INTRODUZIONE Le metamorfosi (Metamorphoseon libri XV) è un poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 17 d.C.) incentrato sul fenomeno della metamorfosi. Attraverso quest'opera, ultimata poco prima dell'esilio dell'8 d.C., Ovidio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali sono dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Ovidio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da Ovidio la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto di Ovidio: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.
LIBRO QUATTORDICESIMO
Già Glauco, l'abitante del mare di Eubea, s'era lasciato
alle spalle l'Etna, che al gigante Tifeo schiaccia la gola,
e la terra dei Ciclopi, che ignora l'uso del rastrello,
dell'aratro e nulla deve al lavoro dei buoi sotto il giogo.
E alle spalle s'era lasciato Zancle, le opposte mura di Reggio
e lo stretto che, chiuso tra due sponde, procura tanti naufragi
e segna il confine fra le terre d'Ausonia e di Sicilia.
Da lì, nuotando a grandi bracciate nelle acque del Tirreno,
Glauco arriva ai colli erbosi e al palazzo di Circe, la figlia
del Sole, gremito di bestie d'ogni specie. Appena
la vede, rivolte e ricevute parole di saluto:
"O dea," le dice, "abbi pietà di un dio, ti prego: tu sei l'unica,
se ti sembro degno, che possa alleviare l'amore mio.
Quale potere abbiano le erbe, o figlia del Titano,
nessuno lo sa meglio di me, che da un'erba fui mutato.
Ma perché tu conosca la ragione della mia passione:
sulla sponda d'Italia, di fronte alle mura di Messina,
mi è apparsa Scilla. Mi vergogno troppo a riferirti le promesse,
le suppliche, le lusinghe e le parole mie: tutto ha disprezzato.
E tu, se qualche efficacia hanno gli incantesimi, pronuncia
un incantesimo magico; o se per vincerla è più adatta un'erba,
serviti di un'erba che abbia poteri di provato effetto.
Non ti chiedo di curare e sanare la ferita mia: non voglio
che tu me ne liberi, ma che Scilla bruci dello stesso fuoco".
E Circe (nessuna è più di lei portata a provare
questi ardori, o perché così è la sua natura o perché così vuole
Venere, offesa dalla denuncia che suo padre le fece)
gli risponde: "Meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,
chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione.
Tu eri degno d'essere pregato, e potevi esserlo;
se mi concedi fiducia, credi a me, lo sarai.
E perché tu non abbia dubbi sul valore della tua bellezza,
ecco, io, benché sia una dea e figlia del Sole splendente,
benché sia tanto potente con erbe ed incantesimi,
io vorrei essere tua. Disprezza chi ti disprezza, dònati
a chi ti seconda, dando a due donne insieme ciò che meritano".
Circe lo tenta, ma Glauco risponde: "Fronde nasceranno in mare,
alghe sulla cima dei monti, prima che per Scilla
muti questo mio amore, finché lei vive".
La dea si sdegna e, non potendo nuocergli direttamente,
né lo vorrebbe, innamorata com'è, s'adira con la donna
che le è stata preferita. Offesa dal rifiuto del suo amore,
s'affretta a tritare erbe maligne dai succhi spaventosi
e nel tritarle le impregna di formule infernali.
Poi indossa un velo azzurro e, passando tra lo stuolo
servile delle sue fiere, esce dal palazzo.
Diretta a Reggio che sta dirimpetto agli scogli di Zancle,
s'inoltra sul mare che ribolle per le correnti,
posandovi i piedi sopra come se fosse terraferma,
e corre sul filo dell'acqua senza bagnarsi le piante.
C'era una piccola cala dai contorni sinuosi,
dove Scilla amava riposare per ripararsi
dalle burrasche o dalla canicola, quando al culmine del cielo
il sole a picco riduceva le ombre a un filo.
CIRCE dipinto di J.W. Waterhouse
La dea la contamina inquinandola con veleni
pestiferi: vi sparge liquidi spremuti da radici
malefiche, mormorando, nove volte per tre, una cantilena
incantata, groviglio oscuro di misteriose parole.
Scilla arriva e non appena s'immerge con metà del corpo in acqua,
vede i suoi fianchi deformarsi in orribili mostri
ringhianti. Non potendo credere che quei cani appartengano
al suo corpo, tenta terrorizzata di schivarne e di respingerne
le fauci furiose. Ma anche quando fugge li trascina con sé
e quando cerca nel suo corpo cosce, stinchi e piedi,
al loro posto altro non trova che musi di Cerbero.
Si regge su cani rabbiosi e col ventre che sporge
sull'inguine mozzo, schiaccia, sotto, il dorso di quelle fiere.
Pianse Glauco che l'amava, sfuggendo agli amplessi di Circe,
che del potere delle erbe con troppo livore s'era servita.
Bloccata in quel luogo, alla prima occasione Scilla sfogò
il suo odio per Circe privando Ulisse dei suoi compagni.
Poi avrebbe affondato anche le navi dei Troiani,
se prima non fosse stata mutata in scoglio, in una roccia
che ancora sporge sul mare: uno scoglio dai marinai evitato.
Dopo essersi sottratte a forza di remi a Scilla e all'ingorda
Cariddi, le navi troiane, ormai in vista della costa
d'Ausonia, furono respinte dal vento sulle spiagge di Libia.
Qui, donandogli il proprio cuore, Didone accolse nella sua casa
Enea, ma poi non sopportando che il marito frigio
l'abbandonasse, in cima a un rogo eretto col pretesto di una sagra,
si gettò sulla spada e, ingannata com'era stata, ingannò tutti.
La morte di Didone dipinto dal Guercino
Lasciata la città da lei fondata in quella regione sabbiosa,
Enea ritorna nella terra di Èrice, presso il fedele Aceste,
e fa un sacrificio per onorare la tomba del proprio padre.
Quindi salpa con le navi, che Iride, fedele a Giunone,
per poco non ha bruciato, e oltrepassa il regno del figlio di Ippota,
le terre fumanti di zolfo ardente e gli scogli delle Sirene,
figlie dell'Achelòo. Poi, perduto il nocchiero, la flotta costeggia
Pròchite e Inàrime, nell'arcipelago brullo e rupestre
delle Pitecuse, così chiamato dai suoi abitanti.
Il padre degli dei infatti, non tollerando più gli spergiuri
e le frodi dei Cercopi, i misfatti di questa gente intrigante,
li trasformò da uomini in animali, deformandoli in modo
che apparissero insieme diversi e simili all'uomo.
Ridusse le membra, appiattì e rincagnò nella fronte
il naso, solcò il loro viso di rughe senili
e, coperto tutto il loro corpo di pelo fulvo,
li confinò in questa terra. Ma prima tolse loro l'uso
della parola, d'una lingua ferrata nei più turpi spergiuri:
soltanto di lamentarsi con rochi squittii lasciò facoltà.
Oltrepassate queste isole, lasciate le mura di Partenope
sulla destra, verso ponente la tomba del melodioso
Eolide e una contrada piena di paludi, Enea
giunge alle spiagge di Cuma e all'antro dell'antica Sibilla.
La Sibilla Cumana giovane dipinto dal Domenichino
La prega di guidarlo nell'Averno sino all'ombra
di suo padre. La Sibilla, rimasta a lungo con lo sguardo a terra,
finalmente invasata dal dio, alza gli occhi e dice:
"Grande cosa chiedi, o eroe grandissimo per le tue imprese,
che in guerra hai brillato col braccio e in mezzo al fuoco
per pietà filiale. Non temere dunque, o Troiano: avrai
quello che chiedi e guidato da me vedrai la sede dell'Eliso,
l'ultimo regno del mondo, e lì l'ombra cara di tuo padre.
Nessuna via è preclusa alla virtù". Così dice e gli indica
un ramo d'oro che brilla nel bosco di Persefone,
la Giunone infernale, e gli ordina di staccarlo dal tronco.
Enea obbedisce e così riesce a vedere la terrificante
maestà dell'Averno, i propri avi e l'ombra del suo vecchio padre,
il magnanimo Anchise; apprende pure le leggi del luogo
e quali pericoli dovrà affrontare in guerre future.
Poi, risalendo il sentiero con passo stanco,
allevia la fatica conversando con la sua guida cumana.
E mentre in un livore d'ombre percorre quell'orrido tratturo:
"Io non so se tu sia una dea o solo diletta agli dei" le dice,
"ma per me sarai sempre un nume e sempre ti sarò riconoscente
per avermi permesso di scendere in questi luoghi della morte
e di sfuggirli dopo aver visto la morte.
Per questi meriti, quando sarò di nuovo all'aria sotto il cielo,
ti erigerò un tempio e ti onorerò con l'incenso".
La profetessa si volge a guardarlo e con un profondo sospiro:
"Non sono una dea" risponde; "non venerare con l'incenso sacro
un essere umano. E perché la cecità non t'induca in errore,
sappi che luce eterna e senza fine avrei potuto ottenere,
se la mia verginità si fosse concessa a Febo, che mi amava.
