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Dante, Purgatorio Canto XXIX. La processione simbolica.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXIX del Purgatorio è dedicato pressoché per intero alla descrizione della processione simbolica che rappresenta la vicenda storica della Chiesa, costituendo una pausa didascalica che, da un lato, prepara l'arrivo di Beatrice nel Canto successivo, dall'altro prefigura le vicende allegoriche del carro che saranno al centro del Canto XXXII. Tutto l'episodio è pervaso da un intenso fervore mistico, sottolineato da uno stile e da un linguaggio alto e solenne che si rifà ampiamente alle Sacre Scritture e si allontana decisamente dal tono idilliaco e poetico del Canto precedente: ciò è sottolineato dall'invocazione alle Muse e in particolare a Urania, la Musa dell'astronomia e della scienza celeste, che dovranno assistere Dante per mettere in versi cose difficili da pensare (è un innalzamento della materia cui si accompagna uno stile più elevato, come già era avvenuto in Purg., IX, 70-72 e come accadrà varie volte nel Paradiso).

urania
Urania e Calliope di S. VOUET

La protagonista iniziale è ancora Matelda, che però ha qui l'unica funzione di accompagnare Dante alla visione delle figure simboliche e richiamarlo con una certa durezza alla necessità di non perdere alcun dettaglio (La donna mi sgridò, v. 61), mentre Virgilio osserva la scena con lo stesso stupore del discepolo senza poter spiegare nulla, segno evidente del fatto che il suo ufficio di guida si è ormai definitivamente concluso (il maestro ha pronunciato le sue ultime parole nel poema alla fine del Canto XXVII e non parlerà più fino alla sua scomparsa nel XXX).
La processione simboleggia il procedere della Chiesa nella storia umana, che ha al centro la venuta di Cristo sulla Terra raffigurato dal grifone che traina il carro: quest'ultimo rappresenta più propriamente la Chiesa di Roma e, come si vedrà, Beatrice apparirà nel Canto seguente proprio su di esso, a significare la sua interpretazione come allegoria di Cristo-verità rivelata. Il carro è preceduto e seguito da una serie di figure e personaggi allegorici, su cui si è speso un intenso lavoro interpretativo e che rappresentano le vicende umane che precedono e seguono l'evento centrale della nascita di Cristo nella storia della redenzione dell'uomo: i sette candelabri che aprono la processione sono probabilmente lo spirito di Dio, da cui derivano i sette doni dello Spirito Santo rappresentati dalle liste luminose che i candelabri tracciano nell'aria; l'immagine dei candelabri deriva probabilmente da Apoc., IV, 5 (septem lampades ardentes ante thronum qui sunt septem spiritus Dei, «le sette lampade che ardono davanti al trono e che sono i sette spiriti di Dio») ed essi sono stati interpretati anche come le sette chiese d'Asia, in riferimento ad Apoc., I, 20, o come i sette ordini del chiericato, i sette sacramenti, ecc.

