Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Canto XXIV del Purgatorio chiude l'episodio dedicato a Forese Donati ed è la seconda parte di un «dittico» iniziato nel Canto XXIII, con la differenza che qui l'amico di Dante è protagonista della prima e della terza parte del Canto, fra cui si inserisce la parentesi di Bonagiunta da Lucca che introduce l'importante discorso intorno allo Stilnovo.
All'inizio Forese, su richiesta di Dante, indica alcuni dei più ragguardevoli golosi della Cornice, fra cui spiccano soprattutto gli ecclesiastici, a cominciare da papa Martino IV (Simone de Brie, sulla cui inclinazione al mangiare e al bere vi sono numerosi aneddoti nelle cronache) e Bonifacio Fieschi che fu arcivescovo di Ravenna, nel che Dante alimenta l'accusa che spesso veniva rivolta ai prelati di darsi smodatamente al cibo e di vivere nell'opulenza (gli altri due esempi sono di aristocratici, fra cui Ubaldino della Pila imparentato sia col cardinale Ottaviano che con l'arcivescovo Ruggieri, entrambi dannati, e Marchese degli Argugliosi). Forese preannuncia poi la beatitudine della sorella Piccarda, che sarà la protagonista del Canto III del Paradiso e costituisce un esempio di comportamento retto e virtuoso in contrasto con quello delle sfacciate donne fiorentine biasimate nel Canto precedente, esattamente come il fratello Corso sarà nella terza parte esempio negativo del malcostume e della corruzione politica di Firenze: la dannazione di Corso, che morirà nel 1308, è profetizzata in modo oscuro da Forese, secondo il quale il fratello verrà trascinato direttamente all'Inferno legato alla coda di un cavallo selvaggio, che ne sfigurerà orrendamente il corpo.
L'uomo fu effettivamente ucciso da un colpo di lancia dopo essersi lasciato cadere di sella e alcuni commentatori (tra cui il Buti) ricordano che gli rimase un piede impigliato nella staffa e che l'animale lo trascinò a lungo, il che potrebbe aver agito sulla fantasia dell'autore. Significativo è il contrasto che Forese crea tra i due opposti esempi dei fratelli, destinati rispettivamente al Cielo e all'Inferno, tanto più che i due erano legati da torbide vicende biografiche (Corso aveva rapito Piccarda dal convento per costringerla a nozze con un uomo politico legato ai Guelfi Neri, per cui la sua orribile morte costituisce la giusta punizione per i suoi peccati personali e le colpe politiche relative alle vicende fiorentine, tanto più gravi in quanto i Neri avevano causato l'ingiusto esilio del poeta nel 1302).
La parte centrale del Canto vede poi come protagonista Bonagiunta Orbicciani da Lucca, già indicato da Forese fra i suoi compagni di pena, il quale si mostra particolarmente voglioso di interloquire con Dante: è una importante parentesi dedicata a questioni poetiche e letterarie, che anticipa quella altrettanto significativa del Canto XXVI che vedrà protagonisti Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Bonagiunta era infatti uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola dei «siculo-toscani», di cui era stato l'iniziatore benché Guittone (più giovane di lui) ne fosse diventato poi il rappresentante di spicco, ed era colui che aveva rivolto a Guinizelli il famoso sonetto polemico Voi ch'avete mutata la mainera in cui lo accusava di scrivere versi troppo astrusi e dottrinali.
Dante è quindi il rappresentante dello stile «nuovo» iniziato da Guinizelli e ripreso da lui e Cavalcanti, mentre il poeta lucchese è l'esponente di uno stile «vecchio» e superato da Dante e i suoi amici, per cui è logico che una discussione di teoria poetica abbia lui come interlocutore privilegiato. Dopo aver predetto in modo allusivo l'esilio di Dante, ricordando il nome della donna lucchese Gentucca che ospiterà il poeta in quella città (il soggiorno fu forse intorno al 1306, durante la permanenza in Lunigiana presso i Malaspina: la profezia anticipa quella relativa a Corso Donati, con l'analogo avvertimento che i fatti chiariranno le parole oscure), Bonagiunta si rivolge a Dante come colui che ha iniziato a sua volta una nuova maniera poetica, quella delle «rime nuove» cominciata con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore del cap. XIX della Vita nuova: Dante si presenta come un poeta che scrive sotto la diretta ispirazione di Amore, per cui l'altro comprende la differenza fondamentale che ha separato lui, Guittone e Giacomo da Lentini (caposcuola dei Siciliani) dal dolce stil novo di cui sente parlare.
