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Renato Cartesio. Cogito ergo sum.

Renato Cartesio, in francese René Descartes e in latino Renatus Cartesius, (Châtellerault ? 31 marzo 1596 – Stoccolma, 11 febbraio 1650), è stato un filosofo e matematico francese, fra i principali fondatori della matematica e della filosofia moderne. Cartesio estese la concezione razionalistica di una conoscenza ispirata alla precisione e certezza delle scienze matematiche a ogni aspetto del sapere, dando vita a quello che oggi è conosciuto con il nome di razionalismo, una posizione filosofica dominante in Europa tra il XVII e il XVIII secolo. Può essere considerato il pensatore di riferimento tra il rinascimento e l'era moderna.
Cartesio, secondo il suo biografo Adrien Baillet, nacque il 31 marzo del 1596 a La Haye en Touraine, in una casa «delle più nobili, delle più antiche e delle più in vista della Turenna»; il titolo di Cavaliere fu concesso alla famiglia Descartes il 20 gennaio 1668. Il suo biografo Pierre Borel, credeva invece che fosse nato nella casa che i Descartes possedevano a Châtellerault, nel Poitou: entrambe le case esistono ancora e del Poitou erano originari gli avi del filosofo, che non erano però nobili. Il nonno Pierre Descartes era un medico e il figlio Joachim (1563-1640), che esercitò l'avvocatura a Parigi, nel 1585 acquistò la carica di consigliere del Parlamento di Bretagna, dove si trovava quando la moglie Jeanne Brochard (1570-1597) partorì René, terzo figlio dopo le nascite di Jeanne (1590-1640) e di Pierre (1591-1660). René fu battezzato il 3 aprile nella chiesa di Saint-Georges, prendendo il nome dal padrino, lo zio materno e giudice a Poitiers, René Brochard des Fontaines. Il bambino fu subito affidato a una balia, che si prese a lungo cura di lui, gli sopravvisse e percepì dal filosofo, che prima di morire aveva chiesto ai fratelli di sostenerla, un vitalizio. La madre morì il 13 maggio 1597, l'anno dopo la sua nascita, dando alla luce un figlio che le sopravvisse solo tre giorni. Il vedovo Joachim Descartes si risposò intorno al 1600 con Anne Morin, una bretone conosciuta a Rennes, dalla quale ebbe due figli, Joachim (1602-1680) e Anne. Orfano di madre e con il padre spesso assente, a prendersi cura di René furono soprattutto la nonna materna e la nutrice. Trascorse l'infanzia con i due fratelli a La Haye, ove un precettore privato gli impartì l'istruzione elementare: il costante pallore e una frequente tosse secca, che facevano pensare ai medici che non sarebbe vissuto a lungo, ritardarono l'inizio dei suoi studi regolari.
Solo nella ricorrenza della Pasqua del 1607 entrò nel collegio di La Flèche - fondato da Enrico IV nel 1603 e assegnato ai gesuiti - che già godeva di alta rinomanza e dove il fratello Pierre aveva iniziato gli studi nel 1604. Nello stesso collegio studiò il teologo e scienziato Marin Mersenne, che Cartesio conoscerà probabilmente solo nel 1622 o 1623, di cui fu amico per tutta la vita e che si occupò dei suoi affari in Francia quando Cartesio risiedette in Olanda. Gli studenti, provenienti da ogni parte della Francia senza distinzione di classe sociale, erano tenuti al solo pagamento della pensione e i corsi prevedevano tre anni di studio della grammatica, tre anni di studi umanistici e tre anni di filosofia. Coloro che avessero voluto intraprendere la carriera ecclesiastica vi avrebbero continuato a studiare per altri cinque anni la teologia e le Scritture. Scarso era l'insegnamento della matematica, impartito per meno di un'ora al giorno ai soli studenti del secondo anno di filosofia. S'insegnava esclusivamente la filosofia aristotelica in un corso triennale ripartito nell'apprendimento della logica, basato sui manuali di Francisco Toledo e di Pedro da Fonseca, della fisica e della metafisica, quest'ultima insieme con nozioni di filosofia morale. «Le lezioni di filosofia duravano ogni giorno due ore il mattino e due ore la sera. Alla fine della lezione il professore si metteva a disposizione dei suoi allievi per chiarire i punti rimasti in ombra. La Logica e la Metafisica erano insegnate in latino; la Fisica e la Matematica, a partite dalla seconda metà del XVII secolo, in francese.» Cartesio si mostrerà poi deluso dell'insegnamento ricevuto: «Sono stato allevato nello studio delle lettere fin dalla fanciullezza, e poiché mi si faceva credere che con esse si poteva conseguire una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che è utile nella vita, avevo un estremo desiderio di apprendere. Ma non appena ebbi concluso questo intero corso di studi, al termine del quale si è di solito annoverati tra i dotti, cambiai completamente opinione: mi trovavo infatti in un tale groviglio di dubbi e di errori da avere l'impressione di non aver ricavato alcun profitto, mentre cercavo di istruirmi, se non scoprire sempre più la mia ignoranza». Sono le considerazioni del Cartesio maturo che scrive il suo Metodo e lamenta che nelle scuole non si promuova lo spirito critico degli allievi; una tale volontà di ricerca personale era già presente nel giovane René: «Da giovane, quando mi si presentava qualche scoperta ingegnosa, mi domandavo se io stesso non fossi in grado di trovarla da solo, anche senza apprenderla dai libri». Tuttavia l'anno successivo, in una lettera ad un amico che gli chiedeva consigli in merito all'educazione del figlio, il giudizio di Descartes sugli studi condotti a La Haye sarà molto più positivo: «Ora, anche se la mia opinione è che non tutte le cose che si insegnano in filosofia siano vere come il Vangelo, tuttavia, poiché essa è la chiave di tutte le altre scienze, credo che sia utile averne studiato l’intero corso, come si insegna nelle Scuole dei Gesuiti, prima di cominciare ad elevare il proprio spirito al di sopra della pedanteria, per diventare istruito come si deve. Devo rendere questo onore ai miei maestri e dire che non vi è luogo al mondo ove ritengo la si insegni meglio che a La Flèche.» Uscì dal collegio gesuita nel settembre del 1615, conservando un affetto riconoscente nei confronti del rettore, padre Étienne Charlet, che gli fece «le veci del padre per tutto il periodo della gioventù», e per il regime di vita osservato nella scuola, durante il quale la sua salute si ristabilì completamente. Si stabilì a pensione presso un sarto di Poitiers per studiare giurisprudenza nella Università di quella città, dove il fratello Pierre si era laureato tre anni prima: il 9 novembre 1616 ottenne il baccalaureato e il giorno dopo la laurea in utroque iure. Si riunì alla famiglia che, dopo il secondo matrimonio del padre, viveva a Rennes - dove anche la sorella Jeanne, sposata nel 1613 con Pierre Rogier, signore di Crévis, si era stabilita - o a Sucé, presso Nantes, dove la matrigna Anne Morin possedeva una casa.
Raggiunta la maggiore età, con una salute recuperata e il desiderio di conoscere cose nuove, ai primi del 1618 Cartesio si arruolò volontario in uno dei due reggimenti francesi di stanza a Breda, nei Paesi Bassi, sotto il comando del principe d'Orange. È un periodo di tregua della guerra che oppone la Francia alla Spagna: Cartesio aveva un valletto al suo servizio, ma l'ignoranza e la volgarità dei compagni, e l'ozio forzato a cui era spesso costretto non gli fecero amare l'ambiente militare. Tuttavia quel soggiorno si rivelerà importante sotto un altro aspetto: il 10 novembre conobbe casualmente il medico Isaac Beeckman, venuto da Middelburg a Breda per trovare lo zio e una ragazza da sposare ed entrambi si trovarono a cercare di risolvere un problema matematico. Il trentenne Beeckmam esercitò naturalmente una forte attrazione intellettuale su René e ne nacque un'amicizia che, pur contrastata negli anni, orienterà gli interessi di Cartesio verso le scienze matematiche.
