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Virgilio, Eneide, Libro 1. Giunone, Venere, Didone.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.

Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.

LIBRO I

RIASSUNTO Come l’Odissea di Omero, anche la narrazione dell’Eneide inizia in medias res, quando Enea e i troiani hanno abbandonato la loro terra da sette anni. Le navi di Enea sono giunte presso le coste siciliane. Giunone, sapendo che i discendenti dei troiani distruggeranno in futuro Cartagine, città a lei cara, decide di contrastare come può il volere del Fato, impedendo loro di raggiungere l’Italia. La dea si reca da Eolo, re dei venti: gli promette in sposa una bellissima ninfa, Deiopea, se scatenerà una tempesta contro i troiani. Eolo acconsente e scatena una terribile tempesta. Nettuno però interviene e fa cessare la tempesta. La flotta troiana, dispersa e danneggiata, approda così sul suolo africano. La scena si sposta in cielo: Venere, madre di Enea, sale sull’Olimpo e si lamenta con Giove per l’ostilità di Giunone verso i troiani. Giove le conferma la sua promessa: Enea raggiungerà l’Italia e fonderà una città, Lavinio. Da suo figlio Ascanio, fondatore della città di Alba, discenderà Romolo, fondatore a sua volta di Roma e della stirpe romana che sottometterà la Grecia, vendicando così dopo secoli la sconfitta di Troia. Giove invia poi Mercurio a Cartagine, perché la regina Didone accolga benevolmente i troiani scampati alla tempesta. Enea esce in esplorazione con Acate. La madre Venere gli si fa incontro, assumendo l’aspetto di una cacciatrice cartaginese, e gli narra la tragica storia della regina. La dea preannuncia a Enea una buona accoglienza da parte della regina, poi si dilegua, rivelando il suo aspetto divino. Enea si lamenta con lei, non credendo alle profezie di un destino benevolo. Enea e Acate – resi invisibili dalla dea, che li ha avvolti in una nuvola – giungono a Cartagine. Qui ammirano il tempio dedicato a Giunone, che sta sorgendo nel centro della città, e si commuovono davanti agli affreschi raffiguranti episodi della guerra di Troia. Fa il suo ingresso la regina di Cartagine. Le si avvicina un folto gruppo di troiani scampati alla tempesta; la supplicano di lasciarli approdare sul lido di Cartagine, dichiarando intenzioni pacifiche. Didone li accoglie benevolmente. A questo punto Enea e Acate escono dalla nube che li nasconde. Enea ringrazia Didone per la sua benevolenza e saluta gli amici scampati alla tempesta. Didone invita nuovamente tutti i troiani a entrare nel palazzo, promettendo il suo aiuto. Didone manda cibo abbondante ai troiani rimasti presso il porto e fa preparare nel suo palazzo uno splendido banchetto. Enea manda Acate a prendere il figlio Ascanio e a portare ricchi doni per la regina. Intanto in cielo, Venere si propone di far innamorare Didone di Enea, per assicurare al figlio benevola ospitalità e conforto. Il figlio della dea, Cupido, per esortazione della madre divina, prende l’aspetto di Ascanio e lo sostituisce, mentre Venere stessa prende temporaneamente con sé il vero figlio di Enea. Cupido / Ascanio abbraccia il padre Enea e poi si rivolge affettuosamente a Didone, che lo prende in grembo e ne assorbe il potente effetto amoroso. Dopo il sontuoso banchetto, Enea viene invitato da Didone a raccontare le vicende della caduta di Troia e delle peregrinazoni che lo hanno condotto a Cartagine.

PROTASI ED INVOCAZIONE
Canto le armi e l'eroe, che per primo dalle coste di Troia
profugo per fato toccò l'Italia e le spiagge
lavinie, lui molto sbattuto e per terre e per mare
dalla forza degli dei, per l'ira memore di Giunone crudele,
e tribolato molto anche da guerra, finchè fondasse la città 5
e portasse gli dei per il Lazio; donde (venne) la razza latina
i padri albani e le mura dell'alta Roma.
Musa ricordami le cause, per quale divinità lesa
o che lamentando, la regina degli dei abbia spinto
l'eroe famoso per pietà a dipanare tanti eventi, ad affrontar 10
tanti dolori. Forse così grandi ( sono) le ire per i cuori celesti?

enea 1
Enea fugge da Troia di FEDERICO BAROCCI


GIUNONE ADIRATA
Vi fu un'antica città, Cartagine, la occuparono coloni
Tirii, lontano contro l'Italia e le bocche Tiberine,
ricca di beni e fortissima per le passioni di guerra,
che Giunone, si dice, abbia amato più di tutte le terre, 15
posposta (anche) a Samo. Qui le sue armi,
qui il cocchio ci fu; la dea già allora, lo aspira e lo cura,
sia questo regno per (tali) popoli, se mai i fati permettano.
Ma aveva sentito che una stirpe di sangue troiano si formava,
che un tempo muterebbe le fortezze tirie; 20
di qui sarebbe giunto un popolo capo e superbo
in guerra per la rovina di Libia; così filavan le Parche.
Temendo ciò e memore della antica guerra la Saturnia,
perchè per prima l'aveva mossa a Troia per la cara Argo -
nè ancora eran cadute dal cuore le cause dell'ira e
gli acuti dolori: resta nascosto nell'alta mente
il giudizio di Paride e l'oltraggio della bellezza sprezzata
e la stirpe odiata e i favori di Ganimede rapito:
bruciata per questo, scagliati per tutto il mare,
spingeva lontano dal Lazio i troiani, avanzi dei Danai
e del crudele Achille, e per molti anni
pressati dai fati erravano per tutti i mari.
Così tanto costava fondare la gente romana.
Appena alla vista della terra sicula in alto mare
lieti alzavan le vele e ne rompevan le spume col bronzo,
che Giunone serbando nel petto l'eterna ferita
questo tra sè: "Io desistere forse dall'iniziativa, vinta,
nè poter deviar dall'Italia il re dei Teucri.
Son proprio bloccata dai fati. Ma Pallade potè bruciare
la flotta degli Argivi e sommergerli nel mare
per la colpa e le furie del solo Aiace Oileo?
Lei scagliato dalle bubi il rapido fuoco
frantumò e le barche e sconvolse le acque coi venti,
con la bufera lo agguantò, trapassato il petto, esalante
fiamme e lo inchiodò sullo scoglio aguzzo;
ma io, che procedo regina degli dei e di Giove
sia sorella che sposa, con una sola razza tanti anni
faccio guerre. Ma nessuno adora la maestà di Giunone
mai più o supplice porrà offerte su altari?"
La dea meditando tali cose tra sè con animo acceso
giunse in Eolia, patria di tempeste, luoghi pieni
di Austri furenti. Qui Eolo in vasta caverna
blocca i venti violenti e le roboanti tempeste
con autorità e li frena con catene e prigione.
Essi riluttanti con grande brontolio del monte
fermono attorno le sbarre; Eolo siede sull'alta fortezza
tenendo gli scettri e placa i cuori e controlla le ire.
Se non lo facesse, davvero rapidi prenderebbero mari
e terre e il cielo profondo e con sè spazzerebbero per l'aria;
ma il padre onnopotente li nascose in nere caverne
temendo ciò, e sovrappose una mole ed alti monti
e diede un re, che con norma sicura sapesse
sia bloccare che al comando allentare le briglie.
Ma con lui dunque supplice Giunone usò queste frasi:
"Eolo, a te infatti il padre degli dei e re degli uomini
concesse sia di calmare che alzare i flutti col vento,
una razza a me avversa naviga il mare tirreno
portando in Italia Ilio ed i vinti penati:
lancia una forza coi venti e copri le poppe sommerse
o falli sbandati e disperdine i corpi nel mare.
Io ho quattordici Ninfe di corpo formoso
di cui quella più bella d'aspetto, Deiopea,
legherò di unione stabile e donerò speciale,
che tutti gli anni passi per tali meriti
con te e ti renda padre di bella prole.
Eolo questo rispose: "Tuo il disturbo, o regina,
cercare quello che vuoi; per me è legge eseguire i comandi.
Tu quel po' di potere, tu gli scettri e Giove
mi accordi, tu mi fai sedere alle feste degli dei
e mi rendi padrone di tempeste e bufere.