È questa l'unica attestazione del termine «Stilnovo», che i critici hanno poi esteso a tutta la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli e ripresa dai poeti fiorentini; la «novità» consisterebbe nell'immediata trasposizione dell'ispirazione amorosa, mentre Bonagiunta e i guittoniani peccarono per eccesso di retorica, specie Guittone che prese a modello il trobar clus di Arnaut (mentre gli stilnovisti si ispirararono al trobar leu e ricercarono un linguaggio semplice, non sofisticato). Si è molto discusso se la definizione di Bonagiunta vada estesa a tutta la scuola oppure solo alle «rime nuove» iniziate da Dante nel cap. XIX della Vita nuova, ovvero le poesie in cui ripone tutta la sua soddisfazione nelle parole di lode a Beatrice e non nel saluto di lei, per quanto tale ipotesi sembri troppo restrittiva e non spiegherebbe perché Dante senta il bisogno di spiegare la propria poesia a un esponente dei siculo-toscani. Del resto il poeta lucchese crea un'opposizione tra Siciliani e siculo-toscani da una parte e Dante e i suoi amici dall'altra (dice infatti le vostre penne), per cui pare ragionevole che la sua definizione indichi la mainera inaugurata da Guinizelli e contro cui lui stesso aveva polemizzato: è indubbio che Dante e Cavalcanti avessero coscienza di formare una cerchia di poeti accomunati da una stessa visione dell'amore e del modo di scriverne, benché non sia certo che essi si definissero veramente «Stilnovisti» (è dunque da respingere l'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui una vera e propria scuola fiorentina non sarebbe mai esistita). Il discorso verrà ripreso con lo stesso Guinizelli nel Canto XXVI, in cui Dante chiuderà il cerchio della sua riflessione intorno alla poesia dello Stilnovo che egli aveva ormai superato, pur recuperandone alcuni aspetti e senza rinnegarne totalmente l'esperienza, salvo le sue implicazioni morali relativamente ai rischi della letteratura amorosa in genere (è lo stesso tema già affrontato nel Canto V dell'Inferno e nel Canto XVIII del Purgatorio, circa l'irresistibilità del sentimento amoroso).
Dopo il commiato di Dante e Forese, con quest'ultimo che si allontana in modo assai simile a quanto già visto per Brunetto Latini alla fine del Canto XV dell'Inferno, l'ultima parte del Canto vede la descrizione del secondo albero della Cornice e dei golosi che protendono inutilmente le mani verso i suoi frutti, e gli esempi di gola punita dichiarati da una voce misteriosa come quelli di temperanza (XXII, 142-154). Gli ultimi versi sono dedicati all'incontro con l'angelo della temperanza, che scuote i tre poeti assorti nelle loro meditazioni e abbaglia Dante con la luce rosseggiante che promana dal suo viso: l'angelo cancella la sesta P dalla fronte del poeta e indirizza lui e gli altri due lungo la scala che li porterà alla Cornice seguente, ascesa durante la quale Stazio spiegherà la generazione delle anime per rispondere al dubbio di Dante circa la magrezza dei golosi.
Note
- I vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun) indicano probabilmente solo il fatto che è necessario indicare per nome le anime, rese irriconoscibili dalla magrezza, e non il divieto di indicare i penitenti che in questa Cornice non sarebbe in vigore (di tale divieto non c'è alcun accenno negli altri Canti).
- Al v. 21 trapunta significa «screpolata» a causa della magrezza.
- Il personaggio citato ai vv. 20-24 è Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di Martino IV e la cui ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso dicesse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! («O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque beviamo!»).
- La vernaccia citata al v. 24 è sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con lo stesso nome.
- Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, è stato variamente interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi ravennati, simile a un prisma esagonale che veniva detto «rocco» dal persiano rokh, da cui il termine scacchistico «arroccare». Il verso vorrebbe dire allora che Bonifacio guidò (pasturò, conio dantesco) molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun intento ironico legato al «pascolare» e alla colpa della gola.
- Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta è stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi più probabile è che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiterà Dante nel suo soggiorno in quella città durante l'esilio (vv. 43-45). Costei è ancora una giovinetta in quanto non porta la benda nera che copriva i capelli alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.
- Al v. 55 Issa vuol dire «ora» ed è voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.
- La valle ove mai non si scolpa (v. 84) è certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze, dove «non si cessa mai dalle colpe».
- Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, «servo del cavallo») indica «maestri», «guide».
- Al v. 104 pomo significa «albero».
- Il v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) può voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del monte, vede in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta, mentre prima osservava Forese che si allontanava.
- La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta «sòltre».
- Al v. 135 poltre vuol dire «pigre», «tranquille» e meno probabilmente «giovani».
- Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt iustitiam, mentre quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo evangelico e indica beati coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.
TESTO
Né ‘l dir l’andar, né l’andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento; 3
e l’ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte. 6
E io, continuando al mio sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione. 9
Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda». 12
«La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona». 15
Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dieta. 18
Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta 21
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia». 24
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch’io però non vidi un atto bruno. 27
Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti. 30
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio. 33
Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza. 36
El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca. 39
«O anima», diss’io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga». 42
«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda. 45
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere. 48
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’». 51
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando». 54
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! 57
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne; 60
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette. 63
Come li augei che vernan lungo ‘l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo, 66
così tutta la gente che lì era,
volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera. 69
E come l’uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l’affollar del casso, 72
sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?». 75
«Non so», rispuos’io lui, «quant’io mi viva;
ma già non fia il tornar mio tantosto,
ch’io non sia col voler prima a la riva; 78
però che ‘l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto». 81
«Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa,
vegg’io a coda d’una bestia tratto
inver’ la valle ove mai non si scolpa. 84
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto. 87
Non hanno molto a volger quelle ruote»,
e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che ‘l mio dir più dichiarar non puote. 90
Tu ti rimani omai; ché ‘l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro». 93
Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo, 96
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi. 99
E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue, 102
parvermi i rami gravidi e vivaci
d’un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci. 105
Vidi gente sott’esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani, 108
che pregano, e ‘l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde. 111
Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta. 114
«Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso». 117
Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva. 120
«Ricordivi», dicea, «d’i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Teseo combatter co’ doppi petti; 123
e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver’ Madian discese i colli». 126
Sì accostati a l’un d’i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni. 129
Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola. 132
«Che andate pensando sì voi sol tre?».
