Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.
Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.
LIBRO XI
RIASSUNTO
Enea fa preparare il corteo funebre che dovrà scortare il corpo di Pallante nella sua città e rivolge al giovane meste parole d’addio. La notizia della morte di Pallante giunge al padre Evandro, che si rammarica di non essere morto prima del figlio. Il vecchio re dell’Arcadia si consola però pensando alla gloria di Pallante e alla vendetta che ne farà Enea. Intanto a Laurento, la città dei Latini, serpeggia il malcontento contro Turno, fomentato in particolare da Drance. Turno è però appoggiato dalla regina Amata e da una parte del popolo. Gli ambasciatori inviati presso il greco Diomede, per chiedere il suo aiuto contro Enea, portano una risposta negativa Diomede ha già sofferto molto nella guerra contro Troia.Il re Latino propone allora di fare un accordo con Enea. Anche Drance appoggia la proposta del re e rivolge a Turno le peggiori accuse, compresa quella di essere scappato dal campo di battaglia. Turno risponde rivendicando il suo valore e sostenendo che le sorti della guerra sono ancora aperte. Arriva intanto la notizia che Enea sta marciando contro la città. Il consiglio si scioglie mentre Turno si appresta a preparare la difesa. Lo raggiunge Camilla, la regina dei Volsci. Essa si offre per affrontare Enea, proponendo a Turno di restare a difendere le mura di Laurento. Turno ammira il valore della giovane amazzone e le propone di affrontare la cavalleria etrusca, insieme a Messapo e ai cavalieri latini, mentre riserva per sé il compito di tendere un’imboscata alla fanteria guidata da Enea. Diana prevede con dolore l’imminente fine di Camilla. Chiama allora Opi, una delle sue ninfe, e le narra la storia di Camilla. Suo padre Mètabo, dispotico tiranno di Priverno, fuggì dalla città per una rivolta contro di lui, portando con sé la figlia Camilla ancora bambina. Giunti al fiume Amaseno in piena, per riuscire ad attraversarlo, legò la bimba a un’asta e la scagliò oltre la corrente, consacrandola a Diana. La bambina si salvò, crebbe tra i boschi e divenne presto un’abile cacciatrice, rifiutando i lavori tipicamente femminili e le proposte di matrimonio. Per questo essa è cara a Diana. La dea invia sulla terra Opi per vendicarla, sapendo che presto sarà uccisa. Segue lo scontro tra le due cavallerie, con fasi alterne. Camilla si distingue per il suo eccezionale valore. Tra gli altri, cadono sotto i suoi colpi Liri e Pegaso (due giovani cavalieri troiani), il cacciatore etrusco Ornito e i due guerrieri giganti dei Teucri, Orsiloco e Bute. Giove spinge alla battaglia Tarconte, capo del contingente etrusco alleato di Enea. Tarconte rimprovera i suoi cavalieri di lasciarsi intimorire da una donna, e con il suo esempio li riconduce all’attacco. Arrunte, un guerriero mediocre, approfitta di un momento di distrazione di Camilla per ferirla di sorpresa: ella sta inseguendo un cavaliere troiano dall’abbigliamento sfarzoso e non si accorge perciò dell’arrivo della lancia di Arrunte, che la colpisce sotto il seno. Morendo, Camilla chiede alla sua compagna fidata, Acca, di portare a Turno un messaggio per difendere la città dall’imminente assalto troiano. La vendetta di Diana non si fa attendere e Arrunte muore colpito da una freccia scagliata da Opi per ordine della dea. La morte di Camilla provoca il ripiegamento dei Volsci e dei loro alleati, che si ritirano verso Laurento. Le porte della città si aprono per accogliere i fuggitivi, ma molti restano uccisi. Sulle mura della città si prepara la difesa, alla quale collaborano attivamente anche le donne. Acca porta a Turno il messaggio di Camilla; egli lascia il luogo in cui stava preparando un’imboscata a Enea e si dirige verso Laurento con le sue truppe. Enea può così marciare indisturbato in direzione della città. Ormai è calata la notte e i due eserciti si accampano l’uno di fronte all’altro.
TESTO
CELEBRAZIONE PER LA VITTORIA ED ESEQUIE DI PALLANTE
Passò la notte intanto, e già dal mare
sorgea l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,
l'officio e la pietà piú lo stringesse
a seppellire i suoi, quantunque offeso
da tante morti il cor funesto avesse;
tosto che 'l sole apparve, il vóto sciolse
de la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca de' rami una gran quercia eresse;
de l'armi la rinvolse, e de le spoglie
l'adornò di Mezenzio, e per trofeo
a te, gran Marte, dedicolla. In cima
l'elmo vi pose, e 'n su l'elmo il cimiero,
ancor di polve e d'atro sangue asperso.
L'aste d'intorno attraversate e rotte
stavan quai secchi rami; e 'l tronco in mezzo
sostenea la corazza che smagliata
e da dodici colpi era trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
al destr'omero il brando era attaccato,
che 'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,
che liete gli gridâr vittoria intorno,
in cotal guisa a confortar si diede:
«Compagni, il piú s'è fatto. A quel che resta
nulla temete. Ecco Mezenzio è morto
per le mie mani, e queste che vedete,
l'opime spoglie e le primizie sono
del superbo tiranno. Ora a le mura
ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi
s'accinga: ognun s'affidi, e si prometta
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
ché quando dagli augúri ne s'accenne
di muover campo, e che mestier ne sia
d'inalberar l'insegne, indugio alcuno
non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura
non ci ritardi. In questo mezzo a' morti
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
è sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell'anime chiare
che n'han col proprio sangue e con la vita
questa patria acquistata e questo impero,
d'ultimi doni ornate. E primamente
al mesto Evandro il figlio si rimandi,
che, di virtú maturo e d'anni acerbo,
cosí n'ha morte indegnamente estinto».
Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la magione, u' di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello d'armi; e poscia per compagno
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne d'Ilio, sí com'era usanza,
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e 'l bianco volto,
e l'aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val s'amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non fec'io queste promesse allora
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e d'aspra gente, avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vóti e preci e doni
per la nostra salute, e vanamente
vittoria s'impromette. E noi con vana
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè! d'ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no 'l vedrai già di vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,
ordine diè che 'l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e d'Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie, allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e pur da la sua madre.
punto di cibo o di vigor non ave.
Enea due prezïose vesti intanto,
l'una d'òr fino e l'altra di scarlatto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l'una indosso
gli pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch'era additta al foco.