carro
Il carro trionfale di W. BLAKE

La prima ipotesi sembra la più probabile, anche perché l'Apocalisse giovannea sarà fonte di altre immagini della processione, a cominciare dai ventiquattro vecchi biancovestiti che seguono i candelabri come a lor duci e che sono concordemente interpretati come i ventiquattro libri dell'Antico Testamento: il colore bianco della loro veste e delle corone di gigli che portano in testa rimanda alla fede, sottolineando il fatto che le genti vissute prima di Cristo vissero nell'attesa della venuta del Messia e quindi ebbero fede in Cristo venturo; essi rimandano certo ad Apoc., IV, 4 (super thronos viginti quattuor seniores sedentes, circumamicti vestimentis albis, et in capitibus eorum coronas aureas, «sopra i troni erano seduti ventiquattro vecchi, cinti di vesti bianche, con corone dorate in testa») e il canto messo loro in bocca scioglie un inno alla bellezza della Vergine, mentre l'Osanna sentito prima era rivolto probabilmente a Cristo.
Dopo i libri dell'Antico Testamento vengono i quattro Evangelisti, raffigurati secondo l'iconografia tradizionale come altrettanti animali (Matteo era un angelo, Marco un leone, Luca un bue o un vitello, Giovanni un'aquila) e con particolari che fondono le descrizioni di Ezech., I, 4-14 e Apoc., IV, 6-8; sono coronati di verde fronda, in riferimento probabilmente al colore della speranza che è annunciata dai Vangeli, e circondano da quattro lati il carro trionfale trainato dal grifone, che rappresentano rispettivamente la Chiesa (le cui vicende allegoriche saranno descritte nel Canto XXXII) e Cristo, che quindi è posto al centro della processione mistica.
Il grifone è un animale mitologico dal corpo di leone e le ali e la testa di aquila, interpretato nel Medioevo come allegoria di Cristo in quanto le parti da uccello erano simbolo della sua natura divina, le altre di quella umana: il carro ha due ruote, in cui sono stati riconosciuti vari significati (nessuno pienamente convincente: i due Testamenti, la vita attiva e contemplativa, gli Ordini francescano e domenicano...) e accanto ad esse vi sono in tutto sette ninfe danzanti, tre alla destra e quattro alla sinistra.
Le tre donne sono le virtù teologali, come testimonia il colore della loro figura (rosso vivo per la carità, verde per la speranza e bianco per la fede, che saranno anche i colori di cui sarà vestita Beatrice), guidate ora dalla carità, ora dalla fede, mentre è la carità a dare il ritmo alla danza (la speranza è la virtù che deriva dalle altre due e da esse dipende); le altre quattro sono le virtù cardinali, vestite di rosso porpora in quanto derivanti dalla carità, e fra loro è la prudenza a condurre la danza (essa ha tre occhi, poiché è la virtù che ha memoria delle cose passate, conoscenza delle presenti e preveggenza delle future, come Dante stesso afferma in Conv., IV, 27).
Il carro è al centro della processione in quanto la fondazione della Chiesa è lo spartiacque della storia umana, quindi è seguito da altri personaggi che simboleggiano le vicende successive alla venuta di Cristo, nonché i libri del Nuovo Testamento: i primi due sono gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, raffigurati rispettivamente da un vecchio in sembianze di medico (tale era, secondo la tradizione, la professione di Luca, autore degli Atti) e da un altro che impugna una spada, simbolo tradizionalmente attribuito a san Paolo.
Chiudono la processione altri quattro personaggi dall'aspetto umile, che simboleggiano le Lettere di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, seguiti a loro volta da un vecchio che procede solo e sembra dormire, nonostante l'espressione arguta (è l'Apocalisse, così raffigurata in riferimento alla lunga vita dell'autore, Giovanni, al valore profetico del libro e alla sua diversità dagli altri del Nuovo Testamento, il che si evince dal fatto che è solo rispetto alle altre figure). Gli ultimi sette personaggi indossano vesti bianche come i ventiquattro seniori ma sono coronati di rose e altri fiori rossi, in riferimento al colore della carità di cui essi ardono in seguito alla venuta di Cristo.
La processione si arresta quando il carro è di fronte a Dante, sempre dall'altro lato del fiume, e ciò è stato interpretato come espediente narrativo per creare l'attesa che sarà sciolta nel Canto seguente, ovvero dell'arrivo di Beatrice che è l'evento centrale del poema: non sono mancate altre ipotesi, come l'annuncio profetico di un futuro evento che sconvolgerà il mondo e in preparazione del quale la storia umana, rappresentata dalla processione, deve arrestarsi (in effetti una profezia ci sarà, quella enigmatica del «DXV» pronunciata proprio da Beatrice, benché nulla autorizzi a metterla in relazione con la conclusione di questo Canto).
Più probabile che l'intera processione prepari il lettore all'arrivo di Beatrice che, in quanto allegoria della grazia santificante e di Cristo, è fondamentale per il prosieguo del viaggio dantesco e che non per caso occuperà il carro ora vuoto che si ferma proprio dirimpetto a Dante: il viaggio del poeta è un viaggio a Beatrice e l'incontro con lei rappresenta una tappa essenziale nel raggiungimento della salvezza, quindi la conclusione «sospesa» del Canto XXIX crea l'aspettativa dell'avvento di qualcuno o qualcosa che il lettore sa essere molto importante, e che di lì a pochi versi si manifesterà come l'apparizione di Beatrice, il cui «trionfo» allude forse a quello di Cristo giudicante il Giorno del Giudizio.