Nella speranza di ottenerla, corrompendomi con i suoi doni,
Febo mi disse: "Esprimi un desiderio, vergine cumana:
sarà esaudito". Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai,
chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita
quanti granelli di sabbia c'erano in quel mucchietto.
Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza.
Eppure anche questo m'avrebbe concesso, un'eterna giovinezza,
se avessi ceduto alle sue voglie. Disprezzato il dono di Febo,
eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l'età più bella
mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un'acida vecchiaia,
che a lungo dovrò sopportare. Vedi, sette secoli
son già vissuta: per eguagliare il numero dei granelli,
trecento raccolti e trecento vendemmie devo ancora vedere.
Tempo verrà che la lunga esistenza renderà il mio corpo piccolo
da grande che era, e le mie membra consunte dalla vecchiaia
si ridurranno a niente. E non si potrà credere che m'abbia amata
un dio, che a lui sia piaciuta. E forse persino Febo
non mi riconoscerà o negherà d'avermi mai amata,
tanto sarò mutata. Alla fine nessuno più mi vedrà: solo
la voce mi rivelerà, la voce che il fato vorrà lasciarmi".
Questo raccontava la Sibilla lungo la ripida salita,
quando dalle profondità dello Stige l'eroe troiano emerse
nella città di Cuma. Fatti i sacrifici d'uso, scese
alla spiaggia che ancora non aveva il nome della sua nutrice.
Qui s'era fermato, dopo lunghe e penose avversità,
anche Macareo di Nèrito, compagno dell'ingegnoso Ulisse.
E Macareo riconosce Achemènide, tempo fa abbandonato
fra le rupi dell'Etna; stupito di ritrovarselo davanti
sano e salvo, gli dice: "Quale caso o quale nume ti ha salvato,
Achemènide? E come mai tu, che sei greco, viaggi
su nave straniera? A che terra è diretta la vostra nave?".
A queste domande Achemènide, non più conciato da selvaggio,
ma vestito ammodo, senza più stracci addosso uniti
con le spine, risponde: "Che io torni a vedere Polifemo
e quel suo ceffo grondante di sangue umano,
se questa nave non mi è più cara della mia casa e di Itaca,
se non venero Enea più di mio padre. Per quanto possa donargli,
mai potrei dimostrargli appieno la mia gratitudine.
Se ora parlo e respiro, se contemplo il cielo e la luce del sole,
come potrei essere ingrato e smemorato?
Grazie a lui, quest'anima mia non è finita in bocca
al Ciclope, e se anche ora lasciassi la luce della vita,
sarò sepolto in una tomba e non certo in quel ventre.
Che cosa non provai (ma il terrore m'aveva tolto ogni coscienza
dal cuore), quando vi vidi far vela verso il largo
abbandonandomi! Avrei voluto gridare, ma temetti
di svelarmi al nemico. Anche le grida di Ulisse per poco
non vi fecero naufragare. Io vedevo tutto, quando il Ciclope,
divelta dal monte una roccia immane, la scagliò in mezzo al mare;
vedevo tutto, quando col suo braccio gigantesco e con la forza
di una balestra continuò a lanciare macigni mostruosi
e, dimenticandomi che non ero più a bordo,
temetti che i flutti o i colpi di vento sommergessero la nave.
Quando poi la fuga vi sottrasse a morte precoce,
lui si mise a vagare gemendo per tutto l'Etna,
e tastava con le mani gli alberi, cozzava contro le rupi,
cieco com'era, e tendendo verso il mare le braccia
tutte lorde di sangue, malediceva la razza degli Achei,
urlando: "Oh se la fortuna mi riportasse qui Ulisse
o qualcuno dei suoi compagni, per sfogare la mia rabbia,
per mangiarne le viscere, per dilaniarlo vivo
con queste mani, per saziare la mia gola col suo sangue
e sentirmi palpitare sotto i denti le membra stritolate!
Allora poco o nulla mi peserebbe la perdita dell'occhio!".
Questo ed altro dice inferocito. Io livido inorridisco,
mentre osservo il suo volto ancora fradicio di strage,
le mani spietate, l'orbita vuota del suo occhio,
le sue membra e la barba incrostata di sangue umano.
Avevo la morte davanti agli occhi e pur era il male minore.
Già temevo che mi ghermisse, che ingoiasse nelle sue
le mie viscere. In mente avevo fissa la visione
di quando l'avevo visto sbattere contro il suolo
tre, quattro volte il corpo di due miei compagni
e lui accucciato sopra quei corpi, come un leone selvaggio,
che nel ventre ingordo si cacciava interiora, carni,
ossa col bianco midollo e membra in parte ancora animate.
Mi prese un tremito; abbattuto, esangue stavo lì
a vederlo masticare e sputare cibo
sanguinolento, a vederlo vomitare bocconi insieme al vino,
e immaginavo che avrei fatto la stessa misera fine.
Per molti giorni mi tenni nascosto, ansando al minimo fruscio,
con la paura della morte e insieme augurandomi di morire,
scacciando la fame con le ghiande, con erbe e qualche foglia,
solo, inerme, disperato, lasciato allo strazio di quella fine;
finché dopo lungo tempo scorsi in lontananza una nave, questa,
e a gesti scongiurai che mi salvassero, corsi alla spiaggia:
ebbero pietà e la nave troiana prese a bordo un greco.
Ma ora anche tu, compagno mio carissimo, racconta le vicende
tue, di Ulisse e del gruppo che con te si avventurò sul mare".
E Macareo racconta che sul mare etrusco regna Eolo,
Eolo, figlio di Ippota, che in carcere tiene imbrigliati i venti;
racconta come Ulisse, il re di Dulichio, li ricevesse in dono,
eccezionale dono, chiusi in un otre di cuoio, e al loro soffio
navigasse nove giorni sino in vista della terra agognata;
ma che poi, all'alba della decima aurora, i suoi compagni,
spinti da invidia e avidità, convinti che nell'otre
si trovasse dell'oro, l'aprirono scatenando i venti;
e la nave fu rigettata indietro, in acque appena percorse,
ritrovandosi di nuovo nel porto del signore delle Eolie.
"Da lì", prosegue Macareo, "giungemmo all'antica città
dei Lestrìgoni, fondata da Lamo, in cui regnava Antìfate.
Io fui inviato da lui con la scorta di due compagni:
solo a stento in due ci salvammo con la fuga;
col suo sangue il terzo arrossò la bocca scellerata
del Lestrìgone. Fuggiamo e, scatenandoci dietro una masnada,
Antìfate c'insegue: ci incalzano e, scagliando macigni
e tronchi, sommergono uomini, affondano navi.
Una comunque, solo quella che trasportava Ulisse e me stesso,
si salvò. Affranti per la perdita di tanti compagni,
piangendo la loro sorte, approdammo a quella terra,
che in lontananza laggiù si vede. È un'isola questa, credi a me,
che va guardata solo da lontano. E tu, il più giusto dei Troiani,
Enea, figlio di dea (non ho più motivo di chiamarti nemico
ora che la guerra è finita), attento, evita le spiagge di Circe!
Noi stessi, dopo aver ormeggiato la nave su quel lido,
memori di Antìfate e dello spietato Ciclope,
non volevamo sbarcare e inoltrarci in territori sconosciuti.
Fummo tirati a sorte, e al palazzo di Circe la sorte mandò
me e il fedele Polite, con Eurìloco ed Elpènore,
troppo dedito al vino, e altri diciotto compagni.
Come arrivammo e ci affacciammo alla porta di casa,
migliaia di lupi, mischiati ad orsi e leonesse,
ci atterrirono venendoci incontro. Ma non c'era da temere:
nessuna belva avrebbe fatto un graffio al nostro corpo.
Anzi, si misero a scodinzolare mansuete,
a farci festa, seguendo in corteo i nostri passi, finché ancelle
non ci accolsero e, attraverso un atrio rivestito di marmi,
ci condussero dalla padrona: sedeva su un trono solenne
in una bella stanza appartata, indossava una veste splendente,
sulla quale si avvolgeva un manto dorato.
Attorno a lei Nereidi e Ninfe non filano con le dita
i bioccoli di lana e non ne tramano poi nell'ordito i fili,
ma dividono erbe e dispongono in canestri, secondo i tipi,
fiori ammucchiati alla rinfusa e steli di vario colore.
Lei controlla il lavoro che fanno, perché conosce
l'impiego d'ogni foglia, l'armonia delle combinazioni,
ed esamina con occhio esperto i dosaggi delle varie erbe.
Come ci vide, ricevute e rivolte parole di saluto,
distese il volto e ci accolse nel modo migliore possibile.
E subito ordina di stemperare chicchi d'orzo tostato
in miele, vino robusto e latte appena cagliato; ma vi aggiunge
di nascosto succhi che non si avvertono fra il dolce.
Noi accettiamo le coppe offerte da quella mano maledetta.
