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Dante, Purgatorio Canto XXV. I lussuriosi

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXV del Purgatorio ha argomento prevalemente didascalico, essendo dedicato per la maggior parte alla complessa spiegazione di Stazio circa la generazione dell'anima e la formazione dei corpi umbratili dopo la morte, per chiarire il dubbio di Dante sulla fisicità della pena dei golosi. Sullo stupore destato da un simile tormento l'autore ha insistito più volte nei Canti XXIII-XXIV, per cui egli approfitta della ascesa della scala che porta alla VII Cornice (dopo l'indicazione astronomica dell'ora) per chiedere spiegazioni ai due maestri, invitato da Virgilio a parlare dopo la sua iniziale esitazione che riprende una situazione già vista in precedenza.
È Virgilio a fornire una prima risposta sommaria, che si limita a indicare l'esempio concreto di un corpo che si consuma per cause esterne (quello mitologico di Meleagro) e quello dello specchio che indica come il corpo aereo rifletta la sofferenza dell'anima, per quanto tale spiegazione sia insufficiente dal punto di vista dottrinale: Virgilio invita allora Stazio, anima salva e destinata al Paradiso, a completare la sua chiosa, compito che il poeta latino assolve non prima di aver riconosciuto la superiorità del maestro con una excusatio propter infirmitatem (è un artificio retorico, in quanto il magistero di Stazio è qui superiore come lo sarà in Paradiso quello di Beatrice, le cui spiegazioni teologiche sono in parte prefigurate). E' decisamente un canto un po' noioso.
Stazio spiega a Dante la complessa procedura con cui si forma l'anima umana dopo il concepimento, seguendo strettamente la trattazione in materia di san Tommaso d'Aquino: preme soprattutto a Dante ribadire che l'anima dell'uomo ha tre potenze, due delle quali sono comuni alle piante (quella vegetativa) e agli animali (quella sensitiva o sensibile), mentre la terza (quella razionale o intellettiva) è infusa nell'uomo direttamente dal motor primo, cioè da Dio.
Ciò distingue l'uomo dalle creature inferiori e in questo la spiegazione di Stazio prende in modo dichiarato le distanze dalla dottrina di Averroè, che nel suo gran commento alla filosofia aristotelica aveva affermato che l'anima umana era un'entità separata dall'intelletto possibile: Aristotele, infatti, nel De anima aveva distinto tra intelletto possibile e intelletto attivo, affermando che il secondo agisce sul primo trasformando in atto le verità che nell'intelletto possibile sono solo in potenza, come la luce trasforma in atto i colori che al buio sono in potenza. Il filosofo antico non aveva però chiarito se l'intelletto attivo sia nell'uomo, in Dio o in entrambi, da cui i dubbi dei filosofi medievali e la teoria avorroistica secondo la quale l'intelletto possibile è separato dall'anima umana, di cui si negava così l'immortalità (tale teoria modificava la dottrina araba in materia, per cui Averroè era stato condannato dagli stessi musulmani).
Stazio spiega invece che la facoltà intellettiva è infusa da Dio nell'uomo e si lega inscindibilmente alle altre due potenze, vegetativa e sensibile, formando un'unica sostanza come il vino che è prodotto dall'umore della vite (elemento materiale) e dalla luce e dal calore del sole (elemento immateriale), negando quindi in modo deciso le implicazioni della teoria averroistica giudicate pericolose sul piano teologico. Stazio illustra poi il processo per cui l'anima, una volta separata dal corpo dopo la morte, produce un corpo d'aria agendo su di essa con la stessa «virtù informativa» che aveva agito sul corpo materiale, per cui questo corpo aereo non solo acquista lo stesso aspetto fisico dell'individuo quando era in vita, ma prova le stesse sensazioni fisiche di un corpo terreno e può gioire, soffrire, ridere e piangere come Dante ha visto attraverso l'Inferno e il Purgatorio. Tale spiegazione si discosta almeno in parte dalla dottrina tomistica e giustifica l'esigenza narrativa e poetica di rappresentare le anime nella loro fisicità e materialità, per quanto Dante si attenga a tale principio in maniera non sempre coerente e obbedendo principalmente alla sua fantasia creativa (si veda oltre).
La spiegazione di Stazio trae spunto dalla pena dei golosi, ma si lega in qualche modo anche a quella dei lussuriosi che sono bruciati dal muro di fiamme della VII Cornice ed è non meno fisica e materiale, tanto che lo stesso Dante ne farà esperienza diretta attraversando il fuoco nel Canto XXVII: il finale di questo Canto XXV illustra proprio la pena degli spiriti che camminano nel fuoco e alternano il canto dell'inno alla dichiarazione degli esempi di castità, tratti come sempre dalla tradizione cristiana (la verginità di Maria che partorirà Gesù) e da quella classica (la castità di Diana e delle ninfe boscherecce), con un ultimo exemplum generico (le mogli e i mariti che si attengono al vincolo matrimoniale) che è l'unico caso oltre a quello di Purg., XIII, 36 relativo alla massima evangelica dell'amare i propri nemici. La curiosità di Dante che osserva le anime nel fuoco e bada a non mettere il piede in fallo cadendo nel vuoto anticipa l'ulteriore descrizione dei penitenti che occuperà buona parte del Canto seguente, in cui ci sarà l'incontro con Guinizelli e il prosieguo del discorso intorno alla letteratura amorosa già avviato con Bonagiunta.