De le prede oltre a ciò di Laürento
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar l'armi, i cavalli e l'altre spoglie
tolte a' nimici. Gli fa gir legati
con le man dietro i destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti a' duci loro
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli occisi e de' vinti. Il vecchio Acete
che, sí com'era afflitto e d'anni grave,
gli era appresso condotto, or con le pugna
si battea 'l petto, ed or con l'ugna il volto
si lacerava, e tra la polve e 'l fango
si volgea tutto. Ivano i carri aspersi
del sangue de' Latini, iva lugúbre,
e d'ornamenti ignudo, Eto, il piú fido
suo caval da battaglia, che gemendo
in guisa umana e lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
e gli Arcadi, con l'armi e con l'insegne
rivolte a terra. Or poi ch'oltrepassata
con quest'ordine fu la pompa tutta,
Enea fermossi, e verso il morto amico
ad alta voce sospirando disse:
«Noi quinci ad altre lagrime chiamati
dal medesimo fato, altre battaglie
imprenderemo. E tu, magno Pallante,
vattene in pace, e con eterna gloria
godi eterno riposo». Indi partendo
vèr l'alte mura, al campo si ritrasse.
ENEA PARLA AI LATINI
Eran nel campo già co' rami avanti
di pacifera oliva ambasciatori
de la città latina a lui venuti,
che tregua a' vivi e sepoltura a' morti,
pregando, gli mostrâr che piú co' vinti
né co' morti è contrasto, e che Latino
gli era d'ospizio amico, e che chiamato
l'avea genero in prima. Il buon Troiano
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che di grazia eran degni, incontinente
grazïoso mostrossi; e da vantaggio
cosí lor disse: «E qual indegna sorte
contra me, miei Latini, in tanta guerra
cosí v'intrica? Che pur vostro amico
son qui venuto: né venuto ancora
vi sarei, se da' fati e dagli dèi
mandato io non vi fossi. E non pur pace,
siccome voi chiedete, io vi concedo
per color che son morti, ma co' vivi
ve l'offro, e la vi chieggo. E la mia guerra
non è con voi; ma 'l vostro re s'è tolto
da l'amicizia mia: s'è confidato
piú ne l'armi di Turno, e Turno ancora
meglio e piú giustamente in ciò farebbe,
s'a questa guerra sol con suo periglio
ponesse fine. E poiché si dispose
di cacciarmi d'Italia, il suo dovere
fôra stato che meco, e con quest'armi
difinita l'avesse. E saria visso
cui la sua propria destra, e dio concesso
piú vita avesse; e i vostri cittadini
non sarian morti. Or poiché morti sono,
io me ne dolgo, e voi gli seppellite».
Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti
i latini oratori, e l'un con l'altro
si guardarono in volto. Indi il piú vecchio,
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
per sua natura e per sua colpa in ira,
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
«O di fama e piú d'arme eccelso e grande
troiano eroe, qual mai fia nostra lode
che 'l tuo gran merto agguagli? e di che prima
ti loderemo? ch'io non veggio quale
in te maggior si mostri, o la giustizia,
o la gloria de l'armi. A questa tanta
grazia che tu ne fai, grati saremo:
rapporto ne faremo; e s'al consiglio
nostro è fortuna amica, amico ancora
ti fia Latino. E cerchisi d'altronde
Turno altra lega. A noi co' sassi in collo
gioverà di trovarne a fondar vosco
questa vostra fatal novella Troia».
Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dí commercio e pace
fur tra l'un oste e l'altro. E senza offesa
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor diletto andaro.
Allor sonare accette e strider carri
per tutto udissi. In ogni parte a terra
ne gîro i cerri e gli orni e gli alti pini
e gli odorati cedri al funebre uso
svèlti, squarciati e tronchi. E già la Fama,
che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l'avea gridato, or d'ogni parte grida
che morto si riporta. In ciò commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d'atri panni
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da l'altra parte,
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e d'ululati
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.
Né forza, né consiglio, né decoro
fu ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò, l'abbracciò, stretto lo tenne
lunga fïata, e da l'angoscia oppresso
pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosí proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser guardingo e cauto mi dicesti
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev'io quanto ne l'armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de l'onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua gioventú! vane preghiere,
vóti miei non accetti e non intesi
da nïun dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito co' Troiani a questa guerra!
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe
me cosí riportato, e non Pallante.
Né per questo di voi, né de la lega,
né de l'ospizio vostro io mi rammarco,
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
questa sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perché tanta strage
io vedessi de' Volsci, e perché Lazio
fosse a' Teucri soggetto, in pace io soffro
che sia caduto. E piú compíto onore
non aresti da me, Pallante mio,
di questo che 'l pietoso e magno Enea
e i suoi magni Troiani e i toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
t'han procurato. Con sí gran trofei
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e de' vinti da te. Né fôra meno
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno, stato d'età pari il mio figlio,
e par de la persona e de le forze
che ne dan gli anni. Ma che piú trattengo
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo Pallante, è sol perché l'invitta
sua destra, come vede, al figlio mio
e a me deve Turno. E questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e 'l suo gran merto; ché per mio contento
no 'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare io piú che di portare io stesso
questa novella di Pallante a l'ombra».
ENEA PARLA AI LATINI di F. Bol
COMPIANTO PER I MORTI LATINI E TROIANI
Avea l'Aurora col suo lume intanto
il giorno e l'opre e le fatiche insieme
ricondotte a' mortali. Il padre Enea
e 'l buon Tarconte, ambi, in su 'l curvo lito
i cadaveri addotti, a' suoi ciascuno
com'era l'uso, un'alta pira eresse,
la compose e l'incese. E mentre il foco
di fumo e di caligine coverto
tenea l'aëre intorno, in ordinanza
tre volte, armati, a piè la circondaro,
e tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando, piangendo, e l'armi e 'l suolo
di lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrâr de le genti e de le tube
i dolorosi accenti. Altri gridando
le pire intorno, elmi, corazze e dardi
e ben guernite spade e freni e ruote
avventaron nel foco, e de' nemici
armi d'ogni maniera, arnesi e spoglie;
altri i lor propri doni, e degli occisi
medesmi vi gittâr l'aste infelici,
e gl'infelici scudi, ond'essi invano
s'eran difesi. A le cataste intorno
molti gran buoi, molti setosi porci,
molte fûr pecorelle occise ed arse.
A sí mesto spettacolo in sul lito
stavan altri piangendo, altri osservando
ciascuno i suoi piú cari, infin che 'l foco
gli consumasse. E questi l'ossa, e quelli
le ceneri accogliendo, il giorno tutto
in sí pietoso officio trapassaro:
né se ne tolser finché, spenti i fochi,
non s'acceser le stelle. In altra parte
i miseri Latini ai corpi loro
fêr cataste infinite. Altri sotterra
ne seppelliro; altri a le ville intorno,
ed altri a la città ne trasportaro.
E quei che senza numero confusi
giacean nel campo, senza onore a mucchi
furon combusti: onde i villaggi insieme
e le campagne di funesti incendi
lucean per tutto. E tre luci e tre notti
durâr gli afflitti amici e i dolorosi
parenti a ricercar le tiepid'ossa,
e ne l'urne riporle e ne' sepolcri.
Ma la confusïone e 'l pianto e 'l duolo
era ne la città per la piú parte,
e ne la reggia al re Latino avanti.