LA TEMPESTA
Come ciò detto, ribaltata la lancia, colpì
alla costa il cavo monte; ed i venti come fatta una schiera
dov' è dato lo sbocco, corrono e flaggellan le terre col soffio.
Bloccarono il mare e tutto dai massimi fondi
insieme Euro e Noto vanno ed Africo denso
di bufere, e riversan i vasti flutti sui lidi.
Ne segue un grido di uomini e uno stridio di cordami;
subito le nubi strappano il cielo e il giorno
dagli occhi dei Teucri; nera sul mare sovrasta la notte;
tuonarono i poli e l'etere splende di densi fuochi
tutto minaccia sugli uomini una morte imminente.
All'istante le membra di Enea si sciolgono dal brivido;
geme e tendendo entrambe le mani alle stelle
così esprime a voce: "O tre quattro volte felici,
cui toccò affrontare la morte davanti ai volti dei padri e sotto
le alte mura di Troia. O Tidide, il più forte della razza
dei Danai. Io, non aver potuto cadere nelle piane iliache
e spendere questa vita per mano tua, dove giace
il fiero Ettore per l'arma dell'Eacide, dove Sarpedo gigante,
dove sotto l'onde il Simoenta travolge tanti scudi strappati
ed elmi e forti spoglie d'eroi."
A lui che grida così un turbine nemico stridendo per Aquilone
ferisce la vela e solleva i flutti alle stelle.
Si spaccano i remi, poi si rovescia la prora ed offre il fianco
alle onde, l'insegue un monte spezzato con la (sua) massa d'acqua.
Questi pendono in cima al flutto; a questi un'onda aprendosi
scopre tra i flutti la terra, il risucchio infuria sulle sabbie.
Noto tormenta tre navi strappate nelle rocce latenti
rocce che gli Itali chiamano Are in mezzo ai flutti,
enorme dorsale in cima al mare, tre le spinge Euro dall'alto
anche negli stretti di Sirte, miserevole (spettacolo) a vedersi,
e le sbatte nelle secche e le cinge d'un muro di sabbia.
Una, che portava i Lici ed il fidato Oronte,
sotto i suoi occhi l'enorme marea la ferisce dall'alto
sulla poppa: il pilota bocconi è sbalzato e rotolato
a capofitto, ma tre volte il flutto la tortura lì ancora
roteandola e un rapido vortice con l'acqua la divora.
Pochi appaiono nuotando nel vortice vasto,
armi d'eroi e tavole e tesori troiani tra le onde.
Ormai la robusta nave d'Ilioneo, ormai (quella) del forte Acate,
e (quella) da cui (é) portato Abante, e (quella) da cui il vecchio Alete, le ha vinte la bufera; tutte con l'insieme dei fianchi sfasciato accettano la pioggia nemica e per le falle si aprono.

nave
Le navi di Enera saggiano l'ira di Giunone

NETTUNO, DIO DEL MARE, INTERVIENE
Intanto Nettuno s'accorse che il mare era sconvolto da grande
rumore e che la bufera era scatenata e dai profondi abissi
le acque eran agitate, seriamente sdegnato, e affacciandosi
dall'alto alzò il capo maestoso sulla cima dell'onda.
Vede la flotta d'Enea dispersa per tutto il mare,
i troiani sommersi dai flutti e dal disastro del cielo;
nè sfuggirono al fratello gli inganni e le ire di Giunone.
Chiama a sè Euro e Zefiro, poi parla così:
"Forse così tanta sicurezza della vostra razza vi sostenne?
ormai senza il mio volere osate sconvolgere cielo e terra,
venti, e alzare così grandi masse?
Perchè io vi...ma è meglio calmare i flutti sconvolti.
Poi mi pagherete i misfatti con pena non comparabile.
Affrettate la fuga e così dite al vostro re:
non a lui fu dato il potere del mare ed il severo tridente,
ma a me per fato. Lui possiede le enormi rocce,
le vostre case, Euro; si sbatta in quella sede
Eolo e regni sul chiuso carcere dei venti".
Così parla, e con l'ordine ben presto placa il gonfio mare
spazza via le nubi raccolte e riporta il sole.
Cimotoe insieme e Tritone sforzandosi disincaglian
le navi dallo scoglio aguzzo; lui le alza col tridente
apre le vaste Sirti e placa il mare
e colle ruote leggere percorre le cime delle onde.
E come in una grande folla quando spesso è nata
una sommossa e il volgo plebeo infuria con violenze
e ormai volano incendi e sassi, la rabbia procura armi;
allora, se per caso han visto un uomo serio per virtù
e meriti, tacciono e stanno con orecchie attente;
egli guida i cuori con le parole e addolcisce gli spiriti:
così tutto il frastuono del mare cessò, dopo che il padre
affacciandosi sull'acque e portato nel cielo aperto 135
piega i cavalli e volando col cocchio veloce dà le briglie.