RIASSUNTO

Seguendo Matelda che canta il salmo 31°, Dante cammina in senso contrario al corso del fiume Lete, finché la donna lo invita a osservare e ascoltare. Improvvisamente compare una viva luce, come di un lampo che però non scompare, accompagnato da una dolce melodia; Dante pensa con sdegno al peccato di Eva, senza il quale tali bellezze del paradiso terrestre sarebbero state gustate da tutti gli uomini. Poi, tra gli alberi del giardino il cielo si fa rosso, mentre la dolce melodia viene ormai riconosciuta come un coro. Dante poeta chiama in aiuto le Muse per poter esprimere ciò che gli è apparso. Inizia qui la lunga e complessa processione ispirata alla simbologia biblica. Compaiono prima di tutto sette alberi d'oro, che, una volta più vicini, si mostrano meglio come sette candelabri (i sette doni dello Spirito santo). Dietro ad essi vengono ventiquattro vecchi vestiti di bianco (i libri dell'Antico testamento); i candelabri intanto procedono lasciando dietro di sé scie luminose dei colori dell'arcobaleno. Quando lo spazio di là dal fiume di fronte a Dante è lasciato libero dai vecchi, si presentano quattro animali con verdi fronde sul capo, che simboleggiano i Vangeli. Hanno ciascuno sei ali, con le penne "piene d'occhi"; Dante invita il lettore che voglia capir meglio a leggere nel libro di Ezechiele la descrizione completa. In mezzo ai quattro animali si trova un carro trionfale a due ruote trainato da un grifone. Questo procede con le ali alzate, senza fendere le scie colorate lasciate dai candelabri. Le ali si levano tanto in alto da sfuggire alla vista; il corpo del grifone è d'oro nelle membra di aquila e bianco e rosso nelle membra di leone. Il grifone rappresenta Cristo, nelle sue due nature, umana (il leone) e divina (l'aquila). La bellezza del carro trionfale è superiore a quella dei carri trionfali dei grandi condottieri romani e addirittura a quella del carro del Sole. Vicino alla ruota destra del carro tre donne danzano: sono le Virtù teologali, distinte dai tre colori: rossa la Carità, verde la Speranza, bianca la Fede. A sinistra danzano quattro donne vestite di porpora (sono le Virtù cardinali). Dietro a questo gruppo compaiono due vecchi, diversi nell'abito ma uguali nell'atteggiamento dignitoso. Uno sembra un medico, seguace di Ippocrate (potrebbe essere Luca, autore degli Atti degli Apostoli, al quale si attribuiva la professione di medico); l'altro brandisce una spada aguzza (come si raffigura comunemente Paolo di Tarso: simboleggia le sue Lettere). Seguono quattro uomini dall'aspetto modesto (le lettere di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda). La processione è chiusa da un vecchio dal viso intenso, che avanza come dormendo (rappresenta l'Apocalisse, ultimo libro del Nuovo Testamento). Tutte queste figure sono vestite come i ventiquattro vecchi venuti prima del carro, ma intorno alla testa non hanno corone candide di gigli bensì corone di rose e altri fiori rossi (allusione allo spirito di carità). La processione si arresta quando il carro è esattamente di fronte a Dante. Il canto, costruito in modo elaborato e solenne e fittamente intessuto di richiami alle Sacre Scritture, presenta indubbiamente alcune difficoltà di lettura e di interpretazione, a cominciare dall'identità della donna (Matelda) che con le sue movenze e il suo canto guida Dante verso il luogo della imminente visione. Questa si snoda con colori molteplici e brillanti, con diversi effetti di luce e di suono e con varietà di forme allusive a significati allegorici. Quando questo corteo sorprendente e a suo modo affascinante si arresta, con il nucleo centrale proprio di fronte a Dante, è manifesto il senso dell'attesa di un evento particolarmente alto e sacro, anzi legato alla condizione di Dante come pellegrino arrivato ormai alla vetta del Purgatorio. L'evento, ovvero l'apparizione di Beatrice, si manifesterà però solo nel canto successivo. La processione tornerà in primo piano nel canto trentaduesimo. Nei versi 37-42 Dante esprime una invocazione alle Muse, perché lo aiutino a "mettere in versi" cose "forti a pensare" ovvero difficili anche solo a immaginarsi; all'invocazione unisce il ricordo di sacrifici e patimenti sopportati per amore della poesia. per rappresentare degnamente ciò che vede, Dante ricorre non solo, come si è visto, al costante richiamo alla Bibbia, ma anche a similitudini tratte dalla cultura classica: dagli occhi di Argo ai cortei trionfali di Scipione Africano o di Augusto; dal carro del Sole alla citazione di Ippocrate.