diana
DIANA di Lucas Cranach

Dante descrive le anime dei primi due regni dell'Oltretomba come entità materiali e dall'aspetto umano, nude e in grado di sopportare pene fisiche tanto all'Inferno che al Purgatorio, cosa può suscitare dubbi in quanto l'anima è una sostanza inconsistente e come tale non dovrebbe avere né aspetto esteriore né sensibilità al dolore fisico. Il tema provocava perplessità e oscillazioni fra gli stessi teologi cristiani, i quali erano per lo più inclini a negare tale materialità all'anima: san Tommaso affermava (Summa theol., Suppl., q. LXIX) che l'anima separata dal corpo non ha un corpo vero e proprio (Anima separata a corpore non habet aliquod corpus), salvo poi precisare (q. LXX) che l'anima conservava la potenza sensitiva e poteva essere tormentata dal fuoco, quello che altri teologi definivano ignis corporeus.
La dottrina rilevava la contraddizione tra l'inconsistenza delle anime e la necessità di rappresentare le pene infernali e purgatoriali come qualcosa di fisico, soprattutto per agire (ad esempio nelle arti figurative) sulla fantasia dei fedeli e operare una sorta di «deterrenza» dal commettere i peccati, minacciando punizioni che fossero facilmente comprensibili a delle menti semplici. Del resto anche la letteratura classica descriveva le anime dei morti come ombre evanescenti ma dall'aspetto umano, senza contare che la dottrina cristiana affermava che il Giorno del Giudizio le anime si sarebbero riappropriate del corpo mortale e, dopo la gran sentenza, avrebbero sofferto insieme ad esso le pene infernali o goduto della pace celeste. Dante nella Commedia si attiene per lo più a questo criterio e descrive quindi le pene inflitte alle anime come qualcosa di fisico, fornendo anche una sorta di spiegazione dottrinale del fenomeno: in Purg., III, 22 ss. Virgilio spiega a Dante che il corpo mortale nel quale faceva ombra giace sulla Terra, mentre quello che ha attualmente è umbratile e fatto d'aria, pur conservando la capacità di provare sensazioni fisiche (A sofferir tormenti e caldi e geli / simili corpi la Virtù dispone / che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli).
Di fronte poi alla pena dei golosi, che patiscono la fame e sono consumati dalla magrezza, lo stupore di Dante verrà attenuato dalla spiegazione di Stazio (XXV, 79-108) che, pur discostandosi in parte dal tomismo, illustra la creazione dopo la morte di un corpo aereo che circonda l'anima e conserva la potenza vegetativa e sensibile, per cui l'anima può provare tutte le sensazioni di un corpo umano, incluso il dolore. Dante non si attiene in modo sempre coerente a tale spiegazione, descrivendo le anime dei trapassati ora come inconsistenti, ora come corpi veri e propri dotati di una reale fisicità: in Inf., VI, 34-36 lui e Virgilio camminano sulle anime dei golosi attraversando la lor vanità che par persona, e in Purg., II, 79-81 il poeta tenta inutilmente di abbracciare l'amico Casella ritrovandosi le braccia al petto, come già Enea con Creusa e Anchise.
Non mancano tuttavia esempi opposti, specie nella I Cantica: in Inf., VIII, 40-42 Virgilio respinge Filippo Argenti che tenta di trascinare Dante dalla barca di Flegiàs nella palude stigia, mentre in XXXII, 97 ss. Dante afferra Bocca degli Abati (posto fra i traditori della patria in Cocito) per i capelli della nuca e gliene strappa addirittura una ciocca, nel tentativo di costringerlo a rivelare il proprio nome. Qualcosa di simile avviene persino in Paradiso, dove le anime dei beati conservano una parziale umanità nel I Cielo, in cui appaiono come immagini evanescenti riflesse sull'acqua (Par., III, 10 ss.) e nel II Cielo, dove sono delle sagome a malapena distinguibili nella luce che le avvolge (V, 106-108), mentre più avanti saranno pure luci senza alcunché di fisico.