sùbita voce disse; ond’io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre. 135
Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi, 138
com’io vidi un che dicea: «S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace». 141
L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
com’om che va secondo ch’elli ascolta. 144
E quale, annunziatrice de li albori,
l’aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; 147
tal mi senti’ un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
che fé sentir d’ambrosia l’orezza. 150
E senti’ dir: «Beati cui alluma
tanto di grazia, che l’amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
esuriendo sempre quanto è giusto!». 154
PARAFRASI
Le parole non rallentavano l'andatura di Forese, né questa rallentava le sue parole, ma parlando procedevamo spediti come una nave spinta da un buon vento;
e le anime, che sembravano creature morte due volte, mi guardavano stupite con gli occhi infossati, vedendo che io ero vivo.
E io, proseguendo il mio discorso, dissi: «Quell'anima (Stazio) forse sale più lentamente del dovuto a causa di Virgilio.
Ma dimmi, se lo sai, dove si trova Piccarda; dimmi se io vedo tra queste anime che mi guardano in tal modo qualcuno degno di essere notato».
«Mia sorella, che non so se fosse più bella o buona, trionfa lieta in Paradiso tra i beati».
Così disse dapprima; poi aggiunse: «Qui è necessario nominare le anime, poiché ciascuna è così smagrita dal digiuno da risultare irriconoscibile.
Costui», e indicò uno col dito, «è Bonagiunta da Lucca; e quella faccia accanto a lui che sembra più screpolata delle altre, ebbe fra le sue braccia la Santa Chiesa (fu papa Martino IV): fu nativo di Tours e qui espia col digiuno le anguille di Bolsena e la vernaccia».
Me ne indicò molti altri uno ad uno; e tutti sembravano contenti di essere nominati, così che non vidi un solo gesto di stizza.
Vidi masticare a vuoto Ubaldino della Pila e Bonifacio Fieschi, che guidò col pastorale molte popolazioni (come vescovo di Ravenna).
Vidi messer Marchese degli Argugliosi, che a Forlì poté bere con più abbondanza e fu tale che non si saziò mai.
Ma come fa chi guarda e poi osserva con più insistenza qualcuno in particolare, così feci con Bonagiunta che sembrava conoscermi meglio degli altri.
Egli mormorava; e mi sembrava che dicesse qualcosa come «Gentucca» a fior delle labbra, là dove la giustizia divina li consuma.
Io dissi: «O anima, che sembri così smaniosa di parlare con me, parla più chiaramente e appagami con le tue parole».
Lui iniziò: «È nata una femmina, e ancora è una giovinetta, che ti renderà piacevole la mia città (Lucca), anche se tutti ne parlano male.
Tu te ne andrai via di qui con questa profezia: se a causa del mio mormorio non hai capito bene, i fatti ti sveleranno la verità.
Ma dimmi se tu sei proprio colui che iniziò le nuove rime, cominciando con la canzone ' Donne ch'avete intelletto d'amore'».
E io a lui: «Io sono un poeta che, quando Amore mi ispira, prendo nota e scrivo esattamente ciò che lui mi detta dentro il cuore».
Rispose: «O fratello, ora capisco quale nodo ha trattenuto me, il Notaro (Giacomo da Lentini) e Guittone al di qua di questo 'dolce stil novo' che sento!
Ora vedo bene che le vostre penne seguono strettamente la dettatura di Amore, mentre le nostre non fecero certo lo stesso;
e se uno volesse procedere oltre, non vedrebbe altra differenza dall'uno all'altro stile»; e poi tacque, come se fosse soddisfatto.
Come gli uccelli (le gru) che svernano lungo il Nilo, a volte, fanno una larga schiera in cielo, poi volano più in fretta e vanno in fila, così tutte le anime che erano lì, voltandosi, affrettarono il passo, veloci a causa della loro magrezza e della volontà di espiazione.
E come chi è stanco di correre lascia andare avanti i compagni, e cammina più lentamente per calmare l'affanno del petto, così Forese lasciò passare quel santo gregge di anime e veniva dietro a me, dicendo: «Quando ti rivedrò?»
Gli risposi: «Non so quanto mi resti da vivere; ma il mio ritorno qui non sarà mai così rapido che io con la volontà non arrivi prima all'approdo (la spiaggia del Purgatorio);
infatti il luogo dove nacqui (Firenze) di giorno in giorno si spoglia del bene e sembra pronto per una triste rovina».
Lui disse: «Non preoccuparti, perché vedo colui che ne ha più colpa (Corso Donati) trascinato per la coda da un cavallo, verso la valle (l'Inferno) dove nessuna colpa si può espiare.
La bestia a ogni passo va più veloce, sempre più rapida, finché essa lo percuote e lascia il corpo orrendamente sfigurato.
Quelle ruote non dovranno girare molto», e guardò il cielo, «prima che i fatti ti chiariscano ciò che le mie parole non possono dichiarare.
Ormai dobbiamo separarci; infatti in questo regno il tempo è prezioso, cosicché io ne perdo troppo venendo con te di pari passo».
Come il cavaliere esce talvolta dalla sua schiera e va per prendere l'onore del primo assalto al nemico, così Forese si allontanò da noi con passi più rapidi; e io rimasi sulla strada con gli altri due (Virgilio e Stazio) che furono illustri maestri del mondo.