Qui le madri, le nuore, le sorelle
e i miseri pupilli, che de' padri,
de' figli, de' mariti e de' fratelli
erano in questa guerra orbi rimasi,
la guerra abbominavano e le nozze
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -
dicendo, - ei che d'Italia al regno aspira,
e le grandezze e i primi onori agogna,
con l'armi e col suo sangue le s'acquisti,
e non col nostro». In ciò Drance aggravando
vie piú le cose, come a Turno infesto,
attestando dicea che sol con Turno
volea briga il Troiano, e che sol esso
era a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri d'altro parere, altre ragioni
dicean per Turno: e 'l gran nome d'Amata
e 'l suo favore e di lui stesso il merto
con la fama de' suoi tanti trofei
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
che cosí si tumultua e si travaglia,
mesti sopravvenir gl'imbasciadori
ch'in Arpi a Dïomede avean mandati;
e riportar, che le fatiche e i passi
avean perduti: che né dono alcuno,
né promesse, né preci, né ragioni
furon bastanti ad impetrar soccorso
né da lui né da' suoi: ch'era d'altronde
di mestiero a' Latini avere altr'armi,
o trattar co' nemici accordo e pace.
DIOMEDE SCONSIGLIA I LATINI DI CONTINUARE LA GUERRA
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne fece il re Latino. E ben conobbe
che manifestamente Enea da' fati
era portato; e via piú manifesta
si vedea degli dèi l'ira davanti
in tanta che de' suoi negli occhi avea
strage recente. Il gran consiglio adunque,
e de' suoi primi, ne la regia corte
chiamar si fece. In un momento piene
ne fûr le strade; e di già tutti accolti
ne la gran sala, il re, di grado e d'anni
il primo, a tutti in mezzo, in non sereno
sembiante, comandò che primamente
i legati che d'Arpi eran tornati,
fossero uditi; ed a lor vòlto disse:
«Esponete per ordine il seguíto
de la vostra ambasciata, e la risposta
che ritratta n'avete». A tal precetto
tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,
cosí pria incominciò: «Noi dopo molti
superati pericoli e fatiche,
egregi cittadini, al campo argivo
ne la Puglia arrivammo; e Dïomede
vedemmo alfine; e quell'invitta destra
toccammo, ond'è 'l grand'Ilio arso e distrutto.
In Iapigia il trovammo a le radici
del gran monte Gargàno, ove fondava,
già vincitore, Argíripa, una terra
che dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
gli esponemmo la patria, il nome e 'l fatto
de la nostra imbasciata, e la cagione,
onde a lui venivamo. Il tutto udito,
cosí benignamente ne rispose:
"O fortunate genti, o di Saturno
felice regno, o degli antichi Ausoni
famosa terra! E quale iniqua sorte
da la vostra quïete or vi sottragge?
Qual consiglio, qual forza vi costringe
di nemicarvi e guerreggiar con gente
che non v'è nota? Noi quanti già fummo
col ferro a vïolar di Troia i campi
(non parlo degli strazi e de le stragi
di quei che vi rimasero, ché pieni
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
n'uscimmo con la vita, in ogni parte
siam poi giti del mondo tapinando,
con nefandi supplíci, e con atroci
morti pagando il fio, come d'un grave
e scellerato eccesso. E non ch'altrui,
Prïamo stesso a pietà mosso avrebbe
il fiero, che di noi s'è fatto, scempio.
Di Palla il sa la sfortunata stella;
sallo il vendicator Cafàreo monte
e gli euboïci scogli: il san di Proteo
le longinque colonne, insino a dove,
dopo quella milizia, andò ramingo
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi
ne vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi
ne lasciò Pirro. Idomeneo cacciato
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
condottier degli Argivi, il piede a pena
nel suo regno ripose, che del regno,
del letto e de la vita anco privato
fu da la scellerata sua consorte.
Né gli giovò che doma l'Asia e spento
l'uno adultero avesse; ché de l'altro
scherno e preda rimase. A me l'invidia
ha degli dèi di piú veder disdetto
la mia bella città di Calidóna,
e la mia cara e desïata donna.
Né di ciò sazi, orribili spaventi
mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi i miei compagni (o miseranda
lor pena!) van per l'aura e per gli scogli
di lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi sono i profitti e le speranze
ch'io fin qui ne ritraggo, da che, folle!
stringer contro a' celesti il ferro osai,
e che di Citerea la destra offesi.
Or ch'io di nuovo una tal pugna imprenda
testé con voi? No, no, ch'io co' Troiani,
dopo Troia espugnata, altra cagione
non ho di guerra; e de' passati mali
volentier mi dimentico, e dolore
ancor ne sento. E, quanto a' doni, andate,
riportateli vosco, e 'l magno Enea
ne presentate. E solo a me credete
del valor suo, che fui con esso a fronte
con l'armi in mano; e so di scudo e d'asta
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se due tali altri avea la terra idèa,
d'Ida fôra piuttosto ita la gente
ai danni de la Grecia; e 'l troian fato
piangerebb'ella. Enea sol con Ettorre
fu la cagion che tanto s'indugiasse
la ruina di Troia, e che diece anni
durammo a conquistarla. Ambedue questi
eran di cor, di forze e d'arme uguali,
ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che, comunque sia,
lega seco, amicizia e pace aggiate,
e l'incontro fuggiate e l'armi sue".
Questa è la sua risposta; e quinci avete,
ottimo re, qual sia di questa guerra
il suo parere e 'l nostro». A pena uditi
furo i legati, che bisbiglio e fremito
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
che di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora allor che fra gli opposti sassi
s'apre la strada, e gorgogliando cade,
e frange e rugghia, e le vicine ripe
ne risuonan d'intorno.
IL DISCORSO DEL RE LATINO
Or poiché un poco
restò 'l tumulto, e gli animi acquetârsi,
gli dèi prima invocando, un'altra volta
il re da l'alto seggio a dir riprese:
«Latini miei, lo mio parere e 'l meglio
sarebbe stato, che d'un tanto affare
si fosse prima consultato, e fermo
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando il nimico in su le porte avemo.
Una importuna e perigliosa guerra
s'è, cittadini, impresa, e per nimica
tolta una gente, che dal ciel discesa,
da' celesti e da' fati è qui mandata;
feroce, insuperabile, indefessa,
ne l'armi invitta, che né vinta ancora
cessa dal ferro. Se speranza alcuna
negli esterni soccorsi e ne l'aíta
aveste degli Etòli, ora del tutto
la deponete: e sia speme a se stesso
ciascun per sé. Ma noi per noi, che speme
e che possanza avemo? Ecco davanti
agli occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete la strettezza e la ruina
in che noi siamo. Né però ne 'ncolpo
alcun di voi. Tutto 'l valor s'è mostro
che mostrar si potea: con tutto 'l corpo,
e con quanto ha di forza il nostro regno
s'è combattuto. Or quale in tanto dubbio
sia la mia mente, udite. È nel mio stato
vicino al Tebro un territorio antico,
che in vèr l'occaso per lunghezza attinge
fin dove de' Sicani era il confine.