È chiaro che sulle scelte stilistiche di Dante opera l'esigenza narrativa di rappresentare la realtà ultraterrena in modo comprensibile all'intelletto umano, il che spiega le apparenti incongruenze in materia: vale la chiosa di Beatrice di Par., IV, 40 ss., che per spiegare a Dante perché i beati si mostrino a lui nei vari Cieli anziché nell'Empireo afferma che Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno, facendo l'esempio del testo biblico che attribuisce tratti fisici a Dio e agli angeli e altro intende, per la necessità di farsi capire dai fedeli con immagini visive e facilmente comprensibili. In quest'ottica perdono di interesse le discussioni dei dantisti sulla presunta incoerenza di Dante in materia dottrinale relativamente ai corpi delle anime, specie quando si rammenti che la Commedia è un'opera poetica e non un trattato di teologia, anche se l'elemento dottrinale è parte integrante del poema e ne costituirà l'essenza soprattutto nella III Cantica.
Note
- I vv. 2-3 indicano che il sole ha lasciato il meridiano alla costellazione del Toro e la notte a quella dello Scorpione; il sole, all'epoca della visione, è in congiunzione con l'Ariete e questa si trova sul meridiano a mezzogiorno. Quando lascia il posto al Toro sono trascorse circa due ore, quindi sono le due del pomeriggio.
- I vv. 17-18 alludono all'atto di scoccare una freccia, tendendo la corda sino a far toccare il ferro, cioè la punta della freccia, con l'arco.
- Ai vv. 21-23 Virgilio ricorda il mito di Meleagro, figlio di Oeneo e Atlea, che per decreto delle Parche era destinato a vivere quanto un tizzone gettato dalle dee sul fuoco al momento della sua nascita. La madre nascose il tizzone e lo spense, ma dopo che Meleagro uccise i fratelli della madre, questa, adirata con lui, gettò nuovamente il tizzone sul fuoco e Meleagro si consumò con quello.
- Il sangue perfetto citato da Stazio al v. 37 è quello destinato al concepimento: cfr. san Tommaso, Summa theol., III, q. XXXI (sanguis qui... est praeparatus ad conceptum, quasi purior et perfectior alio sanguine).
- Al v. 56 alcuni mss. leggono fungo in luogo di spungo (spugna), che è lezione più difficile.
- Al v. 61 fante significa «parlante», quindi indica l'essere umano.
- Il savio citato al v. 63 è Averroè, la cui dottrina relativa all'anima viene confutata da Stazio nei versi seguenti.
- Al v. 75 sé in sé rigira vuol dire «che riflette se stessa su se stessa», cioè ha coscienza del proprio essere.
- I vv. 85-86 indicano che l'anima dopo la morte cade sulle rive dell'Acheronte, se dannata, o alla foce del Tevere, se salva.
- Piorno (v. 91) è forma arcaica per «piovorno», quindi «pregno di umidità».
- L'inno Summae Deus clementiae (v. 121) cantato dai lussuriosi non ha nulla a che vedere con questo peccato, ma è probabile che Dante si riferisca a quello che si canta al mattutino del sabato e che condanna la lussuria: esso oggi inizia con le parole Summae parens clementiae, mentre al tempo di Dante l'incipit era quello riportato nel Canto (cfr. il commento del Lana).
- L'esempio di castità di Maria è tratto da Luc., I, 34, quando la Vergine risponde all'annunciazione dell'arcangelo Gabriele con le parole: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? («Come potrà avvenire questo, visto che non conosco uomo?»).
- Elice (v. 131) è il nome meno comune della ninfa Callisto, sedotta da Giove.
- I vv. 138-139 sono parsi ad alcuni commentatori un accenno a delle piaghe effettivamente subite dai lussuriosi, forse delle P incise sulle loro fronti: l'ipotesi è suggestiva, ma nulla conferma che tale pratica riguardi anche i penitenti e non solo Dante (riguardo a Stazio, per esempio, non se ne fa cenno).

