomba di Semele e il dio ricompare in scena fra le baccanti prostrate.
Rientra in scena Penteo, più furente che mai, ordina alle guardie di catturare e porre in ceppi tutte le baccanti.
Il dio, con sottile e feroce astuzia, inizia ora a tessere il piano della sua perfida vendetta. Convince, infatti, Penteo – a poco a poco preso dalla leggera follia ispiratagli dal dio – a seguirlo sul Citerone, dopo essersi travestito da baccante, per vedere egli stesso le baccanti.
Penteo si lascia persuadere e segue il dio. Questi, giunto sul monte, lo fa salire su un alto pino che ha con estrema facilità piegato egli stesso sino a terra per consentire a Penteo di montarvi a cavalcioni. Un simile atto di forza sovrumana dovrebbe rivelare a Penteo la vera identità e la vera natura dello straniero, ma il re di Tebe non avverte nulla e, quindi, cade irreparabilmente nella terribile trappola.
Infatti, non appena il pino si è risollevato in alto, lasciato andare lentamente da Dioniso per non disarcionare Penteo, il dio lancia un grido alle baccanti rivelando loro la presenza di Penteo, profanatore dei sacri riti. Le baccanti si scagliano, guidate da Agave, la madre di Penteo, contro il misero re di Tebe. Tutte, infatti, in preda all’invasamento divino non lo riconoscono e lo scambiano per un leone, facendone orrido scempio.
Ancora in preda alla furia bacchica, Agave ricompare in scena reggendo fra le mani il capo di Penteo che ancora crede una testa di leone. Gradualmente riprende coscienza e alla fine ha la tragica consapevolezza di quanto la follia bacchica l’ha spinta a compiere.
Mentre Agave e Cadmo piangono, sia la morte di Penteo che la rovina della loro casa, ricompare Dioniso, questa volta in tutta la sua maestà divina. Il dio spiega di aver architettato il tutto per punire chi non credeva nella sua natura divina e condanna Cadmo e Agave ad essere esiliati in terre lontane.
Ifigenia in Aulide
Agamennone ha mandato a chiamare la figlia Ifigenia col pretesto che deve andare in sposa ad Achille. In realtà deve esere sacrificata sull’altare di Artemide per consentire alla flotta greca, bloccata in Aulide, di salpare per la spedizione contro Troia.
Preso dal rimorso, Agamennone ha scritto alla moglie Clitennestra di non muoversi da casa in quanto le nozze sono state rinviate.
La lettera, affidata a un vecchio e fido servo, cade nelle mani di Menelao che rimprovera aspramente il fratello.
Ecco che giungono di lì a poco, Clitennestra con Ifigenia e il piccolo Oreste. Nonostante le preghiere di Agamennone, il quale vorrebbe che la moglie rientrasse in Argo, Clitennestra si ferma e scopre l’inganno.
Clitennestra chiede aiuto ad Achille, che purtroppo, non può far nulla: l’esercito si ribella, sobillato da Odisseo, e vuol partire a ogni costo; vuole quindi ad ogni costo che Ifigenia venga sacrificata.
Ifigenia, da parte sua, resasi conto che da lei dipende l’onore di tutta la Grecia, in uno slancio di patriottismo si offre volontariamente alla morte. Giunta sull’altare, però, proprio mentre il sacerdote sta per sferrare il colpo mortale alla gola, Ifigenia scompare e al suo posto giace sgozzato come vittima sacrificale una cerva: è la dea Artemide che ha compiuto il prodigio.
Eugenio Caruso - 14/02/2021
Tratto da