Beeckman aveva l'abitudine di annotare osservazioni e problemi scientifici in un diario giunto fino a noi: in un problema posto da Beeckman a Cartesio – conoscendo lo spazio percorso da un grave in due ore, determinare lo spazio percorso dal medesimo in un'ora – la risposta di Cartesio è che la velocità del grave aumenta all'aumento dello spazio percorso, anziché al tempo trascorso. Cartesio concluse il 31 dicembre 1618 un breve trattato sulla musica intitolato Compendium musicae che offrì a Beeckman come regalo per il nuovo anno: ne ricevette in cambio un'agenda, che terrà sempre con sé. Due note tracciate da Beeckam sul manoscritto del Compendium indicano che l'operetta fu il risultato di scambi di idee tra i due amici se non influenzata dalle opinioni del Beeckman: «I miei pensieri gli sono piaciuti», scrive Beeckmam, ripartendo il 2 gennaio 1619 per Middelburg, e «ciò conferma non poco quanto ho scritto sui modi». Nel Compendium Cartesio si dice convinto che le diverse passioni suscitate dalla musica abbiano una giustificazione nella variazione delle misure dei suoni e nei rapporti tonali: se alla base dell'effetto emotivo prodotto dalla musica sull'ascoltatore sono meri rapporti quantitativi, egli riconosce che occorrerebbe una più precisa analisi della natura dell'anima umana e dei suoi movimenti per comprendere compiutamente le emozioni indotte dalla musica. I due amici rimasero in contatto epistolare: il 26 marzo 1619 Cartesio informò Beeckman di aver inventato dei compassi grazie ai quali aveva potuto formulare nuove dimostrazioni sui problemi relativi alla divisione degli angoli in parti uguali e alle equazioni cubiche, ripromettendosi di sviluppare queste scoperte in un trattato ove egli avrebbe esposto «una scienza del tutto nuova, con la quale si possano risolvere in generale tutte le questioni proponibili in qualsiasi specie di quantità, sia continua sia discreta». È la prima testimonianza dell'intuizione della geometria analitica: «nell'oscuro caos di questa scienza ho intravisto uno spiraglio di luce».
A questo proposito, sebbene egli non ne sia stato l'inventore, Cartesio è conosciuto anche per la diffusione del cosiddetto Diagramma cartesiano il cui uso risale a epoche antiche. Il 29 aprile 1619, Descartes s'imbarcò da Amsterdam per Copenaghen: contava di visitare la Danimarca, poi la Polonia e l'Ungheria per raggiungere di qui la Boemia, ma rinunciò al lungo viaggio per dirigersi alla fine di luglio a Francoforte, dove il 27 agosto assistette all'incoronazione di Ferdinando II e s'intrattenne nella città brandeburghese per tutta la durata dei festeggiamenti. Con la ripresa di quella che verrà definita la Guerra dei Trent'anni, sembra che Cartesio si sia arruolato nell'esercito comandato da Massimiliano di Baviera e abbia passato l'inverno a Neuburg, nel nord della Baviera, in una confortevole e ben riscaldata casa sulla riva del Danubio: qui, prese un giorno «la decisione di studiare anche in sé stesso e d'impiegare tutte le forze del suo spirito a scegliere le strade che doveva seguire».
Lo studio di noi stessi ci rende consapevoli di quante nozioni abbiamo accumulato nella mente sin dall'infanzia, senza che esse siano state sottoposte a un preventivo vaglio critico: perciò, «è quasi impossibile che i nostri giudizi siano così genuini e così solidi come sarebbero stati se sin dalla nascita avessimo avuto l'uso completo della ragione e se fossimo stati sempre guidati solo dalla ragione». Occorre una revisione delle opinioni acquisite e la loro sostituzione, se necessario, con quelle legittimate da un criterio di verità. Per intanto, egli non avrebbe accolto nessuna cosa per vera se non si fosse presentata alla mente «con tale chiarezza e distinzione da non avere alcun motivo di dubitarne». Poi, ogni problema doveva essere diviso in quante più parti possibili per meglio risolverlo e, «cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, salire a poco a poco, per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi». Infine, fare «enumerazioni così complete e rassegne così generali da esser sicuro di non aver omesso nulla».
Quelle sono parole scritte circa quindici anni dopo nel Discorso sul metodo, ma in quel novembre del 1619 Cartesio, nel registro regalatogli dal Beeckman, in una sezione che egli stesso intitolò Olympica, scrisse che il 10 novembre, «pieno di entusiasmo», stava scoprendo i «fondamenti di una scienza mirabile» e narra di sogni e di visioni che resero agitata la notte, ma non sappiamo con precisione a quale scienza qui alludesse Cartesio. L'ambasciatore francese in Svezia, Pierre Chanut, che conobbe molto bene Cartesio, dettando il suo epitaffio si riferì a questo episodio: «nel riposo dell'inverno, avvicinandosi ai misteri della natura con le leggi matematiche, osò sperare di aprire i segreti dell'una e dell'altra con la stessa chiave». Probabilmente, proseguendo le sue ricerche sulle corrispondenze dell'algebra con la geometria, aveva raggiunto la convinzione che il sapere potesse essere unificato in un'unica scienza della quale le singole discipline formavano una branca particolare, come scriverà nelle Regulae ad directionem ingenii: «Tutte le scienze non sono altro che l'umana sapienza che permane sempre unica e identica per quanto differenti siano gli oggetti cui si applica [...] Tutte le scienze sono così connesse tra loro che è molto più facile apprenderle insieme piuttosto che separarne una sola dalle altre». Durante quell'inverno conobbe nella vicina Ulm il matematico Johann Faulhaber, del quale potrebbe esserci qualche influenza nelle ricerche intraprese da Cartesio che portarono alla redazione dei Progymnasmata de solidorum elementis, dove tratta delle proprietà dei poliedri. Lasciò Neuburg ai primi di marzo del 1620 e «in tutti i nove anni seguenti non fece altro che vagare qua e là per il mondo, cercando di essere spettatore piuttosto che attore in tutte le commedie che vi si rappresentavano», di acquisire conoscenze certe, scartando le dubbie, secondo i precetti del suo metodo, che egli applicava «in particolare a problemi di matematica o anche in altri che poteva assimilare ai problemi matematici, scindendoli da tutti i principi delle altre scienze che non trovava abbastanza solidi».
Lasciato l'esercito, nel 1622 tornava presso la famiglia a Rennes e si trasferiva nei primi mesi del 1623 a Parigi, ospite di un amico del padre, Nicolas Le Vasseur, che gli presentò il matematico Didier Dounot: in questo lasso di tempo potrebbe aver conosciuto anche Claude Mydorge. In autunno partiva per un lungo viaggio in Italia: la morte del signor Sain, marito della sua madrina e commissario generale al vettovagliamento per le truppe francesi stanziate in Italia, aveva lasciato libera una carica lucrosa che Cartesio avrebbe cercato - ma invano - di farsi assegnare.
Secondo i biografi Cartesio, che aveva letto in collegio un testo allora famoso, Le pèlerin de Lorète del gesuita Louis Richeome, sarebbe andato a Loreto per visitare la leggendaria Casa di Nazareth lì trasportata dagli angeli, poi a Roma, a Firenze, dove non incontrò Galileo, e a Venezia. Rientrò in Francia attraverso il passo del Moncenisio ed ebbe occasione di assistere alla caduta di valanghe, un fenomeno che tratterà nel libro sulle Météores. Giunse a Parigi nel maggio del 1625. Nel complesso non ricavò una buona impressione della penisola e dei suoi abitanti: «la calura del giorno è insopportabile, il fresco della sera malsano e l'oscurità della notte copre furti e omicidi».
Da questo momento Cartesio adottò uno stile di vita che osserverà per sempre: avendo rinunciato alla carriera militare e a occupare qualsiasi magistratura, vivrà dei proventi dei suoi possedimenti terrieri, che gli assicuravano una condizione libera dal bisogno e gli permettevano di dedicarsi ai suoi studi. Si mantenne in corrispondenza con Beeckman ed entrò in relazione con i matematici Jean Baptiste Morin e Florimond De Beaune, con il Mydorge e con i letterati Jean de Silhon, Jacques de Sérisay, Guez de Balzac e col padre Mersenne, già autore di un trattato sull'ottica, la cui sollecitazione può averlo indotto a studiarne i problemi, giungendo a determinare la legge della costanza del rapporto dei seni degli angoli di incidenza e di rifrazione, successivamente ma indipendentemente da Willebrord Snell.
Nel novembre del 1627 fu invitato nella casa del nunzio pontificio Gianfrancesco Guidi di Bagno a una riunione di scienziati e filosofi. Lì, presenti anche il cardinale Bérulle e il Mersenne, si trovò a confutare le teorie filosofiche di un certo Chandoux attraverso l'esposizione del suo «metodo naturale» fondato sulle Regulae ad directionem ingenii che Cartesio stava elaborando. Per lavorarci con maggiore tranquillità, partì per la Bretagna e poi si trasferì in una sua proprietà nel Poitou: le Regulae sono costituite da 21 proposizioni, 18 delle quali, le prime, commentate; il testo è stato lasciato incompiuto; Cartesio darà lo sviluppo organico del tema del metodo della conoscenza nel successivo Discours de la méthode. L'intenzione è quella di orientare gli studi in modo che «la mente giunga a giudizi solidi e veri su tutto ciò che le si presenta». Il metodo è «la via che la mente umana deve seguire per raggiungere la verità»: esso consiste nell'ordinare e disporre gli oggetti sui quali s'indirizza la mente per giungere alla verità. Le proposizioni involute e oscure devono essere ridotte a proposizioni più semplici e poi, partendo dall'intuizione di queste ultime, progredire alla conoscenza di quelle più complesse. Le proposizioni semplici, comprese intuitivamente e senza ricorrere a dimostrazioni per la loro evidenza, sono equivalenti ai postulati e agli assiomi matematici e costituiscono i principi della conoscenza.