Note
- Il v. 3 corrisponde al versetto iniziale del Salmo XXXI: Beati, quorum remissae sunt iniquitates / et quorum tecta sunt peccata («Beati coloro le cui iniquità sono state perdonate e i cui peccati sono stati coperti [dal perdono]»).
- Le primizie / de l'etterno piacer (vv. 31-32) sono le prime esperienze che Dante prova delle bellezze del Paradiso.
- Al v. 41 Uranìe indica Urania, la Musa dell'astronomia e della scienza celeste; Dante ne conosceva forse l'etimologia (da ouranós, cielo).
- La virtù ch'a ragion discorso ammanna (v. 49) è la facoltà percettiva o stimativa, che elabora i dati offerti dai sensi e fornisce alla ragione gli elementi del giudizio. Dante intende dire che quando è più vicino ai candelabri, la sua vista fornisce la giusta informazione a tale virtù ed essa li riconosce come tali.
- Al v. 52 il bello arnese è l'insieme dei sette candelabri; il loro splendore è paragonato alla luna, perché, anche se la processione avviene di giorno, la fitta vegetazione non lascia filtrare i raggi del sole e l'atmosfera è oscura (cfr. XXVIII, 3, 31-33).
- Ai vv. 58-60 l'incedere lento dei candelabri è paragonato a quello di novelle spose, così come spesso avveniva nella tradizione letteraria fiorentina (cfr. Frezzi, Quadriregio, I, 16, vv. 64-65: E come va per via sposa novella / a passi radi, e porta gli occhi bassi...).
- Al v. 67 imprendea è voce settentrionale e vuol dire «splendeva».
- Al v. 75 tratti pennelli si può interpretare come «tratti di pennello», oppure come «stendardi», in entrambi i casi adatti a descrivere le liste luminose simili ai colori dell'iride (più avanti, al v. 79, le liste sono definite ostendali, «stendardi»).
- I vv. 77-78 indicano i colori dell'iride, che il sole produce nell'arco (arcobaleno) e la luna (Delia, detta così dall'isola di Delo in cui era nata Diana, identificata con la luna) nel cinto, nel suo alone. È discusso se le sette strisce luminose corrispondano ognuna a un colore diverso dell'iride, oppure se ciascuna li rifletta tutti; è più logica la prima ipotesi, anche se al tempo di Dante non era certo che i colori dell'iride fossero proprio sette.
- I ventiquattro seniori citati al v. 83 sono con tutta probabilità i libri dell'Antico Testamento, che secondo il Canone ebraico (diverso da quello attualmente accettato dalla Bibbia cattolica) sono appunto 24; tale interpretazione è confortata da Girolamo, che nel Prologus galeatus della Bibbia afferma che i viginti quattuor seniores di Apoc., IV, 4 sono i libri dell'Antico Testamento.
- I vv. 100-102 sono la traduzione quasi letterale di Ezech., I, 4: Et vidi, et ecce ventus turbinis veniebat ab aquilone, et nubes magna, et ignis involvens... («E vidi un vento tempestoso venire da nord, una gran nube e fuoco che vi si avvolgeva»). Da la fredda parte corrisponde a ab aquilone, mentre igne è un forte latinismo.
- I vv. 118-120 alludono al mito di Fetonte, che ottenne dal padre il permesso di guidare il carro del Sole: non seppe governare i cavalli ed uscì dal giusto cammino, per cui Giove lo fulminò. Si è pensato che Dante alluda a una deviazione del carro della Chiesa dal suo retto cammino e a una prossima punizione divina.
- La parola brolo (v. 147) significa propriamente «boschetto» e qui vale «ghirlanda».

TESTO

Cantando come donna innamorata, 
continuò col fin di sue parole: 
Beati quorum tecta sunt peccata!’.                                  3

E come ninfe che si givan sole 
per le salvatiche ombre, disiando 
qual di veder, qual di fuggir lo sole,                                 6

allor si mosse contra ‘l fiume, andando 
su per la riva; e io pari di lei, 
picciol passo con picciol seguitando.                             9

Non eran cento tra ‘ suoi passi e ‘ miei, 
quando le ripe igualmente dier volta, 
per modo ch’a levante mi rendei.                                   12

Né ancor fu così nostra via molta, 
quando la donna tutta a me si torse, 
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».                      15

Ed ecco un lustro sùbito trascorse 
da tutte parti per la gran foresta, 
tal che di balenar mi mise in forse.                                18

Ma perché ‘l balenar, come vien, resta, 
e quel, durando, più e più splendeva, 
nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.             21

E una melodia dolce correva 
per l’aere luminoso; onde buon zelo 
mi fé riprender l’ardimento d’Eva,                                  24

che là dove ubidia la terra e ‘l cielo, 
femmina, sola e pur testé formata, 
non sofferse di star sotto alcun velo;                             27

sotto ‘l qual se divota fosse stata, 
avrei quelle ineffabili delizie 
sentite prima e più lunga fiata.                                        30