Ma appena con la gola secca bevemmo assetati
e con la verga quella dea tremenda ci sfiorò i capelli
(mi vergogno a narrarlo), cominciai a coprirmi d'orrende setole,
a non poter più parlare, a emettere in luogo di parole
sordi grugniti, a cadere carponi con tutta la faccia a terra;
sentii il mio viso incallirsi in un curvo grugno, il collo
gonfiarsi di muscoli, e con le mani, con cui un attimo prima
impugnavo la coppa, impressi in terra le orme di una bestia.
E con le altre vittime della stessa sorte (tanto può quel filtro)
fui rinchiuso in un porcile. Il solo che evitò di mutarsi in porco
fu, come vedemmo, Eurìloco, il solo a non bere la coppa offerta.
Se non l'avesse evitata, farei ancora parte di quel branco
setoloso, perché Ulisse, senza che lui l'informasse di quella
sciagura immane, non sarebbe venuto da Circe a liberarci.
A Ulisse Mercurio, che infonde pace, diede un fiore bianco:
'moly' lo chiamano gli dei, si attacca al suolo con radici nere.
Protetto da quel fiore e grazie ai consigli celesti, Ulisse
entra nella casa di Circe e invitato a bere l'infida
bevanda, quando lei cerca di sfiorargli i capelli con la verga,
la respinge e impugnando la spada l'obbliga a ritrarsi atterrita.
Costretta a giurargli fedeltà, l'accoglie nel letto come amante,
e lui le chiede in dote che renda i suoi compagni com'erano.
Siamo cosparsi di succhi benigni d'una pianta sconosciuta,
con la verga capovolta ci viene percossa la testa,
son pronunciate parole contrarie a quelle dette prima:
man mano che Circe recita la formula, noi ci drizziamo
sempre più da terra, cadono le setole e i piedi biforcuti
perdono la fessura, tornano le spalle e le braccia si allungano
in avambracci. Piange Ulisse, piangiamo noi abbracciandolo;
ci avvinghiamo al collo del nostro capo e le prime parole
che diciamo altro non sono che parole di gratitudine.
Ci trattenemmo lì un anno e in tutto quel tempo con i miei occhi
vidi molte cose e molte altre ancora sentii raccontare.
Fra le tante anche questa, che mi fu confidata in segreto
da una delle quattro ancelle addette a quei sortilegi misteriosi.
Ulisse e Calipso dipinto di Luca Giorgano
Mentre da sola Circe intratteneva Ulisse,
quell'ancella mi mostrò la statua scolpita in marmo bianco
di un giovane, che aveva sulla testa un picchio,
ed era collocata in un sacello e tutta ornata di ghirlande.
Incuriosito le chiesi chi fosse e perché venisse onorato
in un sacello quel giovane, perché avesse sul capo un uccello.
"Ascolta, Macareo," mi rispose, "anche da qui capirai
quanto sia potente la mia signora. Seguimi con attenzione.
In terra d'Ausonia regnava Pico, un figlio di Saturno
appassionato di cavalli addestrati al combattimento.
Il suo aspetto era quello che vedi: tu stesso puoi ammirarne
la bellezza e giudicare da questo ritratto com'era in vita.
Pari all'aspetto era il suo cuore, e non aveva l'età d'aver visto
quattro volte i ludi che ogni quattro anni si svolgono in Grecia,
in Elide. Col suo volto aveva affascinato le Driadi nate
sui monti del Lazio, per lui sospiravano le divinità
delle fonti e le Naiadi tutte, quelle dell'Albula,
del Numicio, dell'Aniene, dell'Almone dal brevissimo corso
o dell'impetuoso Nare, del Fàrfaro dall'onda scura,
quelle che vivono nel regno boscoso di Diana Scìtica
o nel lago vicino. Ma lui tutte le disprezza;
una ninfa sola corteggia, una ninfa che si diceva
partorita da Venilia sul Palatino a Giano, il dio bifronte.
Non appena fu in età da marito, la fanciulla
andò sposa al laurentino Pico, preferito fra tutti.
Di rara bellezza, ma per l'arte ancor più rara con cui cantava,
fu chiamata Canente. Col suo canto riusciva a commuovere
selve e sassi, ad ammansire le belve, riusciva a frenare
le correnti dei fiumi, a trattenere nel volo gli uccelli.
Un giorno, mentre lei con la sua dolce voce di donna cantava,
Pico uscì di casa per andare nelle campagne di Laurento
a caccia di cinghiali; in groppa a un focoso cavallo,
stringeva nella sinistra due giavellotti e indosso aveva
un mantello purpureo fermato da una fulgente borchia d'oro.
In quello stesso bosco si era recata anche la figlia del Sole,
lasciando i campi che Circei son detti dal suo nome,
per raccogliere su quei fiorenti colli erbe rare.
E quando, nascosta in una macchia, vide il giovane Pico,
ne fu colpita: di mano le caddero le erbe che aveva colto
e si sentì percorrere da un fuoco in tutte le sue vene.
Come si riebbe da quella violenta vampata, fu sul punto
di svelargli il suo desiderio, ma la corsa del cavallo
e la scorta stretta intorno a lui le impedirono d'avvicinarlo.
'No, non mi sfuggirai,' proruppe, 'e ti rapisse pure il vento,
se mi conosco, se non è del tutto svanito
il potere delle mie erbe e le mie formule non mi tradiscono.'
Detto questo, evocò il fantasma inconsistente di un cinghiale
e lo fece correre davanti agli occhi del re,
fingendo che andasse a rintanarsi in un bosco fitto d'alberi,
dove la vegetazione è più folta e un cavallo non può addentrarsi.
Subito Pico ignaro si lancia all'inseguimento d'una preda
fantasma, smonta d'un balzo dalla groppa sudata del cavallo
e inseguendo una chimera, s'inoltra a piedi nel cuore del bosco.
Circe recita preghiere, pronuncia parole infernali
e adora dèi misteriosi con una nenia misteriosa,
che usa per annebbiare il volto niveo della luna e stendere
una coltre di nuvole davanti a quello di suo padre.
E anche questa volta a quella nenia il cielo si oscura,
esala nebbie la terra e i compagni di Pico si perdono
in un intrico di sentieri, finché nessuno scorta più il re.
Trovato luogo e momento adatto: 'Per questi tuoi occhi,' gli dice,
'che hanno ammaliato i miei, per la tua bellezza, delizia mia,
che mi spinge a supplicarti anche se son dea, prenditi a cuore
la mia passione e accetta come suocero il Sole, che tutto penetra
con lo sguardo: non disprezzare, ingrato, Circe, figlia del Titano!'.
Ma lui, sprezzante, la respinge, respinge le sue preghiere:
'Chiunque tu sia, non sono tuo. Un'altra, sì, un'altra mi lega a sé
e prego il cielo che mi leghi per quanto è lunga la vita!
Finché il destino mi conserverà la figlia di Giano, Canente,
mai violerò per un altro amore il patto che a lei mi lega'.
Dopo avere invano tentato e ritentato di commuoverlo:
'Me la pagherai' esclamò; 'non rivedrai mai più Canente;
imparerai coi fatti di cosa sia capace una donna offesa
nel suo amore, e Circe è donna, e innamorata e offesa'.
Due volte allora si girò verso ponente, due verso levante;
tre volte lo toccò con la verga e tre volte recitò una formula.
Il giovane fugge, ma con stupore si accorge di correre
più veloce del solito; si scopre addosso delle penne
e, sdegnato di dover vivere d'un tratto nei boschi del Lazio
mutato in uccello, trafigge le querce selvatiche
col duro becco e furioso infligge ferite lungo i rami.
Le penne assumono il color purpureo del mantello;
la borchia d'oro, che prima fermava la sua veste,
diventa una piuma e di riflessi d'oro si cinge il collo;
di ciò che appartenne a Pico l'unica cosa che rimane è il nome.
Intanto i compagni, sgolatisi a chiamarlo
per la campagna, senza riuscire a trovarlo,
scoprono Circe (ormai lei aveva attenuato la foschia
lasciando squarciare le nebbie dal vento e dal sole),
la investono di giuste accuse, reclamano il loro re e, passando
ai fatti, si accingono ad assalirla minacciandola con le armi.
Lei allora sparge veleni di morte e succhi malefici,
dall'Èrebo e dal Caos chiama a raccolta la Notte e gli dei
della Notte, invoca Ecate con lunghe grida selvagge.
Sussultarono (incredibile a dirsi) le foreste,
gemette il suolo, impallidirono gli alberi accanto,
trasudarono i pascoli intorno gocce di sangue,
sembrò che le pietre emettessero sordi muggiti,
che latrassero i cani, che il suolo brulicasse di neri
serpenti e in volo si librassero gli spiriti dei morti.
Inorridito dai prodigi, il gruppo trema e lei con la bacchetta
magica tocca il loro volto istupidito dal terrore,
e a quel tocco i giovani mutano il loro aspetto in quello mostruoso
di svariati animali: nessuno conservò la propria natura.