Dagli Rutuli è cólto e dagli Aurunci,
che i duri colli e i piú deserti paschi
ne tengon da l'un canto: a questo aggiungo
quella piaggia di pini e quella costa
de la montagna; e tutto è mio disegno
che si ceda a' Troiani e ch'amicizia,
accordo e patti e lega e leggi eguali
abbiam con essi; e qui, s'a qui fermarsi
sono o da' fati o dal desire indotti,
ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura
fondino a lor diletto. E s'altra parte
cercano e d'altre genti (se pur ponno
tôrsi da noi) quando di venti navi,
o di piú sovvenir ne gli bisogni,
su la stessa marina apparecchiata
è la materia. Essi de' legni il modo
e 'l numero diranno: e noi le selve,
la maestranza, i ferramenti e tutto
che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei de' primi
de la nostra città cento oratori
co' rami de la pace, col mandato
di contrattarla, co' presenti appresso
d'avorio e d'oro e col seggio e col manto
del nostro regno. Consultate or voi,
ed a l'afflitte e mal condotte cose
d'aíta provvedete e di soccorso».
ANCHE DRACE NON VUOLE PIU' FARE GUERRA AI TROIANI
Surse allor Drance, quei che già s'è detto
avversario di Turno. Era costui
del regno de' Latini un de' piú ricchi
e de' piú reputati cittadini:
di fazïon, di sèguito e di lingua
possente assai; ne le consulte avuto
di qualche stima; nel mestier de l'armi
codardo, anzi che no. La sua chiarezza
e 'l suo fasto venia da la sua madre
ch'era d'alto legnaggio. Il padre a pena
era noto a le genti. Or questo, infesto
a la gloria di Turno, asperso il core
d'amarezza e d'invidia, in questa guisa
il suo fatto aggravando, e l'ire altrui
irritando, parlò: «Chiaro, evidente
e necessario, ottimo re, n'è tanto
quel che tu ne consigli, che bisogno
d'altro non ha che di comune assenso.
Ognun vede, ognun sa quel che conviene
in sí dura fortuna: e nullo ardisce
pur d'aprir bocca. Libertate almeno
di parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta sua tracotanza e tanto orgoglio
chi co' suoi male avventurosi auspíci,
co' sinistri suoi modi (io pur dirollo,
benché d'armi e di morte mi minacci)
n'ha qui condotti, e per cui tanti duci,
tanta gente è perita, e tutta in pianto
questa cittade e questo regno è vòlto;
mentre ne la sua furia, o ne la fuga
confidando piuttosto, il troian campo
ha d'assalire osato, e fin nel cielo
posto ha con l'armi sue téma e scompiglio.
Solo un dono, signor, fra tanti doni
che si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;
né consentir che vïolenza altrui
tel proibisca. Da', buon padre, ancora
questa tua figlia a genero sí degno
e con sí degno maritaggio eterna
fa questa pace. E se 'l terrore è tanto
che s'ha di lui, da lui stesso impetriamo
grazia e licenza che la patria sua,
che 'l suo re prevaler si possa almeno
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu di tanta ruina autore e capo,
a che pur tante volte, a tanti strazi,
a tanti rischi, a manifesta morte
questi tuoi meschinelli cittadini
esponi indarno? e qual è ne la guerra
piú salute e speranza? A te noi tutti
pace, Turno, chiedemo, e de la pace
quel ch'è sol fermo e 'nviolabil pegno;
ed io prima di tutti, io cui tu fingi
che nimico ti sia (né tal mi curo
che tu mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente. Abbi pietà de' tuoi;
pon giú la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene. Assai di strage, assai di morti
s'è visto: assai ne son le genti afflitte;
vedovi i tetti e desolati i campi;
ma se l'onor ti muove, e se concepi
di te tanto in te stesso, e tanto agogni
o la donna o la dote, a che non osi
contro a chi te ne priva? A Turno adunque
regno col nostro sangue e regia moglie
procureremo: e noi vili alme, e turba
non sepolta e non pianta, a' cani in preda
giaceremo in su' campi? Or tu, tu stesso,
se tanto hai d'ardimento e di valore
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
a lui ti volgi, che ti sfida e chiama».
LA FURIA DI TURNO
Turno, ch'impetuoso e vïolento
era da sé, questo parlare udito,
alto un gemito trasse, e d'ira acceso
cosí proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance, allor che di mani è piú bisogno,
oprar la lingua; essere in corte il primo,
l'ultimo in campo. Ma non piú parole
in questo loco, ché già pieno troppo
ne l'hai; pur troppo grandi e troppo gonfie
l'avventi, e senza rischio or ch'i nemici
son lunge, e buone fosse e buone mura
ci son di mezzo, e non c'inonda il sangue.
Apri qui bocca al solito, e rintuona
con la facondia tua. Tu, che se' Drance,
me, che son Turno, imbelle e vile appella;
tu la cui dianzi sanguinosa destra
pieni i campi di morti, e pieni i colli
ha di trofei. Ma che non pruovi ancora
questa tua gran virtú? Forse, ch'avemo
a cercar de' nemici? Ecco d'intorno
ci sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?
Che badi? Ov'è la tua tanta prodezza?
sempre è nel vento, sempre è ne la fuga
de la lingua e de' piè? tu mi rinfacci
ch'io sia cacciato? tu, vituperoso,
di dirlo osasti? e chi meritamente
sarà che 'l dica? Oh! non s'è visto il Tebro
fatto gonfio da me del frigio sangue?
non s'è vista la casa e 'l seme tutto
spento d'Evandro, e gli Arcadi spogliati
d'armi e di vita? Io non fui già da Pandaro
cacciato, né da Bizia, né da mille
che in un dí vincitore a morte io diedi,
circondato da loro e cinto e chiuso
da le lor mura. Nulla è ne la guerra
piú salute o speranza: al teucro duce,
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose
fa' questo annunzio. E non tutto in soqquadro
por con tanta paura, e tanta stima
che fai de la prodezza e de le forze
d'una gente che già due volte è vinta;
e non tanto avvilir da l'altro canto
l'armi del re Latino. Ai Mirmidóni
son ora, al gran Dïomede, al grande Achille
i Teucri formidabili e tremendi;
e dal mar se ne torna per paura
l'Àufido indietro. E forse che non finge
temer di me, perché il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non piú per nulla
vo' che ne tema. Un'anima sí vile
non ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran padre, e 'l tuo parer discorro, e dico:
Se tu piú non t'affidi, e piú non credi
ne l'armi tue; s'abbandonati affatto
siam d'ogni parte; se una volta rotti,
siam per sempre perduti; e se fortuna,
varïando le veci, unqua non cangia,
signor, pace imploriamo; e l'armi in terra
gittando, a giunte mani accordo e vènia
impetriam dai nemici. Ancorché, quando
oh! del nostro valor punto in noi fosse!
sopra tutti felice, riposato,
e glorïoso spirito sarebbe
chi, per ciò non veder, morto si fosse!