Mentr’io m’andava tra tante primizie 
de l’etterno piacer tutto sospeso, 
e disioso ancora a più letizie,                                          33

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, 
ci si fé l’aere sotto i verdi rami; 
e ‘l dolce suon per canti era già inteso.                         36

O sacrosante Vergini, se fami, 
freddi o vigilie mai per voi soffersi, 
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.                       39

Or convien che Elicona per me versi, 
e Uranìe m’aiuti col suo coro 
forti cose a pensar mettere in versi.                               42

Poco più oltre, sette alberi d’oro 
falsava nel parere il lungo tratto 
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;                            45

ma quand’i’ fui sì presso di lor fatto, 
che l’obietto comun, che ‘l senso inganna, 
non perdea per distanza alcun suo atto,                       48

la virtù ch’a ragion discorso ammanna, 
sì com’elli eran candelabri apprese, 
e ne le voci del cantare ‘Osanna’.                                   51

Di sopra fiammeggiava il bello arnese 
più chiaro assai che luna per sereno 
di mezza notte nel suo mezzo mese.                             54

Io mi rivolsi d’ammirazion pieno 
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose 
con vista carca di stupor non meno.                              57

Indi rendei l’aspetto a l’alte cose 
che si movieno incontr’a noi sì tardi, 
che foran vinte da novelle spose.                                   60

La donna mi sgridò: «Perché pur ardi 
sì ne l’affetto de le vive luci, 
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».                     63

Genti vid’io allor, come a lor duci, 
venire appresso, vestite di bianco; 
e tal candor di qua già mai non fuci.                              66

L’acqua imprendea dal sinistro fianco, 
e rendea me la mia sinistra costa, 
s’io riguardava in lei, come specchio anco.                 69

Quand’io da la mia riva ebbi tal posta, 
che solo il fiume mi facea distante, 
per veder meglio ai passi diedi sosta,                          72

e vidi le fiammelle andar davante, 
lasciando dietro a sé l’aere dipinto, 
e di tratti pennelli avean sembiante;                              75

sì che lì sopra rimanea distinto 
di sette liste, tutte in quei colori 
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.                              78

Questi ostendali in dietro eran maggiori 
che la mia vista; e, quanto a mio avviso, 
diece passi distavan quei di fori.                                    81

Sotto così bel ciel com’io diviso, 
ventiquattro seniori, a due a due, 
coronati venien di fiordaliso.                                            84

Tutti cantavan: «Benedicta tue 
ne le figlie d’Adamo, e benedette 
sieno in etterno le bellezze tue!».                                    87

Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette 
a rimpetto di me da l’altra sponda 
libere fuor da quelle genti elette,                                     90

sì come luce luce in ciel seconda, 
vennero appresso lor quattro animali, 
coronati ciascun di verde fronda.                                    93

Ognuno era pennuto di sei ali; 
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo, 
se fosser vivi, sarebber cotali.                                         96

A descriver lor forme più non spargo 
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne, 
tanto ch’a questa non posso esser largo;                    99

ma leggi Ezechiel, che li dipigne 
come li vide da la fredda parte 
venir con vento e con nube e con igne;                        102

e quali i troverai ne le sue carte, 
tali eran quivi, salvo ch’a le penne 
Giovanni è meco e da lui si diparte.                             105

Lo spazio dentro a lor quattro contenne 
un carro, in su due rote, triunfale, 
ch’al collo d’un grifon tirato venne.                                108

Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale 
tra la mezzana e le tre e tre liste, 
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.                             111

Tanto salivan che non eran viste; 
le membra d’oro avea quant’era uccello, 
e bianche l’altre, di vermiglio miste.                             114

Non che Roma di carro così bello 
rallegrasse Affricano, o vero Augusto, 
ma quel del Sol saria pover con ello;                           117

quel del Sol che, sviando, fu combusto 
per l’orazion de la Terra devota, 
quando fu Giove arcanamente giusto.                         120

Tre donne in giro da la destra rota 
venian danzando; l’una tanto rossa 
ch’a pena fora dentro al foco nota;                                123

l’altr’era come se le carni e l’ossa 
fossero state di smeraldo fatte; 
la terza parea neve testé mossa;                                  126

e or parean da la bianca tratte, 
or da la rossa; e dal canto di questa 
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.                           129

Da la sinistra quattro facean festa, 
in porpore vestite, dietro al modo 
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.                           132

Appresso tutto il pertrattato nodo 
vidi due vecchi in abito dispari, 
ma pari in atto e onesto e sodo.                                    135