In ottobre 1628 andò a Dordrecht, nei Paesi Bassi, a trovare l'amico Beeckman: in questa occasione deve aver maturato la decisione di trasferirsi nei Paesi Bassi. Dopo un ritorno a Parigi nell'inverno del 1628, nel marzo del 1629 ripartì per l'Olanda: si stabilì a Franeker, ove il 26 aprile si iscrisse all'Università per frequentare i corsi di filosofia. Probabilmente scelse quell'università perché vi insegnava il matematico Adrien Metius, fratello di quel Jacques Metius che a giudizio di Cartesio aveva inventato il cannocchiale.
Continuò a lavorare sui problemi dell'ottica e in agosto fu messo a conoscenza dall'amico professore di filosofia Henricus Reneri dell'osservazione del fenomeno ottico-astronomico dei pareli, effettuata il 20 marzo a Frascati dall'astronomo gesuita Christoph Scheiner. Quel fenomeno era già noto e Pierre Gassendi ne diede il 14 luglio una descrizione che verrà ripresa da Cartesio nelle Méteores: sono circoli bianchi che «invece di avere al loro centro un astro, attraversano ordinariamente il centro del Sole o della Luna e risultano paralleli o quasi all'orizzonte».
Dal 1630 cominciò a lavorare al Le Monde ou traité de la lumière che avrebbe dovuto rappresentare l'esposizione della propria filosofia naturale, ma la notizia della condanna, nel 1633, del Galilei e della messa all'Indice del Dialogo sopra i due massimi sistemi lo dissuasero dal completare e pubblicare l'opera che in più parti sposava le tesi di Copernico condannate dalla Chiesa. Dopo un'edizione parziale postuma in traduzione latina nel 1662 a Leida, il trattato fu pubblicato nella versione originale francese a Parigi nel 1664 in due parti separate, con il titolo, rispettivamente, di Le Monde ou le traité de la lumière et des autres principaux objects des sens e di L'Homme; finalmente, nel 1667, l'opera fu pubblicata integralmente a Parigi insieme con il frammento La formation du foetus.
Nelle Regulae Cartesio aveva individuato nella «matematica universale» la «scienza dell'ordine», ossia quella scienza che, stabilendo la disposizione nella quale tutte le varie conoscenze vanno disposte, essendo tra di loro legate da comuni principi, è la scienza alla quale tutte le altre fanno capo. Dopo la matematica, ne Il Mondo Cartesio affronta il problema della fisica, individuando il principio al quale tutti i fenomeni fisici obbediscono. Tale principio è la conoscenza «chiara e distinta» degli elementi semplici che costituiscono i corpi. I corpi sono materia dotata di movimento che occupa uno spazio determinato e gli elementi primi della materia sono la terra, l'aria e il fuoco.
La materia è dunque esprimibile quantitativamente con «il movimento, la grandezza, la figura e la disposizione delle parti», e solo da questi deve derivare la spiegazione delle sue qualità. Le leggi della natura obbediscono a tre principi:
«ogni parte della materia conserva sempre lo stesso stato finché le altre non la costringono a cambiarlo», che è il principio d'inerzia;
«quando un corpo spinge un altro corpo, non gli trasmette né sottrae movimento senza perderne o acquistarne una quantità eguale»,
e «quando un corpo è in movimento, ciascuna delle sue parti, presa separatamente, tende sempre a continuare il proprio movimento in linea retta».

Nel 1637 pubblicò in un volume il Discorso sul metodo come prefazione ai saggi su Diottrica, Geometria e Meteore. Nel 1641 diede alle stampe la prima edizione, in latino, delle Meditazioni metafisiche corredate dalle prime sei Obiezioni e risposte. L'anno successivo (1642) con la seconda edizione delle Meditazioni pubblicò le settime Obiezioni e risposte; l'opera fu tradotta in francese nel 1647 dal Duca di Luynes. Nel 1643 la filosofia cartesiana venne condannata dall'Università di Utrecht, contemporaneamente Cartesio cominciò una lunga corrispondenza con la principessa Elisabetta di Boemia. Nel 1644 compose i Principia philosophiae e compì un viaggio in Francia. Nel 1647 la corona di Francia gli riconobbe una pensione. L'anno successivo da una lunga conversazione con Frans Burman nacque il testo Entretien avec Burman (Conversazione con Burman), pubblicato per la prima volta nel 1896.
Nel 1649 si trasferì a Stoccolma accettando l'invito della regina Cristina di Svezia, sua discepola, desiderosa di approfondire i contenuti della sua filosofia. Quell'anno dedicò alla principessa Elisabetta il trattato Le passioni dell'anima. L'inverno svedese e gli orari ai quali Cristina lo costringeva a uscire di casa per impartirle le lezioni - alle cinque del mattino, quando il freddo era più pungente - ne minarono il fisico. Secondo il racconto tradizionale e l'ipotesi più accreditata, Cartesio morì l'11 febbraio 1650 per una sopraggiunta polmonite. La condanna della Chiesa cattolica nei confronti del pensiero cartesiano non tardò a venire, con la messa all'Indice nel 1663 delle sue opere (poste nell'Index con la clausola attenuante suspendendos esse, donec corrigantur). Nel 1801 in suo onore la città natale fu ribattezzata La Haye-Descartes e nel 1966, dopo la sua fusione con il comune di Balesmes, Descartes. Inoltre in paese esiste ancora la casa natale, che nel 1974 è stata trasformata in museo e successivamente nel 2005 è stata ampliata con un suggestivo percorso, pensato per far rivivere ai visitatori l'atmosfera dell'epoca oltre che conoscere la vita e il pensiero dello scienziato.

La finalità della filosofia di Cartesio è la ricerca della verità attraverso la filosofia, intesa come uno strumento di miglioramento della vita dell'uomo: perseguendo questa via il filosofo intende ricostruire l'edificio del sapere, fondare la scienza. Cartesio ritiene che criterio basilare della verità sia l'evidenza, ciò che appare semplicemente e indiscutibilmente certo, mediante l'intuito. Il problema nasce nell'individuazione dell'evidenza, che si traduce nella ricerca di ciò che non può essere soggetto al dubbio. Pertanto, dacché la realtà tangibile può essere ingannevole in quanto soggetta alla percezione sensibile (dubbio metodico) e al contempo anche la matematica e la geometria (discipline che esulano dal mondo sensibile) si rivelano fasulle nel momento in cui si ammette la possibilità che un'entità superiore (colui che Cartesio soprannomina genio maligno) faccia apparire come reale ciò che non lo è (dubbio iperbolico), l'unica certezza che resta all'uomo è che, per lo meno, dubitando, l'uomo è sicuro di esistere. L'uomo riscopre la sua esistenza nell'esercizio del dubbio. Cogito ergo sum: dal momento che è propria dell'uomo la facoltà di dubitare, l'uomo esiste.
Partendo dalla certezza di sé, Cartesio arriva, formulando due prove ontologiche e una prova cosmologica, alla certezza dell'esistenza di Dio. Dio, che nella concezione cartesiana è bene e pertanto non può ingannare la sua creazione (l'uomo), si rende garante del metodo, permettendo al filosofo di procedere alla creazione dell'edificio del sapere. Le maggiori critiche ricevute da Cartesio furono apportate da Pascal (che gli rimprovera di sfruttare Dio per dare un tocco al mondo) e da alcuni suoi avversatori contemporanei (tra cui il filosofo inglese Hobbes e il teologo Antoine Arnauld), che lo accusarono di essere caduto in una trappola solipsistica (assimilabile a un circolo vizioso): Cartesio teorizza Dio per garantirsi quei criteri di verità che gli sono serviti a dimostrare l'esistenza di Dio.
«Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra. Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l'intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più profonde di quanto essi stessi possano attendersi» (Cartesio dal "Discorso sul metodo") Che cosa possiamo sperare di conoscere con certezza? Proprio quando sembra impossibile individuare qualcosa che possa essere conosciuto con evidente certezza, Cartesio si rende conto che qualunque cosa possa fare quel genio maligno di cui ha ipotizzato l'esistenza nel corso della messa in discussione di ogni certezza, questi non potrà mai far sì che io, che dubito di essere ingannato da lui, non esista: la sua azione dell'ingannare si rivolge a un esistente che subisce l'inganno e che dubita di essere ingannato e, se dubita, pensa. Questo è il principio (meglio conosciuto nella formula del cogito ergo sum, "penso, quindi sono", che compare nel Discorso sul metodo) su cui ricostruire l'edificio della conoscenza. Dal momento che dobbiamo rifiutare l'insegnamento dei sensi che ci rappresentano come dotati di un corpo, Descartes conclude di essere una sostanza pensante. La contrapposizione fra res cogitans e res extensa avrà notevoli risvolti antropologici. Il pensiero costituisce la sua essenza nella misura in cui esso è ciò di cui non può più dubitare. La costruzione del sapere avviene attraverso il metodo della deduzione mentre i sensi sono privati di ogni dignità conoscitiva. Il grande contributo di Cartesio alla filosofia moderna è dato dall'aver posto nel rapporto tra soggetto e oggetto l'Idea: non si conoscono direttamente le cose, ma le nostre idee sulle cose. Pertanto il soggetto non può conoscere direttamente l'oggetto; l'esistenza delle cose e il loro modo di apparirci diventano un problema gnoseologico che Cartesio pone ma solo Kant risolverà in modo convincente. «Si giunge così alla filosofia moderna in senso stretto, che inizia con Cartesius. Qui possiamo dire d'essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine gridare “Terra!”. Cartesius segna un nuovo inizio in tutti i campi. Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione cominciano con lui.» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 468.) Ritenuto il primo pensatore moderno che ha fornito un quadro filosofico di riferimento per la scienza moderna all'inizio del suo sviluppo, Cartesio ha cercato di individuare i principi fondamentali che possono essere conosciuti con assoluta certezza. Per farlo si è servito di un metodo chiamato scetticismo metodologico: rifiutare come falsa ogni idea che può essere revocata in dubbio. La conoscenza sensibile è la prima a essere messa in mora: è bene diffidare di chi ci ha già ingannato, potrà farlo ancora. Addirittura nel sonno capita di rappresentarsi cose che non esistono come se fossero vere. Perciò non bisogna credere nei sensi. La conoscenza matematica solo apparentemente può sfuggire al metodo del dubbio metodico messo in atto da Cartesio. Infatti, benché sembri che non ci possa essere nulla di più sicuro e di più certo, non si può neppure escludere che un "genio maligno", supremamente malvagio e potente, si diverta a ingannarci ogni volta che effettuiamo un calcolo matematico. Cartesio, per la sua personale esperienza della verità, ritiene che i pensieri di cui possiamo essere certi sono evidenze primarie alla ragione. Evidente è l'idea chiara e distinta, che si manifesta all'intuito nella sua elementare semplicità e certezza, senza bisogno di dimostrazione. Ne sono esempi i teoremi di geometria euclidea, che sono dedotti in base alla loro stessa evidenza, ma nello stesso tempo verificabili singolarmente in modo analitico, mediante vari passaggi. Il ragionamento non serve a dimostrare le idee evidenti, ma semplicemente a impararle e memorizzarle; i collegamenti hanno la funzione di aiutare la nostra memoria. Kant rileverà che questo non solo è un metodo opportuno, ma che è l'unico possibile, che le coscienze si formano intorno a un "io penso" che può apprendere soltanto conoscenze che derivino da un unico principio. Cartesio afferma anche che ognuno ha il suo metodo e che il suo è uno dei metodi possibili. L'importante è darsi un metodo cui sottoporre tutte le verità e da seguire come regola per tutta la vita; il metodo cartesiano finisce con l'essere un imperativo categorico il cui contenuto metodico varia a seconda delle circostanze, ma anche della persona (cosa che l'imperativo categorico non ammette). Il metodo cartesiano quindi non è altro che un criterio di orientamento unico e semplice che all'interno di ogni campo teoretico e pratico aiuti l'uomo, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo.

Qual è il rapporto che l'io in quanto pensiero e il corpo in quanto estensione intrattengono tra di loro? Cartesio anzitutto esclude che il pensiero sia nel corpo «come un nocchiero nella barca»; questa era l'immagine platonica per illustrare il rapporto anima-corpo, che lasciava intatte e separate le due sostanze. A tale possibilità Cartesio obietta che le sensazioni che abbiamo, fame, sete, dolore..ecc., ci segnalano un rapporto diretto col corpo, laddove non si realizzasse un'unità, l'intelletto non proverebbe quei pensieri di sensazione, ma essi gli riuscirebbero in qualche modo estranei. C'è un ulteriore elemento che ci dà la misura dell'unione intrinseca dell'intelletto col corpo, e cioè che i corpi esterni a noi intrattengono con noi rapporti che non sono percepiti come inerenti esclusivamente alla nostra corporeità, ma come benefici o dannosi a tutti noi stessi. Anima e corpo sono dunque «mescolati», come attestano le sensazioni sia interne sia esterne; ma non al punto che non sia possibile distinguere alcune operazioni «che sono di pertinenza della sola anima» e altre «che appartengono al solo corpo». All'anima compete la conoscenza della verità, al corpo le sensazioni «che ci sono date dalla natura propriamente solo per indicare all'anima quali cose siano di beneficio, quali di danno, a quel composto di cui essa è una parte, e ciò finché non sono ben chiare e distinte». Il corpo dà dunque all'anima le indicazioni necessarie perché essa operi per la sopravvivenza del composto, ma tali indicazioni sono oscure e confuse, e la luce intellettuale deve, per conoscere la verità su di esse, provvedere a chiarirle. Questa spiegazione puramente funzionale delle sensazioni urta però con due obiezioni che Cartesio si pone immediatamente.
Il corpo però a volte ha sensazioni nocive per il composto, in ciò venendo meno alla sua funzione, ad esempio «quando qualcuno, ingannato dal sapore gradevole di un cibo, ingerisce il veleno che vi è nascosto». Questa obiezione è facilmente superabile, in quanto al più in questo caso si può accusare la sensazione di ignorare che in quel cibo c'è del veleno, ma ben sappiamo che l'uomo è «una cosa limitata», e un caso del genere si spiega considerando che la sensazione ha una capacità informativa limitata. Più insidiosa è l'altra obiezione, che osserva che ci sono sensazioni che direttamente operano a danno del composto; ad esempio «quando coloro che sono ammalati desiderano una bevanda o del cibo, che poco dopo sarà loro nocivo» come l'idropico che prova una sensazione di sete, soddisfacendo la quale sicuramente si danneggerà. Per rispondere all'obiezione Cartesio tenta dapprima la strada della spiegazione meccanicistica del corpo, cui addossare la responsabilità dell'errore. Istituisce il paragone tra corpo e orologio e osserva che se si considera il corpo come una macchina di pure parti materiali, si può pensare alla malattia come a una rottura della macchina; ma anche con questo modello non si è risposto all'obiezione, ammette Cartesio, perché le leggi di natura regolano anche un orologio che funziona male, mentre nel caso dell'idropico vengono meno. Se la malattia è da paragonarsi a un guasto dell'orologio che ne produce il malfunzionamento, resta da spiegare come mai vi si aggiunga un'attività direttamente contraria alla sopravvivenza del composto, e cioè il desiderio di bere. Potremmo aggiungere, è come se l'orologio, oltre a funzionare male, si mettesse a danneggiare i suoi ingranaggi o attivasse un pulsante di autodistruzione. In tale caso di autodanneggiamento la sensazione di sete dell'idropico è «un vero errore di natura», in quanto opera in contrasto con la sopravvivenza del composto, al cui fine le sensazioni sono istituite.
Il cogito come capacità di autocoscienza appartiene solo agli uomini dotati di un corpo che funziona come una macchina: " [...] incomparabilmente meglio ordinata e ha in sé movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che gli uomini possono inventare [...] ; gli animali invece privi di coscienza sono semplici macchine. Solo l'uomo ragiona e parla mentre gli animali anche quando parlano in modo simile al nostro interloquire, come ad esempio i pappagalli, non fanno che ripetere dei suoni che sentono, non elaborano razionalmente dei discorsi. L'incapacità di parlare degli animali non dipende dal fatto che essi non abbiano gli organi appositi per farlo, come ad esempio le corde vocali, ma dalla loro incapacità di ragionare. Tanto è vero che anche uomini privi degli strumenti per parlare sono superiori agli animali parlanti perché con la loro ragione inventano segni che permettono loro di comunicare coscientemente, pur essendo muti e sordi. Gli animali quindi sono privi di ragione e di coscienza e non provano dolore; anche quando sembrano manifestare sofferenza, in realtà reagiscono meccanicamente a una stimolazione materiale come quando toccando una molla dell'orologio le sue lancette si muovono. " Teoria questa confutata e criticata da altri successivi filosofi (come Jean Meslier, Voltaire e Auguste Comte, ammiratore di Cartesio per il resto), che la reputarono giustificatrice di abusi e crudeltà verso gli animali.
Se io sono sostanza pensante, il mio pensiero deve essere caratterizzato da un contenuto, ovvero deve configurarsi come idea («Prendo il nome di idea per tutto ciò che è concepito immediatamente dallo spirito» Cartesio distingue tre tipologie di idee:
-Idee avventizie: derivano, tramite la sensibilità, da oggetti esterni e sono indipendenti dall'uomo;
- Idee fattizie: quelle da noi inventate o costruite (l'idea dell'ippogrifo o quella della chimera);
- Idee innate: cioè nate con noi, sono come un patrimonio costitutivo della mente (l'idea matematica, l'idea di Dio).