E quando Forese si fu allontanato da noi e io lo seguivo proprio come la mia mente ripensava alle sue parole (cioè con fatica), ecco che vidi i rami carichi di un altro albero, e non molto lontano poiché solo allora avevo rivolto in là lo sguardo.
Vidi sotto di esso delle anime che alzavano le mani verso i rami e gridavano qualcosa, simili a dei bambini desiderosi e incapaci, che pregano e il pregato non risponde, ma anzi tiene alto l'oggetto desiderato e non lo nasconde per acuire la loro voglia.
Poi si allontanarono, come deluse; e noi giungemmo al grande albero, che rifiuta tante preghiere e lacrime.
«Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto, nell'Eden, c'è un altro albero il cui frutto fu morso da Eva e questo è nato da quella pianta».
Così una voce misteriosa parlava tra i rami; allora Virgilio, Stazio e io, stretti alla parete del monte, andammo oltre.
La voce diceva: «Ricordatevi dei maledetti centauri nati da una nube, che, ubriachi, combatterono Teseo coi doppi petti;
e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle con sé quando discese i colli marciando contro i Madianiti».
Passammo oltre accostati all'orlo interno della Cornice, ascoltando gli esempi di gola punita da miseri castighi.
Poi, tornati a camminare lungo la strada solitaria, percorremmo più di un miglio, ciascuno assorto nei suoi pensieri.
Una voce improvvisa ci disse: «Che andate pensando, voi tre soli?» allora io mi scossi come fanno le bestie spaventate e pigre.
Alzai la testa per vedere chi fosse; e non si videro mai in una fornace vetri o metalli così arroventati e rossi, come io vidi un angelo che diceva: «Se a voi piace salire, è necessario passare di qui; si passa di qui, se si vuole andare verso la beatitudine».
La sua vista mi aveva abbagliato, per cui io si strinsi dietro alle mie guide, come uno che va ascoltando chi lo precede.
E come l'aria di maggio, che annuncia l'alba, si muove e profuma, tutta impregnata dell'odore dell'erba e dei fiori, così io sentii in mezzo alla fronte un vento, e sentii muovere la piuma dell'angelo che fece odorare l'aria di ambrosia (l'angelo cancella la sesta P).
E sentii che diceva: «Beati coloro che sono tanto illuminati dalla grazia che nel loro petto non nasce un eccessivo desiderio di cibo, avendo sempre fame di giustizia!»
PICCARDA
Piccarda, fatta uscire con la forza dal convento dell'Ordine delle Clarisse nel quale aveva scelto di rinchiudersi prendendo come sposo Cristo, fu costretta dal fratello Corso Donati, tra il 1283 e il 1293, a sposare un ricco rampollo, Rossellino della Tosa, uno dei Neri più facinorosi. Si dice che provvidenzialmente morì di lebbra prima che le nozze fossero consumate, ma si suppone sia solamente una leggenda. Piccarda è il primo personaggio che Dante incontra nel Paradiso (c. III, sebbene venga citata da suo fratello Forese anche in Pg XXIV) e si può dire che ella racchiuda in sé gli elementi di fondo dell'intera cantica, quali l'ordine, la carità e la grazia di Dio. La donna diventa il mezzo attraverso cui Dante capta importanti notizie sulle caratteristiche delle anime beate: esse, pur essendo disposte in diversi cerchi concentrici a seconda della loro maggiore o minore vicinanza a Dio, non provano sentimenti di invidia e non desiderano altro al di fuori di ciò che hanno, in quanto tutto è voluto da Dio ed è nella volontà di Dio che loro trovano la pace. Piccarda Donati narra anche la vicenda di Costanza d'Altavilla, madre di Federico II di Svevia, costretta secondo una leggenda a rinunciare come lei ai suoi voti per sposare Enrico VI. All'interno dell'opera trova spesso confronto con altre due figure femminili: Francesca da Rimini e Pia de' Tolomei.
JACOPO da LENTINI
«Jacobus de Lentini domini imperatoris notarius»: così si firma in un documento messinese del 1240 il funzionario della corte di Federico II che Dante poi citerà come il "Notaro" per antonomasia (nome in realtà ripreso da Bonagiunta Orbicciani) nella sua Divina Commedia (Canto XXIV Purgatorio, 56). Il ruolo di funzionario gli viene accordato dal codice Vaticano Latino 3793 (il più ricco ed autorevole per quanto concerne la lirica siciliana, compilato a Firenze alla fine del XIII secolo o all'inizio del successivo).
Si conoscono altri atti da lui sottoscritti in varie città dei possedimenti peninsulari del Regno di Sicilia, datati tra il 1233 ed il 1240; tuttavia sono ben poche le informazioni sulla sua vita.
Fu probabilmente lo "Iacobus de Lentino" comandante del castello di Garsiliato (Mazzarino), nominato in un documento dell'aprile 1240.
Il castello di Mazarino di cui Giacomo fu forse il comandante
Al "Notaro" si attribuiscono 16 canzoni di vario schema metrico, 22 sonetti (si noti che Iacopo è generalmente considerato l'inventore di tale forma metrica); 2 dei sonetti sono in "tenzone" con l'abate di Tivoli, uno risponde a Jacopo Mostacci. Si deve alla sua iniziativa la rivisitazione in lingua volgare dei temi e delle forme della poesia provenzale che ha dato inizio alla lirica d'arte italiana.