L’un si mostrava alcun de’ famigliari 
di quel sommo Ipocràte che natura 
a li animali fé ch’ell’ha più cari;                                      138

mostrava l’altro la contraria cura 
con una spada lucida e aguta, 
tal che di qua dal rio mi fé paura.                                   141

Poi vidi quattro in umile paruta; 
e di retro da tutti un vecchio solo 
venir, dormendo, con la faccia arguta.                          144

E questi sette col primaio stuolo 
erano abituati, ma di gigli 
dintorno al capo non facean brolo,                                147

anzi di rose e d’altri fior vermigli; 
giurato avria poco lontano aspetto 
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.                              150

E quando il carro a me fu a rimpetto, 
un tuon s’udì, e quelle genti degne 
parvero aver l’andar più interdetto, 

fermandosi ivi con le prime insegne.                           154

seniori
I 24 seniori di G. DORE'

PARAFRASI

Cantando come una donna innamorata, (Matelda) continuò le sue parole dicendo: 'Beati coloro i cui peccati sono stati coperti dal perdono!'

E come le ninfe vagavano da sole fra le ombre dei boschi, alcune desiderando di vedere il sole e altre di sfuggirlo, allora la donna iniziò a risalire il fiume, costeggiandone la riva; e la seguivo, adattando il mio passo al suo, più lento.

Non avevamo ancora compiuto cento passi in due, quando il fiume svoltò verso levante e io ne seguii il corso.

Anche in questa direzione non percorremmo molta strada, quando la donna si voltò verso di me e disse: «Fratello mio, guarda e ascolta».

Ed ecco che un bagliore improvviso percorse la foresta da tutte le parti, tanto che dubitai si trattasse di un lampo.

Ma poiché il lampo cessa non appena è venuto, mentre quello persisteva e diventava sempre più splendente, fra me e me dicevo: «Di che può trattarsi?»

E una dolce melodia si diffondeva nell'aria luminosa; allora un giusto zelo mi indusse a rimproverare l'orgoglio di Eva, la quale, benché la terra e il cielo le ubbidissero, benché fosse l'unica donna appena creata, non tollerò alcun limite alla propria conoscenza:

e se invece avesse rispettato quel limite, devota, io avrei gustato quelle indicibili delizie (il paradiso terrestre) già in precedenza, e per un tempo più lungo.

Mentre io procedevo con l'animo assorto tra tante anticipazioni delle bellezze paradisiache, e desideroso di altre gioie ancora, l'aria si fece davanti a noi di un colore rosso acceso come il fuoco, sotto i rami verdi; e quel dolce suono si rivelava ormai come un canto.

O sante Muse, se mai ho sofferto per voi digiuni, freddi o veglie, ora una ragione mi sprona a chiedervi una ricompensa per questo.

Ora è necessario che l'Elicona versi per me l'ispirazione poetica, e che Urania mi aiuti insieme alle compagne a mettere in versi cose difficili anche solo a pensarsi.

Poco lontano, il lungo tratto dell'aria che era ancora tra noi e loro, mi faceva credere di vedere sette alberi d'oro;

ma quando mi fui avvicinato di più, al punto che l'oggetto della percezione, che può ingannare i sensi, non perdeva alcuna sua qualità per la distanza, la virtù che fornisce gli elementi di giudizio alla ragione (la facoltà percettiva) li riconobbe come candelabri, e nelle voci sentì il canto 'Osanna'.

Il bell'insieme dei candelabri fiammeggiava verso l'alto, facendo un chiarore più intenso di quello della luna a mezzanotte, quando è piena.

Io mi rivolsi pieno di meraviglia al buon Virgilio, ed egli mi rispose con uno sguardo non meno carico di stupore.

Allora tornai a guardare quelle alte cose che si muovevano verso di noi, così lentamente che sarebbero vinte da spose novelle.

La donna (Matelda) mi sgridò: «Perché guardi solo i candelabri, pieno di amore, e non osservi ciò che viene dietro di essi?»

Allora vidi dei personaggi che li seguivano, come se fossero loro guide, vestiti di bianco; e un simile candore non ci fu mai sulla Terra.

L'acqua del Lete splendeva alla mia sinistra, e rifletteva come uno specchio il mio fianco sinistro, se io guardavo in essa.

Quando io fui presso la riva, tanto che solo il fiume mi separava da quegli oggetti, per veder meglio arrestai il passo, e vidi le fiammelle (dei candelabri) proseguire e lasciare dietro di sé l'aria dipinta, e quelle strisce luminose sembravano tratti di pennello (o stendardi);

così che sopra i candelabri l'aria era distinta in sette strisce, tutte di quei colori che il Sole produce nell'arcobaleno e la Luna nel suo alone.