GLI ENEADI SULLE COSTE DELLA LIBIA (1.157- 222)
Stanchi gli Eneadi cercan di raggiungere a gara
i lidi vicini e si volgono alle spiage di Libia.
C'è un luogo in profonda insenatura: l'isola crea
un porto con la barriera dei fianchi, su cui ogni onda
dall'alto si grange e si scinde in seni appartati.
Di qua e di là vaste rupi e scogli gemelli minacciano
al cielo, e sotto la loro cima attorno
le acque taccion tranquile; poi sopra una scena di selve
brillanti, ed un nero bosco sovrasta con ombra terrificante.
su fronte opposto una grotta con scogli incombenti;
dentro acque dolci e sedili di vivo sasso,
una casa di Ninfe. Qui nessun cordame trattiene
le stanche navi, non le lega un'ancora con l'attacco adunco.
Qui entra Enea raccolte stte navi da tutto
il numero, e usciti col grande amore di terra
i troiani s'impossessano della sabbia bramata
e adagiano sul lido le membra grondanti di sale.
Ma dapprima Acate cavò la scintilla dalla selce
suscitò il fuoco con foglie e diede attorno
secchi alimenti e dallo stimolo ghermì la fiamma.
Poi preparano Cerere (grano) rovinato dalle onde e le armi
di Cerere stanchi dei mali, si accingono ad asciugare
col fuoco i frutti raccolti e macinarli col sasso. 179
Enea intanto ascende lo scoglio, e scruta tutta
la vista attorno nel mare, se mai vedesse qualcuno,
Anteo sbattuto dal vento e le frige biremi
o Capi o le insegne di Caico sulle alte poppe.
Nessuna nave in vista, intravede sul lido tre
cervi erranti; tutte le mandrie li seguono
alle spalle e la lunga schiera pascola per le valli.
Qui si fermò e afferrò con la mano l'arco
e le frecce veloci, armi che il fedele Acate portava,
abbatte anzitutto gli stessi capi sporgenti le alte teste
con le corna ramose, poi avanzando con le armi
scompiglia il volgo e tutta la massa tra i boschi frondosi;
nè si ferma prima che trionfante stenda per terra sette
enormi corpi e adegui il numero con le navi;
di qui si reca al porto e spartisce tra tutti i compagni.
Poi l'eroe divide i vini che il buon Aceste aveva caricato in barili e aveva dato sul lido trinacrio ai partenti,
e placa con frasi gli animi dolenti:
" O amici certo non siamo ignari prima dei mali,
o ne provaste più gravi, un dio pure a essi darà una fine.
voi avvicinaste anche la rabbia scillea e totalmente
gli scogli risonanti, voi anche provaste le rocce
ciclopiche: rianimate i cuori e lasciate il triste
timore; forse un giorno gioverà ricordare anche questo.
Tra varie vicende, tra tanti rischi di eventi
miriamo al Lazio, dove i fati mostrano dimore
tranquille; là è giusto risorgano i regni di Troia:
resistete e mantenetevi per giorni migliori."
Così dice a parole e triste per gli enormi affanni
finge col volto fiducia, reprime nel cuore il forte dolore.
Essi si accingono alla preda ed ai banchetti futuri:
strappan dalle costole i dorsi ed apron le viscere;
parte tagliano in pezzi e li infilano vibranti con spiedi,
mettono caldaie sul lido ed altri forniscono fiamme.
Poi col cibo riprendon le forze, e sparsi nell'erba
si riempion di vecchio Bacco e ricca selvaggina.
426426 Dopo che fu tolta la fame e sgombrate le mense
con lungo parlare rievocano gli amici perduti,
tra la speranza e la paura del dubbio, sia li credano vivere
sia soffrire la fine nè più sentire, (anche se chiamati).
Soprattutto il pio Enea ora piange tra sè la sorte del fiero 220
Oronte, ora di Amico ed i crudeli destini
di Lico ed il forte Giante ed il forte Cloanto.

Acate
Enea e Acate sulla costa libica dipinto di Dosso Dossi

DESTINO DEGLI ENEADI
Ed ormai era la fine, quando Giove dalla sommità del cielo
guardando il mare, vi volan le vele, e le terre distese
e i lidi e i vasti popoli, così si fermò al vertice
del cielo e fissò gli occhi sui regni di Libia.
Ma parlò a lui che meditava in cuore tali pensieri Venere
piuttosto triste e sparsa gli occhi splendenti di lacrime:
"O tu che reggi le sorti di uomini e dei
con poteri eterni e atterrisci col fulmine,
che poteron commetter di sì grave contro di te il mio Enea,
che cosa i troiani, cui dopo aver patito tante stragi
si chiude tutto il mondo a causa dell'Italia?
Veramente che di qui un giorno i Romani, passando gli anni,
di qui sarebbero i capi, dal sangue rinnovato di Teucro,
che possedessero il mare, e tutte le terre con autorità,
avendolo tu promesso - quale decisione , o padre, ti cambia?
con questo davvero consolavo il tramonto di Troia e le tristi
rovine ripagando i fati contrari con fati (nuovi);
ora la stessa dorte perseguita eroi spinti da tante disgrazie.
Che termine dai delle fatiche, o gran re?
Antenore sfuggito di mezzo agli Achivi potè
penetrare i golfi illirici e superare sicuro gli interni
regni dei Liburni e la fonte del Timavo,
da cui per nove bocche con vasto frastuono del monte
giunge il mare scosceso e rompe campi con massa ruggente.
Qui almeno egli stabilì la città di Padova e le dimore
dei Teucri e diede un nome al popolo fissò le armi
troiane, ora assicurato da placida pace riposa:
noi, tua progenie, cui prometti la fortezza del cielo,
perdute (cosa indicibile) le navi, per l'ira di una sola
siamo traditi e siamo separati lontano dalle itale spiagge.
Questo il premio della virtù? così ci rimetti ai comandi?"
A lei sorridendo il creatore di uomini e dei
col volto, con cui rasserena cielo e tempeste,
sfiorò le labbra della figlia, quindi parla così:
" Risparmia la paura, Citerea, ti rimangono intatti i fati
dei tuoi; vedrai la città e le promesse mura
di Lavinio, e sublime porterai alle stelle del cielo
il magnanimo Enea, e la decisione non mi cambia.
Orbene qui ti parlerò, poichè questo affanno ti tormenta,
e più lontano meditando i misteri dei fati (li) manifesterò:
farà una grande guerra in Italia e distruggerà popoli fieri
stabilirà leggi e mura per gli eroi, finchè
la terza estate lo vedrà regnante sul Lazio
e passeranno tre inverni, sconfitti i Rutuli.
Ma il fanciullo Ascanio, cui è aggiunto il nome Iulo
(era Ilo, fin che la realtà ilia restò al potere)
compirà trenta grandi giri (del sole, anni) di potere,
passando i mesi, e trasferirà il regno dalla sede
di Lavinio, e munirà Alba Longa di grande potenza.
Qui ormai si regnerà per trecento anni
sotto il popolo ettoreo, finchè una regina sacerdotessa,
ilia, gravida di Marte darà con parto prole gemellare.

romolo
Romolo e Remo dipinto di Rubens

Quindi lieto per la fulva protezione della lupa nutrice
Romolo raccoglierà un popolo e fonderà le mura mavorzie
e dal suo nome esprimerà i Romani.
Per questi non pongo nè limiti d'azione ne tempi:
ho concesso un potere senza fine. Anzi la dura Giunone,
che adesso sconquassa con paura e terre e cielo,
riporterà in meglio le decisioni, con me favorirà
i Romani, signori delle situazioni e popolo togato.
Così si decise. Verrà un'epoca, passando gli anni,
che la casa di Assaraco soggiogherà Ftia e la famosa
Micene e dominerà sulla vinta Argo.
Nascerà trtoiano da bella stirpe Cesare,
che delimiterà l'impero con l'Oceano, e la fama con gli astri,
Giulio, nome derivato dal grande Iulo.
Costui tu l'accoglierai sicura in cielo carico delle spoglie d'Oriente; costui pure sarà invocato con voti.
Allora finite le guerre i secoli crudeli si mitigheranno:
la bianca Fede e Vesta, Quirini col fratello Remo
faranno le leggi; si chiuderanno col ferro e stretti strumenti
le porte di Guerra; l'empio Furore dentro
sedendo sulle crudeli armi e imprigionato da cento nodi
bronzei dietro la schiena fremerà con la bocca insanguinata."
Così dice e manda dall'alto il figlio di Maia,
perchè le terre e le nuove fortezze di Cartagine si aprano
per l'ospitalità ai Teucri, che Didone ignara del fato
non (li) cacciasse dai territori. Egli vola per l'ampia aria
col remeggio delle ali e pronto si fermò sulle spiagge di Libia.
Ed ormai esegue gli ordini, e i Puni lasciano gli animi
fieri, volendolo il dio; anzitutto la regina
ha un animo calmo e un proposito benevolo verso i Teucri.