Ma se le nostre forze ancor son verdi,
la nostra gioventú florida, intatta,
disposta e pronta a l'armi; e per sussidio
i popoli d'Italia e le cittadi
son con noi tutte; e s'a' nemici ancora
sanguinosa, dannosa e poco lieta
è questa gloria; ed han de' morti anch'essi
la parte loro; e la tempesta è pari
d'ambe le parti; a che nel primo intoppo
con tanto scorno, a noi stessi mancando,
gittarne a terra? a che tremare avanti
che la tromba si senta? A la giornata
il tempo stesso, il varïar de' casi,
l'industria, le vicende, il moto e 'l giuoco
potria de la fortuna in molte guise,
come suol l'altre cose, ancor le nostre,
cangiando, risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;
avrem Messapo; avremo il fortunato
Tolunnio; avrem tant'altri incliti duci
di tant'altre città. Né di men gloria,
né di minor virtú saranno i nostri
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la gran volsca virago, che n'addusse
di cavalieri e di caterve armate
sí bella gente. E se me solo appella
il nemico a battaglia, e se v'aggrada
che sol io gli risponda ed io sol osto
al ben comune, io solamente assumo
sopra me questa impresa. E già non credo
che le mie man sí la vittoria abborra,
che per tanta ch'io n'aggia, e speme e gioia,
accettar non la deggia. Androgli incontro
con l'animo, se fosse anco maggiore
del magno Achille, e come Achille, anch'egli
l'armi di Mongibello indosso avesse.
Io Turno, io che non punto a qual si fosse
mai degli antichi di valor non cedo,
questa mia vita stessa a voi, Latini,
ed a Latin mio suocero consacro
solennemente. Enea me solo invita;
l'accetto, il bramo e 'l prego, anzi che Drance,
s'ira è questa di dio, con la sua morte
la purghi, o che la gloria me ne tolga,
s'è pur gloria o vertute». In cotal guisa
consultando i Latini avean tra loro
dispareri e tenzoni. Usciti a campo
erano i Teucri intanto. Ed ecco un messo
venir volando, che la reggia tutta
e tutta la città pose in tumulto,
annunzïando che dal tosco fiume
già mosso de' Troiani e de' Tirreni
se ne venia l'esercito in battaglia
in vèr Laurento; e che di genti e d'armi
si vedean piene le campagne e i colli.
TURNO SI PREPARA ALLA GUERRA
Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene il volgo: ai valorosi
s'acceser l'ire. Trepidando ognuno
discorrea per le strade; arme fremea
la gioventú; dolenti e lagrimosi
i padri discordando, e chi per Turno
sentendo e chi per Drance, avean tra loro
vari bisbigli. E tutto il corpo insieme
facea de la città tale un trambusto,
e tal ne l'aura unitamente un suono,
qual è se spaventata esce d'un bosco
torma di rochi augelli, o qual talora
da le pescose rive di Padusa
van per gli stagni schiamazzando a schiere
turbati i cigni. In tale occasïone
gridava Turno: «Or questo è, padri, il tempo
di seder a consiglio: or consigliate
agiatamente: aggiate sopra tutto
cura a la pace, or ch'i nemici armati
ne son già sopra». E, cosí detto a pena,
saltò fuor de la reggia; e vòlto a torno:
«Arma, - disse, - tu, Vòluso, i tuoi Volsci,
e tu, Messapo, i rutuli cavalli.
Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
va tu con la tua gente a la muraglia
incontinente; e tu dispensa i tuoi
fra le porte e le torri. Ite voi meco,
che rimanete; e ciascuno armi i suoi».
Per tutta la città si va scorrendo
a le mura. A l'insegne, ai capitani
ognun s'adduce. I padri irresoluti
se n'escon dal consiglio. Il re turbato
si ritira, e si pente che non aggia
per sé, senza consulta, il frigio duce
per amico e per genero accettato.
Dansi tutti a munire, a cavar fosse,
tutti a somministrar chi sassi e travi,
e chi dardi e chi strali. E già la roca
tromba ne va per la città squillando
de la battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a l'ultimo periglio, al gran bisogno
corrono a la muraglia. E d'altra parte
da gran corteo di donne accompagnata
con doni e preci di Minerva al tempio
va la regina, ed ha Lavinia seco,
la vergine sua figlia, onde venuta
era tanta ruina: e di ciò mesta,
porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e d'odorati incensi
vaporando il delúbro, in flebil voce
pregano in su la soglia: «Armipotente
Tritonia, tu che puoi, la possa e l'armi
frangi al frigio ladrone, e di tua mano
anciso in su la porta me lo stendi».
Esso re Turno da la furia spinto
ricorre a l'armi; e di squamoso acciaro
e d'òr già tutto orribile e splendente,
cinto di brando, e sol del capo ignudo
lieto mostrossi, e di speranza altiero
di vedere il nemico. E 'n quella guisa
da la ròcca scendea che da' presepi
sciolto destriero esce ruzzando in campo,
o ch'amor di giumente, o che vaghezza
di verde prato, o pur desio lo tragga
del noto fiume; che sbuffando freme,
e ringhia e drizza il collo e squassa il crine.
La vergine Camilla
LA VERGINE CAMILLA
A l'uscir de la porta ecco davanti
gli si fa co' suoi volsci cavalieri
la vergine Camilla: e sí com'era
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che l'incontrò con tutti i suoi
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:
«Turno, se degnamente uom forte ardisce,
io mi rincoro, e ti prometto io sola
di gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana oste, e che primiera io tragga
di questa pugna e de' suoi rischi un saggio;
e tu qui co' pedoni a piè rimanti
a guardia de la terra». A tal proposta
Turno ne la terribile virago
gli occhi fissando: «O de l'Italia, - disse -
ornamento e sostegno, e di che lode,
e di che premio al tuo gran merto uguale
ristorar ti poss'io? Ma (poiché cosa
non è che la pareggi) abbi, famosa
guerriera, in grado ch'io con te comparta
questa fatica. Enea, come dal grido
avemo e da le spie fin qui ritratto,
spinte ha le schiere de' cavalli avanti
per batter la campagna: ed egli altronde
presa la via del monte, per alpestro
sentiero a la città di sopra al giogo
vien con l'altre sue genti. Il mio disegno
è fargli agguato, e collocarmi appresso
là, 've sopra la foce il doppio bosco
del curvo monte ambe le strade accoglie.
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti
nostri cavalli, i suoi nel piano assagli
a spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarà con te: saranvi de' Latini,
vi saran di Corace e di Catillo
le squadre tutte; e tu con essi il carco
prendi di comandarle». Indi esortando
parimente Messapo e gli altri duci
a la lor fazïone, egli a la sua
tostamente si volse. È tra due branche
del monte una vallea che d'ambi i lati
ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
a l'insidie de l'armi accomodati.
Ha ne l'imo una sèmita per mezzo
angusta, malagevole e scontorta
che d'ogn'intorno è da le ripe offesa.
In cima, in su l'uscita, è tra le selve
ascosa una pianura, con ridotti
acconci a ritirarsi, ed opportuni
a spingersi o dal destro o dal sinistro
lato, che si rincontri o che s'aspetti
nemica gente, o pur che di gran sassi
si tempesti di sopra. A questo loco,
di cui ben era pratico, in agguato
Turno si pose, e i suoi nimici attese.