Iacopo è considerato il "caposcuola" dei rimatori della cosiddetta scuola poetica siciliana, ruolo che gli fu assegnato già da Dante e che trova riscontro nella collocazione delle sue Canzoni in apertura del Canzoniere Vaticano latino 3793. Nel De vulgari eloquentia è citato per una sua canzone, considerata un esempio di uno stile limpido e ornato. I suoi componimenti coprono un arco temporale che va, grossomodo, dal 1233 al 1241.
La tradizione poetica fiorita alla corte di Federico II, nei ristretti termini cronologici in cui essa si colloca, rappresentò il modello letterario che più si distaccava da quelli sino ad allora presenti nel resto d'Italia. Fino ad allora, la poesia lirica aveva potuto esprimersi quasi esclusivamente nelle corti feudali del settentrione d'Italia, sul modello delle corti provenzali dove era sorta la lirica occitana. Nella corte di Federico, l'apporto letterario fu invece dato in primo luogo da alcuni tra i principali funzionari del Regnum Siciliae.
Nascono in tal modo figure come Iacopo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, Pier della Vigna, Guido e Odo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Jacopo Mostacci, l'Abate di Tivoli, e altri ancora. I manoscritti, inoltre, attribuiscono alcuni componimenti anche allo stesso Federico ed ai suoi figli. Nella Magna Curia, Iacopo ricopre il ruolo di notaro dal 1233 al 1240 circa; le uniche testimonianze di quest'attività all'interno della corte federiciana risalgono ad una lettera al papa Gregorio IX, vergata di suo pugno. Comunque sia, Giacomo fu probabilmente il maggiore esponente letterario della corte di Federico II. Dante, nella Divina Commedia, considera il Notaro poeta per antonomasia.
La produzione letteraria di Iacopo e della Scuola Siciliana, s'impronta quasi esclusivamente sulla poesia d'amore. Le liriche cantano temi amorosi, in cui il rapporto tra uomo e donna è quello tipico della tradizione cortese. Ha composto un canzoniere oggi composto da trentotto liriche a lui attribuite, fra le quali si trovano realizzate tutte le possibilità stilistiche elaborate dalla Scuola Poetica Siciliana: la canzone di argomento sublime, la canzonetta con temi narrativi e spesso dialogati, e il sonetto, inventato molto probabilmente dallo stesso Iacopo, dedicato a disquisizioni teoriche, morali e filosofiche, per lo più sulla natura dell'amore.
Nei componimenti dei poeti siciliani la donna assume in sé tutti i valori, mentre, l'amante-vassallo proclama la propria indegnità e nullità (come il tema cortese del fenhedor, nei versi di Meravigliosamente). La poesia di Iacopo e della Scuola è altamente formalizzata, utilizza le più raffinate tecniche retoriche ed è modellata sui motivi della lirica provenzale, codificando anche le strutture metriche della canzone, della canzonetta popolaresca, del discorso e soprattutto del sonetto, la cui invenzione, come si è detto, è attribuita a Giacomo.
La lingua dei poeti siciliani, così come è documentata dai manoscritti che la tramandano, è essenzialmente un siciliano colto depurato dagli elementi municipali e idiomatici.
Nelle sue liriche il Notaro analizza l'amore come vicenda interiore, con grande acutezza psicologica.
Il magistero poetico di Giacomo all'interno della Magna Curia, che si affiancò all'attività amministrativa, si inserisce in un periodo di generale rinascita culturale del Regno di Sicilia; durante il Regno di Federico II in Italia fiorirono le arti e le scienze e venne fondato lo Studium napoletano, che costituì il primo nucleo dell'Università di Napoli, che deve infatti il suo attuale nome all'Imperatore svevo.
Iacopo visse tra Lentini e il palazzo reale di Palermo, in cui era notaio di corte. Morì intorno al 1260 all'età di cinquant'anni. I terremoti che hanno devastato il suo paese natale non lasciano ricordi tangibili di lui. Esiste un suo ritratto nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze in una miniatura della fine del XIII secolo (Codice Palatino 418, f. 18). In un documento rinvenuto a Messina, datato 5 maggio 1240, è stata individuata la sua firma autografa.
GUITTONE d'AREZZO
Figlio di Viva di Michele, camerlengo del Comune, viaggiò molto, pare per ragione di commercio. Fu appassionato partigiano della fazione guelfa. Ebbe moglie e tre figli, ma "a mezza etate", convertitosi a vita religiosa, abbandonò la famiglia e nel 1256, e a causa delle sue simpatie politiche, andò in esilio volontario, per alcuni anni, via da Arezzo.
Amareggiato dai troppi contrasti, intorno al 1265, colto da una forte crisi spirituale, lasciò la moglie e i figli ed entrò nell'ordine religioso di recente creazione dei Cavalieri di Santa Maria detto anche Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria (i cosiddetti frati Gaudenti), nei quali si accedeva anche in base al censo, testimoniando così una sua estrazione familiare piuttosto alta.
Scopo dell'ordine della Beata Gloriosa Vergine Maria (che comunque non prevedeva l'obbligo del celibato né della vita in comunità) era quello di favorire in "Lombardia" (Nord Italia) così come in Toscana la pace tra Guelfi e Ghibellini ed effettivamente l'ultima parte della sua vita lo vide attivo nel promuovere l'idea che per la pacificazione della Toscana sarebbe stato auspicabile la creazione di uno stato regionale in quella terra, magari sotto la guida di Firenze.