Con la sola forza del pensiero deduttivo Descartes propone una "prova ontologica" dell'esistenza di un Dio benevolo che ha dato all'uomo una mente e un corpo e che non può desiderare di ingannarlo. Le tre prove ontologiche, liberamente ispirate dalla Scolastica, di cui il filosofo si serve per postulare l'esistenza di Dio sono:
- Siccome l'uomo ha in sé l'idea di Dio, che equivale all'idea della perfezione, ne deriva, seguendo il principio per cui la causa dev'essere eguale o maggiore all'effetto prodotto, che l'idea di Dio non può essere un prodotto della mente dell'uomo (il quale esercitando il dubbio dimostra la sua imperfezione), né dall'esterno (di cui potendo dubitarne si dimostra l'imperfezione) ma deve provenire necessariamente da un'entità perfetta, estranea all'idea di perfetto che l'uomo ha di lui: cioè Dio.
- Siccome l'uomo è consapevole della sua imperfezione, non può essere stato lui l'artefice di quelle idee di perfezione che egli ha nella sua mente (onniscienza, onnipotenza, prescienza ecc.) altrimenti alla creazione si sarebbe dato codeste prerogative.
Motivo per cui deve esistere un'entità che gode di quelle qualità e che abbia dall'esterno creato l'uomo: cioè Dio. Riprendendo la prova elaborata da sant'Anselmo d'Aosta, Cartesio afferma che l'esistenza è già implicita nel concetto stesso di perfezione: esiste un'entità superiore in quanto espressione dell'idea che l'uomo ha di perfetto (la cosiddetta prova ontologica, come Kant definirà per sostenere l'impossibilità di far coincidere il piano logico con il piano ontologico): cioè Dio. In questo modo, si può recuperare il rapporto con il mondo sensibile senza timore di essere ingannato. Riprendendo i tre anni di studi filosofici, Cartesio recupera l'idea della scolastica medioevale di un Dio-Bene che non può ingannare né me né i miei sensi, per cui è reale il mondo che abbiamo davanti. L'errore viene pertanto attribuito non alla dimensione intellettuale dell'uomo, ma alla volontà, che asseconda nel procedimento un principio non ancora chiarito.
Cartesio s'interessò anche del linguaggio. Ai suoi tempi si discuteva della possibilità dell'esistenza precostituita di una lingua che egli non ritiene possa sussistere "a priori" ma che invece possa essere costruita seguendo queste linee guida:
- dovrebbe essere una lingua molto semplice da imparare nel giro di cinque, sei giorni e altrettanto facile a scrivere e a parlare;
- tra le parole e i pensieri bisognerebbe instaurare la stessa relazione che c'è tra i numeri: un ordinamento preciso e meccanico che renda possibile una combinazione tramite sicure regole;
- il primo passo da compiere per questa nuova lingua sarebbe quello di scomporre le idee complesse in idee semplici per poi effettuare ogni combinazione logica possibile.
In una lettera a padre Mersenne (20 novembre 1629) egli scriveva: «Ritengo che questa lingua sia possibile, e che si possa trovare la scienza da cui farla derivare, così che per mezzo di questa dei contadini potrebbero giudicare della verità delle cose meglio di quanto non facciano oggi i filosofi.» Cartesio pensava infine che si potesse tentare di stabilire i nomi primitivi delle azioni confrontando i verbi delle più diverse lingue e di dedurne le parole tramite degli affissi. Questa sua idea fu poi ripresa da Leibniz, altro teorico di un linguaggio razionale, che abbinato a un calculus ratiocinator, avrebbe consentito la risoluzione meccanica di ogni problema.
Leibniz ebbe modo di interessarsi di Cartesio quando dopo la morte del filosofo cercò di visionare le carte riservate, facenti parte del patrimonio degli scritti cartesiani. Le carte spedite da Stoccolma erano giunte a Rouen ma il battello che da lì le avrebbe dovute trasportare lungo la Senna a Parigi affondò nei pressi del Louvre. La cassa contenente gli scritti fu recuperata dal destinatario Claude Clerselier (1614-1684) che, dopo la morte di Marin Mersenne, dal 1648 era stato a Parigi il contatto principale di Descartes divenendone amico, seguace ed editore di numerose sue opere e che, sempre a difesa del pensiero del suo maestro, aveva tenuto una vasta corrispondenza con gli intellettuali europei. Nel giugno del 1676 Leibniz recatosi presso Clerselier a Parigi poté vedere i manoscritti cartesiani riuscendo, dopo molte insistenze, a copiare sinteticamente solo una parte del testo cifrato di un taccuino, intitolato De solidorum elementis, che lo aveva incuriosito. Gli appunti di Leibniz, all'incirca una pagina e mezza, dopo la sua morte si mescolarono alle altre carte delle sue opere conservate ad Hannover che furono catalogate e ordinate, quasi due secoli dopo nel 1860, da Louis-Alexandre Foucher de Careil, uno studioso di Leibniz. L'Accademia delle scienze francese nel 1890 pubblicò gli appunti di Leibniz, con un commento di Ernest de Jonqières, che non riuscì a chiarirne il testo. Nel 1912 Charles Adam e Paul Tannery che operavano presso la Bibliothèque nationale de France vi scoprirono una copia dell'inventario degli scritti cartesiani stilato a Stoccolma da Pierre Chanut il 14 e 15 febbraio 1650. I due studiosi poterono così raccogliere una miriade di informazioni sugli appunti cartesiani che furono ancora una volta studiati nel 1966 da un gruppo di ricercatori che tuttavia non riuscirono a chiarirne il testo fino a quando nel 1987 un sacerdote e matematico francese esperto di crittografia, Pierre Costabel, scoprì che Leibniz era riuscito a svelare la formula generale dei poliedri semplici, scoperta e descritta da Cartesio nel suo taccuino, ma resa pubblica da Eulero soltanto nel 1730.
Che il segreto custodito dal taccuino di Cartesio non fosse soltanto la formula dei poliedri è la tesi avanzata da Amir Aczel, matematico e divulgatore scientifico del Bentley College di Boston, nell'opera Descartes' Secret Notebook (2005). Dell'intero taccuino, costituito da 16 pagine rilegate accuratamente in pergamena, illustrato da disegni e con simboli alchimistici e cabalistici Leibniz, per una restrizione imposta dallo stesso Clerselier , riuscì a prenderne brevi appunti solo relativamente ad alcune pagine che egli stesso poi non divulgò: il resto delle pagine, dopo la morte di Claude Clerselier e dell'abate Jean-Baptiste Legrand (1704), collaboratore di Baillet, scomparve così come sparirono le carte che Legrand aveva preparato per pubblicare un'edizione di tutte le opere di Cartesio.