VENERE ED ENEA
Ma il pio Enea meditando moltissimo durante la notte, 305
appena fu data la luce vitale decise di uscire ed esplorare
i nuovi luoghi, quali spiagge abbia raggiunto col vento,
chiedere chi, se uomini o belve, poichè vede (luoghi) incolti,
li abiti e riferire ai compagni cose esatte.
Occulta nella rientranza dei boschi sotto una rupe scavata
la flotta chiusa attorno da alberi e fresche ombre;
egli accompagnato dal solo Acate avanza
brandendo in mano due giavellotti di largo ferro.
Ma lui si offerse incontro la madre in mezzo al bosco
tenendo un volto e un portamento di ragazza ed armi
di ragazza spartana, o quale la tracia Arpalice (che)
affatica i cavalli e sorpassa in fuga il veloce Ebro.
Infatti secondo l'uso la cacciatrice aveva sospeso alle spalle il comodo arco e aveva lasciato sciogliere la chioma ai venti
nuda il ginocchio e raccolte con nodo le vesti fluenti.
E per prima disse:" Olè, giovani, mostrate se mai
vedeste qui una delle mie sorelle errante,
cinta di faretra e della pelle di una lince chiazzata,
o incalzante con grida la corsa d'un cinghiale schiumante".
Così Venere e così il figlio di Venere in risposta cominciò:
"Nessuna delle tue sorelle fu da me vista nè sentita,
oh, come parlarti, ragazza? Infatti non hai volto
mortale, nè la voce richiama una creatura, oh, dea davvero
o sorella di Febo? oppure una della famiglia delle Ninfe?
Sii favorevole, qualunque (tu sia) e allevia il nostro affanno
e rivela finalmente sotto che cielo, in quali spiagge del mondo
siamo gettati: ignari sia delle persone che dei luoghi
erriamo spinti qui dal vento e dai vasti flutti.
Molta vittima cadrà per te davanti agli altari per nostra mano"
Allora Venere: "Veramente non mi degno di tale onore; 335
per ragazze tirie è costume portar la farestra
e legare col purpureo coturno le gambe.
Vedi regni punici, Tirii e la città di Agenore;
ma territori libici, razza indomabile in guerra.

venere
Venere appare a ENEA


LA STORIA DI DIDONE
Tiene il potere la tiria Didone partita dalla città
fuggendo il fratello.E' un oltraggio lungo, lunghi
gli intrighi; ma seguirò i sommi capi delle vicende.
A costei era marito Sicheo, il più ricco d'oro
dei Punici, e amato dal grande amore della misera,
a lui il padre l'aveva data intatta e l'aveva unita
in prime nozze. Ma teneva i regni di Tiro il fratello
Pigmalione, per malvagità più feroce di tutti gli altri.
Tra essi venne in mezzo il furore. Egli empio
cieco per amore dell'oro abatte con l'arma Sicheo
di nascosto che non temeva davanti agli altari; sicuro degli affetti
della sorella; ed a lungo nascose il fatto e fingendo molto
il malvagio illuse con vana speranza l'afflitta amante.
Ma lo stesso fantasma del marito insepolto venne nei sogni
alzando i pallidi sembianti in modi straordinari;
svelò i crudeli altari ed il petto trafittodall'arma,
scoprì tutto il cieco delitto della casa.
Allora raccomanda di affrettare la fuga e andarsene dalla patria
e come aiuto per la via rivelò vecchi tesori
sotto terra, una ignota quantità di oro e argento.
Così sconcertata Didone preparava fuga e compagni.
Si radunano quelli che avevano o crudele odio o
paura del tiranno; le navi, che eran pronte,
le prendono e le carican d'oro. I beni dell'avaro
Pigmalione son portati per mare; capo dell'impresa una donna
Raggiunsero i luoghi, dove ora vedrai le enormi
mura e la nascente fortezza della nuova Cartagine,
e comprati il suolo, Birsa dal nome del fatto,
quanto potessero circondare con una pelle di toro.
Ma voi chi mai (siete)? o da quali spiagge veniste?
Dove mai volgete il cammino?"Alla richiedente egli così
sospirando e traendo dal profondo (del) petto la voce:
"O dea, m'avviassi rifacendomi dal primo inizio
e ci fosse tempo di sentire le storie delle nostre pene
Vespero, chiuso l'Olimpo, concluderebbe prima il giorno.
Noi ci spinse dall'antica Troia, se per caso giunse alle vostre
orecchie il nome di Troia, portati per diversi mari
una tempesta, per suo disegno, alle spiagge libiche.
Sono il pio Enea, che reco con me con la flotta
i Penati strappati al nemico, per fama noto oltre il cielo;
cerco la patria Italia e la mia stirpe dal sommo Giove.
Con venti navi affrontai il mare frigio,
mostrandomi la via la madre dea seguendo i fati assegnati;
appena sette strappate alle onde e ad Euro restano.
Io ignoto, bisognoso, percorro i deserti di Libia,
cacciato da Europa ed Asia". Ma non sopportando più
il dolente, Venere così in mezzo al dolore interruppe:
"Chiunque sia, lo credo, non odioso ai celesti respiri le arie
vitali, tu che raggiungesti la città tiria;
affrettati dunque e di qui recati alle porte della regina.
Infatti t'annuncio i compagni reduci e la flotta restituita
e condotta al sicuro, cambiati gli Aquiloni,
se i genitori falsi non rivelarono invano la profezia del falso.
Osserva dodici cigni in fila festanti,
che dalla regione celeste l'uccello di Giove turbava nel cielo
aperto; ora sembrano in lunga schiera
o prendere terra o già presa dominarla.
Come essi reduci giocano con l'ali sibilanti
ed hanno accerchiato il cielo in gruppo e levato i canti,
non altrimentile tue poppe ed i giovani dei tuoi
o tiene il porto o affronta le entate a gonfia vela.
Affrettati dunque e, dove la via ti guida, dirigi il passo".
Disse e girandosi splendette col roseo collo,
le chiome spirarono dal capo profumo divino
d'ambrosia; la veste defluì alla punta dei piedi,
e dal potamento si rivelò vera dea. Quando egli riconobbe
la madre inseguì (lei) fuggente con la frase:
"Perchè tante volte, crudele anche tu, inganni il figlio
con false visioni? Perchè non si concede striger la destra
alla destra ed ascoltare e rispondere vere parole?"
Così la riprende e volge il passo alle mura. 410
Ma Venere chiuse i partenti di aria oscura,
e la dea (li) circonfuse di spesso manto di nebbia,
nessuno potesse vederli e nessuno toccarli
o macchinare un intoppo o chiedere i motivi del giungere.
Ella se ne andò in alto a Pafo e rivisita lieta le sue
dimore, dove per lei c'è un tempio, e cento altari
son ardenti d'incenso sabeo e profumano di fresche ghirlande.