A seguito della crisi religiosa si può notare un cambiamento nella sua poetica: oltre a firmarsi come Fra Guittone, nella canzone "Ora parrà s'eo saverò cantare" rifiuta la produzione letteraria precedente, arrivando a paragonare l'amore con il follore (follia).
Dalle sue opere, e specialmente dalla lettura delle sue lettere, emerge il quadro di una personalità forte e di grande cultura europea. Nonostante le dure critiche poi mossegli da Dante, le conoscenze e gli studi di Guittone erano di alto livello. In particolare, la sua produzione dimostra che Guittone aveva un'approfondita conoscenza della lirica siciliana e che padroneggiava in modo straordinario anche quella trobadorica in lingua occitano-provenzale. Lo stesso tipico, programmatico virtuosismo dell'aretino non sarebbe pensabile senza una vasta cognizione letteraria.
Il canzoniere di Guittone è particolarmente ricco; il corpus conta infatti 50 canzoni e 251 sonetti, conservati nei manoscritti italiani delle origini e di cui il codice Laurenziano Rediano 9, che riunisce rime d'amore e canzoni politiche, costituisce il testimone più importante. Alcuni componimenti di cui non è pervenuta una testimonianza manoscritta sono noti attraverso la Giuntina di Rime antiche. Celebre è il planh ("lamento") Ahi lasso, or è stagion de doler tanto sulla battaglia di Montaperti nel 1260. Il codice Laurenziano conserva la nota corona di sonetti amorosi di Guittone, legati tra loro da uno sviluppo macrotestuale (che anticipa per alcuni aspetti la struttura del Canzoniere petrarchesco) e da elementi microtestuali, quali riprese rimiche, allitterazioni e altre figure retoriche, ereditate in gran parte dalla tradizione trobadorica.
Ahi, quant'ho che vergogni e che doglia aggio Canzone nella quale viene narrata la conversione di Guittone.
Ora parrà canzone dove si mette in scena la dialettica tra canto d'amore e canto morale e proclama la scelta di una poesia ispirata a un ideale di giustizia e saggezza in nome di Dio.
Nella vasta opera di Guittone si contano anche circa 50 lettere di argomento civile e cortese.
Un'altra celebre opera di Guittone è la poesia Tuttor ch'eo dirò gioi, gioiva cosa, un inno alla gioia amorosa. Questa si impadronisce dell'animo dell'uomo e gli permette di intraprendere un'esaltante avventura, generando a sua volta altre emozioni gioiose.
Guittone si colloca in un'ottica piuttosto critica nei confronti dell'eredità trobadorica e siciliana, dovuta all'inconciliabilità fra la visione cortese dell'amore e la morale cristiana. A suo avviso, infatti, tutta la poetica amorosa provenzale era semplicemente un espediente per ottenere la soddisfazione del proprio desiderio sessuale.
Fino alla sua entrata nell'ordine dei frati gaudenti, si può identificare un periodo "giovanile" nel quale la denuncia verso l'amor cortese assume toni sarcastici e dissacratori, e l'amore viene visto come una "malattia" dalla quale si può e si deve guarire (si ricordi la serie di 12 sonetti sull'Ars amandi detto Trattato d'amore, sarcastico manuale sulla seduzione).
Nella sua fase più matura, Guittone pur senza rinunciare alla sua animosità assume un contegno più moraleggiante, rivolto maggiormente alla catechesi e all'istruzione dell'uditorio. Le canzoni si fanno di tono più ascetico, e vengono composte anche delle laude.
Critico quanto Dante della situazione politica coeva, Guittone vedeva nella creazione di uno stato regionale toscano forte (anche sotto la guida di Firenze) l'unica possibilità di pace per la sua terra. In questo le sue idee politiche furono profetiche (in effetti la Toscana sarà unificata completamente dai Medici entro il XVI secolo).
Dal punto di vista tecnico, Guittone è probabilmente il poeta duecentesco più influente in territorio toscano, costituendo un punto di riferimento per molti altri poeti e rappresentando sicuramente la principale ispirazione dei primi tentativi poetici del giovane Dante Alighieri. I critici hanno parlato di una scuola guittoniana, o guittonismo, contrapposta alla fine del Duecento a una poetica più vicina all'eredità provenzale (quella che poi porterà allo Stilnovismo).
Nella produzione guittoniana troviamo vari modi di scrivere, da quello fedele alla koinè letteraria pan-toscana (non impermeabile ad apporti anche demotici, per esempio di ambito popolare, mercantile) a quello più aristocratico, fedele alla grande tradizione occitana e francese che tanto successo e adesioni avevano raccolto (e raccoglieranno) in Toscana, regione da sempre particolarmente legata alle Gallie transalpine (a tal proposito si ricordi Rustichello da Pisa, l'autore de Il milione con la storia dei viaggi di Marco Polo, che scriveva in francese).
In molte opere di Guittone sono quindi presenti esplicite citazioni (spesso traduzioni di grande maestria linguistica) da autori come Cadenet, Peire Vidal, Benoit de Saint-Maure, Peire Rogier, Chrétien de Troyes, le allusioni ad opere di Raimbaut d'Aurenga, Bernart de Ventadorn e Rigaut de Berbezilh e i contatti con l'arte di Raimon de Miraval, Arnaut de Tintinhac, Raimbaut de Vaqueiras. A causa di questo forte legame con la letteratura occitana, il suo stile è sempre stato ritenuto molto tecnico e difficile.