Sulle spiagge di Tartesso si spegneva il tramonto del sole
e invano gli occhi e il cuore di Canente avevano atteso il ritorno
del marito. Servitori e popolo al lume delle torce
perlustrano in ogni luogo tutte le selve.
E la ninfa non si accontenta di piangere, di strapparsi
i capelli, di percuotersi il petto; fa, sì, tutto questo,
ma poi corre fuori e vaga impazzita per le campagne del Lazio.
Per sei notti e per sei giorni, quando tornava a splendere
il sole, fu vista vagare senza dormire e senza cibarsi
per monti e valli, dove la guidava il caso.
L'ultimo a vederla fu il Tevere: stanca per il dolore
e il cammino, ormai accasciata lungo la sua riva.
Lì afflitta sussurrava fra le lacrime fievoli parole
che pur nel dolore si scioglievano in melodia,
come il funebre canto che il cigno intona in punto di morte.
Poi, struggendosi per lo strazio, sin nell'intimo del cuore,
si dissolse e a poco a poco svanì nella leggerezza dell'aria.
Il luogo, però, serba il suo ricordo: le antiche Camene
dal nome della ninfa lo chiamarono per rispetto Canente".
Molte altre cose mi furono narrate in quell'anno senza fine
o le vidi. Impigriti e infiacchiti dall'inattività,
ci fu poi imposto di riprendere il mare spiegando le vele.
Circe ci aveva detto dell'incertezza e lunghezza del percorso,
e dei pericoli che ci attendevano sul mare ostile.
Mi spaventai, lo confesso: trovata questa terra, vi rimasi".
Macareo aveva finito. E ormai la nutrice di Enea, sepolta
in un'urna di marmo, aveva un tumulo con un breve epitaffio:
"Qui riposa Caieta: il mio figlioccio, noto per la sua pietà,
sottrattami alle fiamme argive, per rito, qui mi ha cremato".
I Troiani sciolgono dal terrapieno erboso le gómene
e, fuggendo lontano dalle insidie e dal palazzo
di quell'infame dea, si dirigono verso i boschi, dove il Tevere,
incupito dall'ombra, si getta in mare con la sua rena bionda.
Dal figlio di Fauno, Latino, Enea ottiene asilo e figlia in moglie;
ma non senza combattere: una gente feroce gli muove guerra
e per non perdere la sposa promessa si scatena anche Turno.
Tutta l'Etruria si lancia all'assalto del Lazio e per lungo tempo
si cerca col martirio delle armi una vittoria impossibile.
Entrambe le parti si rafforzano con alleati stranieri;
molti appoggiano i Rùtuli, molti il campo troiano.
Con buon esito Enea s'era recato nel territorio di Evandro,
senza fortuna Vènulo nella città che il profugo Diomede
aveva fondato nella Iapigia, quando vi regnava Dàuno,
città grandissima che controllava anche le terre avute in dote.
Dopo che Vènulo gli ebbe infatti esposto l'ambasciata di Turno,
chiedendo aiuti, l'eroe dell'Etolia rifiutò,
adducendo a discarico di non voler coinvolgere in guerra
i popoli di suo suocero e di non aver d'altra parte gente
propria da potere armare: "E perché non pensiate che siano fole,
anche se ricordare un lutto ne rinnova l'amarezza,
mi sforzerò di narrare. Dopo l'incendio della grande Troia,
dopo che Pergamo divenne preda delle fiamme greche
e l'eroe di Nàrice, strappando vergine a Vergine,
ebbe attirato su tutti disgrazie che meritava lui solo,
fummo dispersi e noi Dànai, trascinati dai venti
sui flutti ostili, subimmo fulmini, tenebra, diluvi e l'ira
di cielo e mare, sino al disastro finale di capo Cafàreo.
Ma per non stancarvi narrando ad una ad una quelle traversie,
dirò che allora la Grecia avrebbe fatto pena persino a Priamo.
Io, grazie all'aiuto della bellicosa Minerva, mi salvai,
scampando ai flutti; ma ancora una volta fui bandito dalla patria,
e l'alma Venere, pensando alla ferita che un giorno le infersi,
volle vendetta: così, tanti furono i travagli che soffersi
in mare aperto e tanti quelli che soffersi in battaglie terrestri,
da sorprendermi spesso a chiamare fortunati i compagni
affogati tra i flutti della tempesta o davanti al tragico
Cafàreo: sì, essere uno di loro, questo avrei voluto.
Ridotti ormai allo stremo dai flutti e dalle guerre, i miei compagni
cedettero e chiesero che si smettesse di navigare. Ma Acmone,
d'indole impetuosa, inasprita in più dalle sventure, esplose:
"Qualcosa ancora esiste che voi prodi non possiate sopportare?
Che potrebbe mai fare, più di quel che ha fatto, la dea di Citera,
anche se volesse? Finché si teme il peggio,
si è esposti ai colpi, ma quando la sorte è la peggiore che ci sia,
non c'è paura che valga: al colmo della sventura si sta in pace.
Che Venere mi senta pure e detesti, come fa, tutti gli uomini
al seguito di Diomede: del suo odio a noi non importa niente,
per quanto cara possa costarci la nostra presunzione!".
Con questo beffardo discorso Acmone di Pleurone
provoca Venere e ne rinfocola l'antico rancore.
A pochi piacciono le sue parole. Noi, la maggioranza
dei suoi amici, lo rimproveriamo, e quando lui ci vuol rispondere,
la voce, e con lei la sua via, si assottiglia, le chiome
finiscono in piume e piume gli ricoprono un collo tutto nuovo,
e il petto e il dorso; sulle braccia spuntano penne più lunghe
e i gomiti s'incurvano in ali leggere;
nei piedi si allarga una membrana che ingloba le dita; la bocca
s'irrigidisce in duro corno e termina alla fine in una punta.
Lico lo guarda inorridito, inorriditi lo guardano Ida,
Nicteo, Ressènore e Abante, e mentre lo guardano
assumono lo stesso aspetto. Gran parte di loro poi
si leva in volo e, sbattendo le ali, volteggia intorno ai remi.
Se mi chiedi la forma di questi uccelli apparsi improvvisamente,
non era quella dei bianchi cigni, ma molto simile alla loro.
Ed ora, genero di Dàuno, qui nella Iapigia reggo a stento,
con pochissimi dei miei, questa città e quest'arida terra".
Così il nipote di Eneo. Vènulo lascia il regno di Calidone,
il golfo di Peucezi e la contrada dei Messapi.
Qui aveva visto, tra l'ondeggiare di canne leggere,
le grotte immerse nell'ombra fitta di un bosco, dove vive Pan,
un dio mezzo caprone, ma dove un tempo vivevano le ninfe.
Un pastore d'Apulia le atterrì facendole fuggire:
prima le aveva sconvolte spaventandole all'improvviso,
ma poi loro si riebbero, sprezzando l'inseguitore,
e muovendo a ritmo i piedi, intrecciarono le loro danze.
Allora il pastore le derise e, mimando il loro movimento
con goffi salti, le coprì di sarcasmo e di insulti osceni,
né tacque, prima che una corteccia gli serrasse la gola.
Ora infatti è un albero, l'oleastro, che dal succo delle bacche
rivela quale fosse il suo carattere: nel loro gusto amaro
è il marchio di quella lingua, l'asprezza impressa dal linguaggio.
Quando da lì ritornarono gli ambasciatori con la notizia
che Diomede si rifiutava d'aiutarli, i Rùtuli da soli
proseguirono la guerra iniziata: molto sangue fu versato
da entrambe le parti. Ed ecco Turno che contro gli scafi di pino
getta torce in fiamme: risparmiati dai flutti, ora temono il fuoco.
Il fuoco ormai bruciava pece, cera e tutto ciò che l'alimenta,
le fiamme salivano lungo gli alberi sino alle vele
e i banchi nel fondo della chiglia erano avvolti dal fumo,
quando la santa Madre degli dei, ricordando che sulla vetta
dell'Ida quei pini erano stati tagliati, riempì il cielo
col rombo metallico dei suoi bronzi, col lamento dei suoi flauti
e, calando dall'etere trasportata da docili leoni,
disse: "Inutilmente, Turno, con mano sacrilega appicchi incendi!
Io salverò queste parti e membra dei boschi miei
e non permetterò che la voracità del fuoco le distrugga".
Mentre la dea parlava, rimbombò un tuono e subito dopo
scrosciarono a dirotto piogge e cascate di grandine;
confluendo all'improvviso e azzuffandosi fra loro,
i fratelli Astrei sconvolsero il cielo e le profondità del mare.
Avvalendosi delle raffiche di uno dei venti, l'alma Madre
spezzò le funi che tenevano ormeggiata la flotta dei Frigi,
spinse le navi inclinate in avanti e le sommerse in alto mare.
S'imbeve d'acqua il legno e si trasforma in corpi umani,
le curve poppe prendono le fattezze del viso,
i remi diventano dita e gambe in grado di nuotare,
quelle che erano le fiancate sono i fianchi, la chiglia che corre
sotto e lungo gli scafi assume la funzione di spina dorsale,
i cordami si mutano in morbidi capelli, i pennoni in braccia.