LA COSTRUZIONE DI CARTAGINE
Intanto percorsero la via, dove mostra il sentiero,
e già salivano il colle, che altissimo sta sopra alla città
e dall'alto prospetta le fortezze dirimpetto.
Ammira la mole Enea, un tempo baracche,
ammira le porte e lo strepito e le pavimentazioni delle vie.
Si impegnano ardenti i Tirii: parte ad alzare le mura,
e costruire la rocca e rotolare con le mani le pietre,
parte a scegliersi il posto per la casa e circondarlo con solco;
scelgono leggi e magistrati ed il sacro senato.
Qui altri scavano il porto, qui altri mettono le fondamenta
profonde ai teatri, scolpiscono dalle rupi
enormi colonne, adeguati ornamenti alle scene future:
quali le api nella nuova estate per i campi fioriti
la fatica (le) stimola sotto il sole, quando fan uscire i figli
cresciuti, o quando stipano i limpidi mieli
e colmano di dolce nettare le celle,
o accolgono i carichi delle arrivanti, o creata una schiera
cacciano dagli alveari i fuchi, razza ignava;
l'opera ferve ed i fragranti mieli profumano di timo.
"Oh fortunati, le cui mura gà sorgono".
Dice Enea e contempla i frontoni della città.
Si porta, avvolto da nebia, mirabile a dirsi,
in mezzo, e si mescola agli uomini e non è visto da alcuno. 440


IL TEMPIO DI GIUNONE A CARTAGINE
Un bosco vi fu in mezzo alla città, piacevolissimo d'ombra,
dove dapprima i Puni sbattuti da onde e bufera
scavarono sul posto il segno, che la regale Giunone
aveva rivelato, la testa di un fiero cavallo; così infatti in guerra
sarebbero stati popolo famoso e ricco di vitto per i secoli.
Qui la sidonia Didone fondava un immenso tempio
a Giunone, ricco per doni e maestà della dea,
soglie bronzee gli sorgevano dai gradini e travi connesse
con bronzo, il cardine strideva per le porte bronzee.
Anzitutto in questo bosco una cosa nuova offertasi alleviò
il timore, qui anzitutto Enea osò sperare la salvezza
e confidare di più, (essendo) abbattute le circostanze.
Infatti mentre guarda ogni cosa sotto l'immenso tempio
attendendo la regina, mentre ammira quale sia la ricchezza
per la città, i gruppi di artisti fra loro e la fatica delle
imprese, vede le battaglie iliache per ordine
e le guerre già diffuse per fama in tutto il mondo,
gli Atridi e Priamo ed Achille crudele per entrambi.
Si fermò e piangendo"Quale luogo mai, disse, Acate,
quale regione sulle terre non piena del nostro affanno?
Ecco Priamo. Qui pure ci sono per l'onore i suoi premi.
ci sono i pianti delle sorti e le cose mortali toccan l'anima.
Sgombra le paure; questa fama ti porterà qualche salvezza
Così dice nutre il cuore con la pittura vana
gemendo molto, ed irriga il volto di abbondante fiume.
Infatti vedeva come, combattendo attorno a Pergamo,
di qua fuggissero i Grai, la gioventù troiana incalzasse;
di qua i Frigi, col cocchio il crestato Achille inseguisse.
E non lontano da qui riconosce piangendo le tende di Reso
dai bianchi drappi, che tradite nel primo sonno
il Tidide insanguinato devastava con larga strage,
e devia i cavalli ardenti nell'accampamento, prima che
gustassero i pascoli di Troia ebevessero lo Xanto.
Da un'altra parte Troilo, perdute le armi, fuggendo,
sfortunato ragazzo e scontratosi impari con Achille,
è trascinato dai cavalli e riverso è legato al cocchio vuoto, ancora tenendo le briglie; a lui il collo e le chiome son
tirate per terra, e la polvere è segnata dall'asta rigirata.
Intanto le Troiane andavano al tempio di Pallade non giusta
coi capelli sciolti e portavano il peplo
umilmente, tristi e battendo i petti con le palme;
la dea teneva gli occhi fissi al suolo ostile.
Achille tre volte aveva trascinato Ettore attorno le mura troiane e vendeva il corpo esamine per oro.
Allora davvero dà un immenso gemito dal fondo del cuore,
come vide le spoglie, e i cocchi, e lo stesso corpo dell'amico e Priamo tendente le mani inermi.
Pure riconobbe se stesso mischiato coi capi achivi,
le schiere orientali e le armi del nero Memnone.
Pentesilea furente guida le file delle Amazzoni
dagli scudi lunati e in mezzo a mille freme,
guerriera, legando cinture auree alla mammella mozzata,
e osa, ragazza gareggiare con uomini.

giunone
Il tempio di Giunone


L'ARRIVO DELLA REGINA DIDONE
Mentre queste cose sembrano ammirevoli al dardanio Enea, mentre stupisce e resta fisso nello spettacolo unico,
la regina, Didone bellissima d'aspetto, si diresse al tempio con una grande squadra avvolgente di giovani.
Quale Diana guida le danze sulle rive d'Eurota o
lungo i gioghi di Cinto, che le mille Oreadi stringono seguendola di
qua e di là; ella porta alla spalla
e procedendo sovrasta tutte le dee,
le soddisfazioni invadono il tacito cuore di Latona:
tale era Didone, tale si portava lieta
in mezzo vigilando sul lavoro e sui regni futuri.
Poi sulle porte della dea, in mezzo alla volta del tempio,
scortata da armi appoggiandosi al trono in alto sedette.
Dava sentenze e leggi agli uomini, adeguava la fatica
dei lavori in parti giuste o tirava a sorte:
quando improvvisamente vede avanzare con gran folla
Anteo e Sergesto e il forte Cloanto
ed altri dei Teucri, che il nero turbine del mare
aveva disperso e portato addirittura ad altre spiagge.
Egli tanto stupì, quanto Acate colpito
da gioia e paura; ardevan desiderosi di stringer
le destre, ma il fatto insolito turba i cuori.
Dissimulan e coperti da cava nube spiano
quale sorte per gli uomini, in quale lido lascino la flotta,
perchè giungano; infatti scelti da tutte le navi andavan
pregando pietà ed al tempio con grido si avviavano.


IL DISCORSO DI ILIONEO
Dopo che furon entrati e data la facoltà di parlare apertamente, il più vecchio Ilioneo così cominciò con animo calmo: "O regina, cui Giove concesse fondare una nuova città e moderar con giustizia popoli fieri,
(noi) miseri Troriani, portati in tutti i mari,
ti preghiamo: allontana dalle navi gli orribili fuochi,
risparmia un popolo pio e più da vicino guarda i nostri casi.
Noi non siamo venuti o a saccheggiare con l'arma i penati
libici, o portare sui lidi le prede rubate;
il cuore non (ha) quella forza nè i vinti così tanta superbia.
C'è un luogo, i Grai lo chiaman col nome d'Esperia,
terra antica, potente per armi e per riccheza di terra;
(la) curarono uomini enotri; ora è fama che i più giovani
l'han chiamata Italia il popolo dal nome del capo.
Questa fu la rotta,
quando Orione burrascoso sorgendo da flutto improvviso
(ci) portò in secche cieche e completamente ci disperse
coi violenti Austri e tra l'onde e tra rocce inaccessibili
col mare vincente; qui pochi nuotammo alle vostre spiagge.
Che razza di uomini questa? o quale patria così barbara permette
simile usanza? siamo respinti dall'ospitalità della sabbia;
dichiaran guerre e vietano di fermarsi sulla terra più vicina.
Se disprezzate il genere umano e le armi mortali,
sperate almeno gli dei memori del bene e del male.
Ci era re Enea, di cui non ci fu altro più giusto
per virtù, nè superiore in guerra e in armi.
Ma se i fati conservan quell'eroe, se si nutre di aria
celeste nè ancora giace nell'ombre crudeli,
non (c'è) paura, nè ti dispiaccia di aver gareggiato per prima
in un favore. Anche le regioni sicule hanno città
e armi e il famoso Aceste da sangue troiano.
Sia permesso attraccare la flotta sconvolta dai venti
e coi boschi preparare travi e tagliare remi,
se è dato tendere all'Italia coi compagni, ripreso
il re, per dirigerci lieti in Italia e nel Lazio;
se la salvezza è troncata, e il mare di Libia tiene te,
ottimo padre dei Teucri nè resta la speranza di Iulo,
ma almeno cerchiamo gli stretti e le sedi pronte di Sicilia
donde qui sbalzati, ed il re Aceste."
Così Ilioneo; tutti insieme i Dardanidi fremevano
in volto.