Dïana intanto timorosa e mesta
favellando con Opi, una del coro
de le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
«Vedi a che perigliosa e mortal guerra
a morir se ne va la mia Camilla,
ne le nostr'armi ammaestrata invano.
E pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo.
Né questo è nuovo, o repentino amore.
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre
di lei, fu per invidia e per soverchia
potenza da Priverno, antica terra,
da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto,
che gli fece il suo popolo, fuggendo,
nel suo misero esiglio ebbe in campagna
questa sola bambina che, mutato
di Casmilla sua madre il nome in parte,
fu Camilla nomata. Andava il padre
con essa in braccio per gli monti errando
e per le selve, e de' nemici Volsci
sempre d'intorno avea l'insidie e l'armi.
Ecco un giorno assalito con la caccia
dietro, fuggendo, a l'Amasèno arriva.
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
e rapido spumando, infino al sommo
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;
tal che, per téma de l'amato peso
non s'arrischiando di passarlo a nuoto,
fermossi; e poiché a tutto ebbe pensato,
con un súbito avviso entro una scorza
di salvatico súvero rinchiuse
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo
tèlo, ch'avea per avventura in mano,
legolla acconciamente; e l'asta e lei
con la sua destra poderosa in alto
librando, a l'aura si rivolse, e disse:
"Alma latonia virgo, abitatrice
de le selve e de' monti, io padre stesso
questa mia sfortunata figlioletta
per ministra ti dedico e per serva.
Ecco ch'a te devota, a l'armi tue
accomandata, dal nimico in prima
sol per te la sottraggo. In te sperando
a l'aura la commetto; e tu per tua
prendila, te ne prego, e tua sia sempre".
Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,
oltre il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento
e 'l dardo ne fêr suono e fischio e rombo.
Mètabo, da la turba sopraggiunto
de' suoi nemici, a nuoto alfin gettossi
e salvo a l'altra riva si condusse.
Ivi d'un verde cespo, ove piantato
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse, e via fuggissi; e piú mai poscia
non fu da tetti o da cittadi accolto;
ché per natia fierezza a legge altrui
non si fôra unqua additto. Il tempo tutto
de la sua vita, di pastore in guisa,
menò per monti solitari ed ermi;
e per grotte e per dumi e per orrende
selve e tane di fere ebbe ricetto
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino latte, e balia una d'armento
ancor non doma e pavida giumenta.
Ne le tenere labbra il padre stesso
de la fera premea l'orride mamme;
né pria tenne de' piè salde le piante,
che d'arco, di faretra e di nodosi
dardi le mani e gli omeri gravolle.
Non d'òr le chiome, o di monile il collo,
né men di lunga, o di fregiata gonna
la ricoverse; ma di tigre un cuoio
le facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
e 'l primo studio fu lanciar di palo,
e trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora
facea strage di gru, d'oche e di cigni.
Molte la desiâr tirrene madri
per nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta, intemerata e pura e casta,
la sua verginità, l'amor de l'armi
sol ebbe in cale. Or mio fôra disio
che di questa milizia e de la pugna,
che presa ha co' Troiani e co' Tirreni,
fosse digiuna; per sí cara io l'aggio,
e tale or mi saria grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,
che per Lazio e per lei mal s'apparecchia.
Prendi quest'arco e prendi questa mia
stessa faretra, e di qui traggi il tèlo
per vendicarmi di qualunque ardito
sarà di vïolar quest'a me sacra
e devota virago, Italo, o Teucro
che sia. Poscia io verrò di nube involta
a provveder che 'l miserabil corpo
non sia d'armi spogliato, e che raccolto
sia ne la patria, e seppellito e pianto».
Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,
da' mortali occhi non veduta, a terra
lievemente calossi. I teucri intanto
e i toschi duci le lor genti avanti
spingendo, a la città s'avvicinaro.
Piena d'armi, d'insegne, di cavalli
e di schierati fanti e di squadroni
si vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane, giramenti, scorribande
di cavalieri: in secche selve i colli
parean conversi: ardea la terra e 'l cielo
di ferrigni splendori, e d'ogni parte
s'udian fremer cavalli e squillar trombe.
LA BATTAGLIA
Incontro a lor da l'altra parte usciro
il fier Messapo, i cavalier latini,
Corace col suo frate, e di Camilla
la bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia de le genti, e de' cavalli
il fremito maggiore. E già la massa
ristretta, e già vicine ambe le parti
a tiro d'asta, a fronte si fermaro
l'una de l'altra; e con le lance in resta,
con saette e con dardi incominciaro
primamente da lunge a salutarsi.
Poi di subite grida udito un tuono
al ciel levossi; e due contrari nembi
da la terra sorgendo, armi fioccaro
di neve in guisa, e coprîr d'ombra il sole.
Alfin da ciascun lato i destrier punti
andâr tutti con tutti a rincontrarsi.
Era Tirreno al fiero Aconte opposto
ne la battaglia; e questi primamente
s'urtaro, e per la furia e per la forza
de l'urto ambe le lance, ambi i cavalli,
e ambi i corpi infranti, stramazzati,
l'un da l'altro disgiunti, quai percossi
da fulmine o da macchine avventati,
caddero a terra. E pria ne l'aura Aconte
lasciò la vita. Conturbate e sparse
le schiere de' Latini, incontinente
con le targhe rivolte a tutta briglia
vèr le mura spronando in fuga andaro.
Gli seguiro i Troiani; e primo Asila
gli assalse e gli cacciò fin su le porte.
Qui fermi e rincorati alzan le grida,
volgon le teste, e si rifan lor sopra,
ch'eran lor contra. Cosí quando questi,
e quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano: in quella guisa ch'a vicenda
il mare or d'alto a riva i flutti increspa,
e ne l'ultima arena ondeggia e spuma;
or da la riva indietro se ne torna,
e le stess'onde, e la commossa ghiara
sorbendo e voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino a le mura; e i Rutuli due volte
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
mischiârsi ambe le schiere, e l'un con l'altro
vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi
si sentîr de' cadenti: allor si vide
il pian tutto di sangue, e tutto d'armi
e d'uomini coverto e di cavalli
feriti e morti. Orsíloco a rincontro
di Rèmolo trovossi; e non osando
di star seco a le mani, al suo cavallo
trasse del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.
Del colpo impazïente e per sé fiero
si scosse, s'avventò, col petto in alto
e con le zampe il corridor levossi,
e 'n su l'arena il cavalier distese.
Catillo Iola e 'l grande Erminio occise;
Erminio, che di corpo e d'armi e d'animo
era de' piú robusti, de' piú chiari
e de' piú riguardevoli guerrieri
de' Toschi tutti. Avea la chioma stessa
per sua celata; avea gli omeri ignudi
di ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio bersaglio. In su l'aperte spalle
Catillo il colse; e tremolando il tèlo
passogli il petto, e raddoppiogli il duolo.