Questi stendardi (le strisce di luce) si estendevano indietro più di quanto io potessi vederli; e credo che i due più esterni distassero dieci passi.

Sotto un così bel cielo, come io lo descrivo, venivano ventiquattro vecchi, a due a due, coronati di gigli.

Tutti cantavano: «Benedetta sia tu tra le figlie di Adamo, e benedette siano in eterno le tue bellezze!»

Dopo che i fiori e le altre fresche erbette di fronte a me, sulla sponda opposta, furono libere da quelle genti sante, proprio come in cielo una costellazione ne segue un'altra, vennero dopo di loro quattro animali, ognuno coronato da una fronda verde.

Ciascuno aveva sei ali e le ali erano piene d'occhi; gli occhi sarebbero uguali a quelli di Argo, se fossero ancora vivi.

Lettore, per descrivere il loro aspetto non spendo un più ampio numero di versi, poiché altri argomenti mi stringono, al punto che su questo non posso essere prodigo di dettagli;

ma leggi Ezechiele, che li descrive come li vide venire da nord con vento, con nubi e con il fuoco;

e quelli che vidi erano identici a quelli che leggerai nel suo libro, salvo che per il dettaglio delle penne Giovanni è con me e si allontana da lui.

Lo spazio fra loro era occupato da un carro trionfale, su due ruote, che procedeva trainato dal collo di un grifone.

Esso (il grifone) aveva le ali tese in alto, tra la lista luminosa al centro e le tre da ogni lato, in modo tale che non danneggiava nessuna di esse.

Le ali salivano così in alto da sfuggire alla vista; aveva le membra di uccello di colore dorato, le altre di colore bianco misto a rosso.

Non solo a Roma non ci fu mai un carro così bello a festeggiare Scipione l'Africano o Augusto, ma addirittura quello del Sole sarebbe povero a paragone di quello;

quello del Sole, che, deviando, fu bruciato per le preghiere della Terra devota, quando Giove fu giusto in modo misterioso.

Tre donne venivano danzando in cerchio accanto alla ruota destra; una era rossa, a tal punto che si sarebbe a malapena notata dentro il fuoco;

la seconda aveva le carni e le ossa che sembravano fatte di smeraldo verde; la terza sembrava neve appena caduta dal cielo;

e ora sembravano guidate nella danza dalla bianca, ora dalla rossa; e dal canto di quest'ultima le altre assumevano un ritmo di danza lento o veloce.

Dal lato sinistro del carro danzavano quattro donne, vestite di rosso porpora, seguendo il ritmo di una di loro che aveva in testa ben tre occhi.

Dietro tutti questi personaggi, vidi due vecchi vestiti diversamente nell'abito, ma identici nell'atteggiamento dignitoso e solenne.

Il primo si mostrava come uno dei seguaci di quel sommo Ippocrate che la Natura creò per gli esseri (gli uomini) che ha più cari;

l'altro mostrava l'interesse opposto, impugnando una spada lucida e aguzza, tanto che mi fece paura anche se ero da questa parte del fiume.

Poi vidi quattro personaggi dall'aspetto umile; e dietro a tutti un vecchio solitario, che procedeva dormendo, col volto espressivo.

E questi sette erano vestiti come i primi ventiquattro vecchi (di bianco), ma attorno al capo non erano coronati di gigli, bensì di rose e di altri fiori rossi; si sarebbe giurato, guardandoli da lontano, che ardessero tutti sopra la fronte.

E quando il carro fu proprio di fronte a me, si udì un tuono e quelle genti sante sembrarono avere il divieto di procedere oltre, per cui si fermarono lì con le insegne (i candelabri) che guidavano il corteo.