TESTO

Ora era onde ‘l salir non volea storpio; 
ché ‘l sole avea il cerchio di merigge 
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:                        3

per che, come fa l’uom che non s’affigge 
ma vassi a la via sua, che che li appaia, 
se di bisogno stimolo il trafigge,                                      6

così intrammo noi per la callaia, 
uno innanzi altro prendendo la scala 
che per artezza i salitor dispaia.                                       9

E quale il cicognin che leva l’ala 
per voglia di volare, e non s’attenta 
d’abbandonar lo nido, e giù la cala;                               12

tal era io con voglia accesa e spenta 
di dimandar, venendo infino a l’atto 
che fa colui ch’a dicer s’argomenta.                              15

Non lasciò, per l’andar che fosse ratto, 
lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca 
l’arco del dir, che ‘nfino al ferro hai tratto».                   18

Allor sicuramente apri’ la bocca 
e cominciai: «Come si può far magro 
là dove l’uopo di nodrir non tocca?».                             21

«Se t’ammentassi come Meleagro 
si consumò al consumar d’un stizzo, 
non fora», disse, «a te questo sì agro;                          24

e se pensassi come, al vostro guizzo, 
guizza dentro a lo specchio vostra image, 
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.                                   27

Ma perché dentro a tuo voler t’adage, 
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego 
che sia or sanator de le tue piage».                               30

«Se la veduta etterna li dislego», 
rispuose Stazio, «là dove tu sie, 
discolpi me non potert’io far nego».                               33

Poi cominciò: «Se le parole mie, 
figlio, la mente tua guarda e riceve, 
lume ti fiero al come che tu die.                                      36

Sangue perfetto, che poi non si beve 
da l’assetate vene, e si rimane 
quasi alimento che di mensa leve,                                39

prende nel core a tutte membra umane 
virtute informativa, come quello 
ch’a farsi quelle per le vene vane.                                  42

Ancor digesto, scende ov’è più bello 
tacer che dire; e quindi poscia geme 
sovr’altrui sangue in natural vasello.                             45

Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme, 
l’un disposto a patire, e l’altro a fare 
per lo perfetto loco onde si preme;                                48

e, giunto lui, comincia ad operare 
coagulando prima, e poi avviva 
ciò che per sua matera fé constare.                               51

Anima fatta la virtute attiva 
qual d’una pianta, in tanto differente, 
che questa è in via e quella è già a riva,                        54

tanto ovra poi, che già si move e sente, 
come spungo marino; e indi imprende 
ad organar le posse ond’è semente.                            57

Or si spiega, figliuolo, or si distende 
la virtù ch’è dal cor del generante, 
dove natura a tutte membra intende.                             60

Ma come d’animal divegna fante, 
non vedi tu ancor: quest’è tal punto, 
che più savio di te fé già errante,                                    63

sì che per sua dottrina fé disgiunto 
da l’anima il possibile intelletto, 
perché da lui non vide organo assunto.                        66

Apri a la verità che viene il petto; 
e sappi che, sì tosto come al feto 
l’articular del cerebro è perfetto,                                     69

lo motor primo a lui si volge lieto 
sovra tant’arte di natura, e spira 
spirito novo, di vertù repleto,                                            72

che ciò che trova attivo quivi, tira 
in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, 
che vive e sente e sé in sé rigira.                                   75

E perché meno ammiri la parola, 
guarda il calor del sole che si fa vino, 
giunto a l’omor che de la vite cola.                                 78

Quando Làchesis non ha più del lino, 
solvesi da la carne, e in virtute 
ne porta seco e l’umano e ‘l divino:                                81

l’altre potenze tutte quante mute; 
memoria, intelligenza e volontade 
in atto molto più che prima agute.                                  84

Sanza restarsi per sé stessa cade 
mirabilmente a l’una de le rive; 
quivi conosce prima le sue strade.                                87

Tosto che loco lì la circunscrive, 
la virtù formativa raggia intorno 
così e quanto ne le membra vive.                                   90

E come l’aere, quand’è ben piorno, 
per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette, 
di diversi color diventa addorno;                                     93

così l’aere vicin quivi si mette 
in quella forma ch’è in lui suggella 
virtualmente l’alma che ristette;                                      96

e simigliante poi a la fiammella 
che segue il foco là ‘vunque si muta, 
segue lo spirto sua forma novella.                                 99

Però che quindi ha poscia sua paruta, 
è chiamata ombra; e quindi organa poi 
ciascun sentire infino a la veduta.                                 102