LA RISPOSTA DI DIDONE
Allora Didone, abbassato ilvolto, brevemente afferma:
"Togliete la paura dal cuore, Teucri, escludete gli affanni.
realtà dura e novità del potere mi obbligano a far tali
cose e attorno guardar con guardia i confini.
Chi ignora la stirpe degli Eneadi, chi la città di Troia,
eroismi ed eroi o gli incendi di così grande guerra?
Noi Puni non abbiamo cuori così ottusi,
nè il sole aggioga i cavalli così lontano dalla città tiria.
Sia che voi vogliate la grande Esperia e le piane saturnie
sia i territori di Erice ed il re Aceste,
vi congederò sicuri per l'aiuto e vi aiuterò con risorse.
Volete anche fermarvi con me in questi regni?
La città che organizzo, è vostra; attraccate le navi;
troiano o tirio per mè sarà trattato senza alcuna differenza.
E magari lo stesso re Enea spinto dallo stesso Noto
si presentasse. Invierò certamente dei fidati
per le spiagge e ordinerò di controllare le estremità della Libia, se vaga sbattuto in qualche selva o città".

ENEA SI RIVELA
Animati in cuore da queste parole sia il forte Acate
sia il padre Enea ormai ardevan di romper la nube.
Acate per primo richiama Enea:
"Figlio di dea, quale pensiero sorge in cuore?
Vedi tutto sicuro, la flotta e i compagni accolti.
Manca uno, che noi stessi vedemmo in mezzo all'onda
sommerso; il resto corrisponde alle parole della (tua) madre".
Aveva appena detto ciò che subito la nube stretta attorno
si rompe e si libera nell'etere aperto.
Enea s'arrestò rifulse in luce splendente
volto e spalle simili a un dio; in fatti la stessa madre
aveva infuso sul figlio bella capigliatura e la luce
purpurea di giovinezza e dolce bellezza negli occhi:
quale grazia le mani aggiungono all'avorio, o come
l'argento ed il marmo pario è incastonato col biondo oro.
Allora così subito si rivolge alla regina e a tutti
improvviso dice: "Sono qui, colui che cercate,
il troiano Enea, strappato dalle onde libiche.
Oh tu sola che hai avuto pietà degli indicibili affanni di Troia, che associ noi, resti dei Danai, esausti ormai
per tutti i rischi di terra e di mare, bisognosi di tutto,
con città, case, non è di nostra forza rendere grazie
adeguate, Didone, nè della stirpe dardania, quel che cè ovunque, che (è) dispersa per il vasto mondo.
Gli dei ti offrano adeguate ricompense, se qualche divinità guarda i pii, se mai c'è un che di giustizia e una volontà
cosciente del bene. Quali tempi così fortunati ti han
prodotto? Quali sì grandi genitori t'han generata?
Fin che i torrenti correranno nei flutti, fin che le ombre
rischiareranno le cavità per i monti, fin che il cielo nutra le stelle, sempre resteranno l'onore e il tuo nome e le lodi, qualunque terra mi chiami". Detto così, cerca l'amico
Ilioneo con la destra e con la sinistra Seresto,
poi gli altri, il forte Gia ed il forte Cloanto.

ACCOGLIENZA OSPITALE DI DIDONE
Didone sidonia prima si stupì per l'aspetto,
poi per la sorte tanto grande dell'eroe, e così parlò:
"Quale sorte, figlio di dea, ti perseguita attraverso
sì grandi pericoli? che forza ti approda a spiagge feroci?
Non sei tu quell'Enea che la madre Venere generò
al dardanio Anchise presso l'onda del frigio Simoenta?
E davvero ricordo che Teucro venne a Sidone
cacciato dalle patrie terre, cercando nuovi regni
coll'aiuto di Belo; allora il padre Belo occupava
la ricca Cipro e vincitore la teneva in potere.
Già da quel tempo mi era nota la sorte della città
troiana ed il tuo nome e i re pelasgi.
Lo stesso nemico innalzava i Teucri con grande lode
e si voleva nato dall'antica stirpe dei Teucri.
Perciò suvvia, o giovani, entrate nelle nostre case.
Una situazione simile volle che io pure sbattuta tra tanti
affanni mi fermassi infine in questa terra;
non ignara del male imparo a soccorrere i miseri".
Così ricorda; insieme guida Enea nelle regali
case, insieme indice lodi nei templi deli dei.
Intanto invia non di meno venti tori ai compagni
sui lidi, cento irsute schiene di porci,
cento grassi agnelli con le madri,
regali e gioia del giorno.
Ma il palazzo interno splendido è parato
di lusso regale, preparano banchetti in mezzo alle case:
Vesti ricamate con arte e splendida porpora,
ingente argento su mense, e le forti imprese dei padri
cesellate su oro, lunghissima serie di azioni fatta
da tanti eroi dall'antico inizio della stirpe.Enea, nè infatti l'amore paterno permise che la mente
riposasse, manda alle navi il veloce Acate,
riferisca queste cose ad Ascanio e lo guidi alle mura;
ogni cura del caro padre sta in Ascanio.
Ordina inoltre di portare doni strappati alle rovine
iliache, un manto rigido per oro e ricami
e un velo intessuto di croceo acanto,
ornamenti dell'argiva Elena, che ella aveva portato
da Micene dirigendosi a Pergamo e alle nozze
proibite, dono mirabile della madre Leda;
inoltre uno scettro, che Ilione la maggiore delle figlie di Priamo, aveva portato un tempo, e un monile per collo
gemmato, ed una doppia corona di gemme ed oro.
Così affrettando il cammino, Acate andava alle navi.