Come prima, azzurro è il loro colore. Naiadi marine,
con allegria di fanciulle, ora solcano quel mare
che un tempo temevano. Nate sulle dure rocce di montagna,
ora si fanno cullare dai flutti, incuranti di dove vengono.
Ma non avendo scordato i tanti pericoli patiti
sul mare in tempesta, spesso sorreggono con le mani le navi
che rischiano d'affondare, purché non trasportino Achei.
Memori delle distruzioni operate in Frigia, odiano i Pelasgi,
ed è con volto lieto che vedono sfasciarsi la nave
di Nèrito, è con volto lieto che vedono la nave di Alcìnoo
immobilizzarsi e il suo legno trasformarsi in pietra.
Animata la flotta in ninfe marine, era lecito sperare
che i Rùtuli, atterriti dal prodigio, cessassero di combattere;
ma loro insistono, e ogni parte ha propri dei o, cosa che equivale
a un nume, ha coraggio. Ormai non si battono più per un regno,
né per lo scettro del suocero o per te, vergine Lavinia,
ma per vincere, e guerreggiano per non affrontare il disonore
di deporre le armi. Alla fine Venere vede suo figlio
Enea uccide Turno di Luca Giordano
trionfare, e Turno cade. Cade anche Ardea, stimata invincibile
finché Turno era vivo. Ma dopo che il fuoco dei Troiani
la rase al suolo coprendo di ceneri calde le case,
un uccello mai visto si levò in volo dalle macerie,
sferzando col battito delle sue ali la cenere.
Grido, magrezza e pallore, tutto s'addice
a una città distrutta, e della città gli rimane il nome:
Ardea piange la propria sorte con quel suo battito d'ali.
Ormai il valore di Enea aveva costretto tutti gli dei
e la stessa Giunone a seppellire gli antichi rancori.
Posto su solide basi il potere del fiorente Iulo,
l'eroe era maturo per il cielo: Venere, la dea
di Citera, aveva lusingato gli dei, poi, abbracciata al collo
del proprio genitore, disse: "Padre mio, che mai
sei stato con me severo, ora sii ancora più buono, ti prego,
e al mio Enea, che essendo del mio sangue, nonno
ti ha reso, concedi rango divino, anche se piccolo,
ma concediglielo. Già una volta ha visto l'odioso regno
dei morti, già una volta ha solcato i fiumi infernali: può bastare".
Acconsentirono gli dei e anche la consorte di Giove
non restò impassibile, assentendo col volto rabbonito.
Allora il padre disse: "Siete entrambi degni di un dono celeste,
tu che chiedi, lui per il quale chiedi: sia come desideri".
Questo disse. Esultante la dea rende grazie al genitore,
e trasportata da una coppia di colombe nello spazio aperto,
scende sulla costa laurentina, dove nascosto fra i canneti
si snoda verso il mare vicino il Numicio con la sua corrente.
Al fiume lei ordina di mondare e di disperdere nel mare
col suo tacito corso tutto ciò che in Enea è soggetto a morte.
Il nume del fiume esegue l'ordine della dea: purifica
col flusso delle sue acque Enea di tutto quanto era in lui
mortale, lasciandogli solo la parte più pura.
Unse allora la madre con unguento divino il suo corpo
purificato, gli sfiorò la bocca con dolce nèttare e ambrosia,
e lo rese un dio; un dio che il popolo dei Quiriti
chiama Indìgete e onora con templi e con altari.
Alba e il regno latino passarono poi sotto il dominio
di Ascanio o Iulo che dir si voglia. A lui succedette Silvio,
quindi fu il figlio di questi, Latino, ad avere l'antico scettro
con lo stesso nome dell'avo. A Latino subentrò Alba il grande,
a lui il figlio Èpito. Vennero poi Càpeto e Capi,
ma Capi per primo. Da loro il regno passò a Tiberino,
che, travolto dalla rotta del fiume etrusco,
a questo diede il nome. Da Tiberino nacquero Rèmolo
e il fiero Acrota: Rèmolo, più maturo d'anni,
perì colpito da un fulmine nello sforzo d'imitarlo;
Acrota, più prudente del fratello, trasmise lo scettro
al forte Aventino, che giace sepolto nel colle
sul quale aveva regnato, lasciandogli il suo nome.
E già a governare il popolo del Palatino era Proca.
Sotto il suo regno visse Pomona, che pari non ebbe nessuna
fra le Amadriadi latine a coltivare giardini,
nessuna più appassionata delle piante da frutto:
da qui viene il suo nome. E non sono boschi o fiumi a piacerle,
quanto la campagna e i rami carichi di frutti maturi.
La sua destra non stringe un giavellotto, ma una falce adunca
con cui sfoltisce la vegetazione che trabocca e pota i rami
che s'intrecciano fra loro o incide una corteccia per innestarvi
una marza e offrire linfa al tralcio di un'altra pianta.
E non tollerando che soffrano la sete, irriga
con rivoli d'acqua le fibre contorte delle avide radici.
Questo è l'amor suo, il suo impegno, e di amplessi non ha brama.
Ma temendo la violenza dei contadini, recinge i frutteti
ed evita l'intrusione dei maschi vietando loro l'accesso.
Cosa non fecero per possederla i Satiri, giovani dediti
alle danze, e i Pan con le corna inghirlandate d'aghi
di pino, e Silvano, sempre più giovanile
dei suoi anni, e quel dio che spaventa i ladruncoli
con la falce e il pene! Ma chi l'amava più di tutti
era Vertumno, anche se non con fortuna migliore.
Oh, quante volte camuffato da robusto mietitore
portò spighe in una cesta, e del mietitore era il vero ritratto!
Cingendosi a volte le tempie di fieno fresco, poteva
sembrare che avesse rivoltato l'erba falciata.
A volte nella mano rigida portava un pungolo,
sì da giurare che avesse appena tolto il giogo ai giovenchi stanchi.
Con una falce in mano era un colono che sfronda e pota le viti;
con una scala in spalla pensavi che andasse a cogliere la frutta;
con la spada era un soldato, presa la canna un pescatore.
Insomma sotto gli aspetti più diversi trovava sempre il modo
di godersi lo spettacolo di Pomona, della sua bellezza.
Un giorno poi, avvolto il capo in una cuffia colorata
e imbiancatisi i capelli sulle tempie, appoggiandosi a un bastone,
si camuffò da vecchia, penetrò nelle sue piantagioni
e ammirandone i frutti, esclamò: "Quanto sei brava, Pomona!".
E alle lodi aggiunse una quantità di baci, come mai
una vecchia vera ne avrebbe dati. Poi sedette tutta curva
su una zolla, ammirando i rami incurvati dai frutti dell'autunno.
C'era di fronte un olmo avvolto da un rigoglio d'uva luccicante.
Elogiato l'olmo insieme alla vite che l'accompagnava, disse:
"Però se questo tronco se ne stesse lì celibe, senza tralci,
non avrebbe nulla di attraente se non le proprie fronde.
E anche la vite, che si abbandona abbracciata all'olmo,
se non gli fosse unita, per terra giacerebbe afflosciata.
Ma a te l'esempio di questa pianta non dice nulla
ed eviti l'accoppiamento, non ti curi di congiungerti.
Oh, se tu lo volessi! Più numerosi spasimanti dei tuoi
non avrebbero afflitto Elena, colei che scatenò la guerra
dei Làpiti e la moglie del pavido o, se vuoi, coraggioso Ulisse.
E anche ora, ora che fuggi e respingi chi ti vorrebbe,
migliaia d'uomini ti bramano e dei, semidei
e tutte le divinità che vivono sui monti Albani.
Ma se vuoi essere saggia, se vuoi maritarti bene e ascoltare
questa vecchia che ti ama più di tutti questi, e più di quanto
tu creda, non accettare nozze banali e scegli
come compagno di letto Vertumno. Sul suo conto
posso garantirti io: lui non si conosce più di quanto
lo conosca io. Non vaga qua e là frivolo per il mondo,
mondanità niente, e non fa come tanti che s'innamorano
d'ogni donna che vedono: tu sarai la sua prima e ultima
fiamma e a te sola dedicherà tutta la sua vita.
Considera poi che è giovane e da natura ha il dono
della bellezza, che ha l'abilità di trasformarsi in ogni aspetto:
ordinagli l'impossibile, all'ordine diverrà ciò che vuoi.
E poi non avete gli stessi gusti? Non è il primo a prendersi
i frutti che ti stanno a cuore, a stringere lieto in mano i tuoi doni?
Ma ora non desidera i frutti spiccati dall'albero
o le succose verdure che crescono nel tuo giardino:
non desidera che te. Abbi pietà del suo fuoco e ciò
che implora, pensa che sia lui stesso per bocca mia a chiederlo.