Per tutto si fa sangue; in ogni parte
si tragge, si ferisce, si stramazza;
e chi cede e chi segue. In varie guise
ne van tutti a morir morte onorata.
LA MORTE DI CAMILLA
EROISMO E MORTE DI CAMILLA
In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da l'un de' lati infurïando esulta
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual Dïana
di sonora faretra e d'arco aurato
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,
saettando, ferite e morti avventa.
D'intorno ha per compagne e per guerriere
d'archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro
scelte da lei per sue degne ministre
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
de l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare Ippolita, o col carro
gir di Pentesilèa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e quanti
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti a l'Orco? Eumenio primamente
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu d'un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi in un tempo, a l'un mentre, inciampando
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro. A cui d'Ippòta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpàlico
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciò, tanti Troiani
gittò per terra. Orníto, un cacciatore,
gli gia davanti, e stranamente armato
cavalcava di Puglia un gran destriero:
per sua corazza avea d'ispido toro
un duro tergo; per celata un teschio
di lupo, che dal capo insino al mento
sbarrava le mascelle, e digrignando
mostrava i denti. In man portava, ad uso
di contadini, un nodoroso palo
di grave ronca armato. Egli nel mezzo
degli altri suoi con le due teste andava
sovrano a tutti, e le ferine orecchie
ergea di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermò, l'occise
senza contrasto, già che vòlta in fuga
era la schiera sua. Sovra al suo corpo
disse rimproverando: «E che pensasti,
Tosco insolente? di venire a caccia
in qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei là 've una dama armata
col ferro amaramente vi rintuzza
la superbia e la lingua. Oh pur non poco
ti fia di vanto, referendo a l'ombre
de' tuoi: per man fui di Camilla occiso».
Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,
due corpi de' maggiori e de' piú forti
del troian oste. A Bute un colpo trasse
che 'l giunse ove tra l'elmo e la corazza
si scopre il collo, onde lo scudo appeso
sta da sinistra. Orsíloco, fuggendo
e gridando, gabbò; ch'al giro interno
s'attenne e strinse; e là 've era seguita,
seguitò lui. Gli fu sopra in un tempo
a colpi di secure, e l'armi e l'ossa
gli pestò sí che per suo scampo a' prieghi
si volse. Alfine un tal sopra la testa
ne gli piantò, che le cervella infrante
gli schizzâr da la fronte e da le tempie.
D'Àüno montanar de l'Appennino
il bellicoso figlio a l'improvviso
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,
che per ordire inganni (in fin che 'l fato
gliel concedé) non degli estremi avuto
era tra' suoi. Costui nel primo incontro
sbigottito fermossi. E poiché vide
non poter con la fuga a lei sottrarsi,
che gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarà la tua, se ben femina sei,
di sfidar me, quando a un caval t'affidi
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio
rinunzia de la fuga e meco a piede
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
a cui questa ventosa tua bravura
onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto dismonta; e 'l corridor deposto
in man de la compagna, a piè si pianta;
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida l'attende.
Il giovine, che vinto si credette
aver con quello avviso, incontinente
la groppa le mostrò del suo cavallo,
e via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga
sarà la tua; ché l'arte del fallace
tuo padre, e di tua patria, a far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual da cocca strale
dietro gli si spiccò: ratto l'aggiunse,
passollo, attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferí, l'ancise alfine.
Cosí d'un alto sasso agevolmente
sparvier grifagno al timido colombo
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
In questa, de' mortali e de' celesti
l'eterno regnator, che pur talvolta
alcun de' raggi suoi vèr noi rivolge,
non con lieve disdegno o picciol'ira
mosse Tarconte a sovvenir le schiere
de' suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo
va de l'occisïoni e de le mischie,
or il destrier contra i nemici urtando,
or le sue squadre inanimando, insieme
le ristringe, le instiga, le garrisce,
e per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni, e che timore, e che spavento
è 'l vostro? che viltà, che codardia
v'ha presi? e quando mai fia che vi punga
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite per una femina? Una femina
vi disperde e v'ancide? A che di ferro
invan cosí le destre e i petti armate?
De le donne temete? Or via, campioni
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a sacrifizi, allor che ne le sacre
foreste è da l'aruspice intonato
che la vittima e grassa, itene tutti
seco a goder del saginato bue
a piena pancia, ché null'altro amore,
null'altro studio è 'l vostro». E, ciò dicendo,
ne va come devoto a morte anch'egli.
Con Vènolo s'affronta; e sí com'era
turbato, l'aggavigna, e fuor lo tragge
del suo cavallo. Alto levossi un grido
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
i Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
per la campagna con la preda in grembo
del nimico e de l'armi; e 'n mezzo al corso
svelge da l'asta sua medesma il ferro,
e cerca ov'è di piastra il corpo ignudo
per darli morte. E mentre ne la gola
tenta ferirlo, ei con le braccia in alto
si scherma, regge il colpo, e da la forza
quanto può con la forza si districa.
Come ne l'aria insieme avviticchiati
si son visti talor l'aquila e 'l serpe
pugnar volando, e l'una aver con l'ugne
e col becco ghermito e morso l'altro:
e l'altro co' suoi giri e co' suoi nodi
farle vincigli a' piè, volumi a l'ali;
e questo con la testa alto fischiando,
e quella schiamazzando e dibattendo,
ambedue voltolarsi, ambedue stretti
far di squame e di piume un sol viluppo;
cosí Tarconte per lo campo a volo,
vincitor de le schiere di Tiburte,
Vènolo sen portava. E questo esempio
del suo duce seguendo, e del successo
assecurata, la meonia torma
tutta contr'a Latini impeto fece.
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
era al suo fato, con un dardo in mano
Camilla astutamente insidïando,
si diede a seguitarla, a circuïrla,
a cercar destra e comoda fortuna
di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea, l'era vicino Arunte;
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea che netto il colpo
gli rïuscisse; e da fellone intanto
avea l'asta a ferir librata e pronta.
Giva per avventura a lei davanti
Cloro, un giovine idèo che sacerdote
era già di Cibele. I Frigi tutti
non avean chi di lui fosse ne l'armi
piú riccamente adorno. Un suo corsiero
per lo campo spingea, di spuma asperso,
cinto di barde e d'acciarine lame
come di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente inteste. Un arco d'oro
gli pendea da le spalle, una faretra
a la cretese. In testa, in gambe, in dosso
d'armi e d'arnesi in barbara sembianza,
di peregrina porpora e di seta,
di bisso, di teletta e d'ostro e d'oro
tutto coverto, tutto ricamato,
tutto trinciato; e saettando andava.
Costui veduto, ogni altra impresa indietro
lasciando, a lui si volse o per vaghezza
di consecrar le sue bell'armi al tempio,
o pur che di sí vago ostile arnese
di gir pomposa cacciatrice amasse.