VENERE PREPARA INGANNI
Ma Citerea medita in cuore nuovi artifici, nuovi
piani, perchè Cupido cambiato l'aspetto e il volto
venga al posto del dolce Ascanio, e con doni accenda
la furente regina e avvolga il fuoco alle ossa.
Certamente teme la casa ambigua ed i Tirii falsi;
brucia la crudele Giunone e la pena ritorna di notte.
Perciò con queste parole parla ad Amore alato:
"Figlio, mie forze, unico, mia grande potenza,
figlio, che sprezzi le armi tifee del sommo padre,
mi rifugio in te e supplice chiedo le tue volontà.
Come tuo fratello Enea sia sbattuto in mare per tutti
i lidi per gli odi della feroce Giunone,
ti sono cose note, e spesso ti dolesti del nostro dolore.
Ora la fenicia Didone lo tiene e lo ferma con blande
paroce e temo dove si volgano le ospitalità
giononie: non cesserà in un momento così importante.
Perciò penso di prendere prima con inganni e legare
con fiamma la regina, che non si cambi per qualche divinità, ma sia bloccata con me dal grande amore d'Enea. Come tu possa far ciò senti ora il nostro piano:
il regale fanciullo, mio grandissimo amore, si prepara ad andare su chiamata del caro genitore nella città sidonia
portando doni restanti dal mare e dalle fiamme di Troia;
io lo nasconderò assopito sugli alta Citera
o su Idalio in luogo condacrato, che nessuno possa
sapere gli inganni o accorrere in mezzo.
Tu inganna il suo aspetto, per non più d'una notte
con un raggiro e da ragazzo vesti le note fattezza del ragazzo, perchè, quando la felicissima Didone ti
prenderà in braccio tra le mense regali e il liquido lieo,
quando darà abbracci e stamperà dolci baci,
tu ispiri il fuoco occulto e l'inganni col veleno".
Amore obbedisce ai detti della cara madre, e sveste
le ali gioendo avanza col passo di Iulo.
Ma Venere infonde ad Ascanio un placido sonno
per le membra, e scaldato in grembo la dea lo alza
negli alti boschi di Idalia, dove il molle amaraco
esalante lo abbraccia di fiori e dolce ombra.


BANCHETTO REGALE

Ed ormai Cupido andava obbedendo alla parola
e potava regali doni, lieto ai Tirii, sotto la guida di Acate.
Quando giunge, già la regina aurea si è adagiata sui superbi tappeti e collocata in mezzo sul divano,
già il padre Enea e la gioventù troiana
s'uniscono e si distende su giaciglio e porpora .
I servi danno acqua alle mani e preparano Cerere
su canestri e portan salviette, rasati i tessuti.
dentro cinquanta serve, il cui compito preparar
provviste in lunga fila e far fumare i focolari con fiamme;
cento altre ed altrettanti servi pari d'età,
che colmino le mense di vivande e offrano calici.
Ma anche i Tirii numerosi s'aggiunsero nelle liete sale;
pregati di acomodarsi sui letti dipinti
ammiran i doni d'Enea, ammirano Iulo,
le splendenti fattezze del dio e le simulate parole,
e il manto ed il velo dipinto di croceo acanto.
Soprattutto l'infelice Fenicia, votata a futura sventura,
non può saziare la mente e s'accalora guardando
e insieme è commossa dal ragazzo e dai doni.
Egli come s'attaccò con l'abbraccio al collo d'Enea
e riempì il grande amore del falso genitore,
si recò dalla regina. Questa con gli occhi, questa
tutto il cuore si incolla ed intanto lo scalda col petto
Didone ignara quale grande dio si posi sulla misera.
Ma quello memore della madre Acidalia comincia a poco
a poco a cancellare Sicheo e tenta cambiare con amore
vivo i sensi già prima assopiti ed i cuori non avvezzi.

didone 2
Didone accoglie Enea


LA FESTA NOTTURNA NELLA REGGIA
Dopo che (ci fu) una prima pausa al banchetto e le mense
tolte, mettono grandi vasi e coronano i vini.
Si fa frastuono nelle case e fan echeggiare il suono
per gli ampi atrii; pendono lampade accese dai soffitti
dorati e le torce vincon la notte.
Qui la regina chiese un vaso pesante d'oro e di gemme
e lo riempì di vino puro, Belo e tutti (quelli) da Belo
eran soliti riempirla; allora si fece silenzio in casa:
" Giove, dicono che tu dai i diritti agli ospiti,
fa' essere questo un giorno lieto per i Tirii e per i giunti
da Troia, e ricordarne i nostri nipoti.
Assista Bacco datore di gioia e la buona Giunone;
e voi, Tirii, celebrate l'incontro festanti".
Disse e libò sulla mensa la gloria dei liquidi
e per prima, libato, toccò a fior di labbra;
poi diede a Bizia incitandolo; egli sollecito bevve
la coppa spumante e tracannò col boccale aureo pieno;
poi gli altri nobili. Il chiomato Iopa con la cetra
dorata suona, e lo istruì il sommo Atlante.
Costui canta la luna errante e le fatiche del sole,
donde la specie degli uomini e le bestie, donde pioggia
e fulmini, Arturo e le Iadi piovose e i gemelli Trioni,
perchè i soli invernali tanto s'affrettino a bagnarsi d'Oceano,
o quale ritardo s'opponga alle lente notti;
i Tirii raddoppiano con l'applauso, li seguono i troiani.
ed ancora l'infelice Didone protraeva la notte
con vario parlare e beveva il lungo amore,
molto chiedendo su Priamo, su Ettore molto;
ora con che armi fosse giunto il figlio d'Aurora,
ora quali i cavalli di Diomede, or quanto grande Achille.
"Anzi orsù, ospite, e dicci dal primo inizio
le insidie" disse" dei Danai e le sorti dei tuoi
e il tuo errare; infatti ormai la settima estate
ti porta errante per tutte le terre ed i flutti".