Quindi parliamo e quindi ridiam noi; 
quindi facciam le lagrime e ‘ sospiri 
che per lo monte aver sentiti puoi.                                105

Secondo che ci affiggono i disiri 
e li altri affetti, l’ombra si figura; 
e quest’è la cagion di che tu miri».                               108

E già venuto a l’ultima tortura 
s’era per noi, e vòlto a la man destra, 
ed eravamo attenti ad altra cura.                                   111

Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, 
e la cornice spira fiato in suso 
che la reflette e via da lei sequestra;                            114

ond’ir ne convenia dal lato schiuso 
ad uno ad uno; e io temea ‘l foco 
quinci, e quindi temeva cader giuso.                            117

Lo duca mio dicea: «Per questo loco 
si vuol tenere a li occhi stretto il freno, 
però ch’errar potrebbesi per poco».                             120

Summae Deus clementiae’ nel seno 
al grande ardore allora udi’ cantando, 
che di volger mi fé caler non meno;                              123

e vidi spirti per la fiamma andando; 
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi 
compartendo la vista a quando a quando.                  126

Appresso il fine ch’a quell’inno fassi, 
gridavano alto: ‘Virum non cognosco’; 
indi ricominciavan l’inno bassi.                                     129

Finitolo, anco gridavano: «Al bosco 
si tenne Diana, ed Elice caccionne 
che di Venere avea sentito il tòsco».                            132

Indi al cantar tornavano; indi donne 
gridavano e mariti che fuor casti 
come virtute e matrimonio imponne.                            135

E questo modo credo che lor basti 
per tutto il tempo che ‘l foco li abbruscia: 
con tal cura conviene e con tai pasti 

che la piaga da sezzo si ricuscia.                                  139

PARAFRASI

L'ora era tale che la salita non doveva avere ostacoli; infatti il sole aveva lasciato il meridiano al Toro e la notte allo Scorpione (erano le due del pomeriggio); dunque, come fa l'uomo che non si arresta, ma prosegue il suo cammino qualunque cosa incontri, se è pungolato dallo stimolo del bisogno, così noi entrammo nel passaggio, procedendo uno dietro all'altro lungo la scala che era tanto stretta da costringerci a separarci in quel modo.

E come il cicognino che solleva l'ala per volontà di volare, e poi non osa lasciare il nido e la mette giù;

così ero io che volevo domandare e non osavo farlo, assumendo l'atteggiamento di chi si dispone a parlare.

Nonostante l'andatura fosse spedita, il mio dolce padre (Virgilio) non lasciò cadere la cosa e disse: «Scocca l'arco delle tue parole, visto che l'hai teso fino a far toccare il dardo all'arco stesso».

Allora, rassicurato, aprii la bocca e iniziai a dire: «Come è possibile che dimagrisca chi non ha bisogno di nutrirsi?»

Disse: «Se ricordassi come
Meleagro si consumò al consumare di un tizzone, questo non sarebbe per te difficile;

meleagro
MELEAGRO

e se pensassi come la vostra immagine viene riflessa nello specchio, ciò che ti sembra duro ti sembrerebbe facile.

Ma affinché tu possa acquietarti nel tuo desiderio, ecco qui Stazio; e io lo prego che sani le tue piaghe (che ti sciolga ogni dubbio)».

Stazio rispose: «Se gli rivelo l'orizzonte delle verità eterne, qui in tua presenza, invoco a mia discolpa il non potermi sottrarre alla tua richiesta».

Poi iniziò: «Se la tua mente, figlio, ascolta con attenzione le mie parole, esse ti illumineranno riguardo alla questione di cui parli.

La parte più perfetta del sangue, che non viene assorbita dalle vene avide e rimane come un alimento che tu togli dalla mensa, acquista dal cuore la potenza di dar forma a tutte le membra umane, come quel sangue che va per le vene trasformandosi in quelle.

Esso, dopo essere stato trasformato, scende negli organi genitali maschili; e di qui, poi, stilla sopra il sangue della donna nella matrice naturale (l'utero).

Qui vengono raccolti entrambi insieme, l'uno predisposto a subire, l'altro ad agire grazie al luogo perfetto (il cuore) da cui vengono;

e il seme maschile, unito al sangue femminile, comincia a operare dapprima coagulandosi, e poi dando vita alla materia che ha prodotto (il feto).