La decisione di Cartesio di ritirarsi a vivere in Olanda, dove soggiornò per vent'anni (salvo brevi viaggi a Parigi nel 1644, nel 1647 e nel 1648) e che lasciò non per tornare in Francia ma per andare in Svezia era dovuta, come egli stesso scrisse nel Discorso sul metodo, alla liberalità delle leggi sulla stampa che vigevano in quello Stato pacifico e prospero. Tuttavia sembra che Cartesio fosse stato in realtà costretto a lasciare la patria per le accuse che sin dal 1623 e poi dal 1629 lo indicavano come un Rosacroce. Il problema di un possibile rapporto tra Cartesio e i Rosacroce fu sollevato per primo dal biografo Adrien Baillet il quale, citando passi di un perduto Studium bonae mentis, sostiene che Cartesio pensò che i rosacrociani potessero aver scoperto proprio quella nuova scienza che egli aveva intuito e che andava abbozzando. Si può escludere che egli si sia mai affiliato a quella setta e non si sa se abbia mai conosciuto un rosacrociano, ma in qualche modo Cartesio dovette venire a conoscenza delle loro opinioni visto che, nella sezione del suo registro intitolata Cogitations privatae compare il progetto di un Thesaurus mathematicus di 'Polybii Cosmopolitani' (uno pseudonimo di Cartesio che allude a Polibio di Megalopoli ) dove scrive: «Quest’opera contiene i veri mezzi per superare tutte le difficoltà di questa scienza e dimostrare come, riguardo ad essa, lo spirito umano non possa spingersi più lontano; scritta per provocare l’esitazione o schernire la temerarietà di quanti promettono nuove meraviglie in tutte le scienze, e allo stesso tempo per alleviare le gravi fatiche dei Fratelli della Rosacroce i quali, lanciati notte e giorno nelle difficoltà di questa scienza, vi consumano inutilmente l’olio del loro genio; dedicata infine ai sapienti del mondo intero e specialmente agli Illustrissimi F. (Fratelli) R. (Rosa) C. (Croce) di Germania
La segretezza che Cartesio volle dare ad alcuni suoi scritti era quindi dovuta al timore di un intervento della Inquisizione ai suoi danni non solo per le sue opere a carattere scientifico ma anche per la sua supposta aderenza ai RosaCroce. Il girovagare continuo che il filosofo fece in terra olandese soggiornando per brevi periodi in case private, in alberghi, in piccoli villaggi e il rimanere in contatto con i dotti europei solo tramite padre Marin Mersenne, l'unico che conoscesse il suo indirizzo, sembra dimostrare la volontà di sfuggire a un nemico tanto pericoloso che quando Cartesio venne a sapere nel 1633 della condanna di Galilei non si ritenne al sicuro neppure in Olanda rinunciando a pubblicare un suo trattato di fisica, Il mondo ovvero trattato della luce e l'uomo , basato sulla teoria eliocentrica copernicana e sulle scoperte di Keplero. Leibniz per un breve periodo (probabilmente dicembre 1666 - marzo 1667) divenne segretario di una società alchemica di Norimberga. A questo periodo risale il suo progetto di superare le divisioni tra gli uomini mediante la ragione e il progresso scientifico, elaborando un linguaggio universale simbolico, la characteristica universalis, che offrisse all'umanità lo strumento per annullare ogni contrasto anche teologico. Questo progetto di una scienza unica era rientrato anche nelle aspirazioni di Cartesio convinto com'era della possibilità di creare una mathesis universalis poiché alla matematica appartengono «...solamente tutte quelle cose nelle quali si fa oggetto di esame l'ordine come pure la natura, (...) e quindi deve esserci una scienza generale, che spieghi tutto quello che si può desiderare circa l'ordine e la misura non riferita ad una materia specifica, ed essa sia chiamata Mathesis universale, non con un vocabolo straniero, ma con uno ormai radicato e accettato nell'uso, poiché in essa è contenuto tutto ciò per cui le altre scienze sono dette parti della matematica.» Era forse proprio questo che Leibniz cercava tra le carte di Cartesio: se questi, cioè, avesse tenuto nascosto qualche principio fondamentale, riguardante un mistero della setta dei Rosacroce, destinato a rimanere segreto, per la costruzione di questo linguaggio simbolico universale che, tramite le leggi del calcolo matematico, potesse offrire la certa soluzione di qualsiasi complesso e dirompente problema poiché «infatti tutti problemi che dipendono dal ragionamento verrebbero affrontati tramite la trasposizione di caratteri e una sorta di calcolo...E se qualcuno mettesse in dubbio i miei risultati, gli direi: "Calcoliamo, signore", di modo che, ricorrendo a penna e inchiostro, risolveremmo la questione in breve tempo
Il motivo per il quale Cartesio studia il suono è quello di comprendere in maniera più ampia come la musica riesca a commuoverci. Egli assume di poter capire tale proprietà dall'esame delle caratteristiche fondamentali che rendono commovente il suono, ovvero la durata e il tono. Egli è dell'opinione che una semplice analisi matematica della consonanza possa fornirci le nozioni fondamentali sul modo di produrre il suono e quindi sulla natura della musica. Cartesio sviluppa l'idea che la dolcezza delle consonanze dipende dalla frequenza con cui i battiti prodotti dai corpi sonori coincidono a intervalli regolari. Tuttavia egli sostiene che la teoria matematica non può fornire un criterio di qualità estetica, criterio che dipende esclusivamente dai gusti dell'ascoltatore.

IL DISCORSO SUL METODO
Il Discorso sul metodo è la prima opera pubblicata da Cartesio in forma anonima e in francese nel 1637 a Leida congiuntamente a tre saggi scientifici La diottrica, Le meteore, La geometria, dei quali costituisce la prefazione. Il discorso è quindi da considerarsi come «un tutt'uno con i saggi». Il titolo originale prova questo intento di unitarietà dell'opera: "Discours de la méthode pour bien conduire sa raison, et chercher la verité dans les sciences Plus la Dioptrique, les Meteores, et la Geometrie qui sont des essais de cete Methode" (Discorso sul metodo per un retto uso della propria ragione e per la ricerca della verità nelle scienze più la diottrica, le meteore e la geometria che sono saggi di questo metodo.) L'argomento dell'opera è indicato dallo stesso Cartesio:
«Se questo discorso sembra troppo lungo per essere letto tutto in una volta, lo si potrà dividere in sei parti. E si troveranno, nella prima, diverse considerazioni sulle scienze. Nella seconda, le principali regole del metodo che l'autore ha cercato. Nella terza, qualche regola della morale ch'egli ha tratto da questo metodo. Nella quarta, gli argomenti con i quali prova l'esistenza di Dio e dell'anima dell'uomo, che sono i fondamenti della sua metafisica. Nella quinta, la serie delle questioni di fisica che ha esaminato, in particolare la spiegazione del movimento del cuore e di qualche altra difficoltà della medicina e, ancora, la differenza tra l'anima nostra e quella dei bruti. Nell'ultima, le cose ch'egli crede siano richieste per andare avanti nello studio della natura più di quanto si è fatto, e i motivi che lo hanno indotto a scrivere
Cartesio ha fatto quasi un percorso socratico, perché dopo tutti i suoi studi non ha potuto concludere altro che sa di non sapere: «Mi trovai intricato in tanti dubbi ed errori, che mi sembrava di avere tratto nel tentativo di istruirmi un unico utile: la crescente scoperta della mia ignoranza».
Quindi racconta che non è soddisfatto della formazione culturale che ha ricevuto, eppure ha compiuto i suoi studi in quello che era ritenuto il miglior collegio della Francia, quello di La Flèche, tenuto dai padri gesuiti; ma ha l'impressione di aver ricevuto una cultura prevalentemente astratta che non gli ha dato delle certezze né il modo di risolvere i problemi della vita: «Mi si era fatto credere che con lo studio avrei acquistato una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla vita».
Prova quindi a viaggiare nel "gran libro del mondo" per trovare dei principi universali atti a risolvere i problemi pratici dell'esistenza. E questo lo farà stando a diretto contatto con gli uomini, con l'esperienza dei fatti, quella per cui se si sbaglia si paga sulla propria pelle, al contrario dello studioso che può elaborare le sue speculazioni astratte non rischiando nulla se poi queste si rivelino errate come accade per colui che «chiuso nel suo studio, sta attorno a speculazioni di nessun effetto pratico, salvo quello forse, di renderlo tanto più vanitoso quanto più esse sono lontane dal senso comune, e quanto più ingegno e artificio egli ha dovuto impiegare per farle apparire verosimili». Vuole allora trovare non solo un metodo teoretico che serva a distinguere il vero dal falso, ma anche un metodo pratico che dia concreti vantaggi. Concezione questa che rappresenta un punto di contatto con la cultura rinascimentale caratterizzata dalla operosità del sapere. In Cartesio si può dire confluiscono i risultati dell'Umanesimo, che esalta l'individuo, e del Rinascimento dove l'uomo svela i segreti della natura che modifica a suo piacimento.

«Appena l'età mi permise di uscire dalla tutela dei miei precettori, abbandonai interamente lo studio, e risolsi di non cercare altra scienza fuori di quella che potevo trovare in me stesso e nel gran libro del mondo.» Il senso comune, la capacità di orientarsi e risolvere empiricamente le difficoltà della vita, dicono di averlo tutti e anche quelli che non si accontentano mai dicono però che di buon senso ne hanno molto. Buon senso o ragione, capacità di distinguere il vero dal falso tutti i popoli conosciuti nei suoi viaggi dicono di possederli ma Cartesio si accorge che non tutti usano il buon senso allo stesso modo, anzi presso alcuni i principi teorici che sono considerati validi per la pratica, da altri popoli sono stimati non adatti per risolvere i problemi concreti della vita. Allora, dice Cartesio, «Presi la decisione di studiare me stesso [...] e ci riuscii molto meglio, mi pare, che se non mi fossi mai allontanato dal mio paese e dai miei libri», precisando che «ormai, piuttosto, è giunto il momento, senza frapporre ulteriori indugi, poiché la vecchiaia sta avanzando, di ricercare questi principi validi per tutti all'interno di me stesso».
«Ma poiché questa intrapresa mi sembrava essere grandissima, ho atteso di aver raggiunto un'età che fosse così matura che non potessi sperarne un'altra dopo di essa [...] Ora dunque che il mio spirito è libero di ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine mi applicherò seriamente e con libertà a distruggere generalmente tutte le mie antiche opinioni.»
«Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti esse sono tutte interconnesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra. Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l'intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più profonde di quanto essi stessi possano attendersi.»
Tutti gli uomini nascono con lo stesso strumento: la ragione "lume naturale", che è per natura uguale per tutti: però se tutti gli uomini dicono di avere la stessa ragione perché alcuni sbagliano e altri no? La ragione caratterizza tutti gli esseri umani, quindi il fatto che alcuni non sbaglino non dipende dal fatto che hanno più buonsenso di altri, ma dall'utilizzo del metodo giusto. «Quanto a me, non ho mai preteso che il mio ingegno fosse in qualcosa più perfetto di quello comune; anzi ho spesso desiderato di avere il pensiero così pronto, l'immaginazione così netta e distinta, la memoria così capace o anche così presente, com'è in altri. E non conosco altre qualità che servano a rendere perfetto l'ingegno; perché quanto alla ragione o discernimento, che è la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dai bruti, credo che essa sia tutta intera in ciascuno di noi [...] Ma penso, e non esito a dirlo, di avere avuto molta fortuna per essermi ritrovato fin da giovane su una strada che mi ha condotto a riflessioni e massime da cui ho forgiato un metodo, col quale mi sembra di poter aumentare per gradi la mia conoscenza, e portarla a poco a poco al punto più alto che le consentono la mediocrità del mio ingegno e la breve durata della mia vita.»