Basta che per le schiere incauta, ardente,
e, come donna, vogliolosa e folle
de l'amor de la preda e de le spoglie,
contro a lui se ne giva; allor ch'Arunte,
dopo molto appostarla, alfin le trasse
in tal guisa pregando: «O di Soratte
sommo custode, Apollo, a cui devoti
noi fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
tra le fiamme saltando e per le brage
securamente e senza offesa andiamo,
dammi, ché tutto puoi, padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da l'armi nostre. Io di costei non bramo
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi sian di lode, e pur che questo mostro
caggia spento da me, ne la mia patria
senza piú gloria andrò di questa guerra
pago e contento». Udí Febo del vóto
parte, e parte per l'aura ne disperse.
Udí che morta da quel colpo fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;
ché ciò per l'aura ne portaro i vènti.
Tosto che da le man l'asta ronzando
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
de' Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella né del tèlo, né de l'aura
moto o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre giú discendea, finché non giunse.
Giunsele a punto ove divelta e nuda
era la poppa; e del virgineo sangue,
non già di latte, sitibonda scese
sí che 'l petto l'aprí. Le sue compagne
le fûr trepide intorno; e già che morta
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia; ché ne l'asta
piú non confida, e piú di star non osa
incontro a lei. Qual affamato lupo
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,
o lo stesso pastore, in sé confuso
di tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli si levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo 'l tratto, impaürito,
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si mischiò tra le schiere. Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro
tentò svelgersi indarno; ché la punta
s'era altamente ne le coste infissa:
onde languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,
si fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto si tinse. In tal guisa spirando,
Acca a sé chiama, una tra l'altre sue
la piú fida di tutte e la piú cara;
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui finiti: questa acerba piaga
m'adduce a morte, e già nero mi sembra
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
di' per ultimo a Turno che succeda
a questa pugna e la città soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosí, che abbandonando il freno
e l'arme e sé medesma, a capo chino
traboccò da cavallo. Allora il freddo
l'occupò de la morte a poco a poco
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
Camilla estinta, per lo campo un grido
levossi che n'andò fino a le stelle,
e surse al cader suo zuffa maggiore;
ché i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
pinsero avanti. Opi, ministra intanto
di Trivia, che nel monte era discesa
vicino a la battaglia, indi il conflitto
stava mirando intrepida e sicura,
e visto di lontan tra molte genti
nascer nuovo tumulto e nuove grida,
poscia in mezzo di lor caduta e morta
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse, - virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,
se d'irritar l'armi troiane osasti.
E di che pro t'è stato a viver nosco
solinga vita, armar de l'armi nostre,
gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
giacer disonorata in questa fine
de la tua vita; e la tua morte oscura
non sarà tra le genti; e non dirassi
che non è chi di te vendetta faccia;
ché chïunque di ferro avrà ferito
il corpo tuo, sarà meritatamente
di ferro anciso». Era a Dercenno, antico
re de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,
cui sopra era di terra un monte imposto
e d'elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui la veloce dea dal ciel calossi
al primo volo; e di qui visto Arunte
splender ne l'armi, e gir di sua follia
superbo e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -
qui convien che ti fermi, e qui morendo
de la morta Camilla il premio avrai
degno di te, se di perir sei degno
de l'armi di Dïana». E, ciò dicendo,
la buona arciera del turcasso aurato
trasse un acuto strale, e l'arco tese,
e tirò sí ch'ambe le corna estreme
vennero al mezzo, ed ambe parimente
le mani, una tirata e l'altra spinta,
quella toccò la poppa e questa il ferro.
L'arco, l'aura, lo stral sonare udio,
e ferir e morir sentissi Arunte
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio
cosí come spirava, in mezzo al campo
lo lasciâr fra la polve in abbandono;
ed Opi al ciel tornando a volo alzossi.
Caduta lei, la schiera di Camilla
primieramente in fuga si rivolse.
Indi turbârsi i Rutuli, e diêr volta.
Diè volta il fiero Atina; e i duci tutti,
e tutte fûr le insegne abbandonate.
Cerca ognun di salvarsi, e vèr le mura
ne vanno a tutta briglia, e piú nel campo
alcun non è che di far testa ardisca
contra la strage e contra la ruina
che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
scarichi in su le terga e spenzoloni;
e piú che di galoppo in vèr Laurento
battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri da' balconi e da' torrazzi
percossi i petti, alzano al ciel le grida
con femineo ululato. E quei che primi
giunti trovâr le porte ancor non chiuse,
mischiati co' nemici, ove piú salvi
si credean ne l'entrata e fra le mura
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor propri e da' nemici e da la morte
fûr sopraggiunti. In cotal guisa in prima
stette la porta agli avversari aperta;
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando de' nemici, ai lor piú cari,
che morir gli vedean, perché s'aprisse
supplicavano indarno. E qui tra quelli
che n'erano a difesa, e quei ch'a forza,
anzi a furia, a ruina incontro a loro
s'avventavan ne l'armi, orrenda strage
si fece e miseranda. E degli esclusi
altri in cospetto degli stessi padri,
e de le madri che dogliose grida
ne facean da le torri e da le mura,
da l'impeto cacciati o da la calca
precipitâr ne' fossi, e giú da' ponti
cadder sospinti; ed altri ne la fuga
da' sfrenati cavalli e da la cieca
lor furia trasportati, a dar di cozzo
gîr ne le chiuse porte. In su' ripari
ancor le donne (che le donne ancora
il vero della patria amore infiamma),
come giunte a l'estremo, allor che morta
vider Camilla, il femminil timore
volgono in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati
pali il ferro imitando, osano anch'elle
per la difesa delle patrie mura
gir le prime a morir morte onorata.
A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la già spedita messaggiera,
con l'amara novella; un gran tumulto
portando, che l'esercito è sconfitto,
morta Camilla, annichilati i Volsci,
e i Teucri d'ogni cosa impadroniti
stanno in campagna col favor che porta
seco de la vittoria il corso e 'l nome;
assalgon la città. D'ira, di sdegno
e di furore il giovine infiammato
(ché tale era il voler empio di Giove)
da l'insidie si toglie, esce de' boschi
ov'era ascoso, e giú scende da' colli.
Smarriti non gli avea di vista a pena,
a pena era nel piano, allor ch'Enea
prese del monte; e là 'v'era l'agguato,
trovando aperto, senz'offesa anch'egli
superò 'l giogo, e de la selva uscio.
Cosí con passi frettolosi entrambi
con tutte le lor genti, e l'un da l'altro
poco lontani a la città sen vanno.
E 'nsiememente da l'un canto Enea
vide di polverio fumare i campi,
e di Laurento sventolar l'insegne;
Turno da l'altro Enea scoperse, udendo
l'annitrir de' cavalli e 'l calpestio
crescer di mano in mano. Eran vicini
sí, che venuto a zuffa ed a battaglia
si fôra anco quel dí: se non che Febo,
fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri
stava già per tuffar ne l'onde ibère;
onde avanti a le mura ambi accampati
di trincee si muniro e di ripari.
VIDEO
Eugenio Caruso - 08- 06 - 2021
Tratto da