La virtù informativa, divenuta un'anima come quella delle piante, con la differenza che questa (del feto) è destinata allo sviluppo, l'altra (delle piante) è già compiuta, opera al punto che già si muove e ha sensazioni, come una spugna marina; e in seguito inizia a formare gli organi adatti alle ricezioni sensibili delle quali è origine.

Ora, figliolo, la virtù informativa che viene dal cuore del padre si dispiega e si protende fin dove la natura predispone tutte le membra (del feto).

Ma tu ancora non comprendi come si trasformi da animale in essere razionale: questo è il punto che ha già tratto in errore un filosofo più saggio di te (Averroè), al punto che nella sua dottrina separò dall'anima l'intelletto possibile, perché non vide alcun organo adatto a questa funzione.

Apri il cuore alla novità che sto per dirti: e sappi che, non appena nel feto il cervello è perfettamente sviluppato, il primo motore (Dio) si volge lieto a una simile opera di natura, e vi ispira un nuovo spirito (la potenza intellettiva), piena di virtù, che attira e incorpora nella sua sostanza ciò che qui trova attivo e crea un'anima sola, che vive (ha la potenza vegetativa), sente (ha la potenza sensibile) e ha coscienza di sé.

E affinché tu ti stupisca meno delle mie parole, pensa al vino che è prodotto dal calore del sole unito all'umore che cola dalla vite.

Quando Lachesi non ha più filo da tessere (alla fine della vita), l'anima si separa dal corpo e porta con sé le facoltà umane (vegetativa e sensibile) e divina (intellettiva):

tutte le altre potenze sono inerti, mentre la memoria, l'intelligenza e la volontà sono in atto molto più acute di prima.

Senza fermarsi, l'anima cade in modo mirabile a una delle due rive (Acheronte o Tevere); qui conosce subito il suo destino ultraterreno.

Non appena lo spazio lì la circonda, la virtù informativa irraggia intorno proprio come faceva nelle membra del corpo materiale.

E come l'aria, quando è ben pregna di umidità, si tinge dei colori dell'arcobaleno per il raggio del sole che la attraversa;

così l'aria che circonda lì l'anima assume quella forma che le imprime l'anima stessa lì ferma, grazie alla virtù informativa;

e poi, simile alla fiammella che segue il fuoco ovunque si sposti, la nuova forma segue l'anima.

Poiché da quel momento ha un suo aspetto esteriore, è chiamata ombra; e in seguito sviluppa tutte le sensazioni, fino alla vista.

Con questo corpo umbratile noi parliamo e ridiamo; con esso produciamo le lacrime e i sospiri che puoi aver sentito per il monte.

L'ombra assume l'aspetto a seconda dei desideri e degli altri sentimenti che proviamo; e questa è la causa che ti ha fatto meravigliare».

E ormai eravamo giunti all'ultima pena, e ci eravamo rivolti verso destra, ed eravamo presi da altra preoccupazione.

Qui (nella VII Cornice) la parete emette in fuori una fiamma, e la Cornice soffia un vento verso l'alto che fa ripiegare la fiamma e la allontana dall'orlo;

dunque dovevamo camminare in fila indiana lungo l'orlo esterno della Cornice; e io temevo il fuoco da un lato, di cadere nel vuoto dall'altro.

Il mio maestro diceva: «In questo luogo dobbiamo concentrare lo sguardo sui nostri passi, perché si potrebbe facilmente mettere un piede in fallo».

Allora sentii che dentro la grande fiamma qualcuno cantava 'O Signore di somma clemenza', il che mi diede gran desiderio di voltarmi;

e vidi anime che camminavano entro il fuoco; allora io guardavo verso di loro e ai miei passi, dividendo il mio sguardo tra gli uni e gli altri.

Dopo che le anime finivano di cantare quell'inno, gridavano forte: 'Non conosco uomo'; poi ricominciavano l'inno, a bassa voce.

Finito l'inno, gridavano ancora: «Diana visse nei boschi, da cui cacciò la ninfa Callisto che aveva provato il veleno di Venere».

Quindi tornavano all'inno; e poi gridavano di mogli e mariti che furono casti, come il vincolo matrimoniale impone loro.

E credo che questa modalità sia da loro tenuta per tutto il tempo in cui il fuoco li brucia: con tale medicina e tali alimenti (con la preghiera e la pena) devono rimarginare infine la loro piaga (quella del peccato).