Questi uomini quindi che non sbagliano non hanno una migliore capacità razionale rispetto agli altri, anzi, dice Cartesio, è talvolta peggiore, ma la loro ragione ha trovato un metodo che funziona e che potrebbe valere per tutti come per lui. Potrebbe valere, ma di questo non c'è certezza, perché pur essendo lo strumento lo stesso (la ragione), pur avendo lo stesso metodo, poi bisogna vedere come lo si usa.
Nel "Discorso sul metodo" vediamo uno strano modo di procedere: Cartesio infatti, prima enuncia le regole del metodo poi le mette in discussione; sembrerebbe più logico che prima avesse discusso e analizzato e poi enunciato le regole. Egli invece fa il contrario: questo perché egli ha iniziato dall'analisi di problemi di geometria e fisica e ha scoperto che è possibile un'interpretazione matematica sia dell'una che dell'altra; cosicché due scienze che erano separate ora sono diventate un'unica scienza: cioè tutta la quantità discreta, discontinua, la fisica; e tutta la quantità continua, la geometria, sono state unificate dall'interpretazione matematica. Allora è proprio questo l'inventum mirabile, la scoperta meravigliosa e che cioè siamo di fronte a un processo di unificazione della scienza e questa scienza unica sembrerebbe essere la matematica. Allora io conosco le regole del metodo matematico perché le ho usate e mi sono state utili, però potrebbe darsi che queste regole siano in effetti regole che appartengono non tanto alla matematica, non soltanto a lei, ma ad una scienza assoluta di cui la stessa matematica fa parte. Ma come farò a sapere se questa mia intuizione è giusta? Dovrò mettere alla prova queste regole, le dovrò investire con un dubbio assoluto e non semplicemente matematico, e se ne escono fuori intatte vorrà dire che esse sono le regole della scienza unica, assoluta che avevo intuito. Cioè di una scienza che va oltre la matematica e a cui posso riportare ogni e qualsiasi tipo di realtà. Così attraverso la matematica ho ricavato delle regole che non sono solamente valide per la matematica, come credeva Galilei con il suo metodo sperimentale, ma che potrebbero costituire le regole del metodo di una scienza unica. Così Cartesio pensa di avere intuito l'esistenza di una scienza assoluta che vada oltre la scienza matematica. Ma quale sarà la strada per arrivare alla verifica di queste regole?
Le regole del metodo matematico
Le regole dunque, trovate operando matematicamente sono queste:
- L'evidenza: «Il primo era di non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio». Di non prendere mai niente per vero che non conoscessi essere tale per evidenza cioè basta che ci sia il minimo dubbio sull'oggetto sensibile che ho di fronte o sull'idea nella mia mente per considerarli entrambi falsi; di evitare la precipitazione e la prevenzione, cioè evitare di formarmi idee in modo prevenuto, vale a dire accettare idee già formulate. L'idea sarà invece senz'altro vera quando è chiara e distinta. Chiara, quando è presente e manifesta ad uno spirito attento, distinta, quando è precisa nei suoi contorni, che non siano cioè presenti in essa elementi che possano appartenere ad altre idee.
- L'analisi: «Il secondo, di dividere ognuna delle difficoltà sotto esame nel maggior numero di parti possibile, e per quanto fosse necessario per un'adeguata soluzione» . Dividere il problema in parti semplici, ciò che sto esaminando non deve essere studiato nella sua totalità perché altrimenti ci si perde nella sua complessità ma va analizzato nelle sue singole parti: dividendolo per quanto è necessario senza però frantumarlo in troppe parti.
- La sintesi: «Il terzo, di condurre i miei pensieri in un ordine tale che, cominciando con oggetti semplici e facili da conoscere, potessi salire poco alla volta, e come per gradini, alla conoscenza di oggetti più complessi; assegnando nel pensiero un certo ordine anche a quegli oggetti che nella loro natura non stanno in una relazione di antecedenza e conseguenza.» Diviso per quanto è necessario il problema con l'analisi, usando la ragione bisognerà fare poi il percorso inverso, rimettere assieme le parti del problema da quelle più semplici a quelle più complicate.
- L'enumerazione (controllo dell'analisi) e la revisione (controllo della sintesi): «E per ultimo, di fare in ogni caso delle enumerazioni così complete, e delle sintesi così generali, da poter essere sicuro di non aver tralasciato nulla.» Non basta con la sintesi aver ricomposto il problema iniziale ora risolto, ma bisogna controllare che durante l'analisi non si sia trascurato alcun elemento e infine la revisione, il controllo della sintesi: solo questa assicura che il risultato ottenuto sia valido.

Da questo punto Cartesio introdurrà il dubbio assoluto che mina alle fondamenta tutto il sapere; ma poiché sulla teoria si fonda la pratica se non c'è più un sapere sicuro non ci sarà neppure una morale sicura: quindi la necessità, sino a quando non sarà ricostruito l'edificio del sapere, di costruirsi un riparo, un alloggio provvisorio e questo sarà appunto la morale provvisoria. La ragione cioè lo obbliga, introducendo il dubbio assoluto a sospendere tutti i suoi giudizi ma questo significherebbe rinunciare anche alla morale, perciò deve costruire una morale provvisoria le cui regole deduce dall'istruzione gesuitica ricevuta:
- «obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, osservando con fermezza la religione nella quale Dio mi aveva fatta la grazia di essere stato educato». Ispirare il proprio comportamento al modo di agire delle persone di più buon senso, più assennate, poiché, sostiene Cartesio quello che più conta sono le azioni e non le parole;
- sui problemi pratici più immediati, evitare gli eccessi e seguire la strada di mezzo, anche se non si è molto convinti.
- risolutezza nelle azioni, una volta decisa una strada percorrerla sino in fondo altrimenti si rischia di fare come chi si è perso e indeciso gira su sé stesso.
- quando infine si vede che le cose non vanno come uno desidera che vadano, allora, piuttosto che tentare di cambiare il mondo, conviene cambiare se stessi.
Cartesio dunque, sinora ha proceduto nella strada della conoscenza prendendo per vero ciò di cui non era certo che fosse tale, costruendo il suo sapere su mattoni che si incrinano e si sfaldano. Bisogna ricominciare tutto da capo. Ed ormai non ha più tempo per rimandare quest'impresa, se ritardasse ancora rischierebbe di non condurla a termine. Se passasse in rassegna tutte le conoscenze che ha, e di cui dubita, e quindi iniziasse a distruggere tutte le conoscenze, non solo quelle che sono chiaramente false, ma anche quelle che forse non lo sono, di cui cioè si possa dubitare che lo siano, questo sarebbe un compito senza fine: ma, siccome se sono falsi i primi principi, è falso tutto il sapere che deriva da quelli, Cartesio minerà dalle fondamenta tutto l'edificio del sapere con il dubbio assoluto.
Dal dubbio iperbolico alla certezza assoluta
La prima base su cui si fonda il sapere è la conoscenza sensibile: a volte questa non gli ha sempre dato la verità riguardo alle cose lontane per cui basta dire che se lo ha ingannato una volta potrebbe continuare a farlo: quindi, non si può accettare la conoscenza sensibile delle cose lontane poiché è dubitabile. Ma c'è una conoscenza sensibile delle cose vicine, quella più immediata, come quella del mio stesso corpo che sarebbe difficile da mettere in dubbio a meno che non si sia pazzi. «E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che , forse, non mi paragoni a quegli insensati, il cervello dei quali è talmente turbato e offuscato dai neri vapori della bile, che essi asseriscono costantemente di essere dei re mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti di oro e di porpora mentre son nudi affatto; o s'immaginano di essere delle brocche o di avere un corpo di vetro.» Ma quante volte sognando ho creduto di avere la certezza sensibile del mio corpo, e il tutto invece, non era realtà ma sogno? Quindi non possiamo distinguere nettamente il sogno dalla veglia, perché anche quando sogniamo possiamo avere una sensazione forte del nostro corpo. Quindi si può dubitare anche della conoscenza sensibile più vicina. In effetti tra sogno e veglia ci sarebbe una differenza: nella veglia è tutto nitido, mentre nel sogno tutto appare sbiadito e confuso. Potrei dire che nel sogno non c'è evidenza e quindi ritenerlo falso: ma il criterio dell'evidenza è valido ancora solo matematicamente e quindi non posso usarlo anche per questo caso. Dovrò aspettare che le regole del metodo superino il dubbio assoluto: il che ancora non è. L'ultima ipotesi del sogno ha messo fuori gioco la conoscenza sensibile. Ma come potrei dubitare che due più due facciano quattro? Il dubbio non sembra possibile sulle conoscenze matematiche. Ma ora si introduce il dubbio iperbolico, un dubbio che, come avviene per l'iperbole, si spinge all'infinito. Potrebbe esserci un genio maligno che si diverte ad ingannarmi, che mi faccia apparire vero ciò che è falso e viceversa. Il genio maligno però può ingannarmi su tutto meno sul fatto che
- io dubito che ci sia lui che mi inganna su tutto,
- e poiché l'azione del dubitare rientra in quella del pensare,
- questo vuol dire che se io dubito, penso
- e il pensare appartiene a un corpo che sono io stesso: cogito ergo sum.