È questo stile "trobadorico" che poi è passato nella tradizione accademica come tratto distintivo di Guittone. Si tratta di uno stile caratterizzato da un certo trobar clus e da uno sperimentalismo molto spinto nella modifica delle forme metriche canoniche (principalmente canzoni dallo schema inusuale e sonetti rinterzati, raddoppiati, ritornellati, caudati...). Tra i principali prosecutori dell'eredità guittoniana, perlomeno stando ai testimoni a noi pervenuti, si possono ricordare, oltre al giovane Dante Alighieri, Monte Andrea e Chiaro Davanzati.
DOLCE STIL NOVO
Il Dolce Stil Novo, conosciuto anche come Stilnovismo, Stil novo o Stilnovo, è un importante movimento poetico italiano sviluppatosi tra il 1280 e il 1310 inizialmente a Bologna grazie al suo iniziatore, considerato Guido Guinizzelli (morto nel 1276), ma poi spostatosi a Firenze dove si sviluppò maggiormente. Corrente che segna l'inizio del secolo successivo, lo Stil Novo influenzerà parte della poesia italiana fino a Francesco Petrarca: divenne guida infatti di una profonda ricerca verso un'espressione raffinata e "nobile" dei propri pensieri, staccando la lingua dal volgare municipale, e portando in tal modo la tradizione letteraria italiana verso l'ideale di un poetare ricercato e aulico. Nascono le rime nuove, una poesia che non ha più al centro soltanto la sofferenza dell'amante, ma anche le celebrazioni delle doti spirituali dell'amata, a prescindere dalla corresponsione o meno del sentimento amoroso (lo "stilo de la loda" dantesco). A confronto con le tendenze precedenti, come la scuola di Guittone d'Arezzo, la poetica stilnovista acquista un carattere qualitativo e intellettuale più elevato: il regolare uso di metafore e simboli, così come i duplici significati delle parole.
L'origine dell'espressione è da rintracciare nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Canto XXIV del Purgatorio): in essa infatti il rimatore guittoniano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce la canzone dantesca "Donne ch'avete intelletto d'amore" con l'espressione dolce stil novo, distinguendola dalla produzione precedente (come quella del Notaro Jacopo da Lentini, di Guittone e sua), per il modo di penetrare interiormente luminoso e semplice, libero dal nodo dell'eccessivo formalismo stilistico (Guittone d'Arezzo).
«"Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore."
E io a lui: "I'mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando."
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!"»
(Purg. XXIV, vv. 49-57)
Il movimento nasce a Bologna, e poi si sviluppa a Firenze, città d'origine di quasi tutti i componenti del movimento stilnovistico, tra il 1280 ed il 1310 escludendo Cino da Pistoia e lo stesso Guinizzelli. Il manifesto di questa nuova corrente poetica è la canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore; in questo componimento egli esplicita le caratteristiche della donna intesa dagli stilnovisti che poi sarà il cardine della poesia stilnovista. La figura femminile evolve verso la figura di una " donna-angelo", intermediaria tra l'uomo e Dio, capace di sublimare il desiderio maschile purché l'uomo dimostri di possedere un cuore gentile e puro, cioè nobile d'animo; amore e cuore gentile finiscono così con l'identificarsi totalmente.
Questa teoria, avvalorata nel componimento da molteplici sillogismi, rimarrà la base della poesia di Dante e di coloro che fecero parte dello Stil Novo, di generazione successiva, che vedranno in Guinizzelli e Alighieri i loro maestri. La corrente del "Dolce Stil Novo" segue e contrasta, grazie a un approccio e a una visione dell'amore del tutto innovativi, la precedente corrente letteraria dell'"amor cortese". Contro quest'ultima, infatti, introduceva nei testi riferimenti filosofici o morali o religiosi, tanto che autori contemporanei (Bonagiunta Orbicciani, ad esempio, in un noto sonetto indirizzato a Guido Guinizzelli, Voi che avete mutata la mainera) si lamentarono dell'oscurità e della "sottiglianza" delle poesie specificando che un tale registro poetico non avrebbe suscitato né interessi né adesioni nel mondo toscano; la critica era quella di aver unito la filosofia alla poesia.
Guinizzelli risponderà a Bonagiunta nel sonetto "Omo che è saggio non corre leggero", in cui ricorda la vanità di giudizi espressi senza adeguata riflessione e conoscenza dei temi trattati; nello stesso testo approfitterà per replicare la propria opinione: come i talenti naturali sono diversi per volontà divina, così è legittimo che ci siano modi ed atteggiamenti diversi di poetare (Alberto Asor Rosa).
Con lo Stilnovo si affermava un nuovo concetto di amore impossibile, che aveva i suoi ovvi precedenti nella tradizione culturale e letteraria trobadorica e siciliana, nonché un nuovo concetto di donna, concepita adesso come donna angelo, donna angelica: la donna, nella visione stilnovistica, ha la funzione di indirizzare l'animo dell'uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione: quella dell'Amore assoluto identificabile pressoché con l'immagine della purezza di Dio. La donna angelicata, che nello stilnovo è finalmente identificata da un più o meno parlante nome proprio, è oggetto di un amore tutto platonico ed inattivo: non veri atti di conquista o semplice corteggiamento sono compiuti nella sua direzione. Parlare di lei è pura ascesa e nobilitazione dello spirito, puro elogio e contemplazione descrittiva-visiva che consente al poeta di mantenere sempre intatta e puramente potente la propria ispirazione in quanto diretta ad un oggetto volontariamente cristallizzato e, ovviamente, giammai raggiungibile.