Non temi il castigo degli dei, di Venere che detesta
gli animi duri, l'ira di Nèmesi che nulla dimentica?
E perché cresca il tuo timore (molte cose la vecchiaia
mi ha permesso di sapere), ti narrerò un episodio notissimo
in tutta Cipro, che credo possa piegarti e renderti più mite.
Ifi, uomo d'umili natali, aveva visto Anassàrete,
una nobile fanciulla dell'antica stirpe di Teucro;
l'aveva vista e in tutte le sue ossa aveva avvertito una vampa.
Dopo aver lottato a lungo, non riuscendo a vincere col giudizio
quella folle passione, andò a spasimare davanti alla sua porta.
E lì, confessato il suo infelice amore alla nutrice,
la scongiura, per il bene della fanciulla, d'essergli propizio;
oppure, blandendo questo o quello dei numerosi servitori,
si raccomanda angosciato che gli conceda il proprio appoggio.
Ma spesso affidava le sue parole a teneri biglietti,
e a volte appendeva alla sua porta ghirlande intrise
d'un fiume di lacrime o stendeva il suo corpo delicato
davanti alla soglia sbarrata, inveendo in pianto contro la spranga.
Lei, più spietata del mare che si gonfia al tramonto dei Capretti,
più dura del ferro temprato nelle fucine del Nòrico
e della roccia viva che si abbarbica alla terra,
lo sprezza e lo deride, aggiungendo con perfidia alla crudeltà
dei suoi atti parole arroganti e privandolo d'ogni speranza.
Dopo tanto penare Ifi non resse più al dolore
e davanti alla porta pronunciò queste estreme parole:
"Hai vinto, Anassàrete: smetterò d'infastidirti
coi miei lamenti. Prepara in letizia il tuo trionfo,
inneggia alla vittoria e incoronati di splendido alloro.
Hai vinto e io muoio senza rimpianti. Gioisci, donna di ferro!
Una volta almeno sarai costretta a lodare una mia azione:
ti faccio cosa gradita e dovrai riconoscermi qualche merito.
Sappi però che la mia passione per te si spegnerà
solo con la morte e sarà per me come se morissi due volte.
Non saranno voci a recarti notizia della mia morte.
Io ti comparirò davanti, non dubitare, potrai vedermi,
perché tu possa saziare i tuoi occhi crudeli col mio cadavere.
E se è vero che voi, numi, vedete le vicende dei mortali,
ricordatevi di me (la mia lingua non ha più la forza
di pregarvi), fate che per secoli si parli ancora di me:
il tempo che m'avete tolto in vita, assegnatelo al mio ricordo".
Questo disse e, levando gli occhi in lacrime e le braccia pallide
verso quella porta che tante volte aveva ornato di ghirlande,
nell'atto di fissare un cappio all'architrave, urlò: "È questo,
dimmi, il serto che ti piace, donna crudele e scellerata?".
V'infilò il capo, ma sempre rivolto verso di lei,
e come peso morto penzolò strozzato.
Urtata dallo scalciare dei piedi, la porta, con cigolii
che parevano d'angoscia e sgomento, si aprì e rivelò
l'accaduto. Levano un urlo i servitori e staccato (ormai tardi)
il corpo, lo riportano (morto il padre) alla casa della madre.
Lo strinse a sé la madre, abbracciò la salma fredda del figliolo
e, dopo aver levato i lamenti resi dai genitori in lutto,
dopo avere adempiuto ai rituali di tutte le madri in lutto,
guidò piangente il funerale per le vie della città,
portando smorta la salma sul feretro destinato alle fiamme.
Volle il fato che il dolente corteo passasse vicino alla casa
di Anassàrete e che l'eco del pianto giungesse sino alle orecchie
di quella barbara, ormai incalzata dalla vendetta divina.
Turbata, mormorò: "Guardiamo questo triste funerale",
e salì in cima alla casa affacciandosi a un'ampia finestra.
Ma non appena scorse Ifi disteso sul feretro,
le s'irrigidirono gli occhi, dal corpo velato di pallore
dileguò il tepore del sangue e, quando tentò di ritrarsi,
rimase inchiodata dov'era, quando tentò di girare il viso,
neppure questo poté; e a poco a poco quella pietra che da tempo
aveva nel suo duro cuore, le invase tutte le membra.
Non mento, credimi: a Salamina esiste ancora la statua
che serba la sua immagine e un tempio dedicato
a Venere lungimirante. Memore di ciò, ninfa mia cara,
tronca, ti prego, la tua cruda ritrosia e unisciti a chi t'ama.
E io t'auguro che una gelata primaverile non danneggi
i frutti nascenti e che venti impetuosi non strappino i tuoi fiori".
Dopo aver parlato inutilmente come s'addiceva a una vecchia,
Vertumno riprese l'aspetto giovanile, abbandonando
gli abiti senili, e apparve a Pomona in tutto il suo splendore,
come quando il disco del sole, squarciando la coltre
delle nubi, senza che nulla l'offuschi, rifulge luminoso.
E si apprestava a prenderla con la forza, ma questa non servì:
sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta da amore.
Poi resse il regno di Ausonia il governo militare
dell'iniquo Amulio, finché il vecchio Numitore, grazie ai nipoti,
non riprese il trono perduto. Nel corso delle feste Palilie
fu fondata la città di Roma. Tazio e i capi sabini
mossero guerra e Tarpea, che aveva aperto la strada della rocca,
rese l'anima, per giusta punizione, sotto un cumulo d'armi.
Poi i giovani di Curi, in silenzio come lupi,
soffocando la propria voce, aggredirono le vedette vinte
dal sonno, arrivando alle porte che il figlio d'Ilia aveva sprangato
con solide travi. Ma fu la stessa figlia di Saturno
ad aprirne una, che girò sui cardini senza far rumore.
Soltanto Venere si accorse che le sbarre avevano ceduto,
e l'avrebbe richiusa, se a un dio fosse permesso disfare ciò
che un dio ha fatto. Accanto al tempio di Giano, dove scorreva
una fonte freschissima, vivevano le Naiadi d'Ausonia.
A queste Venere chiese aiuto e le ninfe non ebbero cuore
di respingere la sua giusta richiesta: schiusero della fonte
tutte le vene e i getti. Tuttavia l'entrata del tempio di Giano,
allora aperta, era ancora accessibile, e l'acqua non la sbarrava.
Versarono allora nelle acque della sorgente livido zolfo,
incendiando con fumante bitume la cavità delle vene.
Con questi e altri accorgimenti il vapore penetrò fin nelle falde
più profonde, e voi, acque, che poco prima competere osavate
col gelo delle Alpi, ora non cedete in calore neppure al fuoco.
Fumano entrambi i battenti sotto quella pioggia di fiamme
e la porta, vanamente promessa ai severi Sabini,
fu sbarrata da quell'insolita fiumana per dare ai Romani
il tempo di prendere le armi. E dopo che Romolo scese in campo,
il suolo di Roma si coprì di cadaveri sabini,
ma anche dei propri: empiamente le spade mescolarono
sangue di generi e sangue di suoceri. Alla fine
si ritenne opportuno porre fine alla guerra, senza combattere
all'ultimo sangue, e fare pace associando Tazio al potere.
Poi Tazio morì e tu, Romolo, rimanesti a governare
su entrambi i popoli, fin quando Marte, riposto il suo elmo,
con queste parole si rivolse al padre di uomini e dei:
"Ormai è tempo, padre mio, ora che la potenza dei Romani
poggia su solide basi e dipende da un unico capo,
di concedere il premio promesso a me e al tuo valoroso nipote:
sì, di rapire Romolo alla terra e collocarlo in cielo.
Romolo e Remo dipinto di Rubens
Un giorno tu, di fronte agli dei riuniti a concilio, mi dicesti
(ricordo ancora la tua predizione e la porto scolpita in cuore):
"Un uomo vi sarà, che tu porterai negli spazi azzurri
del cielo". Quanto dicesti dunque si compia".
Annuì l'onnipotente, ottenebrò d'impenetrabili nubi
il cielo e atterrì il mondo con folgori e tuoni.
Marte avvertì in quei segni la conferma dell'assunzione promessa
e, appoggiandosi alla lancia, salì sul suo carro, incitò
con la frusta gli impavidi cavalli aggiogati al timone
insanguinato e, tuffandosi attraverso lo spazio,
si fermò sulla cima erbosa del colle Palatino:
qui rapì il figlio d'Ilia che governava da re
i suoi Quiriti. Penetrando negli strati sottili dell'aria,
il corpo di Romolo si dissolse, come una palla di piombo,
scagliata da una balestra, si strugge volando nel cielo.
E apparve una figura di grande bellezza, più degna dei sogli
divini: l'immagine di Quirino avvolto nel suo manto.