La verità del cogito ergo sum è evidente : e l'evidenza era la prima regola del metodo da cui derivavano le altre regole: quindi tutte le regole del metodo sono valide di una validità assoluta perché sono uscite indenni dal dubbio assoluto. Quindi il metodo e le regole sono valide non solo per la matematica, ma appartengono a quella scienza assoluta di cui Cartesio aveva ipotizzato l'esistenza all'inizio della sua dimostrazione. Cartesio ha dunque dimostrato che nel cogito ergo sum c'è una identità di conoscente e conosciuto, cioè il fatto che io penso che sono ingannato coincide con l'io pensato che viene ingannato, c'è cioè una perfetta identità tra l'io pensante e l'io pensato e quindi il dubbio scettico che dubitava di tutto meno del pensiero, dubitava che all'idea corrispondesse la realtà, la cosa pensata, è stato definitivamente sconfitto. Cartesio ha una volta per tutte dimostrato che quando si ha un'idea evidente questa corrisponderà necessariamente alla realtà: appunto come accade con il cogito ergo sum. «Bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l'urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia.»
I risultati del cogito
«Svegli o addormentati, non dobbiamo mai lasciarci persuadere se non dall'evidenza della nostra ragione.»
- il criterio dell'evidenza;
- la sconfitta del dubbio scettico:
- la nascita del pensiero moderno: il pensiero è valido, vero, quando, essendo evidente, trova corrispondenza con la realtà.

L'impossibilità dell'errore
Una volta in possesso del metodo Cartesio afferma che l'errore non potrà mai derivare dal pensiero, ma dalla intrusione della volontà nel pensiero: quando il pensiero è evidente è talmente perfetto che non può sbagliare, ma se c'è un errore ciò dipende dalla volontà che ha bloccato il pensiero introducendo un elemento estraneo al pensiero stesso. La volontà che si intromette nel pensiero ci spinge a dare il nostro assenso ad un'idea che non era evidente ma confusa. L'intromissione della volontà nel pensiero non significa che l'errore è volontario; nessuno sbaglia volontariamente, ma la volontà ci spinge ad affermare ciò che l'intelletto concepisce confusamente. L'errore sarebbe infine un'ulteriore prova del fatto che l'uomo è dotato di libero arbitrio, di scegliere cioè se debba o non debba dare il suo assenso alla volontà, quindi l'uomo ha la libertà di sbagliare così come quella di non sbagliare.
Ma se il genio maligno non mi può più ingannare sul pensare potrebbe continuare a farlo sul contenuto del pensiero. Secondo Benedetto Croce qui Cartesio commette un errore linguistico. Egli crede che il pensare possa essere distinto dalle idee che il pensiero pensa. Ma questa distinzione è puramente nominale, verbale, perché in effetti non esiste pensare senza idee né idee senza pensare. Pensare è il complesso delle idee: ciò che esiste sono sempre e soltanto le idee.

Le prove dell'esistenza di Dio
«Se non sapessimo che quanto vi è in noi di reale e vero viene da un essere perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le nostre idee, non avremmo nessuna ragione di essere certi che posseggono la perfezione di essere vere.» Per Cartesio dunque il genio potrebbe continuare l'inganno sulle idee, di cui egli distingue tre categorie: le idee "innate" che sono quelle sempre presenti dov'è presente il pensiero. Questo tipo di innatismo è virtuale, cioè - - le idee innate ci sono veramente quando c'è la possibilità del pensiero di pensarle (il feto non ha idee innate);
- le idee "avventizie" sono quelle delle cose esterne, che vengono dal di fuori (ad ventum);
- le idee "fittizie" quelle delle cose inventate, che noi stessi ci formiamo.
Su tutte queste idee il genio maligno potrebbe continuare a ingannare; se si riesce però a dimostrare che non esiste un genio maligno ma, al contrario, che c'è un Dio perfetto, quindi buono, e quindi veridico, che dice la verità, potrò essere sicuro che non solo il pensare ma anche il contenuto del pensare, le idee, siano vere. Qui Cartesio ripropone argomentazioni già fatte in passato sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio ma con una nuova validità: baserà la dimostrazione sulle regole del metodo:
- Prima prova: nel pensiero vediamo che le idee degli uomini non hanno niente di perfetto, tra queste idee imperfette, l'uomo ne scopre una perfetta che è l'idea di Dio; non posso credere che sia io la causa di questa idea, perché io sono causa di imperfezioni, allora questa idea perfetta me l'ha data un Dio perfetto: solo così l'idea risulta adeguata alla causa.
- Seconda prova: partendo dalla considerazione dell'esistente, io sono finito e imperfetto e ciò è dimostrato dal fatto che dubito. Se fossi io la causa di me stesso mi sarei date tutte le perfezioni contenute nell'idea di Dio, che possiedo. Nella mia mente cioè io possiedo un'idea di perfezione, che è l'idea di Dio: se mi fossi creato da solo avrei potuto crearmi secondo questo modello di perfezione, ma se io non sono come quel modello, questo vuol dire che non mi sono creato io, ma mi ha creato Dio che mi ha fatto finito e imperfetto pur dandomi l'idea innata, infinita e perfetta di Dio.
- Terza prova: si ripropone la prova ontologica di Sant'Anselmo: cioè se Dio è veramente un essere perfetto non può mancare di una caratteristica essenziale alla sua perfezione: quella dell'esistenza. L'essenza infinita e perfetta implica, coincide, racchiude in sé, l'esistenza.
Secondo alcuni interpreti la dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio non sarebbe valida; nel ragionamento di Cartesio vi sarebbe qualcosa che contraddice la logica, un circolo vizioso. Infatti:
- (A) l'idea perfetta di Dio è vera perché è chiara e distinta (regola dell'evidenza)
- (B) quindi esiste un Dio perfetto e veridico.
Partendo dall'idea di Dio che è perfetta ed è vera perché chiara e distinta (A) ha dimostrato l'esistenza di un Dio veridico (B) che conferma che non esiste il genio maligno. Quindi (B) è giustificato da (A)
- Ma poi l'esistenza del Dio perfetto (B)
conferma che il criterio del pensiero chiaro e distinto, evidente (A) è vero.
- Quindi prima la premessa (A) dimostra la conclusione (B) e poi la stessa conclusione (B) giustifica la premessa (A).
Il cogito ergo sum di Cartesio introduceva la necessità che il pensiero chiaro e distinto, evidente, trovasse la sua corrispondenza nella realtà. Solo questo assicurava che si trattasse di vera razionalità e soltanto questo permetteva di superare il cosiddetto dubbio scettico che sosteneva di essere certo del proprio pensiero (come si può dubitare di sé stessi?) ma dubitava appunto che al pensiero corrispondesse la realtà che infatti si acquisisce attraverso i sensi che ce ne danno una falsa visione (come avevano insegnato gli antichi sofisti come Protagora).
Ora il criterio dell'evidenza, il punto di partenza del metodo cartesiano, ha sconfitto sì il dubbio scettico ma ha fatto nascere la necessità dell'esistenza di due mondi, quello del pensiero (cogito) e quello della realtà (sum). E ciascuno di questi due mondi deve necessariamente far capo a una sostanza. Ma con Cartesio le sostanze sono due: la res cogitans, il pensiero, e la res extensa, la realtà.
Questa si può intendere come una incoerenza: la sostanza è una e non può essere altro che una.
Cartesio pensa di superare questa difficoltà sostenendo che in effetti la sostanza è veramente unica: essa è Dio, creatore sia della realtà che del pensiero. Insomma la "res cogitans" e la "res extensa" hanno un denominatore comune che è Dio, di cui Cartesio si è premurato di dimostrarne razionalmente l'esistenza, incappando però nel "circolo vizioso".
Si riapre allora inevitabilmente il dibattito sulla sostanza, che affondava le sue radici nell'origine stessa della filosofia, negli antichi filosofi greci della natura: un alternarsi di soluzioni metafisiche del problema della sostanza che durerà per tutto il XVII secolo passando attraverso Thomas Hobbes, Baruch Spinoza, Gottfried Wilhelm von Leibniz sino alla dissoluzione della questione della sostanza da parte del pensiero empirista, specialmente da parte di John Locke.

 

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Eugenio Caruso - 13 -04 - 2021

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