 

callisto
Diana e Callisto dipinto da Rubens

CALLISTO

Callisto (in greco antico: Kallistò) è un personaggio della mitologia greca. Fu una ninfa ancella di Artemide e principessa d'Arcadia. Ancella di Artemide (e per questo vergine tenuta alla castità), fu desiderata da Zeus che, assunte le sembianze della dèa (o di Apollo) per possederla, la trasformò in un'orsa per nasconderla ad Hera. Hera però se ne accorse e chiese ad Artemide di uccidere Callisto e quando morì, Zeus ne raccolse il bambino (Arcade) che diede a Maia (oppure incaricò Hermes) per salvarlo, mentre la madre si trasformò in stella che prese il nome di Orsa (Maggiore). Ovidio (che chiama Artemide Diana, Hera Giunone e Zeus Giove), riprende il mito nelle Metamorfosi (II, 404-507) dove narra che Callisto fu sedotta da Giove sotto le sembianze di Diana. Dopo aver giaciuto col dio, Callisto tornò a far parte del corteo delle ninfe vergini di Diana. Di lì a nove mesi, dopo aver partecipato a una battuta di caccia con la dea e le altre ancelle, si rifiutò di svestirsi per fare il bagno presso una fonte, temendo di rivelare con la sua nudità che era incinta. Le altre ninfe si insospettirono e, sfilatale la veste, notarono il grembo rigonfio e scoprirono il tradimento. Così Diana la scacciò. Callisto diede quindi alla luce il figlio di Giove, Arcade, e Giunone, che fino a quel momento aveva rinviato la vendetta nei confronti della rivale, infuriata la trasformò in un'orsa. Callisto (che manteneva la coscienza di sé nella mutata forma animale, ma non poteva rivelarlo a nessuno perché le era stata tolta anche la parola), vagò nei campi e nei pressi degli uomini ma avendo le sembianze di un orso fu temuta e scacciata sai dagli uomini che dai cani. Quindici anni dopo riconobbe il figlio Arcade che con dei compagni di caccia si era addentrato nella foresta e quando cercò di avvicinarlo il figlio stava per colpirla con una freccia nel petto, ma Giove, non permise il crimine e mandò un vento che li sollevò entrambi da terra e lì piazzò come costellazioni nel cielo. Nei Fasti, Ovidio associa Callisto all'Orsa maggiore ed Arcade all'Orsa minore, di cui scrive che Giunone (Hera) (ancora arrabbiata con loro), fece in modo che non tramontino mai sotto l'orizzonte. (Le due costellazioni infatti, alla latitudine dei cieli notturni del Mediterraneo sono sempre visibili). Quello di Callisto è uno dei pochi miti greci, assieme a quello di Ifi, che presenta il tema del lesbismo, nonché l'unico che contenga un rapporto sessuale fra due donne. Ciò si deve probabilmente al fatto di essere l'unica traccia sopravvissuta di un rito arcaico di iniziazione omoerotico fra una donna adulta e una ragazza. L'indoeuropeista Bernard Sergent è il principale sostenitore della tesi dell'esistenza di un tale antichissimo rito sessuale d'iniziazione indo-europeo (allo studio del quale ha dedicato due monografie), che aveva lo scopo di trasmettere la fertilità dall'adulto al bambino, facendo "morire" misticamente il bambino, dopo un periodo dedicato all'insegnamento della caccia, e facendolo rinascere come giovane adulto consacrato alla divinità. callisto è a sua volta seguace d'una dea cacciatrice (artemide/diana - sorella del dio apollo, protagonista dei miti'iniziazione omosessuale maschile) collegata ai riti in tutta la grecia, che non partecipa dell'attività sessuale-procreativa tipica'età adulta per definizione vergine, eternamente al confine fra adolescenza ed adulta). nel mito originario, conseguenza suoi rapporti sessuali con diana, "diventa'orsa poi essere "uccisa" dalla stessa, costellazione maggiore. (per questa contaminazione simbologia astrale si ricordi artemide anche dea-luna).