La moglie Ersilia piangeva Romolo per morto; e allora Giunone,
la regina degli dei, ordinò a Iride di scendere
lungo il suo arco e di riferire alla vedova questo messaggio:
"Signora, che del Lazio e della gente sabina sei vanto sommo,
degnissima consorte sinora di un eroe così grande
e degnissima d'essere d'ora in poi sposa di Quirino,
non piangere più, e se hai desiderio di rivedere il tuo uomo,
seguimi sino al bosco che verdeggia sul colle Quirino
e che avvolge d'ombra il tempio del re romano".
Iride obbedisce, scende sulla terra lungo il suo arco
variopinto e parla a Ersilia come le era stato ordinato.
E lei, nella sua deferente modestia, levando appena il viso:
"O dea, anche se non saprei dire quale tu sia,
ma che sei dea lo so, conducimi", risponde, "e mostrami
il volto del mio sposo. Se il destino anche una sola volta
mi concederà di rivederlo, dirò d'aver toccato il cielo".
E senza indugio, insieme alla vergine figlia di Taumante,
sale sul colle di Romolo. Lì, staccatasi dall'etere,
una stella cade sulla terra e la chioma di Ersilia, incendiata
dal suo fulgore, svanisce con la stella nell'aria.
Il fondatore di Roma la moglie accoglie con affetto
tra le braccia e col corpo le muta il nome che aveva:
la chiama Ora, una dea che oggi è associata a Quirino.
GLAUCO
Della mitologica Scilla ci tramadano sia Virgilio nell’ Eneide, I, VII- che Ovidio nelle Metamorfosi, XIII, XIV che Igino nelle Favole, CXCIX
Scilla era figlia di Tifone e di Echidna. Era una Ninfa bellissima che viveva sulla estrema sponda della Sicilia in quel sito che si chiama Peloro.
Nelle Metamorfosi Ovidio racconta la tragica storia dell'amore di Glauco per la bella Scilla.
Glauco era un pescatore della Beozia, forse il figlio di Poseidone, il dio del mare. Venne ad abitare a Capo Peloro, proveniente dalla Beozia.
Costruitasi una barca con legno di pino, dopo averla dipinta di verde e di azzurro, si mise a fare il mestiere di pescatore con buoni risultati. Egli tratteneva per se quanto gli bastava e il resto del pescato lo dava ai suoi amici. Glauco era un bel ragazzo dagli occhi azzurri e dai capelli biondo rame lunghi e fluenti. Le nereidi Tetide, Anfitride, Panope e Galatea, in compagnia di sirenette e ninfe, venivano nei pressi di Capo Peloro per conoscerlo e parlargli. Glauco, giocava e scherzava con tutte, ma non mostrova interesse per alcuna. Un giorno passò da quelle parti Scilla, figlia bellissima di Forco. Quando la ragazza vide Glauco, se ne innamorò perdutamente, ma non osò manifestarsi, accontentandosi di guardarlo e aspettarlo. Glauco le sorrideva con simpatia e affetto e Scilla si infiamava sempre più di passione. Un giorno giunse in quei luoghi la maga Circe, sempre pronta ad innamorarsi di qualcuno, divenne amica di Scilla. Le due spesso andavano a fare il bagno nei laghetti o passeggiare lungo le spiagge. Un giorno Scilla raccontò del suo amore per Glauco, sperando, forse, che la maga potesse aiutarla. Circe chiese di conoscerlo e per questo Scilla la portò sulla spiaggia all'alba, quando Glauco si preparava per andare a pescare.
Quando la maga vide il giovane ne restò colpita e si innamorò di lui a tal punto che disse a Scilla di cercarsi un altro uomo, perché Glauco faceva al caso suo.
Scilla si sentì morire e supplicò più volte la maga. Alle insistenza di Scilla, Circe si indispose talmente da avvelenare le acque dove la ragazza faceva il bagno e da colpirla con una bacchetta magica su una spalla trasformandola in mostro.
Secondo un’altra versione Scilla era una fanciulla bellissima e corteggiata che, però, respingeva ogni suo pretendente. Appena Glauco la vide, mentre si rinfrescava in una caletta d'acqua, se ne innamorò, ma Scilla fuggì rifiutandolo, come aveva fatto con gli altri. Glauco chiese aiuto alla maga Circe affinché preparasse un filtro d'amore per conquistare la bella fanciulla. Ma la maga, si invaghì di lui e, vistasi rifiutata, decise di vendicarsi su Scilla. Con erbe malefiche preparò una pozione e recitò un sortilegio con cui infettò le acque della caletta dove la giovane era solita riposarsi.
Conclusione comune delle due versioni quando Scilla si immerse nelle acque si trasformò in un orribile mostro con sei teste e cani latranti che le spuntavano dai fianchi con bocche dotate ciascuna di una triplice fila di denti. Per l'orrore che ebbe di se stessa, Scilla si precipitò in mare e si nascose in uno scoglio di fronte all'antro dove dimorava l'altro mostro marino Cariddi. Condannata a vivere in quell'antro, da quel giorno Scilla sporgeva le sue teste per terrorizzare ed uccidere i naviganti che di lì transitavano o per rapirli quando le si avvicinavano. Glauco disperato per il destino dell'amata fuggì, ma si rifiutò di unirsi a Circe che si era così crudelmente vendicata della fanciulla, sua inconsapevole rivale.
DIDONE
Primogenita di Belo, re di Tiro. La sua successione al trono fu contrastata dal fratello, Pigmalione, che ne uccise segretamente il marito Sicheo e prese il potere. Probabilmente con lo scopo di evitare la guerra civile, Didone lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, le cui tappe principali furono Cipro e Malta. Approdata infine sulle coste libiche, Didone ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirsi li, prendendo tanto terreno «quanto ne poteva contenere una pelle di bue». L'antico soprannome di Cartagine, infatti, era Birsa, che in greco significa "pelle di bue" e in fenicio "rocca". Didone scelse una penisola, tagliò astutamente la pelle di toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio della città di Cartagine e riuscì a occupare un terreno di circa ventidue stadi quadrati (uno stadio equivale a circa 185,27 m).
Secondo una leggenda, Didone sposò in seconde nozze Barca, un fedele seguace di Tiro, il cui nome potrebbe essere correlato al termine fenicio barak, che significa "fulmine". Secondo questa versione quindi, i Barcidi, la famiglia di Annibale Barca, il più famoso e abile condottiero cartaginese e protagonista della seconda guerra punica, sarebbero discendenti di Didone. Durante la propria vedovanza, Didone venne insistentemente richiesta in moglie dal re Iarba e dai principi dei Numidi, popolazione locale. Secondo le narrazioni più antiche (ne parla ad esempio Giustino nel III secolo d.C.), dopo aver finto di accettare le nozze, Didone si uccise con una spada, invocando il nome di Sicheo.
Dopo il suo regno, che fu lungo e prospero, Cartagine divenne una repubblica. Didone venne divinizzata dal proprio popolo con il nome di Tanit quale ipostasi della grande dea Astarte (assimilata alla Era greca e alla Giunone romana).
Già gli storiografi romani Ennio e Nevio rielaborarono il mito di Didone, alla ricerca di una giustificazione mitica all'origine delle guerre tra Roma e Cartagine e al presunto "odio atavico" tra i due popoli. Pertanto il poeta Virgilio non fu il primo a impossessarsene, nonostante la sua versione del mito sia rimasta nei secoli di gran lunga la più celebre.
Nella versione virgiliana, sotto l'influenza di Cupido, istigato da Venere alleata di Giunone, malconsigliata anche dalla sorella Anna, Didone si innamora di Enea giunto naufrago a Cartagine con i suoi seguaci (I e IV libro dell'Eneide).
La regina ospita generosamente i naufraghi e durante un banchetto chiede notizie della caduta della famosa Troia. L'eroe troiano, seppur a malincuore, racconta le vicende vissute a partire dalla fine di Troia (Infandum, regina, iubes renovare dolorem), suscitando la commozione di Didone.
Durante una caccia, riparati in una grotta, a causa di un temporale Enea e Didone iniziano un rapporto amoroso ed Enea inizia a disinteressarsi della sorte dei suoi compagni. La Fama diffonde fino a Iarba, re dei Getuli, notizie del loro amore; Iarba invoca suo padre Giove Ammone, perché fermi il "Paride effeminato" che insidia la regina, o piuttosto le sue mire su Cartagine.
Tramite Mercurio, Giove impone la nuova partenza all'eroe troiano, che lascia Didone dopo un ultimo terribile incontro, in cui lei prima lo supplica e poi lo maledice e prevede eterna inimicizia tra i popoli e un "vendicatore" che sorgerà dalle sue ossa (inimicizia che infatti porterà secondo Virgilio alle guerre puniche tra Roma e Cartagine e alle imprese di Annibale).