LE MUSE

muse
Atena dialoga con le muse. DI FRANS FLORIS

CLIO, EUTERPE, TALIA, MELPOMENE, TERSICORE, ERATO, POLIMNIA, URANIA e CALLIOPE. Nell'Inno a Zeus di Pindaro, andato perduto ma ricostruibile per mezzo di una preghiera alle stesse redatta da Elio Aristide, si racconta che in occasione del suo matrimonio Zeus domandò agli altri dèi di esprimere un loro desiderio non ancora esaudito. Questi gli risposero chiedendo di generare delle divinità «capaci di celebrare, attraverso la parola e la musica, le sue grandi imprese e tutto ciò che egli aveva stabilito.». Secondo Pausania, Zeus generò in Mnemosine tre muse giacendo con lei per nove notti: Melete (la pratica), Mneme (il ricordo) e Aede (il canto), indicate con il nome di Mneiai. Altri autori affermavano che fossero figlie di Urano e Gea, altri ancora vedevano Armonia, figlia di Afrodite quale loro progenitrice e Atene quale loro luogo natio. Eumelo di Corinto cita altre tre muse, Cefiso, Apollonide e Boristenide, affermando che il loro padre fosse il divino Apollo. Mimnermo fa riferimento a due generazioni di muse, figlie rispettivamente di Urano e Zeus. Le tradizioni sono discordi anche riguardo al numero delle Muse. Tre muse venivano venerate anche a Sikyon e Delfi, con i nomi di Mese, Nete e Ìpate. Cicerone narra di quattro muse: (Telsinoe, Melete, Aede, Arche), sette (le sette muse erano venerate a Lesbo), otto secondo Cratete di Mallo o infine nove. Il numero di nove finì per prevalere in quanto citato da Omero ed Esiodo. Quest'ultimo le enumera nella sua Teogonia, ma senza specificare di quale arte siano le protettrici:
«le nove figlie dal grande Zeus generate,
Clio e Euterpe e Talia e Melpomene,
Tersicore e Erato e Polimnia e Urania,
e Calliope, che è la più illustre di tutte.»
(Esiodo, Teogonia, incipit, 76-79)
Loro sono "Spesso" collegate al personaggio mitologico di Pierio, eponimo della Pieria. Pierio e la ninfa Antiope sono presentati come genitori alternativamente delle sette muse o di nove fanciulle che, sconfitte dalle Muse in una gara, vennero trasformate in uccelli. Da Pierio prende il nome la Pieria, regione macedone ai piedi del monte Olimpo in cui Esiodo colloca l'unione tra Zeus e Mnemosyne. Alcuni poeti (di cui possediamo le fonti) collocano nella Pieria anche la dimora delle Muse, mentre Esiodo le pone sul monte Elicona, in Beozia, dove erano particolarmente venerate. Secondo Wilamowitz si tratta di due tradizioni distinte[28]. In quanto Mnemosine era una delle Titanidi le muse sono divinità olimpiche. Apollo era il loro protettore, quindi venivano invitate alle feste degli dèi e degli eroi perché allietassero i convitati con canti e danze, spesso cantando insieme. Spesso omaggiavano Zeus, loro padre, cantandone le imprese. Le Muse erano considerate anche le depositarie della memoria (Mnemosine era la dea della memoria e secondo altre fonti anche quella del canto e della danza) e del sapere in quanto figlie di Zeus. Il loro culto fu assai diffuso fra i Pitagorici. Nel canto, inteso come racconto storico musicato, le Muse erano superiori a qualsiasi umano poiché conoscevano alla perfezione non solo il passato e il presente, ma anche il futuro. Il loro canto più antico fu quello rivolto alla vittoria degli dei contro la rivolta dei titani Allietavano ogni festa con il loro canto, si ricordano di loro nel caso delle nozze di Cadmo e Armonia e Teti e Peleo e si lamentarono per la perdita del prode Achille per diciassette giorni e diciassette notti. La loro magnificenza incantò Pireneo, che, dopo aver conquistato la Daulide e parte della Focide, morì al loro inseguimento Fu Apollo a convincerle ad abbandonare la loro antica dimora, il monte Elicona portandole a Delfi, da tale affinità l'epiteto del dio Musagete. Altre divinità a loro collegate erano Ermes e Dioniso. Le muse sono "preposte all'Arte in ogni campo" e chiunque osasse sfidarle veniva punito in maniera severa: le sirene furono private delle proprie ali, utilizzate poi dalle stesse Muse per farsene delle corone. Le Pieridi, nove come le muse, le sfidarono al canto, chiedendo in caso di vittoria le fonti sacre alle avversarie dopo la prova delle Pieridi fu Calliope a partecipare per le muse e dopo un lungo canto vinse e le donne vennero tramutate in uccelli. Il cantore Tamiri proveniente da Ecalia, si vantava della sua abilità nel canto e le sfidò a Dorio ponendo la condizione che in caso di sua vittoria avrebbe fatto l'amore con tutte loro, mentre se avesse perso loro avrebbero potuto disporre del suo corpo come meglio credevano. La gara si concluse con la sconfitta di Tamiri, che fu privato della vista, della memoria e dell'abilità del canto. Di differente avviso Euripide che narra di gravi ingiurie alle Muse fatte da Tamiri e per questo punito con la cecità.

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Eugenio Caruso - 21-03/2021

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www.impresaoggi.com