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AUDIO 305-750

L'ENEA di Omero

Enea (in greco antico: Aineías; in latino: Aeneas, -ae) è una figura della mitologia greca e romana, figlio del mortale Anchise (cugino del re di Troia Priamo) e di Afrodite/Venere, dea della bellezza. Principe dei Dardani, partecipò alla guerra di Troia dalla parte di Priamo e dei Troiani, durante la quale si distinse molto presto in battaglia. Guerriero molto valente, fu un eroe troiano secondo solo a Ettore, ma assume un ruolo di minor rilievo all'interno dell'Iliade di Omero. Enea è il protagonista dell'Eneide di Virgilio, poema in cui si narrano le vicende successive alla sua fuga da Troia, caratterizzate da lunghe peregrinazioni e da numerose perdite causate dall'ira di Giunone. La vicenda si conclude con il suo approdo sulle sponde del Lazio e con il suo matrimonio con la principessa Lavinia, figlia del re locale Latino. Un tempo, Zeus, il padre degli dèi, che non si era mai congiunto con la figlia adottiva, stanco delle continue tentazioni che la magica cintura di Afrodite stimolava di continuo in lui, come in qualsiasi altro essere, mortale o divino che fosse, architettò di umiliare la dea, facendola innamorare perdutamente di un comune mortale. Il prescelto fu Anchise, un giovane pastore frigio, che di consueto faceva pascolare le sue vaste mandrie sui colli del monte Ida. Afrodite, rimasta sedotta dalla sua straordinaria bellezza decise di ottenere i suoi favori. Una notte, mentre egli giaceva nella sua capanna da mandriano, la dea assunse l'aspetto di una comune mortale e sotto tale travestimento si accostò a lui, sostenendo di essere una principessa, figlia del re Otreo, la quale, rapita dal dio Ermes, di lei perdutamente invaghito, era stata poi trasportata dal dio sui pascoli dell'Ida. Indossato poi un seducente peplo di colore rosso smagliante, la dea riuscì nel suo intento e, sdraiatasi accanto al giovane, giacque con lui in un giaciglio di pelli. Accompagnati dal sereno ronzare delle api, per tutta la notte i due amanti godettero delle passioni amorose e proprio da questo amplesso la dea dell'amore rimase incinta di un bambino. Quando, al sorgere dell'alba, Afrodite rivelò all'uomo la sua vera natura, Anchise, temendo di essere punito per aver scoperto le nudità di una dea, la pregò di risparmiargli la vita. Tuttavia la dea lo rassicurò, predicendogli la nascita di un bambino che sarebbe stato capace di regnare sui Troiani, acquistando un potere straordinario che si sarebbe mantenuto anche con i suoi discendenti. Ma allo stesso tempo Afrodite mise in guardia il suo amante, esortandolo a nascondere la verità sulla nascita del bambino, ben sapendo che se Zeus ne fosse venuto a conoscenza, lo avrebbe senza dubbio ucciso. Alcuni giorni dopo, mentre Anchise si trovava presso una locanda in compagnia dei suoi amici, uno di essi gli chiese se avesse preferito passare una notte con la figlia di Priamo o con Afrodite. Il giovane troiano, dimentico della promessa e stordito dall'ebbrezza, si vantò affermando di essere andato a letto con entrambe e giudicando un tale paragone impossibile. Udita la temibile vanteria, Zeus dall'alto dell'Olimpo si affrettò a punire un così sfrontato mortale, scagliando una folgore destinata a incenerirlo. Ma Afrodite, postasi in difesa del suo amato, lo protesse grazie alla sua cintura magica, di fronte alla quale la terribile arma di Zeus nulla poté nulla; la folgore raggiunse comunque Anchise, ma invece di incenerirlo, scoppiò innocuamente sotto i suoi piedi. Il giovane mortale provò comunque un incredibile spavento alla vista di quelle scintille, tanto che da allora, egli non riuscì più a raddrizzare la schiena, traumatizzato com'era alla vista dell'ira divina, e la stessa Afrodite si disinteressò a lui dopo aver generato Enea.[ Si racconta anche che Zeus lo punì privandolo della vista. Afrodite diede alla luce Enea sul monte Ida, e qui lo allevarono le ninfe nei primissimi anni di vita. Fu poi educato, secondo alcuni, dal centauro Chirone. A cinque anni fu affidato dal padre ad Alcatoo, che di Enea era cognato per aver sposato la sorellastra Ippodamia. Qui Enea fu cresciuto sino alla maggiore età. Virgilio racconta che Enea sarebbe stato allevato sin dalla tenera età da una nutrice chiamata Caieta, alla quale l'eroe era molto affezionato e quando ella morì le riservò ogni sorta di riguardo. Sposò Creusa, figlia del re Priamo, cugino di suo padre, e da lei ebbe Ascanio. Pausania racconta che dalla moglie Enea avrebbe generato anche una figlia, Etia. Prima dello scoppio della guerra contro gli Achei, Enea partecipò ad alcune spedizioni militari nell'ambito della politica espansionistica intrapresa da Priamo, legando in particolare il suo nome alla conquista dell'isola di Lesbo (la cui capitale allora era Arisbe), che divenne un avamposto strategico dei troiani. Secondo le fonti più antiche della saga troiana, Enea avrebbe avuto una parte nel ratto di Elena: fu sua madre Afrodite a ordinare all'eroe di rapire la regina di Sparta, che era sposata con Menelao, che era il premio che la dea aveva fatto a Paride per averle consegnato il pomo della bellezza. Enea era molto amico di Ettore, ebbe invece spesso contrasti con Priamo, come è detto più volte nell'Iliade. Nel canto XIII, l'eroe siede sul campo di battaglia rancoroso per il trattamento che il re aveva nei suoi riguardi. Era contrario alla guerra e inizialmente si rifiutò di combattere ma una volta indossate le armi non si tirò indietro. Enea partecipò alla guerra di Troia ponendosi a capo di un contingente di Dardani. L'Iliade racconta che, durante un periodo di fittizia pace, l'eroe era allora mandriano del bestiame paterno sul monte Ida quando, nel corso di una scorreria nei pascoli della Troade, Achille riuscì a separarlo dai suoi armenti di buoi, li depredò e lo inseguì lungo le pendici boscose dell'Ida ma il troiano riuscì a sfuggirgli. Fu eroe valoroso, secondo solo a Ettore, e spesso supportato dagli dèi. Nella battaglia che seguì al duello fra Paride e Menelao, combatté sul carro da guerra in compagnia di Pandaro. Quest'ultimo venne ucciso da Diomede, ed Enea lasciò incustodito il carro (che verrà poi portato al campo greco da Stenelo, fedele compagno d'armi e auriga di Diomede) per difendere il corpo dell'amico dagli assalti greci. «Balzò a terra Enea, con la lunga lancia e lo scudo, temendo che gli Achei gli strappassero il morto. Gli si mise accanto come un leone che della sua forza si fida; teneva davanti a sé la lancia e lo scudo rotondo, pronto a uccidere chiunque gli venisse di fronte, e gridava in modo terribile.» (Omero, Iliade, Canto V, vv. 299-302). Affrontò dunque Diomede, rimanendo ferito a causa di un masso scagliato dal greco. Venne salvato dalla madre che lo avvolse nel suo velo. Diomede, non temendo l'ira della dea, ferì anche lei e la costrinse alla fuga. Apollo scese dunque in soccorso del troiano, contro di lui non poterono nulla neanche i colpi di Diomede. Enea venne ricoverato nel tempio di Apollo e curato da Artemide e Latona. Al suo posto combatté sul campo un fantasma con le sue sembianze. Enea combatté valorosamente anche in altre battaglie, come quella presso le navi greche, soccorrendo Ettore, ferito da un masso scagliato da Aiace Telamonio, e uccidendo Medonte, fratellastro di Aiace Oileo, e Iaso, condottiero ateniese. In questa circostanza perse però sia i suoi luogotenenti, Archeloco e Acamante, che erano due dei tanti figli di Antenore, sia il cognato Alcatoo. Dopo la morte di Patroclo, Achille decise di tornare a combattere. Enea volle affrontarlo a duello, scagliò la sua lancia contro il greco ma non riuscì a colpirlo. «Achille a sua volta scagliò l'asta dalla lunga ombra e colpì Enea nello scudo rotondo al bordo estremo dove il bronzo è più sottile e più sottile la pelle di bue. Da parte a parte passò, il frassino del Pelio, e lo scudo risuonò sotto il colpo.» (Omero, Iliade, Canto XX, vv. 273-277). Achille balzò contro Enea: Poseidone, che pur essendo divinità ostile ai troiani apprezzava Enea per la reverenza che aveva verso gli dèi, decise di salvare il figlio di Anchise avvolgendolo in una spessa nebbia e ponendolo fra le ultime file dell'esercito. Poseidone infatti sapeva che Enea avrebbe dovuto perpetuare la sua stirpe dopo la fine di Troia. La notte in cui i greci sarebbero usciti dal cavallo di legno, gli apparve in sogno Ettore, terribile d'aspetto, che gli annunciò l'inevitabile caduta di Troia e il suo arrivo in terra italica. Durante l'incendio della città tentò, insieme a pochi uomini, di difenderla ma dopo aver capito che tutto ciò era ormai inutile, decise di fuggire portando con sé il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio. Durante la fuga perse però la moglie Creusa che, sotto forma di fantasma, gli rivelò il suo futuro di fondatore di un grande popolo. Secondo Omero Enea divenne fondatore di un grande regno nella Troade; la versione di Stesicoro, invece, consacrata da Virgilio, è quella più conosciuta.

Eugenio Caruso -04 -03/2021


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