CALIPSO
Secondo il racconto dell'Odissea di Omero era figlia di Atlante e viveva sull'isola di Ogigia, che gli autori pongono nell'Occidente mediterraneo e che è simile alla penisola di Ceuta, di fronte a Gibilterra ma anche una grotta in riva al mare, nell'isola di Ogigia, viene indicata come la dimora di Calipso. Donna bellissima e immortale, Calipso fu punita dagli dei per essersi schierata dalla parte del padre nella Titanomachia. Fu costretta a rimanere sull'isola di Ogigia, dove le Moire mandavano uomini bellissimi ed eroici di cui non faceva che innamorarsi, ma che poi dovevano partire. Un giorno Odisseo, scampato al vortice di Cariddi, approdò sull'isola e Calipso se ne innamorò. L'Odissea racconta come ella lo amò e lo tenne con sé, secondo Omero, per sette anni (secondo lo Pseudo-Apollodoro cinque e secondo Igino solo uno) offrendogli invano l'immortalità, che l'eroe insistentemente rifiutava. Odisseo conservava in fondo al cuore il desiderio di tornare ad Itaca, e non si lasciò sedurre. Calipso abitava in una grotta profonda, con molte sale, che si apriva su giardini naturali, un bosco sacro con grandi alberi e sorgenti che scorrevano attraverso l'erba. Ella passava il tempo a filare, tessere, con le schiave, anch'esse ninfe, che cantavano mentre lavoravano. Le lacrime di Odisseo vennero accolte da Atena, la quale, dispiaciuta per il suo protetto, chiese a Zeus di intervenire. Il dio allora mandò Ermes per convincere Calipso a lasciarlo partire e lei a malincuore acconsentì. Gli diede legname per costruirsi una zattera, e provviste per il viaggio. Gli indicò anche su quali astri regolare la navigazione. Le leggende posteriori all'Odissea attribuiscono a Odisseo e Calipso un figlio, chiamato Latino, più spesso considerato come figlio di Circe; talvolta, si racconta che essi avessero avuto due figli, Nausitoo e Nausinoo, i cui nomi ricordano la nave. Infine si attribuisce loro come figlio anche Ausone, l'eponimo dell'Ausonia.
CIRCE
Circe compare, come dea, per la prima volta nell'Odissea, quale abitante nell'isola favolosa di Eea. Figlia di Elio e della ninfa Perseide, i suoi fratelli sono Eete (re della Colchide e padre di Medea) e Pasifae (moglie di Minosse e madre di Fedra). Secondo un'altra tradizione è figlia del Giorno e della Notte. Stando invece a quanto riporta Euripide nella Medea, quest'ultima viene descritta come figlia dei sovrani della Colchide, ossia Eete e Ecate. Essendo Eete figlio del Sole (e così si spiegherebbe l'etimologia del nome Eete, aurora, sole), dunque Circe sarebbe sorella del re e zia di Medea (mortale).
La sua dimora è in un palazzo circondato da un bosco, abitato da festose bestie selvatiche (Virgilio in Æneis, VII, 19-20, ci dice che queste bestie altro non sono che uomini così ridotti dai sortilegi della dea-maga: quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis induerat Circe in voltus ac terga ferarum) che ella aveva incantato con filtri malefici.
Ulisse, dopo aver visitato il paese dei Lestrigoni, giunge all'isola di Eea. L'isola, coperta da fitta vegetazione, sembra disabitata e Ulisse invia in ricognizione parte del suo equipaggio, sotto la guida di Euriloco. In una vallata gli uomini scoprono che all'esterno di un palazzo, dal quale risuona una voce melodiosa, vi sono animali selvatici. Tutti gli uomini, con l'eccezione di Euriloco, entrano nel palazzo e vengono bene accolti dalla padrona, che altro non è che Circe. Gli uomini vengono invitati a partecipare a un banchetto ma, non appena assaggiate le vivande, vengono trasformati in maiali, leoni, cani, a seconda del proprio carattere e della propria natura. Subito dopo, Circe li spinge verso le stalle e li rinchiude.
Euriloco torna velocemente alla nave e racconta a Ulisse quanto accaduto. Il sovrano di Itaca decide di andare da Circe per tentare di salvare i compagni. Dirigendosi verso il palazzo, incontra il dio Ermes, messaggero degli dèi, con le sembianze di un ragazzo cui spunta la prima barba, che gli svela il segreto per rimanere immune ai suoi incantesimi. Se mischierà in ciò che Circe gli offre da bere un'erba magica chiamata moly, non subirà alcuna trasformazione. Ulisse raggiunge Circe, la quale gli offre da bere (come aveva fatto con i suoi compagni), ma Ulisse, avendo avuto la precauzione di mescolare il moly con la bevanda, non si trasforma in porco. Egli minaccia di ucciderla, al che riconosce la propria sconfitta e ridà forma umana ai compagni di Ulisse e anche a tutti gli altri tramutati in porci.
Dopo un anno, Ulisse è costretto a cedere ai desideri dei suoi compagni, che vogliono tornare a casa; chiede, dunque, a Circe la strada migliore per il ritorno, e la maga gli consiglia di visitare prima gli inferi e di consultare l'ombra dell'indovino Tiresia. Al ritorno dagli inferi, Circe darà ad Ulisse numerosi suggerimenti su come superare al meglio le successive difficoltà lungo la strada per Itaca.
SIBILLA CUMANA
Il titolo di Sibilla Cumana era proprio dalla somma sacerdotessa italica, che presiedeva l'oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i vaticini "sibillini", cioè difficili e incerti da interpretare. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre oracolo di Apollo di Delfi in Grecia.
Tali Sibille erano giovani vergini, che si pensava potessero vivere più a lungo dei comuni mortali (per questo a volte sono raffigurate come vecchie decrepite), che svolgevano attività mantica, entrando in uno stato di trance (furor). L'etimologia e l'origine dell'appellativo è sconosciuta.
Alcuni nomi che ci sono rimasti delle Sibille cumane sono: Amaltea, Demofila ed Appenninica (di cui abbiamo testimonianza in Licofrone e in Eraclito). Nel libro VI dell'Eneide, Virgilio, la definisce "longeva sacerdotessa" col nome di «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto.
Nel poema la Sibilla Cumana funge prima da veggente: si rifugia nell'antro "dalle cento porte" e viene invasata da Apollo, cambiando aspetto e timbro di voce. Ivi sollecita le domande di un impaurito Enea e risponde con oscuri vaticini, promettendogli l'arrivo alla meta, ma con nuove sanguinose battaglie e un nuovo Achille (Turno), ma anche un soccorso da una città greca (Evandro). La sibilla poi consiglia Enea di seppellire il compagno morto (Palinuro) e di procurasi un magico ramo d'oro nel bosco sacro, da offrire a Proserpina regina dell'Ade. Con questo mitico lasciapassare, gli farà da guida nel Regno dell'Oltretomba, fino al ritorno. La presentazione dell'oracolo è accompagnata dal cupo ritratto dei luoghi in cui vive e che formano un tutt'uno, a suggerire un'immagine di paura ma allo stesso tempo di mistero.
Alla sua figura è anche legata una leggenda: «Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed ella gli chiese l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere l'eterna giovinezza e, quindi, invecchiò sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di rifiutare».
In Ovidio, inoltre, nel libro XIV delle Metamorfosi la Sibilla Cumana narra ad Enea del dono ricevuto da Apollo, di tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano; dimenticando tuttavia di richiedere l'eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un invecchiamento lunghissimo nel tempo.
Dante, costante evocatore dei miti virgiliani, cita talora anche la Sibilla, con particolari riferimenti alla difficoltà di cogliere il filo dei suoi responsi:
POMONA
Pomona è la dea romana dei frutti (chiamata perciò Patrona pomorum, "signora dei frutti"), non solo di quelli che crescono sugli alberi, ma anche dell'olivo e della vite[1]. Il nome della dea deriva chiaramente da pomum, "frutto". Ovidio la descrive con una falce nella mano destra (anziché con un giavellotto come nel caso di altre divinità). Le era dedicato un bosco sacro denominato Pomonal, situato a sud del XII miglio della via Ostiense, nei pressi dell'attuale Castel Porziano.
Al culto della dea era preposto un flamine minore, il flamine pomonale, che nell'ordo sacerdotum era il meno importante di tutti.
Non si conoscono feste (Pomonalia) in suo onore, né dai calendari antichi giunti fino a noi, né dalle fonti letterarie classiche. Il filologo classico tedesco Georg Wissowa ha ipotizzato che la festività di Pomona fosse mobile e determinata dal momento della fruttificazione delle colture.
Secondo il poeta Ausonio, Pomona ha in tutela il mese di settembre perché è quello in cui matura la frutta.
Secondo Ovidio Pomona sarebbe stata insidiata da varie divinità delle selve, tra le quali i Satiri, ma solo il dio Vertumno l'avrebbe amata davvero, l'avrebbe lungamente corteggiata e alla fine si sarebbe unito a lei. Secondo lo storico britannico Herbert Jennings Rose, questa storia sarebbe soltanto un'invenzione pura e semplice di Ovidio o di qualche altro scrittore relativamente tardo.
La tradizione latina, comunque, ricordava che Pomona sarebbe stata la compagna di Pico.
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AUDIO 308-608
AUDIO 609- 851
Eugenio Caruso - 20 - 02 - 2021
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