I concetti dell'amore e della sua trascendenza in grado di dettare le parole al cuore del poeta stilnovista sono profondamente legati alla natura elitaria e ristretta del circolo (mai tuttavia vi fu una scuola stilnovista) ed agli studi in ambito filosofico dei partecipanti del suddetto. Tuttavia, le esperienze poetiche, sebbene accomunate da fattori comuni, differiscono ovviamente l'una dall'altra: si passa dalle varie accezioni dell'esperienza amorosa (da nobilitante ad angosciante ed inebetente) proprie del canzoniere cavalcantiano ai temi topici dello sguardo liberatorio e salvifico della donna-angelo, presenti nel padre spirituale della corrente, assolutamente estraneo però a quel ristretto circolo di amici a cui si legano le esperienze propriamente stilnoviste. Guido Guinizzelli, nella sua canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, immagina, nei versi finali, di potersi giustificare di fronte a Dio che lo interroga sul motivo per cui indirizzò ad un essere umano le lodi e l'amore che a Lui e alla Madonna soltanto convengono; a tali domande egli si giustifica testimoniando l'angelicità delle sembianze dell'amata: "Tenne d'angel semblanza / che fosse del tuo regno; / non me fu fallo, s'in lei posi amanza" (vv. 57-60), ossia "aveva l'aspetto (semblanza) di un angelo che appartenesse al tuo regno, non feci peccato (non me fu fallo) se posi in lei il mio amore (amanza)".
È dunque principalmente a partire dall'esperienza di Guido Guinizzelli, che si configura nella metaforica somiglianza tra la figura della donna e quella di un celeste messaggero, che il legame tra l'aspirazione amorosa terrena e quella divina diviene, soprattutto nella poetica dantesca successiva al periodo stilnovista e alla morte di Beatrice, sempre più saldo, arrivando ad affermare una reale identità metafisica della donna: un essere quasi ultraterreno, o intermediario tra Dio e l'uomo. A questa visione spiritualizzata dell'amore non sono estranei influssi filosofico-religiosi della Scolastica medievale: il pensiero di san Tommaso d'Aquino, il misticismo di San Bonaventura, nonché le riflessioni di Aristotele lette attraverso l'interpretazione medievale del filosofo arabo Averroè (la dottrina di Guido Cavalcanti sugli spiritelli è di matrice averroistica). Gli stilnovisti applicarono all'àmbito amoroso il principio della filosofia aristotelico - tomistica, secondo cui ogni realtà è realizzazione di una potenzialità. Al momento dell'innamoramento la nobiltà presente in potenza nel cuore si attualizza; ogni "cuore gentile" contiene in sé la naturale predisposizione all'amore, e l'amore in atto equivale all'espressione della nobiltà d'animo e conduce quindi ad una elevazione morale. Importante è sottolineare che la nobiltà di cui parla lo stilnovismo non è una nobiltà di sangue ma è la manifestazione delle doti spirituali e culturali della persona.
La poesia stilnovista è l'espressione della cultura dell'antica nobiltà e della borghesia ricca e mercantile (giudici; notai; maestri di retorica, di grammatica e di diritto), ossia gli strati socialmente più alti del Comune. I vecchi valori della precedente cultura hanno ormai ceduto il passo di fronte alle nuove generazioni della civiltà comunale, che si sentono nobili per una loro nobiltà spirituale conquistata con l'esperienza, la vita, la meditazione e la dottrina e che si riassume in una nuova coscienza di aristocratica gentilezza d'animo e di mente. La fondamentale novità dell'esperienza poetica dello "stil novo" risiede nella contestazione della poesia, nell'affermazione di una nuova concezione dell'amore e della donna e, soprattutto, in una nuova concezione stilistica. Rispetto ai canoni guittoniani di un raffinatissimo e difficile trobar clus, caratterizzato da oscurità e da ardue sperimentazioni stilistiche, lo Stilnovo rinnova il concetto di trobar leu, fondando uno stile poetico caratterizzato da rime dolci e piane, segnate da una profonda cantabilità del verso.
I principali autori di questa corrente letteraria sono per la maggior parte toscani, e sono Guido Guinizzelli (bolognese), considerato il precursore del movimento, Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino de' Sigilbuldi da Pistoia e Dino Frescobaldi. Di questi Dante e Cavalcanti hanno dato il maggior contributo, mentre Cino da Pistoia svolse l'importante ruolo di mediatore tra lo Stil Novo ed il primo Umanesimo, tanto che nelle sue poesie si notano i primi tratti dell'antropocentrismo. Questi poeti appartenevano a una cerchia ristretta di intellettuali, che di fatto costituivano un'aristocrazia, non di sangue, ma di nobiltà d'animo: essi erano contraddistinti da un'aristocrazia culturale e spirituale. Erano tutti molto eruditi, e appartenevano all'alta borghesia universitaria. Il pubblico a cui si rivolgono è una stretta cerchia di eletti, capaci di comprendere le loro produzioni: l'istruzione retorica, infatti, non era più sufficiente a comprendere appieno tali poesie. Fortemente radicata in questi autori è la concezione che per produrre poesie d'amore siano necessarie conoscenze scientifiche e teologiche: da qui la minor considerazione nei confronti dei guittoniani, non sempre dotati di tali conoscenze.
AUDIO
Eugenio Caruso - 25/02/2021
Tratto da