MELEAGRO

Figlio di Oineo o di Ares e di Altea sposò Cleopatra Alcione e fu padre di Polidora. Con Atalanta fu padre di Partenopeo. Apollonio Rodio lo elenca tra gli Argonauti ma non riferisce nulla a riguardo di sue imprese particolari. La leggenda principale che riguarda questo personaggio lo vede protagonista della caccia al cinghiale calidonio ed è probabilmente legata alla trascrizione di un racconto popolare e legato a un'opera perduta (le Pleuronie di Frinico), ma sul seguito della sua esistenza esistono due versioni distinte e di cui una vede la sua vita finire poco dopo l'uccisione dell'animale e l'altra che lo descrive impegnato a combattere in una guerra contro i Cureti ed avvenuta tempo dopo. Pausania conferma la doppia versione del mito parlando di due altre opere perdute (Catalogo delle donne e Miniadi) e scrivendo che quei testi dicevano che Meleagro fu ucciso da Apollo che combatteva al fianco dei Cureti. Quando furono passati sette giorni dalla sua nascita, le Moire si presentarono alla madre e predissero che il bambino sarebbe vissuto fino a quando il ciocco di legno che stava bruciando nel focolare non si fosse consumato e così, per salvaguardare la vita del figlio, Altea tolse quel tizzone dal fuoco e lo depositò in una cassa. Dopo un abbondante raccolto suo padre Oineo aveva offerto un sacrificio a tutte le divinità dimenticandosi però di onorare Artemide che per ritorsione inviò nelle terre di Calidone un cinghiale di proporzioni enormi che devastava i campi ed uccideva chiunque uscisse dalle mura della città. Per abbattere l'animale il padre fece appello a molti eroi ed una volta riunito il gruppo li affidò al figlio che diede inizio alla battuta di caccia. Tra di loro si presentò anche Atalanta, una bellissima cacciatrice che infatuò Meleagro e donna con cui desiderò avere un figlio nonostante fosse già sposato con Cleopatra. Ed Atalanta, tra tutti i tentativi fatti dagli altri cacciatori per colpire l'animale, fu la prima a ferire il cinghiale, che di lì a poco cessò di correre e di caricarli e che fu infine ucciso da Meleagro con un colpo di giavellotto. Per amore, cavalleria o riconoscenza, Meleagro consegnò la testa e la pelle dell'animale come trofeo ad Atalanta, ma Plessippo e Tosseo (fratelli di Altea e quindi zii di Meleagro) protestarono dicendo che il trofeo, qualora non fosse trattenuto dal suo uccisore, doveva essere consegnato a loro; ne nacque una lite e Meleagro reagì uccidendoli entrambi. Ed Altea, che sulle prime fu contenta per la morte del cinghiale, quando seppe che il figlio aveva ucciso i suoi fratelli prese il ciocco di legno legato alla vita del figlio e lo mise su un braciere. E Meleagro morì. Meleagro nell'Iliade Nel IX libro dell'Iliade Fenice, il tutore di Achille, quando si reca da lui per chiedergli di riprendere le armi, gli racconta la vicenda di Meleagro. La versione della storia raccontata da Fenice coincide con quella precedentemente esposta fino all'abbattimento del cinghiale. Fenice però, anziché raccontare ad Achille della vita dell'eroe che termina quando il tizzone rimesso sul fuoco da Altea finisce di bruciare, dice che Artemide (non soddisfatta dell'esito della sua punizione verso Oineo) fece in modo che dal litigio sul trofeo si generasse una guerra tra gli Etoli Calidoni ed i Cureti abitanti di Pleurone (da cui il titolo della tragedia di Frinico) e che, a causa della presenza di Meleagro nelle file dei Calidoni, gli avversari non riuscivano a sopraffarli. Nella versione di Omero Atalanta non figura tra i cacciatori del cinghiale ed ha più spazio la moglie di Meleagro, Cleopatra, poiché durante l'assedio di Calidone gli parla del triste destino delle città conquistate; inoltre l'evento dell'uccisione degli zii materni non avviene più subito dopo l'abbattimento del cinghiale, bensì durante una battaglia della guerra di cui Fenice continua a raccontare ad Achille. Di Altea, infine, Omero scrive che dapprima giurò la morte per suo figlio nel nome di Ade e Persefone ma che poi, dopo che il figlio si è ritirato dal combattimento, lo implora invano quando gli avversari assalgono le mura della città. La versione di Omero si conclude dicendo che le Erinni escono dall'Erebo per rispondere alle invocazioni di morte pronunciate da Altea ma, nonostante la città dei Calidoni fosse già in fiamme, non dice che l'eroe muore dopo essere ritornato in battaglia per scongiurare la caduta della stessa. Nel Catalogo delle donne, di cui ci è pervenuta solo la fine della storia, sembra che Meleagro venga ucciso da Apollo mentre combatte sotto le mura di Pleurone e Pausania aggiunge che il dio è l'alleato dei Cureti e come sue fonti cita sia il Catalogo di Esiodo sia il perduto poema epico Miniadi.

meleagro
Meleagro e Atalanta di August Theodor Kaselowsky

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Eugenio Caruso - 27/02/2021


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